“L’Oriente per l’Oriente”, un articolo di Sisowath Monipong in “L’Opera International Magazine”, Maggio 2021

Dopo una prima puntata alla ricerca delle eroine orientali, così come percepite dai maggiori compositori d’opera, era giusto mettersi in viaggio per incontrare le cantanti dell’Asia misteriosa, di coloro che diedero vita sul palcoscenico a queste donne immaginarie del lontano Oriente, personaggi forti e fragili, creati da celebri musicisti europei, per poi essere elogiate interpreti di alcuni tra i ruoli più famosi del repertorio universale. Il rapporto tra la personalità della cantante asiatica e l’archetipo della donna, secondo i canoni della musica occidentale, metterà in moto numerosi impulsi creativi di direttori e registi, la cui sensibilità segnerà la differenza agli occhi di un pubblico eterogeneo e alternativamente di diversa formazione.Prima dell’inizio del Novecento la lirica europea non era conosciuta nel Sud-Est Asiatico. Questa cultura, cosi come si era sviluppata in Occidente, si era fermata ai confini dei loro imperi, mentre l’introduzione nei secoli precedenti in Cina era stata uno dei pochi effetti positivi del colonialismo anglosassone e francese. La musica occidentale fu introdotta alla Corte Imperiale di Pechino già nel 1711, grazie a Padre Teodorico Pedrini, lazzarista e musicista, inviato da Papa Clemente XI su richiesta dell’Imperatore Kangxi. Sarà un musicologo e gesuita francese, Padre Joseph-Marie Amiot, a succedergli nella seconda metà del ‘700. Sappiamo che Pedrini, oltre a comporre sonate e arie, portò alla Corte Imperiale clavicembali, organi e tanti altri strumenti, mentre Amiot aveva studiato e sostenuto la trascrizione di arie cinesi in partiture all’occidentale, pubblicate per la prima volta in Francia nel 1779. Aggiungiamo a questi fatti storici che la tradizione cinese, e per estensione coreana e giapponese, privilegia l’esistenza e la celebrità di un teatro cantato, detto Opera di Pechino, Teatro No, ecc. , nato per divertire e quindi era più facilmente recettiva alla diffusione di nuovi linguaggi, mentre questa intromissione, che fu avvertita come una contaminazione, non si produrrà nei territori del sud e sud-est dell’Asia, perché qui le arti del palcoscenico restano indelebilmente legate alla sacralità e alla sola pantomima, perché una ballerina sacra non deve fare sentire il suono della sua voce. Come nelle tradizioni greche dell’antichità, la musica del ballo per gli Dei è accompagnata solamente da un coro e non da una o più voci soliste.

Questa dicotomia nella concezione della musica cantata sul palcoscenico è un’ipotesi per spiegare il ritardo nella conoscenza del melodramma nei paesi del Sud-Est Asiatico. Quindi, non deve sorprendere se le prime donne asiatiche a studiare e cantare Mozart o Puccini furono originarie della Cina, Corea e Giappone. La primissima cantante cinese conosciuta è Zhou Xiaoyan, nata nel 1917 a Wuhan in una ricca famiglia d’imprenditori, che molto velocemente svilupperà le sue doti per il canto, con tessitura di soprano di coloratura; dal 1935 è al Conservatorio di Shanghai e poi a Parigi, dove salirà finalmente sul palcoscenico della prestigiosa Opéra Garnier per un concerto nell’ottobre 1945, conquistando il difficile pubblico parigino a tal punto da ricevere dalla stampa francese il glorioso elogio di: «usignolo cinese». Poco dopo, nel 1947, tornerà in Cina per divenire una brillante insegnante al Conservatorio di Shanghai, fino al decennio della Rivoluzione Culturale che metterà fine a qualsiasi forma di attività artistica non legata alla propaganda del Partito Comunista Cinese. Con l’apertura politica della fine degli anni ’80 del Novecento, sempre a Shanghai, Zhou Xiaoyan fondò il Centro per l’opera lirica Zhou Xiaoyan e toccherà l’apice del successo con un “suo” Rigoletto, all’alba del 1990, prima artista cinese a mettere in scena un’opera per il pubblico della sua terra. Deceduta nel 2016, Zhou Xiaoyan sarà ricordata come la grande precorritrice della lirica nel mondo cinese. I suoi allievi canterano nei più famosi teatri del mondo, dal Metropolitan di New York, al San Francisco Opera; in Europa a Bologna, Vienna e Francoforte. Ancora oggi, i giovani cantanti la venerano come una vera diva: la Dea della Lirica. Gli anni ’80 del Novecento porteranno all’esordio di un’altra stella d’Oriente, la bella e affascinante Sumi Jo di origine coreana, il cui vero nome è Jo Su-Gyeong. Nata nel 1962 a Changwon, Sumi Jo venne a Roma all’inizio degli anni ‘80 per frequentare il Conservatorio di Santa Cecilia studiando canto e pianoforte; suoi maestri Carlo Bergonzi e Giannella Borelli. Determinante per la sua formazione sarà l’incontro con Elisabeth Schwartzkopf, che imprimerà alla sua arte quel taglio di raffinatezza che la contraddistingue. Nel 1986 Sumi Jo debutterà in Europa nel ruolo di Gilda in Rigoletto di Giuseppe Verdi al Teatro Comunale di Trieste e sarà questa prestazione ad attrarre l’attenzione del celebre direttore Herbert von Karajan, che l’inviterà nel 1989 a cantare quale Oscar ne Un ballo in maschera al Salzburg Festspiele, in compagnia di Placido Domingo. Karajan disse che la sua voce era: «un dono divino». Sumi Jo è considerata la più grande cantante asiatica riconosciuta nel mondo della lirica contemporaneo e non si contano i premi dei quali è stata insignita nel corso della sua brillante carriera. Se la Corea ci ha donato Sumi Jo, seguita da Vittoria Yeo e Lilla Lee, per citare solo tre delle eccellenze originarie del Paese del Calmo Mattino, grazie alla fama universale di Giacomo Puccini e della sua nobile eroina costretta per necessità ad essere una Geisha, Cio-Cio-San, il Giappone aveva dato i natali con mezzo secolo di anticipo alla prima cantante asiatica che attraverserà mari e continenti, per rapire i cuori dei melomani d’Europa e d’America. Si tratta della dolce e discreta Tamaki Miura. Nata nel 1884 da una famiglia molto tradizionale, la giovane Tamaki imparò il canto e la danza tipici giapponesi. Nel 1900, dopo essere entrata nella prestigiosa Tokyo Music School, fu costretta dal padre a sposare un medico dell’esercito che, a causa della sua origine più umile, le avrebbe dato l’opportunità di essere mantenuta degnamente. Molto presto la fanciulla, però, decise di fare del canto il proprio mestiere e chiese il divorzio per essere libera di seguire la sua vocazione. Dopo il diploma, si consacrò all’insegnamento della musica e del canto. Si risposò nel 1913 con un medico civile e la giovane coppia partirà per Londra, per proseguire per Berlino. A Londra sarà il famoso, eccentrico tenore e direttore d’orchestra russo Vladimir Rosing a darle l’opportunità di cantare per la prima volta in quello che sarà il ruolo di tutta la sua vita di palcoscenico: Cio-Cio-San. Successivamente, debutterà nel medesimo ruolo negli Stati Uniti, a Monte-Carlo, Barcelona, Firenze, Roma e ovunque sarà applaudita protagonista dell’opera pucciniana e dell’Iris di Mascagni. Il suo destino quale primadonna di origine giapponese in campo internazionale, commuoverà ancora di più l’anima dei suoi conterranei, quando farà la sua ultima comparsa sul palcoscenico, sempre nel ruolo di Madama Butterfly, già gravemente malata. La sua sorte fu paragonata al funesto fatum dell’Impero del Sole Levante, schiavizzato dall’oppressore straniero dopo le due bombe atomiche di Hiroshima e soprattutto di Nagasaki, luogo d’ambientazione del capolavoro di Puccini. La sua ultima prestazione fece piangere il pubblico dell’Hibiya Kōkaidō di Tokyo due mesi prima della sua morte, nel marzo del 1946, talmente la cantante si era identificata all’agonia della propria nazione. La lista delle cantanti che seguiranno l’esempio di Tamaki Miura è ben lunga, ma basti ricordare Michiko Hirayama e Yoko Watanabe, vere precorritrici dell’arte operistica in Giappone, che apriranno la strada alle giovane speranze della lirica nipponica, tra queste Naoko Matsui e Kyori Oshida.

Iwasaki Ai (photo credits: Helmut Stampfli)

Ci sono altre cantanti giapponesi che hanno scelto di dedicarsi alla diffusione della cultura dell’opera lirica italiana nell’Asia del sud-est, che potremo definire veri e propri pionieri, quale ad esempio Ai Iwasaki, giovane soprano di Tokyo che ha studiato lirica in Italia con William Matteuzzi e Lucetta Bizzi, dopo essersi diplomata in musicologia alla prestigiosa Università di Showa a Tokyo. Da dieci anni Ai Iwasaki si è assunta il compito di portare la lirica in Cambogia realizzando il Cambodia Opera Project, che ha portato sul palcoscenico di Phnom Penh per la prima volta in assoluto nel 2017 Cavalleria rusticana di Pietro Mascagni e nel 2019 Pagliacci di Ruggero Leoncavallo, oltre che dedicarsi all’insegnamento all’Università Reale delle Belle Arti, dando così impulso al gusto per l’opera nella gioventù di una monarchia rinascente, dopo un tragico genocidio e molti anni di guerra. Un altro paese che molto spesso viene dimenticato nell’elenco patrio delle dive asiatiche è la Repubblica delle Filippine. Il gusto per la musica classica occidentale dell’arcipelago risale alla colonizzazione spagnola, con l’arrivo dal diciassettesimo secolo di missionari e nobildonne dalla penisola iberica. Ovviamente, l’arte della lirica si sviluppò soprattutto nelle città principali di Manila e Quezon City, in un coinvolgimento non solo d’interpreti, ma anche nel fiorire di giovani musicisti che composero nello stile classico all’occidentale. Quando il Paese passò sotto l’influenza statunitense all’inizio del ‘900, venne a crearsi un vero e proprio trauma culturale e molti filippini si sentirono, ancor di più, investiti della missione di portare avanti la propria vocazione rivolta alla grande musica europea. Jovita Fuentes, nata nel 1895, fu la prima donna filippina a cantare l’opera sotto l’impulso della sua maestra di canto, l’italiana Salvina Fornari. Dopo essere stata professoressa di canto all’Università di Manila, decise di recarsi a Milano nel 1924 per migliorare la sua tecnica, sia di canto che di recitazione, sotto la direzione di Arturo Cadore e Luigi Lucenti. Nel 1925, cantò Cio-Cio-San al Teatro Comunale di Piacenza, poi parti per altri paesi europei e, in seguito, per gli Stati Uniti, dove la sua fama crebbe con celerità. Fu una delle rare interpreti asiatiche della sua epoca a impersonare anche Mimì e Salome, evadendo dalla simbolica prigione di Madama Butterfly, considerato da molti l’unico ruolo idoneo per una donna orientale! Prima donna filippina ad esserne insignita, nel 1976 fu riconosciuta ufficialmente dal Governo Nazionale Tagalog: Artista Nazionale della Musica. Fu Isang Tapales a raccoglierne l’eredità, ovviamente cantando Madama Butterfly. In seguito fondò la prima compagnia filippina di lirica: The Philippine Opera Company. La figura, però, che principalmente marcherà il pubblico del secondo dopoguerra sarà incontestabilmente Mercedes Matias-Santiago. Nata nel 1910, la piccola Mercedes crebbe in una famiglia di melomani, appassionati di opera. Molto spesso ebbe occasione di assistere a recite d’opera al Manila Grand Opera House. Nel 1928, si era trasferita a Milano per apprendere la giusta tecnica del Bel Canto all’italiana e prima di tornare in patria ebbe l’onore di cantare davanti al re d’Italia Vittorio Emanuele III e al Duce. Il suo repertorio spaziava da Gilda (il suo debutto in Italia è del 1930 a Torino) a Violetta, Amina, Rosina e tanti altri ruoli, ma il suo personaggio preferito era Lucia. Al tramonto della sua vita, in un’intervista rilasciata al giornalista Pablo A. Tariman, affermerà: «La mia vita è un poco come Lucia di Lammermoor (…) un poco triste, un poco tragica … un poco romantica!». Mori nel 2003, lasciando un ricordo indimenticabile di donna irresistibile, alla quale il Presidente filippino Manuel Acuña Roxas aveva inviato un mazzo di fiori immenso, alto più di due metri, con la dedica: «All’usignolo delle Filippine».

L’ultimo trionfo operistico a Manila prima della pandemia nel gennaio 2020 è stato proprio con Lucia di Lammermoor. Il ruolo della protagonista era sostenuto dallo spumeggiante soprano francese Melody Louledjian, ma questa volta era Edgardo ad essere filippino, il seducente e molto popolare tenore Arthur Espiritu, con sul podio il maestro Alessandro Palumbo, giovane promettente direttore della migliore scuola italiana e con il maestro Vincenzo Grisostomi Travaglini che, qualche mese dopo il successo di Pagliacci in Cambogia, si era dedicato con passione alla regia del capolavoro di Donizetti a Manila!Rimane ancora tanto da fare per diffondere la cultura della lirica italiana in Estremo Oriente, ma gli ultimi anni hanno dimostrato il desiderio della gioventù di essere coinvolta nell’emozione universale di questa arte. Anni or sono, durante una recita di Macbeth al Teatro Bunka Kaikan di Tokyo in una produzione realizzata da italiani, protagonisti il baritono giapponese Yasuo Horiuchi e il soprano Francesca Patanè, figlia del celebre direttore d’orchestra, all’apparire degli Otto Re, con effetto del tutto originale, uno dei dirigenti della Japan Opera Foundation – Fujiwara Opera, disse che solo in quel momento aveva veramente capito perché solo degli europei erano in grado di trasmettere in modo così efficace l’originale essenza dell’opera; una forma d’arte, però, che oramai apparteneva di diritto a tutti i popoli, agli artisti di ogni nazionalità che ne sapevano restituire personali, quanto legittime ed emozionanti interpretazioni.Queste affascinanti cantanti asiatiche devono essere ricordate, donne e protagoniste d’eccezione di Puccini, Mascagni o Léo Delibes, per fare soli pochi esempi, quale espressione più significativa della speranza, non solo come disse Dostoevskij perché: «la bellezza salverà il mondo», ma soprattutto nella convinzione che la lirica e la musica avranno sempre più un ruolo fondamentale nella condivisione delle arti tra i popoli.

Sisowath Ravivaddhana Monipong