La Repubblica, mercoledi 23 agosto 1989
“Dentro quella soffitta, l’addio alla giovinezza”
Un convincente allestimento della “Bohème” al Festival di Fermo,
regia di Vincenzo Grisostomi Travaglini
Dal nostro inviato Dino Villatico
FERMO – Dopo la piacevole sorpresa dell’opera nuova di Paolo Arcà “Il Carillon del gesuita” sul testo di Giovanni Carli Ballola, della quale ha scritto circa tre settimane fa Angelo Foletto, il Festival di Fermo azzecca un’altra serata con “La Bohème” di Giacomo Puccini.
È un anno fortunato, si vede. Oppure, più probabile, il risultato di un lavoro coscienzioso. “La Bohème” è opera popolarissima, come “Carmen”, come “Il barbiere di Siviglia”, come “La Traviata”. Ciò può costruire un vantaggio, può dispensare cantanti, direttore e regista dal cercare nuove idee d’interpretazione, confortarli con la sicurezza della strada battuta e ribattuta. Ma proprio questo può alla fine riuscire un rischio che fa naufragare lo spettacolo nella banalità di una tenuta media senza interesse. Ora, sembra che invece proprio questo rischio voglia evitare lo spettacolo del Festival di Fermo. Vincenzo Grisostomi Travaglini, il regista, noto a molti soprattutto come critico, come giovane sorridente che scorrazza per i teatri d’Italia e del mondo, rivela poi qui un lato nuovo, insospettabile, una penetrazione lucidissima dei significati umani nascosti nelle pieghe dell’avvenimento teatrale.
La scommessa era notevole: i maligni al varco tonfo chissà quanti. E invece nessun tonfo, ma appunto la scoperta della penetrazione umana. Grisostomi spoglia la rappresentazione di molti ciaffi macchiettistici, ma senza rinunciare ad una impostazione realistica. La soffitta dei quattro bohémiens è davvero una soffitta, il caffè Momus davvero un caffè parigino, la barriera d’Enfer un vero dazio, la neve una neve che fiocca, anche se un po’ rumorosamente. Questa scelta realistica, però, non concede nulla agli effetti di tradizione veristica, tipo pacche sulle spalle e singhiozzi lancinanti.
Anzi, sulla scena, i cantanti si muovono con la disinvoltura e la naturalezza di attori, con gesti sobri e misurati. Esemplare la preghiera di Musetta all’ultimo atto, in piedi, con le mani strette ai gomiti, rivolta a una Madonna chissà dove e chissà se ascolta. Grisostomi sembra cosi collocare giustamente “La Bohème” nello spazio del naturalismo e non in quello del verismo, o, se di verismo si tratta, è quello del Verga dei racconti milanesi e non quello del sanguigno Mascagni. Fabio Maestri, il direttore, asseconda questa rappresentazione dei sentimenti umani, accarezzando il lato struggente, decadente della partitura, smorzando le tinte forti, esaltando le morbidezze e i languori. L’Orchestra Internazionale d’Italia-Opera lo segue abbastanza bene e cosi pure il Coro Ars Pulcherrima Artium. Sulla scena, tra le belle costruzioni immaginate da Otello Camponeschi, Carmela Appollonio, vincitrice del concorso Callas dello scorso anno, è una commovente Mimi, tutta interiorizzata. Giuseppe Sabbatini è Rodolfo, appassionato, ingenuo, di immediata presa. Marcello è un bravissimo Roberto Servile, che infatti poi fa venire fuori splendidamente con Rodolfo il duetto dell’ultimo atto. Bravissimi anche Aurio Tomicich e Paolo Rumez nei ruoli di Colline e Schaunard. Avvincente Musetta è Alessandra Ruffini. Sono tutti e sei giovani e fanno tutti e sei molto bene la rappresentazione di quell’addio alla giovinezza che è “La Bohème”. Completano il cast Pietro Di Vietri nelle parti di Parpignol e di Benoit, Maurizio Piacenti in quella di Alcindoro, e Alessandro Sabbatini in quella del Doganiere. Appropriatissime e ben trovate le luci di Stefano Pirandello. Alla fine di ciascun atto gli applausi scrosciano caldi e rumorosi. Alla fine dello spettacolo tutti gli interpreti escono più volte a ringraziare il pubblico che non si stanca di applaudirli.