“Falcone, il tempo sospeso del volo su Rai5”, un articolo di Sisowath Ravivaddhana Monipong in “L’Opera International Magazine”, Giugno 2022

Ci sono eventi nella storia più recente che lasciano un marchio indelebile nella collettività e la strage di Capaci del 23 maggio 1992 ne fa parte. Una Nazione intera piange, trent’anni dopo, la morte del giudice Giovanni Falcone, di sua moglie Francesca Morvillo, dei poliziotti Rocco Di Cillo, Antonio Montinaro e Vito Schifani, che persero la vita nell’ignominioso attentato.
Rai 5, in occasione del triste anniversario, ha trasmesso in seconda serata la ripresa di Falcone – Il tempo sospeso del volo, andato in scena lo scorso marzo in una nuova produzione al Teatro Sociale di Trento. L’elucubrazione musicale di Nicola Sanni venne composta su libretto di Franco Ripa di Meana nel 2007, in scena al Teatro della Cavallerizza di Reggio Emilia, per orchestra e sintetizzatore in forma di morceaux choisis, ovvero con parti cantate e altre recitate, restituendo nel testo alcune delle citazioni più conosciute del magistrato assassinato. L’Orchestra Haydn di Bolzano e Trento, diretta da Marco Angius, si conforma, detentrice di professionale versatilità nel coniugarsi alle esigenze compositive contemporanee. Dopo la sospensione di un lungo prologo di musica elettronica durante il quale i personaggi si muovono nel cratere scavato dall’esplosione sul tratto dell’autostrada siciliana, tristemente conosciuto, con espressioni e gesti codificati da una regia ben elaborata dall’impetuoso Stefano Simone Pintor, appare l’orchestra nel retroscena e la narrazione si snoda alla ricerca di verità inaccessibili. Lo scopo della messa in scena di questa originale proposta rende lo spettatore partecipe della tragedia e la regia televisiva di Ariella Beddini asseconda con attento rigore e attualizzante durezza la volontà di Pintor, accrescendo la parte visiva con filmati dei tempi e dei luoghi. Più volte i solisti compaiono sulla passerella che attraversa la platea senza soluzione di continuità con il palcoscenico, dando all’insieme una impressione d’interattività risolutamente investigata. Ineccepibile il basso Roberto Scandiuzzi, cantante e attore, che conferma grande professionalità e flessibilità nell’interpretazione coinvolgente della figura mitica di Giovanni Falcone. Gli altri due cantanti, i bassi (baritoni) Gabriele Ribis e Salvatore Grigoli, esibiscono, con talento lodevole, adattabilità a uno spartito che sarebbe sicuramente caduto nella salmodia neo-antica se fosse mancata una dinamica incarnazione musicale degli svariati personaggi previsti dal libretto, nei quali i due interpreti si susseguono con immediatezza. Completano la compagnia due attori, Claudio Lobbia e Angelo Romagnoli, che grazie a una recitazione naturale e senza sofisticazione, permettono lo svolgersi dei fatti con riferimenti da teatro-verità. L’Ensemble vocale Continuum, diretto da Luigi Azzolini, contribuisce alla sensazione diffusa di un ritorno verso la purezza antica del coro quale cuore recitativo e sublime in un contesto altrimenti drammatico, attualizzato nell’ambientazione con forza e realismo dalle scene di Gregorio Zurla, con disegno luci di Fiammetta Baldiserri e Virginio Levrio. Disegnatore audio è Alvise Vidolin, proiezioni video di Francesco Mori, produzione elettronica CIRM (Centre National de Création Musicale) di Nizza. La strage del 23 maggio del 1992 rimane nella consapevolezza di ognuno quale simbolo rilevante e la circostanza che sia stata ricondotta nella trasposizione teatrale in opera contemporanea, concepita nei quindici anni successivi e oggi riproposta, contribuisce fortemente all’elevazione della figura del giudice Giovanni Falcone al rango di eroe di giustizia, magnificato nella composizione ed accolto con entusiasmo dal pubblico. L’originalità della scrittura di Sanni, appoggiata al libretto di Ripa di Meana, è la dimensione umana, anzi umanista, che il lavoro ha saputo trasmettere nella sua autenticità. Sobrietà e naturalezza del testo, ricerca espressiva dell’elaborazione musicale e riuscita adeguazione del verbo all’azione fanno di questo “volo sospeso” un inno eloquente e commovente alla ricognizione del concetto fondamentale di equità. Il dovere del ricordo, nello specifico grazie al dramma in musica, acquista rilevanza non solo allo spirito innovativo della compiutezza artistica, ma soprattutto nella relazione intrinsecamente consolidata tra passato e presente. Confucio disse: “Non lasciare che il tuo passato determini il tuo destino”. Il sacrificio di Falcone ci ricorda che la sua morte non rimarrà vana. La posterità anche tramite la creatività lirica assicurerà per le generazioni future la presa di coscienza necessaria affinché si possa costruire un mondo migliore.

Sisowath Ravivaddhana Monipong

23 maggio 2022

“Il Cuore di Istanbul”, un articolo della rivista mensile, “L’Opera International Magazine”, novembre 2021

Lo hanno denominato il “cuore” di Istanbul, l’imponente globo rivestito di ceramica rossa, maestoso simbolo del nuovo AKM (Atatürk Kültür Merkezi). Un edificio polivalente, probabilmente il più grande e moderno centro culturale d’Europa, esteso per una superficie di circa centomila metri quadri. Un edificio, nel suo insieme, di grande impressione che s’impone nella centrale piazza Taksim. Nell’interno, varcato l’ampio foyer, si aprono innumerevoli suggestioni di cristalli, legno pregiato, ceramiche e marmi, quasi un labirinto di scaloni e corridoi, appositamente progettati per stupire, aprendosi al passo, una dopo l’altra, innumerevoli, sorprendenti sale da spettacolo dislocate nei diversi edifici, a loro volta collegati senza soluzione di continuità, articolati in cinque blocchi architettonici. Centrale è quello dedicato all’ “Opera”, capiente oltre duemila posti, dall’acustica ineccepibile, con imponente lampadario che, con incanto del pubblico, viene alzato all’inizio dello spettacolo sparendo nell’ampia volta. Il teatro di prosa e per piccole opere è di circa ottocento posti, spazi per attività collaterali, conferenze, mostre permanenti, esposizioni e proiezioni, di svariata forma e capienza, fruibili per accogliere diversificate attività, non manca un luogo d’incontro per bambini. Ancora, superfici per le prove d’orchestra, ballo, coro. I servizi, il “Bar”, ristoranti e punti d’incontro, la suggestiva  terrazza con veduta sul Bosforo. Una vera e propria cittadella in uno dei luoghi simbolo della vita metropolitana, destinata ad essere punto di riferimento di tutte le arti.

L’inaugurazione con Sinan è stata solenne, il 29 ottobre Festa della Repubblica di Turchia, l’intera Istanbul si è fermata. Dal “cuore” pulsante dell’AKM, simbolicamente dalla sfera rossa, si è levato un fascio di luci variopinte, raggi con giochi di colori, visibili sia dalla parte occidentale che orientale di Istanbul. Presenti alla serata di gala il Presidente della Repubblica Recep Tayyip Erdoğan ed il Ministro per la Cultura e il Turismo Mehmet Nuri Ersoy, coloro che fortemente hanno voluto far realizzare in soli due anni e mezzo l’intera struttura. Un cerimoniale di grande suggestione, con musiche e discorsi. A seguire, primo lavoro in assoluto ad esservi rappresentato, in prima mondiale l’opera ispirata al “sublime architetto”, quel Mi’mār Sinān, che per Solimano il Magnifico e i suoi successori edificò, in oltre cinquant’anni di attività, tra le più rilevanti costruzioni dell’Impero Ottomano.

L’opera, composta appositamente per l’evento in lingua turca, è ambientato a metà del XVI secolo, durante la costruzione della Moschea Mihrimah Sultan e della Moschea Süleymaniye, quest’ultima considerata, a ragione, il capolavoro del celebre costruttore. Famoso per il suo glorioso regno, Solimano il Magnifico è il sovrano più affascinante dell’Impero Ottomano, protettore delle arti e poeta. In quest’opera siamo invitati a contemplare il lato più intimo della vicenda nel contrastato e allo stesso tempo determinato rapporto tra i due protagonisti, poiché si racconta la storia dell’edificazione della celebre Moschea di Istanbul attraverso gli occhi dello stesso Sinan, il grande architetto imperiale che riuscì a servire insieme il suo Dio e il suo Re, con umiltà e superbia. Ascoltando la musica del compositore Hasan Uçarsu, dopo un primo impatto di un coro impetuoso e coinvolgente, si è trasportati dalla sensazione di un mondo d’infinita serenità di un intreccio melodioso, con note che potrebbero ricordare Verdi, Čajkovskij o Debussy e Saint-Saëns, eppure così originali, di pacata discorsività con fulminei impulsi dinamici. In dodici scene il compositore ci conduce con la sua arte nelle profonde riflessioni dei personaggi: Sinan e Suleiman, ma anche Hürrem Sultan e Mihrimah Sultan, le due dame rispettivamente moglie e figlia, care al cuore del sovrano, nonché le figure emblematiche di Rüstem Pasha e Ebussuud Efendi, che riuscirono a fondere con intelligenza le necessità dell’arte con quelle della politica, nel nome della fede della religione rivelata. La meticolosa articolazione del libretto scritto da Bertan Rona, basato sull’omonima sceneggiatura di Halit Refiğ, ci offre l’occasione per scoprire la diversità della vita nel XVI secolo nell’Impero Ottomano. Un risultato frutto del comune intento di tutti i partecipanti, dal direttore d’orchestra Gürer Aykal che ha avvolto orchestra, coro ed interpreti come in un unico abbraccio, al regista Vincenzo Grisostomi Travaglini, per una visione dinamica nella sequenza scenica con raffinata eleganza, in stretta collaborazione con Sisowath Ravivaddhana Monipong, consulente storico con particolare attenzione alla drammaturgia e al disegno luci di Giovanni Pirandello, di pittorico fascino. Particolarmente curati i costumi di Serdan Başbuğ, realizzati con preziosi tessuti e di taglio ineccepibile. Scene firmate da Zeki Sarayoğlu, un incontro tra scenografia tradizionale e i più moderni mezzi tecnologici. Orchestra e Coro dell’Opera e Balletto di Stato di Istanbul, solisti dell’Opera di Stato di Istanbul e Ankara; maestro del coro Volkan Akkoç.

Ciò che è apparso più rilevante in questa articolata proposta, quasi in successione cinematografica dei diversi ambienti nell’arco temporale di ben tredici anni, è stata la comune volontà degli interpreti tutti di servire un ideale, così come quello di Sinan nei confronti del suo benefattore, ovvero d’impegnarsi nel risultato creativo e nell’impegno comune, quello di forgiare armonia ed equilibrio attraverso una rappresentazione evolutiva, frutto d’armonia, stima e senso della bellezza perché, come dice Solimano nell’opera: “La bellezza è più preziosa della vita stessa”. L’apertura del Centro Culturale Atatürk rappresenta più che mai il rinnovamento di questo spirito di conciliazione tra spiritualità e modernità, futuro riferimento universale per gl’incontri di diverse culture.

 

“Il Trovatore negli immensi spazi della Roma antica”, un articolo del maestro Vincenzo Grisostomi Travaglini nella rivista mensile “L’Opera International Magazine”, Luglio/Agosto 2021

Il Trovatore di Giuseppe Verdi è dramma dall’elaborazione compositiva imprevedibile, dove l’originalità degli sviluppi e creatività, solo apparentemente contenuti in una struttura di convenzione, s’impongono più che nella indagine formale di ricercata esecuzione. Quest’ultima strada, però, sembra quella privilegiata da Daniele Gatti che nella sua carriera si cimenta per la seconda volta nel titolo, già diretto nel 2014 a Salisburgo, scelto per l’apertura della stagione estiva della Fondazione Teatro dell’Opera di Roma al Circo Massimo. Il maestro Gatti con questo titolo conclude l’esecuzione con i complessi dell’Opera, in periodo pandemico, della così detta trilogia, in ordine Rigoletto l’anno scorso al Circo Massimo, La traviata in forma di film-opera e Il trovatore. Tre opere che tra loro hanno ben poco in comune, se non il periodo di compimento, intorno agli anni ’50 dell’Ottocento.

Accumunati, certamente, nell’imporsi, non senza difficoltà,  di un Verdi già maturo e all’esplorazione di mutati e più vasti orizzonti. Proprio in questa perlustrazione Il trovatore si differenzia dagli altri due titoli che si vogliono compresi nel raggruppamento detto popolare o romantico, per l’immediatezza del fluire della scrittura. Come se la meno vincolante fonte letteraria dal drammaturgo spagnolo Antonio Garcìa Gutiérrez, in difformità dai più impegnati francesi Victor Hugo e Alexandre Dumas-figlio, liberasse nel compositore una vivacità tutta musicale, senza riferimenti o coercizioni a testi intellettualmente in elaborazione. Daniele Gatti, così come da suo perentorio approccio al repertorio romantico italiano, imprime una lettura personale, certamente di grande eleganza, ma priva di emozionalità, se non nel protagonismo orchestrale e lucidità di suoni. Un’orchestra al meglio delle sue prestazioni, con particolare attenzione agli stacchi direttoriali, in un susseguirsi di schegge che valutano la partitura come in un conseguire di numeri, scene e parti. Un’orchestrazione di minore coinvolgimento di disegno d’insieme e d’abbandono a un’esaltazione in musica, come si potrebbe definire Il trovatore; un’opera non per questo, anzi ancor più, esigente di una visione dello specifico repertorio a 360 gradi, compreso qualche lecito abbandono ad espressioni spontanee, non ammesse dalla lettura di Gatti, se non per effetti esteriori.

Per le voci, queste non sono aiutate da un’adeguata amplificazione, forse perché eravamo in apertura di stagione e i mezzi tecnici necessitavano di ulteriore verifica, nella vastità e spettacolarità dello spazio teatrale del Circo Massimo. Le peculiarità degli interpreti s’impongono egualmente e con distinzione. L’entusiasmo e tragicità romantica della giovane Roberta Mantegna, voce sopranile in rapida ascesa, vanto del progetto Fabbrica dell’Opera di Roma, qui Leonora sensibile e duttile alle diverse, estreme condizioni vocali quanto emotive, al meglio nella Scena e Aria della Parte IV e qui appassionata nella successiva Cabaletta Tu vedrai che amore in terra. Di classe il mezzosoprano Clémentine Morgaine per il ruolo di Azucena, finalmente schivo da effetti truculenti che di certo non appartengono a una scrittura così complessa e impervia, risolta appieno nell’accurato stile di canto.

Fabio Sartori, atteso Manrico, è interprete di chiara fama, ha ben delineato il ruolo che nella carriera ha sostenuto per la prima volta a Liegi nel 2018 e lo affronta con sicurezza, avvolte più con manifesto mestiere e soluzioni di provata esperienza, di sostegno in uno spazio così ampio e con orchestra incalzante. Esecuzione per lo più integrale, ma Ah! sì, ben mio ela sempre attesa Cabaletta Di quella pira con da capo, concettualmente epurati senza alcuna concessione, non emergono nell’insieme, risultando in sottotono. Discontinuo il baritono Christopher Maltman, poco convincente Conte di Luna, troppo schematico nell’impegnativo Il balen del suo sorriso, non sempre in sintonia con il gesto ed indicazioni direttoriali, più sicuro nel Duetto e Stretta Né cessi?Vivrà! e nel breve intervento della Scena finale. Decisamente non in una serata ottimale il basso Marco Spotti quale Ferrando. A completare la compagnia Marianna Mappa, ottima Ines (la qualità dei personaggi minori è pur sempre importante per definire una produzione), Domenico Pellicola (Ruiz), Leo Paul Chiarot (Un vecchio zingaro) e Michael Alfonsi (Un messo). Ottima la prova del coro con maestro Roberto Gabbiani, misurato nelle espressioni e partecipe nel canto; impossibilitato nei movimenti scenici per le vigenti norme di sicurezza e per la poca incisività registica.

Del regista Lorenzo Mariani, poco da dire, perché scarsamente si avverte del suo lavoro. Certamente, il vasto spazio di un palcoscenico di millecinquecento metri quadri è complesso da gestire, ma egualmente piccoli espedienti di limitato effetto non fanno di questa produzione uno dei suoi lavori migliori. Di Parte in Parte e sono otto, così è suddiviso Il trovatore nella sua complessità drammaturgica, si spostano tavoli e sgabelli, alla ricerche di figure o simboli il cui significato, al contrario, appare casuale. Ingombro il palcoscenico da enormi candelabri, spesso in bilico nelle mani dei diversi protagonisti. Lumicini per il coro degli Zingari che sembra di essere nelle gradinate dell’Arena di Verona e pertiche per gli Uomini d’arme come in un esercizio da palestra. S’inverte il significato della luna che cela e induce all’equivoco Leonora nel fatale fraintendimento del confondere il Conte con Manrico, non una luna “letteraria” dell’inganno bensì, al deflagrare del Terzetto, una luna quale presagio di sangue e di morte. Tutto rosso, come scontatamente nel secondo quadro de Il figlio della zingara. Fiamme e fiammette abbondano nelle proiezioni, ben realizzate nell’immenso schermo che delimita nel fondo il palcoscenico. Su questo sin dall’Introduzione si mostrano cieli ora corrucciati e al contrario costellati, presaghi pur sempre dell’imminente tragedia. Poco, nulla il risultato registico sugli interpreti che, pur tenendo conto del dovuto distanziamento, sono tutti staticamente compresi nelle difficoltà del canto, nella vastità del luogo e relatività acustica, impegnati in un rapporto rassicurante con il direttore d’orchestra. Scene e costumi impersonali di William Orlandi, luci di Vinicio Chelli, video di Fabio Massimo Iaquone e Luca Attili. Pubblico numeroso nell’incantevole cornice della Roma antica e dei suoi monumenti unici al mondo, alla presenza del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, accolto da una vigorosa esecuzione dell’Inno di Mameli, con la partecipazione del coro. Applausi cordiali di un pubblico da serata di gala, pur attento alle diverse valutazioni, accogliendo al termine con maggiore favore soprano, mezzosoprano e in parte il tenore; con particolare intensità il direttore e l’orchestra.

Vincenzo Grisostomi Travaglini

Photo credits: Fabrizio Sansoni (Teatro dell’Opera di Roma)

Roma, 15 giugno 2021

“Nel segno di Roma, una storia millenaria” e “Splendide sale per la Capitale d’Italia”, due articoli del Maestro Vincenzo Grisostomi Travaglini sui teatri storici nel Lazio, nella rivista mensile “L’Opera International Magazine”, Maggio e Giugno 2021

La storia dei luoghi teatrali della regione Lazio è fortemente marcata nel segno di Roma, dove i secoli perdono il loro scorrere temporale: centro dell’Impero, città dei Papi, capitale d’Italia.

Nella Prima Roma l’edificazione di compagini teatrali mobili, originalmente in legno, era consentita solo per cerimonie sacre e per lungo tempo non si eressero strutture stabili, perché vi era il timore che la libera frequentazione portasse a comportamenti contrari la morale, così come si ripeterà dal ‘600 in piena Controriforma e sino a Roma capitale del Regno d’Italia, trascorsi quasi due millenni, quando i luoghi destinati all’intrattenimento vennero avvolte esaltati, ma ben più spesso perseguitati dall’autorità papale quali sede di perversione. I ludi teatrali si svolgevano negli anfiteatri, le naumachie, gli spettacoli con fiere e belve e quelli circensi, con le corse di cavalli, parate e processioni, coincidevano puntualmente con festività religiose.

Siamo agli albori dell’Urbe e qui prende vita il teatro latino, una delle più significative espressioni della cultura dell’antica Roma, in origine rappresentata con testi greci tradotti o rielaborati, che si mescolavano a elementi di tradizione etrusca. Risale al 364 a.C. nel corso dei ludi romani una prima forma di teatro originale, che comprendeva canti e danze. I ludi scaenici avevano particolare importanza durante le campagne elettorali nella tarda repubblica e fu Giulio Cesare a voler far edificare un fastoso teatro che rivaleggiasse con quello di Pompeo fatto dorare da Nerone in un solo giorno, imponente edificio tutt’oggi visibile che venne inaugurato sotto Augusto e dedicato a Marco Claudio Marcello. Notizie sulla vita teatrale della Roma antica ci giungono dagli scritti di Livio, Tacito e Plinio, che accennano a strutture in legno in Campo Marzio o nei pressi del Palatino.

Una premessa indispensabile, perché imponenti sono tramandate le vestigia di edifici romani, tutt’oggi testimoni del glorioso passato; teatri, anfiteatri e circhi che convivono con la città moderna. Di altri si è persa traccia, nelle stratificazioni dei secoli, ma pur sempre partecipi di una città che vive nella sua storia un percorso di fasti e contraddizioni, che si perpetra nei secoli. L’elenco sarebbe quanto mai lungo e l’argomento avvincente, ma sarà interessante sottolineare come molte di queste costruzioni, sfidando il tempo, oltre che testimonianza millenaria, a tutt’oggi ospitano attività teatrali. Anche storiche strutture non finalizzate allo spettacolo sono diventate in epoca moderna sede di importanti manifestazioni, quali le Terme di Caracalla per la stagione estiva dell’Opera di Roma; nel 2020 viene allestito per la Fondazione capitolina un teatro all’aperto nel perimetro del Circo Massimo, offrendo più ampi spazi all’emergenza pandemica e alle regole di distanziamento. Saltuariamente, a causa di vincoli conservativi, ci si è avvalsi dell’Anfiteatro Flavio, meglio conosciuto quale Colosseo dove, ad esempio, si tenne un prezioso festival di respiro internazionale. Alle porte di Roma, celebrata è la stagione di prosa del Teatro di Ostia Antica e altre strutture nel territorio laziale sono utilizzate, sia pure saltuariamente, per spettacoli: il Teatro del Santuario di Ercole Vincitore nei pressi di Tivoli, il Teatro Romano di Tuscolo o Teatro di Cicerone, il Teatro Antico di Nemi.

Nel Novecento venne ristrutturato a Roma l’Anfiteatro Correa (per i romani er Corea), edificato nel 1780 sugli imponenti ruderi del Mausoleo di Augusto risalente al I secolo a.C. , qui dal 1882 al 1887 si eseguirono opere comiche e serie; l’Augusteo dal 1908 venne destinato a ospitare la stagione concertistica della Reale Accademia di Santa Cecilia, inaugurata il 16 febbraio con direttore Giuseppe Martucci. Rinnovato nel 1925 da Marcello Piacentini, prenderà il nome di Umberto I. Sarà demolito nel 1939 nel quadro della campagna mussoliniana finalizzata ad isolare i monumenti della Roma imperiale. Dal 1997, per alcuni anni, l’orchestra e coro dell’Accademia saranno ospitati all’interno della Basilica di Massenzio, nel programma di quell’estate romana voluta dall’allora Assessore alla cultura del Comune di Roma Renato Nicolini, su modello della Festa della Musica ideata in Francia dal Ministro alla cultura Jack Lang.

Progetto di Rafaello per Villa Madama

A ulteriore esempio di continuità, il citato Teatro di Pompeo venne inglobato in costruzioni medievali, tra cui il Teatro dei Satiri, che è stato definito con affettuosa enfasi il primo teatro di Roma in continuità storica dal 55 a.C. al 1946, quando la sala con facciata curvilinea che ricalca quello della cavea dell’antica struttura, venne rilevata dal conte Gianni Grifeo di Partanna, divenendo luogo di ritrovo e di cultura teatrale, situato tra il Valle e l’Argentina. Il Teatro di Marcello è conservato nelle sue linee portanti, grazie al suo utilizzo e ristrutturazione sin dal Medioevo a palazzo fortificato, ricavato a ridosso delle arcate originarie dalle potenti famiglie dei Pierleoni e dei Savelli, quest’ultima diede incarico di riorganizzare la propria abitazione a Baldassarre Peruzzi. Nel XVIII secolo ne divennero proprietari gli Orsini duchi di Gravina, la famiglia dei principi Orsini ci introdurrà in un altro argomento, sostanziale della vita teatrale della Roma rinascimentale e sino al XIX secolo, ovvero dell’importanza per lo sviluppo culturale della città della così detta nobiltà nera, all’interno delle lussuose dimore e quali promotori della costruzione delle principali strutture teatrali pubbliche, dal ‘600 a Ottocento inoltrato.

Attraverso i secoli, come nelle sensazioni offerte da una passeggiata notturna nel centro dell’Urbe al di là del tempo, si prende nota che a Nerone si devono le prime gare canore e nell’antica Roma venivano frequentemente allestiti spettacoli con musiche e canti. Sono manifestazioni che con l’avvento dei cristianesimo saranno considerate pagane, che procederanno nei secoli, anche contravvenendo al severo Editto di Milano, sino a tutto il Medioevo e che influenzeranno nel nuovo millennio i drammi liturgici che si volevano offrire sulla piazza del Laterano, in cui si narrava la vita dei Santi con canti dialettali, musiche e danze. Nel 1414 una Passione venne allestita nel Colosseo.

Siamo in pieno Rinascimento; di soli due giorni nel 1513 è la vita del primo edificio che segna l’attività teatrale della Seconda Roma. Interamente realizzato in legno venne eretto sul colle del Campidoglio su progetto dell’architetto Pietro Rosselli, per una capienza, si dice, di tremila posti con apparato scenografico di Baldassarre Peruzzi. Fu voluto da Papa Leone X della famiglia Medici, in occasione dei festeggiamenti per il conferimento della cittadinanza romana a suo fratello: Giuliano de’ Medici duca di Nemours. Circa del 1561 è il Teatro Anguillara, che si tramanda sia stato costruito dal poeta Giovanni Andrea Anguillara, appartenente a una delle famiglie più antiche di Roma, ricavato all’interno del suo palazzo in piazza Santi Apostoli. Con tutta probabilità già teatro pubblico fu quello edificato in via Giulia, attivo circa dal 1560 al 1575. A Roma il piacere per lo spettacolo attraversa i secoli: le corse dei cavalli e le naumachie a piazza Navona, cui seguiranno spettacoli di divertimento in musica con testi di Plauto e di Macchiavelli, a cui nel Rinascimento collaborerà quale scenografo anche Raffaello e nel Barocco Gian Lorenzo Bernini. A Raffaello Sanzio era stato commissionato da Leone X  il progetto di una villa suburbana su terreno di proprietà della famiglia Medici, che in seguito prenderà il nome di Villa Madama, includente un teatro, come annota lo stesso pittore e architetto in una dettagliata descrizione a Baldassarre Castiglione: «In questo spatio vi è un bello theatro fatto con questa misura et ragione (…) ce sono fatte le gradinate, la scena, il pulpito et l’horchestra (…) E questo theatro è collocato in modo che non può havere sole doppo il mezzodí, la quale è hora solita a simili giochi». A questi divertimenti in musica, in austero clima di Controriforma, s’ispireranno le altrimenti moraleggianti sacre rappresentazioni, da cui nel febbraio 1600 scaturirà il dramma sacro La rappresentazione di anima et di corpo con libretto di Agostino Manni e musica di Emilio de’ Cavalieri, eseguita all’Oratorio della Vallicella; una vera e propria opera rappresentata con scene, costumi e ricca di balli. Potrebbe sembrare una contraddizione, ma a Roma neanche i pontefici e le severe proibizioni poterono mutare nello scorrere degli eventi la vocazione di un popolo gaudente, che tendeva a trasformare in ricorrenza ogni tipo di evento, per cui anche le processioni erano giustificazione per giochi e sagre. In questi divertimenti primeggiava il Carnevale, la cui origine risale agli antichi Saturnali, tradizione che si protrarrà a simbolo della festosità del carattere dei romani, che in essi convive con la tristezza della rassegnazione e la saggia indolenza. Una tradizione che più di altre resisterà all’usura dei secoli e sino alla seconda metà del XX secolo, quando i bagliori di una città ormai snaturata da qualsiasi radice storico-culturale e troppo frettolosamente trasformata in capitale, verranno spenti dal dilagante borghesismo, soffocati anche negli aspetti più radicati.

De I Teatri di Roma ci siamo già occupati nello scorso numero di gennaio, ma sarà egualmente interessante, in un cammino solo apparentemente similare, ripercorrerne i momenti salienti, con ulteriori, stimolanti annotazioni. Tra i teatri che hanno lasciato traccia nella storia di Roma, all’interno delle residenze della nobiltà nera, primeggia quello della famiglia di Papa Urbano VIII, al secolo Maffeo Barberini. Non era ancora agibile il loro sontuoso palazzo alle Quattro Fontane sul colle del Quirinale quando i Barberini, nella più contenuta residenza ai Giubbonari, inaugurarono la stagione operistica mettendo in scena l’8 marzo 1631 il Sant’Alessio, con musica di Stefano Landi, libretto di Giulio Rospigliosi, futuro Papa Clemente IX: «la rappresentatione di S. Alessio (…) tutta recitata in musica, sendo riuscita una delle più belle fattesi da un tempo in qua». L’apparato scenico è del ferrarese Francesco Guitti, costruttore delle macchine berniniane. Ancora il Sant’Alessio il 23 febbraio 1634 per l’inaugurazione del Teatro Barberini alle Quattro Fontane, in occasione dei festeggiamenti in onore di Alexander Charles Wasa principe di Polonia. Attiguo al nuovo palazzo dei Barberini, innalzato a gloria del casato, si presenta con sala rettangolare, ballatoio su tre lati, banchi in platea e palcoscenico incorniciato tra colonne; la facciata è progettata da Pietro da Cortona. Si disse che potesse ospitare fino a 1500 spettatori; snaturato sin dal Settecento, venne definitivamente demolito nel 1926 nel piano di ristrutturazione di Roma capitale del Regno d’Italia con l’apertura di via Regina Elena, poi via Barberini. Il Sant’Alessio riveste una particolare importanza nella storia del teatro in musica, perché non solo fu la prima opera composta su soggetto storico, ma nel descrivere minuziosamente la vita interiore del santo tentò una caratterizzazione psicologica di tipo nuovo nell’ambito del teatro d’opera. L’attività, le grandi feste che fecero capo a questo spazio teatrale dei Barberini restano nella storia per la loro sontuosa creatività. Con Urbano VIII si concludeva di fatto la Controriforma e il pontefice prediligerà l’insorgente Barocco quale stile della Chiesa trionfante. Nei poco più di quarant’anni di regno di papa Barberini, l’Urbe diventerà una città ancora più imparagonabile, anche grazie alla creatività di artisti quali Gian Lorenzo Bernini, che si può indicare quale il massimo regista del Barocco romano. Per la corte papale il Bernini si dedicò a predisporre spettacoli in Vaticano e per il teatro di famiglia del pontefice si prodigò quale impareggiabile scenografo, regista ed attore. Bernini volle, inoltre, edificare nella sua casa di via del Corso uno spazio per spettacoli, il Teatro Bernini, oggi scomparso. Un versante quasi inesplorato del Seicento romano è quello dedicato a studi più approfonditi sul mecenatismo musicale della grandi famiglie della nobiltà nera e dei Principi della Chiesa.

A Roma, fra la fine del ‘500 e il primo ‘600, Alessandro Peretti Damasceni cardinal Montalto, pronipote di Sisto V, è un vero e proprio melomane e si contorna dei più celebrati cantanti dell’epoca: «(…) egli steso sonava il cimbalo (…) e cantava con maniera soave  et affettuosa» (da Ricerche di Alberto Cametti – Roma). Furono al suo sevizio, tra i tanti, il famoso eunuco Onofrio Gualfreducci, il compositore Cesare Marotta e sua moglie la clavicembalista Ippolita Recupito, amatissima cantante. Nel rione Parione si passa per via della Pace, dove si ergeva il teatro omonimo, ormai dimenticato, ma che rievoca un certo spaccato di vita della Roma Sei-Settecentesca, se si vuole minore quanto indiscutibilmente distintivo dei costumi di un epoca. Costruito negli ultimi anni del ‘600, la prima traccia è quella delle recite degli istrioni nel 1691, ovvero di attori che ancora nel XVII secolo si esibivano in uno stile dei tempi antichi. Nella stagione di Carnevale del 1694 si ha testimonianza della rappresentazione di due drammi: Roderico, con musica di Francesco Gasperini interpretato dal sopranista Alessandro Bisson e Orfeo con musica di Bernardo Sabatini, con scene dipinte, ci è tramandato magnifiche, di Ferdinando Galli da Bibbiena. Da sottolineare il ruolo che ebbe a Roma l’architetto teatrale e scenografo, appartenente alla celebre famiglia di artisti, nell’assicurare la continuità della corrente bibienesca nell’allestimento di spettacoli. Nel 1717 il Teatro Pace fu rinnovato dall’ingegnere teatrale e scenografo bolognese Domenico Maria Vellani e in seguito vi si eseguirono diversi drammi in musica, affidati alle celebrità dell’epoca, quali i musici soprano Domenico Gizzi, Felice Novelli e Cristoforo Raparini. Col progredire dei tempi il Teatro Pace andò sempre più decadendo e nel 1853 verrà demolito. Tra i teatri storici della città, di particolare rilievo fu quello ricavato all’interno di palazzo Altemps, costruito alla fine del 1480 alle spalle di Piazza Navona, tra lo Stadio di Domiziano e piazza Sant’ Apollinare, per il nipote di Sisto IV, il conte Girolamo Riario ed è riportato da documenti d’epoca che fu scenario di feste rinascimentali. Nel palazzo sarà edificato uno dei primi teatri privati, che venne detto tra più antichi di Roma, ma sono molti gli spazi per lo spettacolo, scorrendo le cronache, che ne vanterebbero il primato. Il palazzo verrà acquistato nel 1568 dal cardinale Marco Sittico Altemps, nipote di Pio IV, completato e rinnovato a opera di Martino Longhi il Vecchio. Ai primi del Seicento il secondo duca di Gallese, il mecenate Giovan Angelo Altemps, vi farà ricavare nel seminterrato un teatro dotato di una sala rettangolare lunga circa 20 metri, dove è attestato lo svolgersi di una vera e propria, articolata stagione teatrale: « (…) con costumi e utilizzo delle macchine di scena». La storia del teatro a palazzo Altemps attraversa il tempo lungo ben quattrocento anni, assecondando mode, gusti, tecniche e tecnologie dello spettacolo. Il 23 novembre del 1758, su invito del cardinale Carlo Rezzonico nipote del veneziano Clemente XIII, è in visita a Roma il drammaturgo Carlo Goldoni ed è da questo avvenimento che, probabilmente, il teatro gli venne dedicato. Nel 1870, con l’annessione di Roma al Regno d’Italia, il Goldoni verrà attestato tra quelli operanti in città anche se definito, con poca considerazione: Romanesco. Il palazzo Altemps  fu uno dei primissimi luoghi del cinema a Roma e le cronache raccontano delle folle accorse agli spettacoli con la lanterna magica e dopo il 1911 al Goldoni saranno proiettate le iniziali pellicole del muto, con accompagnamento di pianoforte. Sarà utilizzato per diverso tempo quale cinematografo, per poi riconvertirsi all’arte di palcoscenico e questo teatro, pur tra alterne vicende, non ha mai sospeso la sua attività fino al 1984. Il palazzo, con annesso teatro, passerà allo Stato e il Goldoni sarà riadattato nel nuovo secolo a sala moderna, accessoria al museo Nazionale Romano a Palazzo Altemps, conservando il palco originale in legno, con lo spazio scenico restituito a quello delle lontane origini.

Sono numerosi i teatri che operarono a Roma nel diciassettesimo secolo, principalmente privati e di dimensione ridotte, tra questi il Teatro del Collegio Romano, il Colonna, il Teatro del Collegio Clementino, l’Ameyden dedicato al poeta e storico naturalizzato romano, il Rospigliosi e il Teatro Orsini. I Ruspoli furono patroni di Händel e Caldara; il Cardinale Ottoboni di Corelli e Alessandro Scarlatti e il cardinale Pamphilj patrono di Corelli e Händel. Ancora, sono solo pochi esempi, il patronato musicale del cardinale Pietro Aldobrandini e dei già citati Barberini per Frescobaldi; il cardinale Montalto, i Ruspoli e i Borghese furono benefattori di Francesco Gasparini. Interessante sarebbe un approfondimento accedendo ad alcuni degli archivi di famiglia, a tutt’oggi in parte inesplorati, per un più preciso studio di quelle che furono le cariche e gli impegni dei musicisti e per il ritrovamento o riproposta di molte partiture, qui conservate negli scaffali. Accanto alle istituzioni religiose, inoltre, fiorirono nel Barocco romano congregazioni, confraternite, collegi, anche un’istituzione laica come l’Accademia di San Luca, che sosteneva annualmente una festa con l’esecuzione di importanti musiche, affidate nel primo Settecento ad Arcangelo Corelli; come pure l’Accademia dell’Arcadia.

La musica è spettacolo e non solo teatrale e messa in scena tra le più suntuose nello Stato Pontificio l’arrivo della regina Cristina, convertitasi al cattolicesimo e abdicato al trono di Svezia, fu trionfale. La sovrana vene accolta a Roma con grandi onori e feste da Alessandro VII al secolo Fabio Chigi, da poco eletto al Soglio di Pietro, successore di Innocenzo X della famiglia Pamphilij. Alessandro VII, uomo di raffinata cultura, fu il papa che più di ogni altro trasformò per Roma le ricorrenze liturgiche in cerimonie sontuose e memorabili spettacoli. L’ingresso sfarzoso a Roma di Cristina di Svezia doveva rappresentare per il pontefice il segno della politica estera, con la supremazia dei cattolici sui protestanti. La vita di corte a Roma si trasformerà sempre più nell’esaltazione della politica attraverso feste scenografiche ed eventi mondani, perché nella bellezza si manifestava la forza del papato e vi si identificava il concetto stesso di potere. Ci riportano le cronache, con dovizia di particolari, che il 20 dicembre 1655 la regina Cristina raggiunse il Vaticano a bordo di una lettiga appositamente disegnata da Gian Lorenzo Bernini. In suo onore, era stato lo stesso Bernini a restaurare Porta del Popolo, sulla quale si può ancor oggi leggere la scritta inneggiante al suo felice e fausto ingresso in città: «Felici faustoque ingressui». Quando la regina Cristina si stabilì a palazzo Barberini, prima tra le dimore romane, venne accolta da solenni festeggiamenti e da una folla di circa seimila spettatori, oltre che da una processione di cammelli ed elefanti abbigliati all’orientale e con torri in legno sulle loro groppe; memorabile il 28 febbraio 1656 in onore della sovrana la Giostra dei Caroselli, così come ci è trasmesso da un celebre dipinto di Filippo Gagliardi e Filippo Lauri. Trasferitasi a palazzo Farnese, decise di aprirvi il 24 gennaio 1656 l’Accademia Reale, imponendo ai componenti di aderire alla musica e al teatro.

Cristina di Svezia s’interessò diffusamente di cultura, quasi volesse trasformare la nuova corte in un esempio di rinnovato mecenatismo. La monarca, nel suo secondo soggiorno nella città dei Papi, fece costruire nel 1666 una sala nella sua residenza di palazzo Riario alla Lungara: il Teatro di Cristina di Svezia, dove si rappresentavano, oltre alle cantate, commedie che furono definite licenziosenell’ambiente eclesiastico, particolarmente critico nei confronti dei costumi liberaleggianti della sovrana. La struttura venne demolita dai Corsini, successivi proprietari dell’edificio. La regina Cristina si occupò di sale teatrali e in particolare del Tordinona, dove fece allestire per sé tre palchi con ingresso riservato, primo e prestigioso teatro pubblico romano, infelicemente demolito a fine Ottocento per far posto agli antiestetici muraglioni ai lati del Tevere della Roma post-unitaria. Il Teatro di Tordinona, poi Apollo, si può a diritto considerare quale il primo tra i grandi edifici teatrali della storia della Seconda Roma. Fu fatto edificare nel 1670 dal francese conte Giacomo (Jacques) d’Alibert, che il cardinale Decio Azzolino aveva raccomandato a Cristina di Svezia che lo nominò suo segretario dell’ambasciata o dei comandamenti. Il conte d’Alibert, per favorire la regina Cristina, fece richiesta che gli venisse concesso l’uso di una proprietà che affacciava sul Tevere per la costruzione di un teatro pubblico, una novità per la città di Roma.

Questo, prese il nome dall’antica torre: turris de Annona, della cinta muraria aureliana che nel ‘300 era passata di proprietà della famiglia Orsini, all’epoca prefetti dell’Annona, assumendo da questa qualifica l’appellativo. La richiesta fu accolta nel 1669 da papa Clemente IX, grazie alla mediazione della stessa sovrana. Per la costruzione furono abbattute strutture preesistenti, tra cui il vecchio carcere edificato nel 1410 della Confraternita di San Girolamo della Carità, da alcuni anni in disuso, con la tristemente celebre cella chiamata della vita dove fu rinchiuso, tra i tanti, Benvenuto Cellini. Il progetto venne affidato a Carlo Fontana, che ricavò una sala lignea nella tradizione del teatro all’italiana, con sei ordini di palchi. Del gennaio 1671 è la prima del dramma musicale Scipione Affricano di Francesco Cavalli, preceduto da un prologo di circostanza in lode di Clemente X e Cristina di Svezia, musicato da Alessandro Stradella. La vita del Tordinona sarà fortemente segnata dall’avvicendarsi al pontificato di personalità più o meno moralizzatrici, da cui ne dipesero le sorti. Nel 1675 anno giubilare, come imposto, tutti gli spettacoli nella Roma papale dovettero essere sospesi; in luglio dell’anno seguente morì Clemente X e il suo successore, Innocenzo XI, si dimostrò da subito avverso a ogni forma d’intrattenimento  e con provvedimenti restrittivi fece chiudere tutti i teatri. Una forma di repressione assoluta, tanto da essere soprannominato il papa minga, ovvero in dialetto lombardo, il papa del niente, chiosando il suo marcato accento comasco, da dove era originario papa Benedetto Odescalchi e marcato dall’ostilità per ogni forma d’intrattenimento che riuscì, però con difficoltà, a contenere l’irrefrenabile Carnevale romano. Alla morte di Innocenzo XI nel 1689, lo stesso anno della scomparsa di Cristina di Svezia, l’avvento al soglio pontificio del veneziano Alessandro VIII, nato Pietro Vito Ottoboni, permise la riapertura delle sale con la ripresa delle attività e fu l’occasione per il conte Giacomo d’Alibert di affidare nuovamente al Fontana il rinnovo del teatro.

Nel 1691 un altro cambio di pontefice e di conseguenza di filosofia per la Roma papalina, con l’elezione dell’intransigente Innocenzo XII, al secolo Antonio Pignatelli di Spinazzola, al quale sono riferite severe riforme, fra cui già nel 1792, un anno dopo la sua elezione, un decreto restrittivo sull’esecuzione di musiche nella liturgia. Il pontefice si mostrò talmente avverso a ogni tipo d’intrattenimento, che nel 1697 diede ordine di demolire il Tordinona, da poco ristrutturato, accusato di essere al centro di immoralità e scandali. Il teatro non venne riedificato sino al 1733, regnante il fiorentino Clemente XII, della famiglia Corsini. Ampliato, rimaneggiato, più volte a causa di crolli e incendi, la ricostruzione più importante per il Tordinona sarà quella intorno al 1790 di Felice Giorgi, nell’occasione rinominato Teatro Apollo, sul sipario dipinto da Felice Giani si volle far raffigurato Apollo sul carro del Sole. Considerato il teatro tra i più rilevanti della città, su quel palcoscenico vennero rappresentati molti lavori di maestri del ‘700, napoletani e veneziani. Dopo esser stato più volte venduto ed acquistato, dal 1820 divenne proprietà della famiglia Torlonia che nel 1831 provvide a commissionare un ulteriore rifacimento, con l’acquisizione della facciata neoclassica disegnata da un oramai anziano Giuseppe Valadier.

Nel 1839 venne dato incarico della gestione dell’Apollo all’impresario romano Vincenzo Jacovacci detto er Sor Cencio, che appoggiato dai Torlonia, gestì per quasi quarant’anni i principali teatri romani. Fu questo il periodo in cui l’Apollo conobbe maggior splendore, con in cartellone le opere dei più  famosi compositori e i cantanti più acclamati. Di quegli anni è la prima de Il trovatore di Giuseppe Verdi il 19 gennaio 1853 e sei anni dopo, il 17 febbraio 1859, quella di Un ballo in maschera avendo trovato il compositore per la sua nuova opera più comprensione nelle censura pontificia che in quella borbonica. Dopo l’elezione di Roma a capitale del Regno d’Italia nel 1871, l’Apollo fu promosso a teatro di prim’ordine e fu aggiunto il palco reale, ma inesorabilmente nel 1888/89 il teatro, che affacciava sul fiume, fu demolito per i lavori di costruzione degli argini del Tevere. Parte degli arredi saranno acquistati da Domenico Costanzi per arricchire gli interni del suo teatro, inaugurato al Viminale nel 1880. Nello stesso progetto verrà sacrificato anche un altro edificio teatrale, il più recente Politeama, che era stato inaugurato solamente nel 1862 sulla riva destra del Tevere, all’altezza di Ponte Sisto; qui due prime assolute per Roma di opere d’oltralpe: La notte di Valpurga di Gounod e Rienzi di Wagner. La famiglia Torlonia di origine francese di mercanti di tessuti e banchieri, nobilitati nell’Ottocento, oltre al Tordinona, acquisteranno anche i teatri Alibert, Capranica e Argentina, allo scopo di divenire arbitro della vita teatrale della città e in questo modo imporre una propria supremazia culturale, non scevri da fini investitivi, che nelle attività teatrali sono pur sempre rischiose.

Sempre i Torlonia, commissionarono un nuovo teatro, a uso sia pubblico che privato, all’interno del parco della villa di famiglia fuori le mura, conseguito nello stile del teatro di corte degli inizi del XVII secolo, ove all’impianto generale del teatro all’italiana venne aggiunto lo schema elaborato della Francia del XIX secolo, dotato di raffinati e stupefacenti marchingegni. I lavori del Teatro Torlonia iniziarono nel 1841 terminando solo nel 1871. Acquisito nella seconda metà del Novecento dal Comune di Roma in stato d’abbandono, quel palcoscenico è stato restituito alla città nel 2013, ma ancora in attesa di un utilizzo adeguato. La realtà romana, nei secoli, è piena di contraddizioni che affondano le radici nella volontà del Trono di Pietro che a rappresentare la città, al contrario di quanto accadeva in molti altre città di un’Italia ancora da unificare e nelle principali capitali europee in un rinnovato concetto urbanistico, non fosse il teatro ad apparire quale punto di riferimento di aggregazione sociale, bensì lo fossero i ben più indicativi, monumentali, edifici consacrati. A Roma i teatri sembrano erigersi con riserbo formale, per non essere in contrasto con il potere pontificio, che con la sua tramandata diffidenza e riserva nei confronti dei luoghi di spettacolo condizionava i costruttori con un tacito accordo di tolleranza, svago consentito con riserva, a patto che rimanga discreto al vedersi. Ancor più, perché i teatri erano dotati di piccoli salotti sospesi protetti dall’intrigante penombra, come definì Marcel Proust i palchi ed è racconto che lo scrittore si riferisse con questa descrizione a quelli del Teatro Argentina, ma Proust non soggiornò mai a Roma. Della vita teatrale romana s’interessò Stendhal, che non fu benevolo nei confronti della città, il quale nota stupito dei tendaggi dei palchi, uno diverso dall’altro, così come dei colori e degli stemmi di famiglie reali in esilio, che avevano trovato protezione nella città dei papi e che al pari e ancor più della nobiltà nera, abbellivano il palco di proprietà, spesso in una sorta di gara del lusso. Le dame vanno a teatro più per essere rimirate, corteggiate, vezzeggiate dai loro cavalieri e cicisbei, che per interessarsi allo spettacolo. Le stagioni d’opera a Roma si aprono puntualmente il 26 dicembre e durano sino all’ultimo giorno di Carnevale il martedì grasso, arrivate le Ceneri è consentito solo rappresentare oratori sacri. Già il Valadier lamentava di non aver potuto realizzare il suo progetto di un nuovo splendido teatro pubblico a Roma, presentato nel 1789 per il Concorso Clementino e da realizzarsi nell’area del Convento delle Convertite in via del Corso, così come non ci riuscirà nel tempo nessun’altra illustre figura. Proseguendo, del 1718 è il teatro voluto dallo stesso conte Giacomo d’Alibert sul fabbricato di sua proprietà per il gioco della pallacorda, aspirazione realizzata dal figlio Antonio. Il Teatro Alibert verrà edificato non lontano da piazza di Spagna, inaugurato con Alessandro Severo del compositore napoletano Francesco Mancini. Nel 1720 l’architetto Francesco Galli da Bibbiena lo amplia, ristrutturandone la sala. A causa dell’anno giubilare del 1725 tutti i teatri romani saranno chiusi e Antonio d’Alibert, aggravato dalle tante spese sostenute, verrà a trovarsi in difficoltà finanziarie, tantoché le autorità romane nel 1726 metteranno il teatro all’asta. Verrà acquistato da un consorzio di nobili e rinominato Teatro delle Dame, alla moda dell’epoca di dedicare le sale alle dame o ai cavalieri. La direzione del teatro passerà, quindi, ai Cavalieri di Malta, con i quali alcuni membri del consorzio avevano stretti legami. Nella prima metà degli anni ‘30 del Settecento è un ulteriore intervento, con ampia ristrutturazione e abbellimento, su progetto dell’architetto Ferdinando Fuga, con riapertura nel 1738 con il dramma per musica di Nicola Logroscino: Quinto Fabio. Felicissimi i cartellone di quegli anni e molti i titoli in prima su quel palcoscenico, considerato alla moda e di successo, dove si alternarono i cantanti più famosi dell’epoca.  Nel 1847 il duca Raffaele Torlonia, dopo averlo fatto demolire, ne affida la ricostruzione in solida muratura a Carlo Nicola Carnevali, corredandolo di vani per la sartoria, scuole di ballo e di musica. Il 15 febbraio 1836 un incendio, si sospettò doloso, lo distrugge definitivamente.

Altra casata di rilievo per la storia teatrale dell’Urbe è quella del cardinale Domenico Capranica, che vanterà nel tempo ben tre sale per lo spettacolo. Il primo teatro fu voluto nel 1679 da Pompeo Capranica, a  uso privato, all’interno del palazzo di famiglia a Santa Maria in Acquino. Ricostruito dal 1692 al 1695 dell’architetto Carlo Buratti, allievo di Carlo Fontana, venne aperto al pubblico. Nella sua storia ospitò circa 140 prime esecuzioni e per quel palcoscenico scrissero o riadattarono, all’uso dell’epoca: Antonio Caldara, Giovanni Bononcini, Antonio Vivaldi, Fernando Leo, Baldassarre Galluppi, Raimondo Lorenzini, Giovanni Paisiello, Niccolò Piccini, senza dimenticare lavori di Alessandro Scarlatti e Niccolò Porpora. Dopo un susseguirsi di traversie, nel 1881 venne chiuso per inagibilità dopo una recita di Ernani di Verdi. Degradato a deposito, il Capranica dal 1922 al 2000 è utilizzato quale sala cinematografica e infine centro congressi. Più nota la storia del secondo teatro voluto dai Capranica, costruito alle spalle del palazzo di famiglia a la Valle, dove nell’antichità era lo stagno di Agrippa. Venne edificato, forse, sui resti di un precedente edificio adibito a spettacoli costruito anch’esso in legno, su quelli che erano i giardini pensili con terrapieno del palazzo della famiglia dei Della Valle a Sant’Eustacchio, dove il cardinale Andrea Della Valle aveva raccolto una ricca collezione di marmi antichi, sistemandoli in un disegno di basilica all’aperto, anticipando così il concetto di museo. Il Valle, innalzato su progetto di Tommaso Morelli, venne inaugurato nel 1727 e vanterà molte prime di opere in musica che resteranno nella storia della composizione con protagonisti i più celebri compositori della Scuola Napoletana del ‘700 e nel secolo successivo Gioachino Rossini, come anche Gaetano Donizetti. Il Valle nel 1819 divenne in muratura su progetto di Giuseppe Valadier il quale, dopo il crollo dell’arco scenico, rinunciò e viene sostituito da Gaspare Salvi. Scrive il Valadier: «(…) era giunto alla sua decrepitezza il Teatro Valle, che fabbricato di Legnami, giusta il costume antico, formò per lungo tempo la delizia dei colti Abitanti di Roma. Quindi il Governo mi ordinò di esporre in disegno le mie idee sulla riedificazione di esso da farsi, no coi fragili Legni, ma coi cementi, in modo che fosse degno della città Regina».

L’impegno del Valadier assicurò al Valle una degna facciata in stile neoclassico, sia pur sempre discreta. Il Valle manterrà il suo prestigio nei secoli XVIII e XIX e dopo l’Unità d’Italia verrà corredato di palco reale, spesso frequentato dalla regina Margherita. La prosa prenderà il posto della lirica, salvo iniziative sporadiche quali il Sant’Alessio di Stefano Landi nel 1981 e due brevi stagioni a cura del Teatro dell’Opera nel 1991/’92 con La cenerentola di Rossini, che al Valle era stata rappresentata per la prima volta nel 1816, rinnovando con questa iniziativa la collaborazione con lo Sperimentale di Spoleto e la nuova produzione di Adina, ovvero il Califfo di Bagdad di Rossini. Chiuso per alterne vicende, dopo un successivo, accurato restauro il teatro è oggi a disposizione unicamente per attività di carattere culturale, non meglio definite. Un altro piccolo teatro verrà ricavato dai Capranica all’interno del loro palazzo a la Valle, all’altezza del piano nobile, il Valletto, attivo dal 1855 fu la prima sala a Roma ad essere illuminata a gas.

Voluto dal duca Giuseppe Sforza-Cesarini l’Argentina è l’ultima grande struttura edificata nella Roma papale, quasi un secolo e mezzo prima dell’elezione della città, nel 1871, a capitale del Regno d’Italia e dei grandi sventramenti e speculazioni edilizie che ne mutarono, almeno in parte, quella morfologia venutasi a formare nei secoli. L’Argentina avviò la sua attività il 13 gennaio 1732 con Berenice di Domenico Sarro, principale interprete il celebrato farfallino, il famoso castrato Giacinto Fontana, voce bianca particolarmente apprezzata da Montesquieu. Impresso nella storia il Teatro Argentina rimarrà per la tempestosa prima de Il Barbiere di Siviglia di Rossini del 1816, presentato per l’occasione con il titolo di Almaviva ossia l’inutil precauzione per evitare, inutilmente, la suscettibilità dei fautori del grande maestro Paisiello che aveva musicato sullo stesso libretto de Il barbiere nel 1782, al Teatro dell’Hermitage di San Pietroburgo. Ancora nella storia del teatro, nel 1849 durante la Repubblica Romana, la prima de La battaglia di Legnano di Giuseppe Verdi, con il teatro invaso da una folla entusiasta: “Viva l’Italia/ Sacro un patto/ tutti spinge i figli suoi”. Il progetto del nuovo edificio era stato affidato al marchese Girolamo Theodoli, che lo aveva realizzato con l’ausilio di un valido capomastro che vantava due sottoposti, fra cui mastro Zabaglia, inventore dei sampietrini. Prese il nome dalla torre che domina la piazza antistante, voluta dal vescovo Giovanni Burcardo, nel ‘500 maestro delle cerimonie pontificie, nativo di Argentoratum che è il nome latino di Strasburgo. Il Teatro Argentina nacque nella consapevolezza del suo ruolo protagonistico nella vita musicale della città e assunse da subito un ruolo importante nel panorama culturale romano, offrendo spettacoli di grande livello. Dal 1739 la rappresentazione di drammi in prosa con intermezzi musicali cedette il passo alla lirica, con particolare attenzione al dramma che era considerato un genere aristocratico rispetto alla più popolare opera buffa che, per questo, non apparve che raramente nei cartelloni del nuovo teatro. Più di 150 prime assolute costituiscono la ricca dote dell’Argentina. La costruzione dell’interno era così ammirata che l’architetto Giannantonio Selva la prese a modello per il progetto realizzato nel 1790/92 del Gran Teatro La Fenice di Venezia. Meno felice, come di prassi nella città dei Papi, risultò la facciata. Protagonisti di quegli anni: Alessandro Scarlatti, Christoph Willibald Gluk, Giovanni Paisiello, Domenico Cimarosa e sovrano incontrastato dell’opera seria il librettista Metastasio.

Tra le grandi feste musicali ospitate nella sala dell’Argentina, quella voluta dall’ambasciatore del Portogallo a Roma ad inizio del XVIII secolo, in segno della magnificenza del sovrano Giovanni V di Braganza, con ingresso libero per tutti i concittadini e alla quale molti romani si presentarono per entrar gratuitamente, affermando di essere di origine portoghese, da cui il detto fare il portoghese. Altro evento memorabile è quello commissionato nel 1757 da Frédéric Jérôme de la Rochefoucauld, ambasciatore di Francia presso lo Stato della Chiesa, per celebrare il decennale delle seconde nozze del Gran Delfino Louis Ferdinand di Borbone, con Maria Giuseppa di Sassonia, avvenute a Versailles. Innumerevoli gli eventi legati all’Argentina, teatro che meriterebbe da solo un intero capitolo di questa pur fuggevole carrellata dei teatri storici di Roma e del Lazio. Nel 1826 un restauro di Pietro Holl rivede la sala e realizza la nuova facciata neoclassica ed è così che il teatro apparve quando nel 1843 i Torlonia lo acquisteranno, sostituendo il loro più recente stemma a quello degli Sforza Cesarini. Il teatro cambia nuovamente aspetto per gli importanti lavori di ristrutturazione affidati all’architetto Nicola Carnevali, che ne modificano sostanzialmente la struttura. La vita dell’Argentina è destinata radicalmente a mutare dal 1869 con la vendita dei Torlonia al Comune. E’ la vigilia dell’annessione di Roma e nel 1871 viene decretata la sua elezione a capitale del Regno d’Italia. Dal 1870 risultò, in compagnia del solo Apollo, quale teatro di prim’ordine ed anche per l’Argentina era il momento per costruire il palco reale. Indispensabile per la capitale, alla stregua dei tempi, è di poter contare su di un nuovo, grande teatro di rappresentanza. I progetti si susseguiranno, nel 1886 il Consiglio Municipale manifesterà l’intenzione, in previsione della demolizione dell’Apollo, di costruire un nuovo teatro Massimo della città, da edificarsi su progetto dagli architetti Cipolla e Grimaldi nell’area oggi archeologica di fronte a quello che fu definito con poco rispetto il vecchio Argentina. Contrariamente, nell’impossibilità di garantire finanziamenti adeguati, verrà optato dal 1887 ed il 1888 per la ristrutturazione proprio del Teatro Argentina, per mano dell’architetto emerito del Comune di Roma: Gioachino Ersoch. L’architetto donerà alla struttura un’impronta tipicamente ottocentesca, arricchendola di ornati e tendaggi, soprattutto sostituendo i materiali settecenteschi con più solide murature, senza però alterarne le linee  caratterizzanti e proporzioni.In quegli anni, nuove per Roma all’Argentina: La bohème di Puccini, Andrea Chénier di Giordano, Loreley di Catalani, la Walkiria e il Crespuscolo degli dei di Wagner e tanti altri titoli. Il resto è pur sempre storia, nel 1926 un ulteriore restauro è affidato a Marcello Piacentini, architetto che in quegli anni aveva proposto al regine fascista un progetto per la costruzione nella capitale di un nuovo rappresentativo teatro reale. Ancora una volta ragioni economiche impedirono all’amministrazione pubblica di finanziarne il progetto e il governatorato deciderà di acquistare la maggioranza delle azioni dagli eredi di Domenico Costanzi che con i suoi mezzi, aveva fatto realizzare al Viminale, tra il 1979 al 1980, un nuovo teatro, il Costanzi, la cui ristrutturazione nel 1928 venne affidata allo stesso Piacentini, che sarà obbligato ad accettare l’incarico. L’Argentina negli anni successivi vivrà ulteriori interventi ed ancora affronti, come quello attuato del 1967 all’insegna della furia iconoclasta che ne alterò, fortunatamente non in modo irrimediabile, l’aspetto dei locali d’accesso e la sala. L’Argentina tornerà al suo splendore nel 1993 a seguito del minuzioso intervento di Paolo Portoghesi, senza più palco reale, ritrovando una sua più precisa linea stilistica.

Siamo nella Terza Roma è primo tra i grandi edifici edificati nell’eletta capitale del Regno d’Italia è il Costanzi, che prese il nome da Domenico Costanzi, abile costruttore e gestore di grandi alberghi, nativo di Macerata, dove aveva coltivato la passione per la musica frequentando il teatro locale dei Nobili Condomini, poi Lauro Rossi. In terra marchigiana primeggiavano le produzioni rossiniane e si dice che il giovane Domenico, che professionalmente avrebbe seguito le orme del padre costruttore, abbia partecipato nel 1832 quale corista a un’esecuzione al pianoforte del Guglielmo Tell in casa degli Azzolino. Domenico Costanzi, dopo aver girato l’Europa e aver approfondito la realtà di molte importanti città, si trasferì a Roma, Qui, dopo essersi arricchito con speculazioni edilizie, volle che un nuovo teatro fosse realizzato vicino al maggiore dei suoi alberghi, la Locanda del Quirinale. Costanzi aveva proposto, nella moda del tempo, la costruzione di un grande politeama destinato soprattutto al pubblico borghese dei nuovi quartieri, ma la promiscuità di questo genere di edificio aveva provocato tali diffidenze da invitare il costruttore da recedere dal modello. Nel presentare il suo progetto Costanzi aveva avuto fiducia di poter contare su fondi pubblici, che a parte insignificanti interventi, gli furono sempre negati. Dovette, quindi, impegnare tutto il suo capitale per portare a termine l’edificio, tanto da dover ipotecare, poi vendere, alcune sue proprietà, la casa della moglie e infine la propria. L’avversità dei romani per un nuovo teatro, da erigere sul colle del Viminale, considerato luogo troppo lontano da quelli che era stati per secoli i luoghi tradizionali dello svolgersi della vita della città, dove erano stati innalzati i principali edifici storici, sembrò insanabile:  «Un teatro lassù! – si mormorava in città – E chi vorrà andarci? (…) Torni, torni all’albergo». Fu così che Domenico Costanzi, forse suo malgrado, si trasformò in generoso mecenate della vita musicale romana. L’incarico di progettare il nuovo edificio venne affidato all’architetto milanese Achille Sfondrini di comprovata esperienza, a cui si doveva l’edificazione di numerosi teatri in Lombardia e in Emilia, ma in quella fine di secolo la commissione del Costanzi sarà per lui l’occasione più rilevante. Concepito sempre a forma di ferro di cavallo, in stile eclettico, con particolare cura per il risultato acustico, ideato come in una «camera armonica» (così è definita in Cenni Illustrativi del Nuovo Teatro Nazionale del signor Domenico Costanzi, sul progetto dell’ingegner architetto Achille Sfondrini), il teatro verrà completato in soli diciotto mesi eretto, forse casualmente, tra le vie rispettivamente intitolate a Torino, prima capitale e Firenze, capitale ad interim.

Teatro dell’Opera di Roma Photo credits: Yasuko Kageyama

In origine il teatro può ospitare circa 2000 posti, disponendo di tre ordini di palchi, il quarto non poté essere realizzato per i costi crescenti, di un anfiteatro e di una galleria, il tutto sormontato dalla cupola affrescata dal perugino Annibale Brugnoli. L’esterno, in stile cinquecentesco, era mancante di una facciata vera e propria e dotato di tre ingressi distinti, per rassicurare aristocratici e borghesi di non doversi mischiare con il popolo delle due gallerie. Il Costanzi, poi Reale, infine Teatro dell’Opera, che sarà soggetto ai pesanti interventi di Marcello Piacentini degli anni venti del ‘900 che vi portarono rilevanti modifiche, rappresenta per Roma l’ultimo esempio di quella architettura teatrale-musicale italiana avviatasi ai prima del ‘600 col Barocco e passata attraverso il lungo ciclo del neoclasicismo, durato in campo teatrale anche in pieno romanticismo e post romanticismo. Inaugurato il 27 novembre 1880 con Semiramide di Rossini, quella sera al Costanzi, era presente tutta l’aristocrazia romana e l’alta borghesia.

Re Umberto I e la regina Margherita vi erano giunti fra due drappelli di corazzieri in alta uniforme, accolti trionfalmente al loro ingresso, con orchestra e banda in palcoscenico inneggiando la Marcia Reale. Domenico Costanzi, per agevolare il riconoscimento del suo edificio a teatro di rappresentanza della capitale, aveva voluto che l’architetto Sfondrini prevedesse un elegante palco reale con corona sovrastante, che venne rimossa dopo la proclamazione della Repubblica, lasciando i due putti che la sorreggevano sostenere il nulla, corona ricostruita e rimessa al suo posto, in una concezione storica di ripristino della sala, negli anni ’90. L’orchestra abbassata ribassata rispetto al livello della platea, all’uso wagneriano, era una novità per il pubblico romano, che l’aveva guardata con proverbiale diffidenza.

Il Costanzi, oggi Fondazione Teatro dell’Opera di Roma, sin dai primi anni acquistò un’importanza europea, divenendo il teatro dei nuovi autori, quali Mascagni con Cavalleria Rusticana e Iris e Puccini che aprì il secolo facendo furore con il più romano dei melodrammi Tosca. Ripercorrerne la storia richiederebbe un volume dedicato; riporteremo solo alcuni tra i tanti episodi che ne caratterizzarono le attività. La gestione del Costanzi era passata nel 1888 a Eduardo Sonzogno, l’editore investì immediatamente il teatro a sede di rappresentazione delle sue pubblicazioni, in palese contrasto con l’editore Ricordi che ostacolava a queste l’ingresso al Teatro alla Scala di Milano.

Soffitto dell’Opera di Roma: Affresco di Annibale Brugnoli

Sonzogno lavorò con scrupolo a una stagione estremamente ricca di titoli e aperta a novità musicali di compositori italiani e d’oltralpe, tanto da assicurarsi l’interesse di pubblico e critica. Intanto erano maturi i tempi per la seconda edizione Concorso Sanzogno, che prevedeva di presentare all’apposita commissione un‘opera inedita in un atto unico da rappresentarsi nel teatro. Al primo posto venne selezionata Cavalleria rusticana di Pietro Mascagni. La prima di Cavalleria nella sala del Costanzi era prevista per martedì 13 maggio sennonché, per la superstizione della protagonista Gemma Bellincioni, la data slittò a sabato 17 maggio 1890. Il teatro, essendo la rappresentazione di un compositore allora sconosciuto, era tutt’altro che gremito, ma un fu un vero trionfo, con numerose chiamate al proscenio per Mascagni, il direttore Leopoldo Mugnone, la Bellincioni e Tito Stagno. Dal 1909, per un breve periodo, Pietro Mascagni è nominato direttore artistico del teatro. Il 14 gennaio del ‘900 al Costanzi la prima di Tosca, quella sera voci allarmistiche aveva turbato la concentrazione degli artisti. Riporta la brillante penna di Gino Tani che poco prima dell’inizio un uomo sconosciuto si avvicinò al direttore di origine napoletana Leopoldo Mugnone: «Maestro – disse – qualunque cosa accada lei attacchi subito la marcia reale» e il maestro allarmato «…ma che d’è. Che succede? E vuoie chi site? » e in risposta: «sono il commissario di pubblica sicurezza … pare che si tratti di un complotto .. si parla di bombe». Re Umberto il 29 luglio di quell’anno sarà assassinato a Monza. In sala al Costanzi un pubblico elegantissimo, con eminenti personalità politiche e culturali, presente la stessa regina Margherita che, trattenuta da un pranzo a corte, era giunta in ritardo. Nessun attentato in sala, ma molti fastidi tra il pubblico che entrava a spettacolo iniziato, tanto che per alcuni minuti si dovette sospendere l’esecuzione. Successo tiepido ed il capolavoro di Puccini dovette attendere le repliche per il meritato riconoscimento. La conduzione amministrativa del teatro fu rilevata nel 1907 dall’impresario Walter Mocchi e nel 1908 entra prepotentemente nella vita del teatro la figura di Emma Carelli, non più solo quale acclamata interprete ma, in compagnia del marito Walter Mocchi, abile e ed intelligente organizzatrice. Nel 1912 Emma Carelli viene nominata direttrice e responsabile della nuova Impresa Costanzi e per il teatro iniziava una nuova, brillante pagina, che si sarebbe conclusa nel 1926, con una recita de Il matrimonio segreto di Cimarosa, con la quale la Carelli lasciava l’impresariato del teatro, ceduto al Governatorato di Roma, che ne aveva acquistato dagli eredi di Domenico Costanzi la maggioranza delle azioni, per trasformarlo in teatro reale, alla stregua delle maggiori capitali europee. Il regime fascista voleva per Roma un grande teatro di rappresentanza e nell’impossibilità, anche allora per ragioni economiche e organizzative, di provvedere all’edificazione di un nuovo edificio, era stato deciso di fare rinnovare il Costanzi da Marcello Piacentini, uno dei più stimati architetti del momento. Piacentini non avrebbe voluto accettare, avendo presentato un progetto per un nuovo teatro innovativo e non volendo ripiegare su di un lavoro di ristrutturazione, come lui stesso motiverà nei suoi Studi per il teatro Massimo di Roma: «In Roma Capitale d’Italia, manca il grande Teatro di Stato. Sono celebri i Teatri di Corte  o di Stato di altre nazioni (…) Le altre Città d’Italia, già Capitali di Stati, anche piccoli hanno magnifici Teatri (…) In Roma il Costanzi di proprietà privata … pur avendo una sala di grandi linee, non risponde alle esigenze estetiche  e tecniche di una grande Teatro moderno …». Nasceva così il Teatro Reale dell’Opera, con le modifiche volute da Macello Piacentini, che ancora una volta era stato costretto ad imporsi un ulteriore radicale ripensamento delle sue ambizioni, in questa occasione sulla possibilità di trasformazione del Costanzi, del quale aveva previsto una parziale demolizione. Il lavoro comprendeva la costruzione del quarto ordine di palchi che venne, però, realizzato solo nell’estate del ‘28, aggiunta che era stata prevista nell’originale progetto di Sfondrini che, come già detto, vi aveva dovuto rinunciare a causa delle sopraggiunte ristrettezze economiche. Venivano eseguite con maggiore ricchezza le decorazioni in sala e nei locali d’intrattenimento del pubblico. Un grandioso lampadario, realizzato a Murano in cristallo di Boemia, il più grande d’Europa, dominava ora la sala. Il teatro era arricchito, inoltre, da un nuovo sipario di 80 metri quadrati, tessuto da esperte ricamatrici delle Industri Femminile Italiane con la tecnica degli antichi parati eclesiastici, velario che andò distrutto in un principio d’incendio circa nel 1989. Venne ampliato il palcoscenico, avvalendosi delle capacità di Pericle Ansaldo. Si realizzava la facciata, anche con ulteriori interventi, sia dell’estate del ’28 che del ’29, fatta avanzare con un portico venutosi a creare su via Viminale, oggi piazzale Beniamino Gigli, dopo la dolorosa demolizione del confinante Casino degli Strozzi.

Il 25 febbraio 1928 il teatro riaprì con la prova generale del Nerone, seguita due giorni dopo dall’inaugurazione del Reale, con l’opera incompiuta di Arrigo Boito, titolo favorito dal regime fascista perché riferito alla storia dell’antica Roma. Impresario di questa prima stagione è Ottavio Scotto, chiamato a sostituire Emma Carelli, che scomparirà improvvisamente per un incidente d’auto pochi mesi più tardi, nel maggio del ’28. Custodi del turno di notte tramandano di aver visto una signora con cappello e il viso velato, affacciarsi tra le tenebre della sala nel palco dal terzo ordine di palchi (che all’Opera si chiama secondo), proprio quello da cui era solita affacciarsi l’artista, il più vicino al suo ufficio. Scriverà Augusto Carelli alcuni anni più tardi ricordando la sorella Emma: «Il destino ha coinvolto la vita di mia sorella nelle mura e nell’anima sonante del Teatro Costanzi (…) Il Teatro Costanzi è stato sempre lo spasimo e la gioia della sua vita». I primi cartelloni del Teatro Reale si gonfiano di titoli e a Roma sono presenti per le ricche stagione dell’Opera i principali artisti. Nel 1958/59 si eseguirono nuovi lavori di restauro e consolidamento, sempre su progetto di Marcello Piacentini. Si modifica la facciata e l’anziano architetto ne affida la realizzazione a un assistente. Il risultato non fu dei più felici, tanto che su Il Messaggero del 30 novembre 1959 il cronista espresse la sua più vivace disapprovazione: «(…) contentiamoci della brutta architettura che abbiamo potuto realizzare (…) Ognuno ha quel che si merita e Roma non meritava di più».

Nell’attuale periodo di chiusura, a causa della pandemia si è provveduto a lavori di manutenzione e tra i diversi interventi, in vista della riapertura al pubblico che si spera imminente, verranno sostituite le poltrone di platea, che saranno rimpiazzate con delle nuove realizzate su disegno di quelle originali del Reale del 1926, poltroncine singole accostate tra di loro, recuperando una tradizione d’arredo più consona ed elegante.

Nel Lazio i teatri storici che rivestono una certa importanza si trovano a Civitavecchia, Viterbo, Rieti e il più recente, del Novecento, a Latina. Vi sono molte altre sale teatrali, a sud di Roma nei suoi Castelli, in Sabina e un poco ovunque, ricavate in chiese sconsacrate, all’interno dei monumentali palazzi principeschi, per lo più passati di proprietà comunale o derivanti da locali che nascevano quali cinema e dove successivamente venne ricavato un sia pur ridotto palcoscenico; per lo più in uso per la prosa, concerti con organico ridotto e pur sempre luogo d’incontro per la cittadinanza.

A nord di Roma, d’importanza strategica per il suo porto è la città di Civitavecchia, nei pressi della villa dell’imperatore Traiano, fondatore della tirrenica Centumcella, dove il principale teatro della città, nella emancipata coscienza storica che animerà l’Ottocento italiano, non poteva che essergli dedicato. Già dal 1786 Civitavecchia vantava un teatro interamente in legno, progettato da Ubaldo Minozzi da cui prese il nome, realizzato nella parte centrale e storica della città. Realizzato nella forma ad U in uso nel XVIII secolo, dotato di 40 palchi posti su tre ordini. Monsignor Vincenzo Annovazzi arcivescovo d’Iconio, nella sua Storia di Civitavecchia, c’informa  che durante la visita di papa Gregorio XVI il 20 maggio del 1835 furono chiesti al pontefice interventi per migliorare l’aspetto urbano della città, tra cui l’edificazione di un nuovo teatro. Nell’atto consiliare datato 11 giugno 1838 per la prima volta ci si riferisce al progetto per il nuovo teatro, da realizzarsi in solida muratura dall’architetto Antonio De Rossi.

La sua struttura è quella tipica a ferro di cavallo, con un’ampia platea, quattro ordini di palchi e un grande loggione. Si volle situarlo nel lussuoso quartiere con vista mare di Monte Claire e il Teatro Traiano venne inaugurato il 4 maggio 1844 con Estorgia da Romano di Donizetti, abile travestimento di Lucrezia Borgia, rinominata e modificata al fine di evitare problemi con la censura pontificia e con La vestale di Saverio Mercadante, inoltre due balli. Il vecchio Minozzi venne probabilmente chiuso e destinato all’abbandono, ma non precedentemente al 20 gennaio 1841, quando ospitò Gaetano Donizetti in una delle undici repliche a cura dell’Accademia Filarmonica di Civitavecchia de L’esule di Roma. Così descrive l’Annovazzi il nuovo teatro: «La figura di perfetto ferro di cavallo lo rende armonico a sufficienza, e la sua ampiezza è tale da poter contenere mille spettatori; il grande sipario dipinto maestrevolmente ad olio dal chiaro professor Podesti rappresenta uno de’ più belli fatti dell’istorie di Civitavecchia, quando cioè l’imperatore Traiano gettava le fondamenta del porto, ed offeriva sul lido stesso un sacrificio a Nettuno».

Per tutto il XIX secolo Il Traiano proseguì un’intensa attività e divenne punto di riferimento della vita culturale-politica della città. Il 2 ottobre 1870 ospitò il plebiscito all’annessione di Civitavecchia al Regno d’Italia. Il teatro fu distrutto quasi completamente il 14 maggio del 1943 dal devastante bombardamento su Civitavecchia dalle forze aeree americane, si salvarono solo la facciata e i locali adiacenti. Fu ricostruito in modo totalmente differente, con una piccola galleria e un’ampia sala. Inaugurato nella nuova configurazione nel 1948, fu successivamente adibito a cinema. Chiuso per restauri nel 1978 è stato riaperto dopo ventuno anni di silenzio il 29 maggio del 1999. Il sipario, dipinto dall’anconetano Vincenzo Podesti, fratello del più noto Francesco, membro dell’Accademia di San Luca, salvato dalle distruzioni del conflitto bellico è andato perso nel dopoguerra.

Teatro Unione di Viterbo – Progetto di Virginio Vespignani (1808-1882)

Nell’alto Lazio o Tuscia vi è la città di Viterbo, la cui principale costruzione teatrale è dovuta all’ unione di un gruppo di cittadini viterbesi che nel 1844 formarono la Società dei palchettisti e che da questi prende il nome di Teatro Unione o dell’Unione. Considerato oramai inadeguato il precedente Teatro del Genio, per capienza e scarsa connotazione sul tessuto urbano, per soddisfare le rinnovate esigenze ed il grande interesse che i viterbesi nutrivano per l’opera lirica, venne deciso di edificare un nuovo teatro. Scartata l’ipotesi di demolire la precedente struttura, la scelta del luogo dove erigerlo ricadde sulla Contrada San Marco. La Deputazione propose, inoltre, che la nuova costruzione dovesse richiamarsi nella forma al celebrato Teatro Argentina di Roma. Il 20 Giugno 1845 fu bandito il concorso per il progetto e l’incarico di valutarne le proposte fu attribuito all’Accademia Nazionale di San Luca, che ne affidò la realizzazione all’architetto Virginio Vespignani, esponente di spicco del tardo classicismo eclettico.

Il Teatro Unione venne edificato con sala a ferro di cavallo e 4 ordini di palchi e fu detto tra i più belli del Lazio. Inaugurato nel 1855 con una stagione lirica che ebbe inizio il 4 agosto per concludersi il 25 settembre, comprendeva l’esecuzione di tre melodrammi e un balletto, tra cui il Viscardello di Giuseppe Verdi, anche in questo caso un espediente per raggirare l’ottusa censura del tempo, qui impersonata dal censore artistico pontificio il poeta romanesco Giuseppe Gioachino Belli, per mascherare il messaggio considerato eversivo del Rigoletto di Giuseppe Verdi/Victor Hugo. A causa dei gravi danneggiamenti subiti dai bombardamenti della Seconda guerra mondiale, nella necessità di reperire ingenti somme per la ricostruzione, venne posto fine a quel condominio costituente tra Palchettisti e Comune e dal 9 dicembre 1949, con decreto prefettizio, la proprietà passò esclusivamente a comunale. Il teatro fu nuovamente inaugurato nel settembre del 1952. Dopo un’ulteriore chiusura di oltre sei anni, dovuta a lavori di ristrutturazione, l’Unione è stato riaperto al pubblico il 13 giugno 2017. Il teatro, oltre a spettacoli operistici e di prosa, ospita il Concorso internazionale di canto intitolato al tenore viterbese Fausto Ricci.

Nel 1923 il territorio di Rieti fu scorporato dall’Umbria ed inserito nel Lazio e nel 1927 venne ricostituita la provincia. Quindi, laziale è da considerarsi il Teatro Vespasiano di Rieti, edificato tra il 1883 e il 1893 da Achille Sfondrini, ben conosciuto nello Stato della Chiesa per aver realizzato il Costanzi di Roma, architetto che per il progetto dell’interno del Flavio Vespasiano prese come modello il Teatro Verdi che aveva precedentemente realizzato a Padova, non del tutto dissimile dalla sala del Costanzi, sia pure in formato ridotto. Il nuovo teatro veniva a sostituire precedenti strutture, la prima delle quali a Rieti era stato lo spazio organizzato dell’Accademia del Tizzone, i cui locali nello scorrere del tempo si erano dimostrati non più confacenti alle rinnovate esigenze, così che tra il 1765 e il 1768 l’edificio venne demolito e al suo posto edificato il Teatro dei Condomini, una costruzione più ampia, sempre realizzata in legno. Nel passare del tempo anche questo edificio si dimostrò inadeguato, nell’orgoglio cittadino di poter contare su di un teatro di maggiore prestigio che potesse competere con le nuove sale teatrali che si andavano costruendo nel resto degli Stati italiani. Del 1838 è un primo progetto di Luigi Poletti, ma fu l’architetto Vincenzo Ghinelli ad individuarne la collocazione lungo l’attuale via Garibaldi. La bella impresa, come fu definita, non riusciva, però,  a prendere quota se non quando costretti, nel 1883, essendo stati l’anno precedente dichiarati inagibili i teatri lignei, così che si placarono le molte discussioni che avevano tardato di quasi cinquanta anni la realizzazione del nuovo teatro. Il 16 dicembre 1883 fu posta la prima pietra di quello che sarà il Flavio Vespasiano, dedicato all’imperatore romano che vantava origini sabine. Anche su questa denominazione si aprirono vivaci controversie, perché in molti avrebbero voluto intitolarlo al compositore reatino Giuseppe Ottavio Pitoni alla cui memoria, però, nell’entusiasmo post-risorgimentale, fu rimproverata un’appartenenza troppo clericale. Dopo dieci anni di lavori e ritocchi sotto la direzione dell’architetto Sfondrini, soprattutto a causa del perdurare dei lavori per la decorazione della sala, il teatro fu inaugurato il 20 settembre 1893 con le rappresentazioni di Faust di Charles Gounod e di Cavalleria rusticana di Pietro Mascagni. Dopo appena cinque anni l’edificio fu danneggiato dal terremoto del 1898, che provocò il crollo della cupola e di parte della facciata. Del 1901 è la nuova cupola con pittura a tempera di Giulio Rolland. Nel corso della Seconda guerra mondiale il teatro ha subito gravi danni a causa dello scavo di un rifugio antiaereo. Restituito alla città, per diversi anni ha ospitato le attività del Concorso intitolato al celebre baritono Mattia Battistini, voluto nel 1979 dal direttore d’orchestra Maurizio Rinaldi con il fondamentale apporto dell’attrice e regista Franca Valeri, che tanto si prodigarono con questa iniziativa alla promozione di giovani voci italiane. Si susseguono per il Vespasiano interventi di adeguamento e ripristino che alla fine degli anni novanta ne restituiscono l’originario decoro. La sala a ferro di cavallo, che con i restauri effettuati dal 2005 al 2009 ha ritrovato le ottocentesche tonalità crema, si presenta oggi con le sue poltroncine rosse, tre ordini di palchi per un totale di 72 palchetti, loggione e palco reale. L’interno è sovrastato dalla grande cupola, con imponente lampadario che ricorda quello del Reale dell’Opera di Roma. Dal 2019 il sipario storico raffigurante La resa di Gerusalemme a Tito Flavio Vespasiano, dipinto da Antonino Calcagnadoro nel 1910, restaurato dall’Accademia di belle arti dell’Aquila, è nuovamente esposto al pubblico. Il Teatro Flavio Vespasiano è noto, inoltre, per l’ottima acustica.

Siamo nel Novecento, nell’originaria Littoria, edificata a seguito della Bonifica dell’Agro Pontino, ribattezza in seguito Latina. Nato come Caserma della Gioventù Italiana il Palazzo della Cultura è l’edificio realizzato nel 1942 su progetto dell’architetto Oriolo Frezzotti, di cui fanno parte il Teatro Comunale Gabriele D’Annunzio, il più contenuto Comunale Cafaro e quello che è stato definito un piccolo gioiello: il Teatro dei Mille. Strutture per la cui riapertura e agibilità non sono mancate accese polemiche. Negli anni ’90, l’allora sovrintendente del Teatro dell’Opera di Roma Giampaolo Cresci venne interessato al rilancio della struttura, che si risolse con pochi appuntamenti, tra cui un trionfale concerto del soprano Katia Ricciarelli. Riaprire il D’Annunzio, quale punto di riferimento culturale della città, deve essere un impegno di tutti, è stato dichiarato e l’augurio è che possa avvenire al più presto, con una programmazione adeguata.

Vincenzo Grisostomi Travaglini

“La favolosa storia del Lakhaon Bassac”, un articolo di Sisowath Ravivaddhana Monipong sulla tradizione del teatro cantato in Cambogia in “L’Opera International Magazine”, Giugno 2021

Il leggendario Mekong, “Madre delle Acque” in lingua cambogiana, attraversa il Paese Khmer dal Nord al Sud e la sua rilevanza si può paragonare a quella del Nilo in Egitto. La vita si organizza in-torno a lui, così come le sue onde portano da secoli al popolo cambogiano le ricchezze della natura: pesci in grande quantità, gamberoni d’acqua dolce (le famose “Demoiselles du Mékong”) e verdure prelibate come le “glorie del mattino”, sorta di castagne d’acqua dal sapore pungente. Dal culto dell’acqua nasce la cultura intorno ad essa e non è una sorpresa se la forma di teatro cantato più popolare in Cambogia prende il nome di un fiume: si tratta del Lakhaon Bassac. “Lakhaon” è il termine generico per l’arte del palcoscenico e “Bassac” è il nome di uno dei quattro bracci del Mekong che riparte dal suo confluente, il Chaktomukh, avanti al Palazzo Reale di Phnom Penh, in direzione del Delta del Mekong, nella Cocincina. Territorio diventato ufficialmente straniero da quando la Francia lo cedette al Vietnam nel 1949, infrangendo la promessa fatta nel 1863 dalle autorità del Protettorato coloniale francese allo Stato cambogiano, di riconsegnare alla nazione Khmer le fertili provincie del Sud, chiamate Kampuchea Krom, ovvero la Cambogia meridionale. Il Mekong sgorga dalle mitiche montagne dell’Himalaya e procede attraverso la Cina, il Laos, la Cambogia, fino al Mar Cinese meridionale. Essendo navigabile su gran parte del suo percorso, il fiume sarà il luogo privilegiato di scambi tra le diverse culture di entrambe le sponde.

Gli artisti non fanno eccezione e si dice che da questo transito incessante tra il sud e il nord della Cambogia nacque l’appellativo di Lakhaon Bassac. Il “Bassac”, è la parte più attiva e commerciale del Mekong, perché dà l’accesso al mare.Nella sua forma attuale, il Lakhaon Bassac è originario della provincia di Preah Trapeang, oggi nel sud del Vietnam, dove vivono diversi milioni di anime cambogiane. Sotto la guida delle autorità spirituali del monastero di Wat Ksach Kandal, dove molti intellettuali cambogiani di modesta estra-zione sono stati cresciuti al servizio dei bonzi prima di entrare al collegio, così come vuole la tradi-zione, il Lakhaon Bassac si sviluppò seguendo quelle che erano le usanze secolari della terra fertile e creativa del Delta. Regione che racchiude in sé svariate memorie culturali, dalle quali ha origine questa tradizione, restituita nel tempo in una forma d’arte di palcoscenico, ancora oggi tra le più apprezzate. Queste esibizioni avevano luogo principalmente in occasione di cerimonie e feste di vil-laggi, molto spesso dopo la trebbiatura o i lavori nelle risaie, dal tramonto e sino a notte inoltrata. La prima struttura del teatro cantato cambogiano è indubbiamente riconducibile a quella dell’Opera di Pechino, riconoscibile nell’uso di un trucco dalla simbologia complessa da cui si distinguono i tratti dei personaggi principali, la predominanza nella musica delle percussioni e di potenti gong, l’uso di tessiture molto acute per le figure femminili e molto basse per i Yeak o “Giganti”. Ancora, la regola che i cattivi non devono mai vincere ed i colori molto vivaci dei costumi, tutto questo deriva indiscutibilmente dalla tradizione pechinese. Contrapposta, l’influenza cambogiana si afferma nel repertorio di favole e leggende della tradizione Khmer, nell’uso della grammatica gestuale del Balletto Reale, presente nelle donne protagoniste delle sezioni derivanti dal repertorio popolare; inoltre si attesta nella danza rituale che precede ogni recita, il cui scopo è di compiere tutte quelle cerimonie che conferiscano sacralità allo spazio teatrale, considerate irrinunciabili prima dell’inizio di ogni esibizione.

Un’altra caratteristica del Lakhaon Bassac è di essere una forma di teatro cantato totalmente aperta alle domande del pubblico; per esempio, non è raro assistere a una recita prolun-gata sino a notte tarda, su richiesta degli spettatori, in un dialogo vivace tra pubblico ed interpreti. E’ a questo punto che si scatena il talento degli attori, cantanti e musicisti per l’improvvisazione e la creazione di giochi verbali esilaranti, che accontentano la richiesta di estendere il divertimento. Per-ché esilaranti? Perché la finalità del Lakhaon Bassac è di divertire, quindi, il lieto fine è assolutamente la regola. La trama di una pièce è di solito molto schematica: tutto comincia con un corteggiamento che porta a una storia d’amore, ovviamente tra due giovani di bell’aspetto, che dovranno meritare con le loro gesta il lieto fine. Sopraggiungono nella trama una serie di complicazioni, più rocambolesche l’una dell’altra, con l’intervento di giganti, mostri e divinità improbabili, per poi finire nelle risate generali con la sconfitta delle forze malefiche, sopraffatte dalla potenza del vero amore. Le situazioni tragiche, con crudeli torture e uccisioni sanguinarie, saranno spazzate via dalla dolcezza dell’affetto tra i due giovani. In questo, il Lakhaon Bassac si porge in completa opposizione alla mentalità cambogiana, che richiede un finale tragico affinché si riconosca il valore di un’opera, indipendentemente dalla sua fonte letteraria, che è in ogni caso ampiamente conosciuta dal pubblico, perché ripetitiva. Nel Lakhaon Bassac, non avviene niente di tutto ciò! Il Male è annunciato con rumori assordanti e suoni rafforzati con tamburi e gong; al contrario, il Bene è rappresentato da principi, principesse o semplici contadini, accompagnati da una musica dolce, eseguita con strumenti a corda e piccoli xilofoni di bambù e nel finale la morale è sempre trionfante.

Come già accennato, molto spesso è il pubblico a chiedere il lieto fine, anche se il pezzo di repertorio recitato sarebbe originalmente tragico. Immaginate, come se Romeo svegliasse Giulietta e la tragedia si concludesse con i protagonisti che cantano il loro amore, perché questo diverso finale è stato richiesto dal pubblico! La ragione per la quale il Lakhaon Bassac è la forma d’arte che più si avvicina all’opera occidentale è il fatto che gli attori cantano. Oppure, potremmo invertire il paragone, perché sarebbe più vicino alla realtà affermare che sono i cantanti a recitare, ovvero che il canto è subordinato a una drammaturgia predeterminata, sotto la guida di un regista che dirige anche l’orchestra. I brani musicali sono esclusivamente legati all’azione narrativa: l’arrivo della bella eroina che cerca l’amore ha la sua me-lodia; il corteggiamento, il furore, la tristezza, sono tutte situazioni che si riconoscono prima all’udito, poi con la modulazione della voce dei cantanti e solo infine, con il significato delle parole. La parentela è evidente con la codificazione sofisticata della musica reale, che accoglie nella sua struttura millenaria la digressione artistica, rappresentata dal canto, direttamente interpretato dagli artisti sul palcoscenico e non più dalle lancinanti voci di un coro di vecchie donne. La pantomima originale prende vita in una nuova forma d’espressione che consente la partecipazione diretta del pubblico, che batte la misura, riprende i ritornelli e ride alle battute. Di più, il repertorio è maggior-mente flessibile: nel senso che ogni compagnia, ogni regista, ogni interprete, ha il diritto di uscire delle regole imposte dalla tradizione, per creare un proprio stile originale, introdurre parole in lingua straniera per effetti comici e dare una sorta di nuovo impulso a una vicenda vista e rivista per l’ennesima volta. Seguendo questa prassi, si può ben dire che la trama del dramma originario è se-condaria al come questa viene riconsiderata dagli interpreti e dal regista, specialmente su desiderio degli spettatori. Il talento degli artisti del Lakhaon Bassac rende ognuno di loro in palcoscenico una persona reale, totalmente al contrario di come avviene per le ballerine di corte che, seguendo inesorabilmente la sorte di serve divine, rapiscono i presenti in una coreografia astratta e complessa. Nella rappresentazione di corte il pubblico popolare difficilmente è in grado di comprendere tutti quei codici segreti che la compongono e che vengono espressi per simboli, in un linguaggio riservato a un sublime areopago di pochissimi eletti.

Più piacevolmente, il Lakhaon Bassac invita ad entrare in un mondo favolistico, certamente, ma anche molto vicino alla realtà di tutti i giorni. Vi si sente la vera voce degli attori/cantanti che sono sul palcoscenico. Sono esseri umani che esprimono dei sentimenti, che recitano dei personaggi di una storia ben conosciuta che, però, rispondono direttamente alle richieste di un pubblico scherzoso e pronto a rilanciare il dialogo in una comunione ininterrotta tra palco e platea, con risate e stupore. Nel teatro cantato in Cambogia, il concetto del Male non è mai assoluto. Regola primaria, come detto, il Male non deve mai vincere e conformemente al personaggio che incarna, l’interprete riprovevole è sempre in preda a moltissimi dubbi. Il maligno si lascerà pur sempre influenzare dalla benevolenza che si nasconde nel proprio cuore e quanto prima, si ritroverà sacrificato sull’altare della derisione, per il grande piacere dei giovani, sempre numerosi tra il pub-blico. Il segreto della sua popolarità risiede nell’universalità di proposte e nella diversità delle letture di antiche leggende, rimodellate e attualizzate al gusto del momento, qualche volta, anche, intro-ducendo fatti d’attualità, procedimento finalizzato a rendere l’uditorio ancora più partecipe. Come tutte le arti del palcoscenico, il Lakhaon Bassac presenta anche un aspetto sacro. Prima di ogni recita, si tiene la cerimonia del Hom Rong, che al contrario del Sampeah Kru del Balletto Reale è realmente danzato e cantato. In effetti, nella tradizione reale, il Maestro di cerimonia chiama il Dio Vishnu e lo spirito di tutte le passate Maestre di ballo dalla notte dei tempi, ad accompagnare le ballerine verso la trascendenza della comunicazione con il Divino, grazie all’intercessione della sa-cralità del sovrano. Invece, per il Lakhaon Bassac, il capo della compagnia chiama gli spiriti degli antenati degli artisti per assicurare il successo, per rendere il fascino esercitato sul pubblico ancora più incisivo, per trarne gloria e … guadagno! Perché dal buon risultato dipende l’incasso della serata e per avere successo bisogna cantare bene, perché l’artista sarà giudicato per la sua voce ed espressività, nella sua abilità a usare le corde vocali per emozionare l’uditorio.

La trama della storia ha poca importanza! Secondo un protocollo ben preciso, ogni protagonista al momento della sua comparsa in palcoscenico si presenta al pubblico con scarse parole, recitando un piccolo riassunto della sua condizione. In questo modo, gli spettatori sapranno a che punto della leggenda o della sto-ria si trovano, perché molte pièce del repertorio sono generalmente lunghissime e necessitano di più serate per poterne narrare la trama dall’inizio alla fine. Poi, l’orchestra incomincia a suonare e soltanto dopo l’introduzione musicale, l’attore diventa cantante e qui si giocherà di volta in volta la sua reputazione. Guai a colui che avrà un “incidente” di percorso (dimenticanza del testo versificato, voce troppo acuta per i maschi, troppo grave per le donne, ecc…). Il pubblico, costituito in maggioranza da contadini, in gran parte venuti da villaggi lontani portando con sé i bambini e le provvigio-ni, non perdonerà nessuno sbaglio. Invece, se l’attore/cantante riuscirà a farlo piangere, ridere o per i bambini spaventare (per i ruoli dei giganti), lo scopo sarà raggiunto e molti chiederanno di proseguire lo spettacolo nella parte improvvisata, segno che gli artisti hanno conquistato il cuore di ogni membro della comunità. Queste piccole compagnie teatrali sono nomadi per essenza e per scelta. Ci sono quelle che vagano lungo il fiume, da un villaggio all’altro, offrendo la loro arte in cambio di cibo e di alcool di riso. Alleando una capacità commerciale sorprendente per vendere il loro spettacolo a delle conoscenze tecniche, per montare una pedana, un fondale e sistemare le luci, condizioni essenziali per il successo della recita all’aperto. Questi uomini e donne, al tramonto, si trasformano in artisti genuini, truc-candosi secondo tradizioni secolari per l’intrattenimento dei loro concittadini. Poi, ci sono le compagnie più grandi, che sono sotto la protezione di uno o più mecenati, avendo la fortuna di vivere in un luogo sedentario.

Tale, fu il caso del più famoso gruppo di Lakhaon Bassac, riunitosi sotto la guida dell’ultima moglie di Sua Maestà Re Sisowath Monivong (1875-1941), la bellissima Khun Preah Meneang Bopha Norleak Yinn Tat, detta Khun Tat, che dal 1941 alla sua morte, nel 1969 , diresse nel quartiere di Psa Sileb a Phnom Penh il più noto teatro dedicato al Lakhaon Bassac. Si trattava di un teatro all’europea, con delle sedie “di platea”, delle pedane aggiunte nel fondo della sala a più livelli di panchine. Di fronte al palazzo dove era situato il teatro, numerosi mercanti am-bulanti di cibo popolare offrivano tutte le sere i loro alimenti con gradimento del pubblico, numeroso e affamato. I più ricchi si facevano servire al ristorante cinese, all’angolo della strada. Poi, verso le 19h00, cominciava lo spettacolo: la prima esibizione era sempre una danza della tradizione popolare che preludiava con un ritmo sostenuto alla rappresentazione dell’opera vera e propria, tratta da leggende cambogiane o cinesi, recite che potevano durare diverse ore. Alla morte di sua nonna, Khun Tat, il figlio prediletto di Sua Maestà il Re Norodom Sihanouk, il principe Norodom Naradipo, riprese la gestione del teatro, aggiungendovi un’influenza parigina, con sfarzo di piume di struz-zo, di pavone e tante paillettes, alla maniera del Lido. La destituzione di suo Padre e la caduta della monarchia misero fine ai sogni del giovane principe-artista, che scomparirà tragicamente assassinato dai comunisti di Pol Pot nel 1975.Dal 1979, gli artisti sopravvissuti al genocidio e dopo la restaurazione monarchica si sono ritrovati sotto il patrocinio dell’Università Reale delle Belle Arti a Phnom Penh e in altre importanti città della provincia. Ovviamente, lo sviluppo dei mezzi di comunicazione ha permesso al Lakhaon Bassac di raggiungere più spettatori attraverso la radio e la televisione. Il suo successo non si è mai smentito, malgrado l’irruzione nel Regno di serie televisive straniere (essenzialmente indiane, cinesi o thailandesi) e il cuore dei giovani cambogiani continua ad esserne rapito, conservando il successo conferito dai loro antenati a tale forma di teatro cantato, del tutto originale.

His Royal Highness Prince Norodom Naradipo (1946-1975)

Questa tradizione cambogiana del recitare e cantare è la forma più vicina all’opera italiana; per questo il Ministero della Cultura del Governo del Regno di Cambogia ha delegato uno dei maestri di Lakhaon Bassac per scegliere una decina di giovani, dediti a questa arte, per partecipare alla prima opera mai presentata nella sua integralità nel Paese dei Khmer: nel 2018 Cavalleria rusticana di Pietro Mascagni, nel quadro del Cambodia Opera Project, sotto l’alto patrocinio di Sua Maestà il Re Norodom Sihamoni. L’esperienza sarà ripresa nel 2019 con Pagliacci di Ruggero Leoncavallo per la grande gioia dei giovani attori/cantanti cambogiani, che attraverso questa esperienza hanno acquisito, con la massima serietà e disciplina, le vicissitudini e le soddisfazioni legate all’elaborazione di un’opera lirica all‘Italiana. La pandemia ha cancellato tutti i spettacoli dal vivo anche in Cambogia, ma la richiesta rimane, sia da parte delle Istituzioni governative che dalla gioventù del Paese, per il proseguimento di queste esperienze multiculturali che, nel loro sincretismo quasi spirituale, potrebbero dare nascita nel futuro a una nuova forma di cantare e recitare lungo le rive del maestoso Mekong! Chi può saperlo?! Sarebbe un’ulteriore opportunità di arricchimento per un dialogo tra diverse culture e di au-gurabile occasione per tanti giovani che desiderano aprirsi a sempre nuove esperienze di mondi, tra la Patria della Lirica europea e quella del Teatro cantato del Mekong; forse, solo apparentemente lontani.

Sisowath Ravivaddhana Monipong

“Due magnifiche proposte verdiane”, un articolo del Maestro Vincenzo Grisostomi Travaglini in “L’Opera International Magazine”, Giugno 2021

Ci sono gesti che rimarranno a segno di questa attesa riapertura del Teatro dell’Opera di Roma, dopo l’accoglienza del sindaco della Capitale, è il maestro Michele Mariotti, a girarsi dal podio verso la sala illuminata e con l’orchestra in piedi, a liberarsi dalle tensioni in un lungo applauso rivolto dall’ampio palco al pubblico ritrovato. Due giorni dopo, per Santa Cecilia, il Direttore musicale Sir Antonio Pappano, prende la parola e si rivolge ai presenti: «Caro… Carissimo pubblico», accentuando con il superlativo quel sollievo per un’espressione artistica altrimenti imposta al vuoto del vasto auditorium. Con l’orchestra dell’Accademia è Pëtr Il’ič Čajkovskij a trionfare con l’esecuzione della Sinfonia n. 6 in si minore Patetica di rara, appassionante intensità. Nella sala del Costanzi, il protagonista è Giuseppe Verdi, con tre dei ballabili tratti da opere nell’edizione parigina da Grand Opéra, dove al terzo atto l’inframmezzarsi della danza all’azione drammaturgica era pressoché d’obbligo. A Roma, però, il tradizionale ponentino si rafforza di ben altri venticelli che, stando ad insistenti indiscrezioni, causerebbero un mulinello di nomine ai vertici delle due Fondazioni Capitoline. Il maestro anglo-italiano Antonio Pappano è stato recentemente designato Chief conductor della London Symphony Orchestra e alla scadenza quale Direttore musicale dell’Accademia romana nel 2023 assumerà per Santa Cecilia la carica di Direttore emerito, un’accennata “Brexit-musicale” nonostante le rassicurazioni che non si tratterà di una funzione solo di facciata e al suo posto potrebbe essere nominato Daniele Gatti, che in passato vi aveva ricoperto la carica di Direttore stabile dal 1992 al 1997. Gatti che lascerebbe a fine mandato analogo incarico al Teatro dell’Opera, dove a succedergli sarebbe Michele Mariotti. Tutto al condizionale, ma già si vocifera, a presumibile conferma dei fatti, sull’ipotesi che nel 2024 quando sarà l’orchestra dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia a presiedere al Festival di Pasqua di Salisburgo, che a dirigere la prevista Madama Butterfly, che si vorrebbe sostituita con La forza del destino, sarebbe confermato Pappano e non il subentrante Gatti; tante ipotesi di un mondo della musica in divenire. Per restare all’oggi, di certo, all’Opera di Roma con il recente concerto dedicato ai ballabili e a poca distanza della Luisa Miller in forma di concerto, si consolida nel nome di Giuseppe Verdi l’ottimo rapporto di Mariotti con l’orchestra del Lirico della capitale. L’esecuzione dei ballabili era già in programma quando è arrivata la notizia sulla possibilità di riaprire i teatri al pubblico e in poche ore la biglietteria, con ingressi a prezzo simbolico, ha fatto registrare il tutto esaurito, sia pure nella ridotta disponibilità consentita di platea e palchi. L’interesse maggiore della proposta è stato nella valutazione schiva da prevenzioni di Mariotti per queste musiche, un tempo relegate quali superflue appendici ballettistiche, diminuite nel giudizio a un opportunismo compositivo avulso da esigenze narrative, se non nell’obbligo del Grand Opéra, in quella Parigi a cui Verdi si rivolgeva.

Mariotti, nella sua lettura personale, ne ha liberato l’effettivo valore musicale e di struttura, con convinzione e vivacità e l’esecuzione si è arricchita, nella raffinata strumentazione, di uno spessore narrativo quanto sinfonico che si è imposto su qualsiasi pregiudizio. Primo tra i ballabili quelli per il Don Carlos, tante volte ripensati dall’autore in quella complessa concatenazione di prove, idee e costrizioni. Il risultato per Le ballet de la reine: La Pérégrina, è di grande raffinatezza, elegante orchestrazione e dinamicità. Importante è crederci sino in fondo, così che il suono strumentale nella lettura di Mariotti s’identifica in canto, negli assolo e nel dialogare delle sezioni, con tale partecipata passionalità, tanto che nel finale la bacchetta gli è sfuggita di mano, sino a raggiungere le poltrone della platea. L’approccio alla musica verdiana di Mariotti è di volta in volta differente e il maestro si lascia come “stupire” dalle molte invenzioni, spronandone ogni spunto e in questi ballabili ve ne sono tanti, per valorizzare nella raffigurazione l’impulso in un segmento altrimenti riservato alle esigenze dei danzatori, evocatore di quella teatralità che puntualmente e in ogni genere è presente in Verdi. Incalzanti, seguono i ballabili dal Macbeth inseriti nell’edizione parigina, voluti in un più ampio ripensamento del compositore, che da lavoro giovanile per il Théâtre Lyrique traghetta il “suo” Shakespeare nell’accuratezza di una raggiunta maturità, tantoché Casa Ricordi li riportò in Italia nella rinnovata edizione a stampa. Concludono i più ampi ballabili da Les vêpres siciliennes, inquadrati nel tema codificato de Les quatre saisons.

Si torna allo streaming per la successiva Luisa Miller, rinviata a poche ore dall’esecuzione, a causa del tampone positivo di alcuni elementi del coro e riproposta a distanza di meno di due settimane. La prima è diffusa in diretta da Rai Radio3 e successivamente offerta in differita sul canale YouTube dell’Opera di Roma. Predisposta in forma di concerto in periodo di chiusura, per il dovuto distanziamento il coro è sistemato in platea e nei palchi e quindi senza la possibilità di accogliere il potenziale pubblico ed è impossibile ripensarne l’allestimento in così poco tempo. Per Mariotti è un debutto nel titolo e sin dalle prime battute la memoria torna al 2007, quando il giovane direttore si presentò al Comunale di Bologna con il Simon Boccanegra, perché l’approccio alla partitura verdiana, ieri come oggi, presenta caratteristiche analoghe, sia pure con la diversa consapevolezza delle proprie validità, ma con immutata passione. Il direttore affronta la partitura di Luisa Miller prendendo avvio dal solco della tradizione, per poi manifestarsi in tutte quelle sonorità di una sensibile, vigorosa ricerca di un’espressione che non fluisca da costruzioni pragmatiche, bensì da un naturale sviluppo di una riaffermata vitalità. Il direttore si avvale per questo debutto di una compagnia di canto, nell’insieme, di ottimo livello, nella partecipazione della quale si mostra, nelle intenzioni esecutive, una netta spartizione generazionale, tra artisti di più recente affermazione e smaliziati professionisti. Tra i primi il valido soprano Roberta Mantegna che nella sua già significativa carriera è d’orgoglio dell’iniziativa Fabbrica il programma per giovani artisti dell’Opera di Roma; il già affermato tenore Antonio Poli e il basso Marko Mimika. Questi tre interpreti hanno dimostrato maggiore disponibilità ad esprimersi, pur nella staticità della forma di concerto, priva di movimenti, ma non d’intenzioni. Roberta Mantegna è una Luisa appassionata e dagli adeguati mezzi vocali e se risente nel terzo atto di una minore aderenza espressiva, va a sua difesa l’evidente emozione nell’affrontare un personaggio di così complessa configurazione, con impegno vocale a tutto campo. Dall’enfasi al patetico il Rodolfo di Antonio Poli si presenta al meglio in tessiture che richiedono al tenore ampia flessibilità, esprimendosi appieno nell’elegiaco di Quando le sere al placido, dove il solista si raccoglie, quasi trasfigurando, esibendo un buon legato e alla ricerca di raffinate mezze voci proprie della scrittura verdiana e nei limiti di una tradizione interpretativa, ma che per il pieno risultato, pur apprezzandone l’impegno, necessiterebbe uniformemente di maggiore naturalezza. L’impressione in generale è che per i cantanti sarebbero state necessarie più prove, ma probabilmente la particolare situazione, il rinvio dovuto al contagio, gli spazi ristretti per una pur contenuta dinamica della parola scenica che sempre necessità di vitale svolgimento, tutto questo potrebbe aver influito per una più convincente resa d’insieme e sviluppo nell’introspezione dei ruoli, che in Luisa Miller rappresenta la vera svolta della complessità verdiana agli albori degli anni ’50 dell’Ottocento.

Di queste barriere sembrerebbe averne risentito anche il fronte più navigato, con Roberto Frontali di provata esperienza, oramai ospite fisso dell’Opera, che di recente vi ha affrontato ruoli che si possono ben considerare in linea evolutiva con la figura paterna di Miller, ma che pur in pochi anni di scrittura verdiana hanno marcato ben distinti accenti, così che il baritono è apparso già composto genitore nel ricorrente rapporto di padre e figlia, per un Miller che vorrebbe una maggiore aderenza a quel canto, di cui Frontali fu maestro, riferito più a un Verdi trascinante o ancor prima a un’eleganza e trasporto di derivazione donizettiana. A suo agio l’altro indiscusso professionista, il basso Michele Pertusi, che ha ben ribaltato alcune stanchezze vocali in personale assimilazione, cattivo ma non troppo Conte di Walter, già autoritario precursore con consapevole mestiere del gioco delle sonorità assegnate al basso della maturità verdiana, qui dai colori disimpegnati nella musicalità danzante di un ancor risorgimentale compositore, dominante sul complementare secondo basso, il castellano Wurm, la cui malvagità è restituita con opportuna misura da Marko Mimika. Più personaggio che interprete la stimata Daniela Barcellona quale duchessa Federica. Apprezzabile il livello dei comprimari: Irene Savignano (Laura) e Rodrigo Ortiz (Un contadino). La posizione frammentata tra platea e palchi, nonostante l’amplificazione, non ha giovato alla resa complessiva del coro, con maestro Roberto Gabbiani. Artisti del coro che al termine sono rimasti soli al di là della ribalta, compostamente a colmare il vuoto della sala e ad applaudire i protagonisti in palcoscenico, in un’apprezzabile pantomima dei saluti rituali, tanto meritati, quanto malinconici. Ancor più, se confrontati al trionfo del precedente concerto con pubblico in presenza. E’ stata necessità, che nulla toglie allo spessore della proposta.

Vincenzo Grisostomi Travaglini

Concerto ballabili – 28 aprile 2021

Luisa Miller – 30 aprile 2021

“L’Oriente per l’Oriente”, un articolo di Sisowath Monipong in “L’Opera International Magazine”, Maggio 2021

Dopo una prima puntata alla ricerca delle eroine orientali, così come percepite dai maggiori compositori d’opera, era giusto mettersi in viaggio per incontrare le cantanti dell’Asia misteriosa, di coloro che diedero vita sul palcoscenico a queste donne immaginarie del lontano Oriente, personaggi forti e fragili, creati da celebri musicisti europei, per poi essere elogiate interpreti di alcuni tra i ruoli più famosi del repertorio universale. Il rapporto tra la personalità della cantante asiatica e l’archetipo della donna, secondo i canoni della musica occidentale, metterà in moto numerosi impulsi creativi di direttori e registi, la cui sensibilità segnerà la differenza agli occhi di un pubblico eterogeneo e alternativamente di diversa formazione.Prima dell’inizio del Novecento la lirica europea non era conosciuta nel Sud-Est Asiatico. Questa cultura, cosi come si era sviluppata in Occidente, si era fermata ai confini dei loro imperi, mentre l’introduzione nei secoli precedenti in Cina era stata uno dei pochi effetti positivi del colonialismo anglosassone e francese. La musica occidentale fu introdotta alla Corte Imperiale di Pechino già nel 1711, grazie a Padre Teodorico Pedrini, lazzarista e musicista, inviato da Papa Clemente XI su richiesta dell’Imperatore Kangxi. Sarà un musicologo e gesuita francese, Padre Joseph-Marie Amiot, a succedergli nella seconda metà del ‘700. Sappiamo che Pedrini, oltre a comporre sonate e arie, portò alla Corte Imperiale clavicembali, organi e tanti altri strumenti, mentre Amiot aveva studiato e sostenuto la trascrizione di arie cinesi in partiture all’occidentale, pubblicate per la prima volta in Francia nel 1779. Aggiungiamo a questi fatti storici che la tradizione cinese, e per estensione coreana e giapponese, privilegia l’esistenza e la celebrità di un teatro cantato, detto Opera di Pechino, Teatro No, ecc. , nato per divertire e quindi era più facilmente recettiva alla diffusione di nuovi linguaggi, mentre questa intromissione, che fu avvertita come una contaminazione, non si produrrà nei territori del sud e sud-est dell’Asia, perché qui le arti del palcoscenico restano indelebilmente legate alla sacralità e alla sola pantomima, perché una ballerina sacra non deve fare sentire il suono della sua voce. Come nelle tradizioni greche dell’antichità, la musica del ballo per gli Dei è accompagnata solamente da un coro e non da una o più voci soliste.

Questa dicotomia nella concezione della musica cantata sul palcoscenico è un’ipotesi per spiegare il ritardo nella conoscenza del melodramma nei paesi del Sud-Est Asiatico. Quindi, non deve sorprendere se le prime donne asiatiche a studiare e cantare Mozart o Puccini furono originarie della Cina, Corea e Giappone. La primissima cantante cinese conosciuta è Zhou Xiaoyan, nata nel 1917 a Wuhan in una ricca famiglia d’imprenditori, che molto velocemente svilupperà le sue doti per il canto, con tessitura di soprano di coloratura; dal 1935 è al Conservatorio di Shanghai e poi a Parigi, dove salirà finalmente sul palcoscenico della prestigiosa Opéra Garnier per un concerto nell’ottobre 1945, conquistando il difficile pubblico parigino a tal punto da ricevere dalla stampa francese il glorioso elogio di: «usignolo cinese». Poco dopo, nel 1947, tornerà in Cina per divenire una brillante insegnante al Conservatorio di Shanghai, fino al decennio della Rivoluzione Culturale che metterà fine a qualsiasi forma di attività artistica non legata alla propaganda del Partito Comunista Cinese. Con l’apertura politica della fine degli anni ’80 del Novecento, sempre a Shanghai, Zhou Xiaoyan fondò il Centro per l’opera lirica Zhou Xiaoyan e toccherà l’apice del successo con un “suo” Rigoletto, all’alba del 1990, prima artista cinese a mettere in scena un’opera per il pubblico della sua terra. Deceduta nel 2016, Zhou Xiaoyan sarà ricordata come la grande precorritrice della lirica nel mondo cinese. I suoi allievi canterano nei più famosi teatri del mondo, dal Metropolitan di New York, al San Francisco Opera; in Europa a Bologna, Vienna e Francoforte. Ancora oggi, i giovani cantanti la venerano come una vera diva: la Dea della Lirica. Gli anni ’80 del Novecento porteranno all’esordio di un’altra stella d’Oriente, la bella e affascinante Sumi Jo di origine coreana, il cui vero nome è Jo Su-Gyeong. Nata nel 1962 a Changwon, Sumi Jo venne a Roma all’inizio degli anni ‘80 per frequentare il Conservatorio di Santa Cecilia studiando canto e pianoforte; suoi maestri Carlo Bergonzi e Giannella Borelli. Determinante per la sua formazione sarà l’incontro con Elisabeth Schwartzkopf, che imprimerà alla sua arte quel taglio di raffinatezza che la contraddistingue. Nel 1986 Sumi Jo debutterà in Europa nel ruolo di Gilda in Rigoletto di Giuseppe Verdi al Teatro Comunale di Trieste e sarà questa prestazione ad attrarre l’attenzione del celebre direttore Herbert von Karajan, che l’inviterà nel 1989 a cantare quale Oscar ne Un ballo in maschera al Salzburg Festspiele, in compagnia di Placido Domingo. Karajan disse che la sua voce era: «un dono divino». Sumi Jo è considerata la più grande cantante asiatica riconosciuta nel mondo della lirica contemporaneo e non si contano i premi dei quali è stata insignita nel corso della sua brillante carriera. Se la Corea ci ha donato Sumi Jo, seguita da Vittoria Yeo e Lilla Lee, per citare solo tre delle eccellenze originarie del Paese del Calmo Mattino, grazie alla fama universale di Giacomo Puccini e della sua nobile eroina costretta per necessità ad essere una Geisha, Cio-Cio-San, il Giappone aveva dato i natali con mezzo secolo di anticipo alla prima cantante asiatica che attraverserà mari e continenti, per rapire i cuori dei melomani d’Europa e d’America. Si tratta della dolce e discreta Tamaki Miura. Nata nel 1884 da una famiglia molto tradizionale, la giovane Tamaki imparò il canto e la danza tipici giapponesi. Nel 1900, dopo essere entrata nella prestigiosa Tokyo Music School, fu costretta dal padre a sposare un medico dell’esercito che, a causa della sua origine più umile, le avrebbe dato l’opportunità di essere mantenuta degnamente. Molto presto la fanciulla, però, decise di fare del canto il proprio mestiere e chiese il divorzio per essere libera di seguire la sua vocazione. Dopo il diploma, si consacrò all’insegnamento della musica e del canto. Si risposò nel 1913 con un medico civile e la giovane coppia partirà per Londra, per proseguire per Berlino. A Londra sarà il famoso, eccentrico tenore e direttore d’orchestra russo Vladimir Rosing a darle l’opportunità di cantare per la prima volta in quello che sarà il ruolo di tutta la sua vita di palcoscenico: Cio-Cio-San. Successivamente, debutterà nel medesimo ruolo negli Stati Uniti, a Monte-Carlo, Barcelona, Firenze, Roma e ovunque sarà applaudita protagonista dell’opera pucciniana e dell’Iris di Mascagni. Il suo destino quale primadonna di origine giapponese in campo internazionale, commuoverà ancora di più l’anima dei suoi conterranei, quando farà la sua ultima comparsa sul palcoscenico, sempre nel ruolo di Madama Butterfly, già gravemente malata. La sua sorte fu paragonata al funesto fatum dell’Impero del Sole Levante, schiavizzato dall’oppressore straniero dopo le due bombe atomiche di Hiroshima e soprattutto di Nagasaki, luogo d’ambientazione del capolavoro di Puccini. La sua ultima prestazione fece piangere il pubblico dell’Hibiya Kōkaidō di Tokyo due mesi prima della sua morte, nel marzo del 1946, talmente la cantante si era identificata all’agonia della propria nazione. La lista delle cantanti che seguiranno l’esempio di Tamaki Miura è ben lunga, ma basti ricordare Michiko Hirayama e Yoko Watanabe, vere precorritrici dell’arte operistica in Giappone, che apriranno la strada alle giovane speranze della lirica nipponica, tra queste Naoko Matsui e Kyori Oshida.

Iwasaki Ai (photo credits: Helmut Stampfli)

Ci sono altre cantanti giapponesi che hanno scelto di dedicarsi alla diffusione della cultura dell’opera lirica italiana nell’Asia del sud-est, che potremo definire veri e propri pionieri, quale ad esempio Ai Iwasaki, giovane soprano di Tokyo che ha studiato lirica in Italia con William Matteuzzi e Lucetta Bizzi, dopo essersi diplomata in musicologia alla prestigiosa Università di Showa a Tokyo. Da dieci anni Ai Iwasaki si è assunta il compito di portare la lirica in Cambogia realizzando il Cambodia Opera Project, che ha portato sul palcoscenico di Phnom Penh per la prima volta in assoluto nel 2017 Cavalleria rusticana di Pietro Mascagni e nel 2019 Pagliacci di Ruggero Leoncavallo, oltre che dedicarsi all’insegnamento all’Università Reale delle Belle Arti, dando così impulso al gusto per l’opera nella gioventù di una monarchia rinascente, dopo un tragico genocidio e molti anni di guerra. Un altro paese che molto spesso viene dimenticato nell’elenco patrio delle dive asiatiche è la Repubblica delle Filippine. Il gusto per la musica classica occidentale dell’arcipelago risale alla colonizzazione spagnola, con l’arrivo dal diciassettesimo secolo di missionari e nobildonne dalla penisola iberica. Ovviamente, l’arte della lirica si sviluppò soprattutto nelle città principali di Manila e Quezon City, in un coinvolgimento non solo d’interpreti, ma anche nel fiorire di giovani musicisti che composero nello stile classico all’occidentale. Quando il Paese passò sotto l’influenza statunitense all’inizio del ‘900, venne a crearsi un vero e proprio trauma culturale e molti filippini si sentirono, ancor di più, investiti della missione di portare avanti la propria vocazione rivolta alla grande musica europea. Jovita Fuentes, nata nel 1895, fu la prima donna filippina a cantare l’opera sotto l’impulso della sua maestra di canto, l’italiana Salvina Fornari. Dopo essere stata professoressa di canto all’Università di Manila, decise di recarsi a Milano nel 1924 per migliorare la sua tecnica, sia di canto che di recitazione, sotto la direzione di Arturo Cadore e Luigi Lucenti. Nel 1925, cantò Cio-Cio-San al Teatro Comunale di Piacenza, poi parti per altri paesi europei e, in seguito, per gli Stati Uniti, dove la sua fama crebbe con celerità. Fu una delle rare interpreti asiatiche della sua epoca a impersonare anche Mimì e Salome, evadendo dalla simbolica prigione di Madama Butterfly, considerato da molti l’unico ruolo idoneo per una donna orientale! Prima donna filippina ad esserne insignita, nel 1976 fu riconosciuta ufficialmente dal Governo Nazionale Tagalog: Artista Nazionale della Musica. Fu Isang Tapales a raccoglierne l’eredità, ovviamente cantando Madama Butterfly. In seguito fondò la prima compagnia filippina di lirica: The Philippine Opera Company. La figura, però, che principalmente marcherà il pubblico del secondo dopoguerra sarà incontestabilmente Mercedes Matias-Santiago. Nata nel 1910, la piccola Mercedes crebbe in una famiglia di melomani, appassionati di opera. Molto spesso ebbe occasione di assistere a recite d’opera al Manila Grand Opera House. Nel 1928, si era trasferita a Milano per apprendere la giusta tecnica del Bel Canto all’italiana e prima di tornare in patria ebbe l’onore di cantare davanti al re d’Italia Vittorio Emanuele III e al Duce. Il suo repertorio spaziava da Gilda (il suo debutto in Italia è del 1930 a Torino) a Violetta, Amina, Rosina e tanti altri ruoli, ma il suo personaggio preferito era Lucia. Al tramonto della sua vita, in un’intervista rilasciata al giornalista Pablo A. Tariman, affermerà: «La mia vita è un poco come Lucia di Lammermoor (…) un poco triste, un poco tragica … un poco romantica!». Mori nel 2003, lasciando un ricordo indimenticabile di donna irresistibile, alla quale il Presidente filippino Manuel Acuña Roxas aveva inviato un mazzo di fiori immenso, alto più di due metri, con la dedica: «All’usignolo delle Filippine».

L’ultimo trionfo operistico a Manila prima della pandemia nel gennaio 2020 è stato proprio con Lucia di Lammermoor. Il ruolo della protagonista era sostenuto dallo spumeggiante soprano francese Melody Louledjian, ma questa volta era Edgardo ad essere filippino, il seducente e molto popolare tenore Arthur Espiritu, con sul podio il maestro Alessandro Palumbo, giovane promettente direttore della migliore scuola italiana e con il maestro Vincenzo Grisostomi Travaglini che, qualche mese dopo il successo di Pagliacci in Cambogia, si era dedicato con passione alla regia del capolavoro di Donizetti a Manila!Rimane ancora tanto da fare per diffondere la cultura della lirica italiana in Estremo Oriente, ma gli ultimi anni hanno dimostrato il desiderio della gioventù di essere coinvolta nell’emozione universale di questa arte. Anni or sono, durante una recita di Macbeth al Teatro Bunka Kaikan di Tokyo in una produzione realizzata da italiani, protagonisti il baritono giapponese Yasuo Horiuchi e il soprano Francesca Patanè, figlia del celebre direttore d’orchestra, all’apparire degli Otto Re, con effetto del tutto originale, uno dei dirigenti della Japan Opera Foundation – Fujiwara Opera, disse che solo in quel momento aveva veramente capito perché solo degli europei erano in grado di trasmettere in modo così efficace l’originale essenza dell’opera; una forma d’arte, però, che oramai apparteneva di diritto a tutti i popoli, agli artisti di ogni nazionalità che ne sapevano restituire personali, quanto legittime ed emozionanti interpretazioni.Queste affascinanti cantanti asiatiche devono essere ricordate, donne e protagoniste d’eccezione di Puccini, Mascagni o Léo Delibes, per fare soli pochi esempi, quale espressione più significativa della speranza, non solo come disse Dostoevskij perché: «la bellezza salverà il mondo», ma soprattutto nella convinzione che la lirica e la musica avranno sempre più un ruolo fondamentale nella condivisione delle arti tra i popoli.

Sisowath Ravivaddhana Monipong

“Semplicemente Sublime!” l’omaggio del Maestro Vincenzo Grisostomi Travaglini alla grande Giusy Devinu nella rivista mensile “L’Opera International Magazine”, Maggio 2021

“Oltre il tempo, si accendono le luci della ribalta per Giusy Devinu, venuta a mancare nel maggio del 2007. Sono passati degli anni, eppure la sua figura è sempre presente, perché l’arte del palcoscenico vive nel bagliore del momento, racchiudendo in sé la tradizione in una linea di continuità che si apre al futuro. Il teatro d’opera è il luogo in cui si celebra lo spettacolo dal vivo, ogni produzione nasce in un palcoscenico vuoto che si anima attraverso la complessa fusione e la complicità di più elementi. E’ in questo momento che scatta quella magia che è propria dell’arte e poi, inquietante … tutto si spegne, affinché si possa attuare l’ispirazione di un nuovo ciclo. Da secoli gl’interpreti custodiscono il significato dell’avvenimento che s’incorpora davanti a noi e l’artista offre la sua qualità personale nel dar vita e carattere a tutti quei personaggi che soffrono il loro momento, rendendoli immortali. Per tutto ciò Giusy Devinu è Lucia, Violetta e Gilda; l’artista s’immedesimava di volta in volta in uno dei tanti protagonisti che arricchivano il suo repertorio, ai quali dedicava, distintamente, la parte essenziale di se stessa. Spenti i riflettori, Giusy riprendeva la sua irrinunciabile personalità, pronta a ricominciare, ogni volta, un diverso cammino.Dotata di uno spirito profondo, complesso, si dilaniava continuamente fra il piacere della vocazione e il dovere di una volontà portata a sempre nuovi, alti traguardi. La sua esperienza umana accompagnava costantemente quel percorso che si arricchiva, di volta in volta, nel continuo scambio tra la donna e il suo donarsi al mondo della lirica.

Le esperienze vissute insieme a Giusy sono innumerevoli e molte di esse hanno inciso così profondamente nella mia maturazione artistica, tali da appartenermi profondamente.Una troppo particolare analisi allontanerebbe il significato essenziale di questo rinnovato incontro, la cui testimonianza si è realizzata in piena sintonia a ogni levare di sipario.Accendo un riflettore su di lei. Ci meravigliammo in Spagna essendo riusciti a montare in soli pochi giorni una nuova produzione de La Traviata, senza che avessimo ceduto alla lusinga di soluzioni ordinarie. Ciascuna messa in scena si anima con la collaborazione di ogni singolo elemento; questa nostra affinità aveva la forza di coinvolgere tutti i componenti.Un singolare avvenimento, durante la preparazione di una nuova produzione de La Bohème, quando Giusy si offrì ad iniziare le prove con un tenore con il quale non erano previste recite. Ci trovammo ad approfondire il quarto atto con lo struggente addio di Mimì a Rodolfo. Dopo ore che ci sembrarono un baleno, tale l’intesa, tutti e tre ci rammaricammo che quella scena, così unica perché vissuta in quel momento nella sua irripetibile fusione, non sarebbe mai potuta arrivare al pubblico, perché Giusy l’avrebbe interpretata in recita con un altro tenore, titolare del ruolo; egualmente, eravamo felici per l’intensa commozione vissuta. Un privilegio, dal quale ci sentivamo egoisticamente favoriti.Un successivo episodio con La traviata, per il debutto in Italia di Roberto Alagna in Alfredo, con Giusy protagonista. Sentivamo il bisogno, scavando ulteriormente nella verità dei personaggi, di renderla secondo il nostro intendimento. Dopo aver montato registicamente e con impegno il Parigi, o cara… avvertimmo stanchezza, non ci convinceva! Ci sedemmo, Giusy, Roberto ed io, iniziando spontaneamente a dar voce alle nostre emotività, scambiando impressioni, ma senza suggerire specifiche soluzioni di regia. Una breve pausa, dal pianoforte ci giunsero le note del celebre duetto. Soprano e tenore si adagiarono sul letto del III atto. Alfredo iniziò ad accarezzare Violetta; lei gli sciolse il fiocco che cingeva il collo, mentre Alfredo la baciava teneramente, intonando il suo disperato amore. Giusy con spontanea naturalezza schiuse la camicia del suo amato e lui le fece scivolare la camicia da notte, lasciandola a spalle scoperte: era quella scena descritta da Dumas-figlio, dell’ultimo incontro tra Marguerite e Armand, momento che il librettista Francesco Maria Piave riassunse nell’ultimo atto dell’opera verdiana. Erano compiutamente Violetta ed Alfredo e non avevano bisogno di recitare. Un risultato inatteso, capace di stupire noi stessi.Ancora … in qualità di direttore artistico le chiesi d’interpretare Violetta per la serata di riapertura, dopo quindici anni di restauri, del Teatro Ventidio Basso di Ascoli Piceno, nelle Marche, la mia terra natale. Accettò con entusiasmo; quella sera cantò in maniera così avvincente che mi vennero le lacrime agli occhi e abbracciandola tra le quinte, osannata da un pubblico entusiasta, le dissi che era stata sublime. Mi rispose semplicemente: “«sentivo che era un avvenimento a cui tenevi molto (…) ».Giusy non ha lasciato un palcoscenico vuoto, ma una luce in cui ci sentiamo proiettati, noi tutti, verso quella continuità che la vedrà sempre protagonista.”

Vincenzo Grisostomi Travaglini

“Marche: la Terra dei cento Teatri”, un articolo del Maestro Vincenzo Grisostomi Travaglini in “L’Opera International Magazine”, Aprile 2021


I teatri storici nelle Marche sono nel loro complesso il sistema teatrale più articolato d’Italia, con una gamma di spazi che vanno dai grandi edifici municipali, come quelli di Pesaro, Fano, Jesi, Fabriano, Macerata, Fermo, Ascoli Piceno ed Ancona, a teatri medio grandi di eccezionale valore artistico, fino alle piccole gemme disseminate nei centri minori. Una realtà complessa, di difficile gestione sia per il mantenimento delle strutture, sia per l’individuazione della ritrovata funzione all’interno della comunità, per un utilizzo conveniente di una struttura che è parte integrante del territorio; che deve vivere nel presente non quale reperto museale, ma nella sua funzione originale di unione, per una condivisione dinamica di una collettiva maturazione artistica. Il retaggio storico di tale fioritura va ricercato nel passato, nelle origini e diversità di una regione, la sola in Italia che abbia conservato una declinazione al plurale, nel nome e nella varietà dei suoi abitanti. Un plurale in qualche modo unificante è stato precisato, ufficializzato sin dal Protocollo finale del Congresso di Vienna nel 1815, per un territorio così ricco quanto frastagliato. Le Marche sono la regione dai dolci colli e dai tanti dialetti, terra di artisti, di Raffaello, Leopardi e di Federico II, di Pergolesi, Spontini, Rossini e delle fisarmoniche; la regione del Tronto e dell’Esino. Una diversità che non divide, bensì è ineguagliabile ricchezza.


Le Marche sono Terra dei cento Teatri, un termine che riflette la risorsa di molteplici edifici diffusi in tutto quel territorio compiuto che fu Marca di Urbino, di Ancona, di Camerino, di Fermo e Picena. Rievocando la storia, numerosi furono gli spazi per gli spettacoli già in epoca romana, edificati in quel territorio dove oggi s’identifica la regione Marche, dove erano presenti 35 municipi e ognuno dei quali era dotato di teatro o di anfiteatro. Molte di queste strutture sono andate perdute, provate dal tempo e dall’uomo, di altre restano tracce, come a Fermo, Villa Potenza, Jesi, Ostra, Acqualagna, Urbino. Ad Ascoli Piceno sono ben visibili i ruderi del teatro romano ed è stato individuato l’ampio perimetro di un anfiteatro sempre di epoca romana, a ulteriore testimonianza della vitalità del territorio. A meglio documentare le caratteristiche legate alla cultura d’epoca romana dello spettacolo e dei giochi circensi sono le strutture del teatro e anfiteatro di Falerone e di Urbisaglia, quest’ultimi all’interno del parco archeologico più esteso della regione. Lavori importanti sono tutt’ora in corso per riportare alla luce l’anfiteatro di Suasa, uno dei maggiori della regione, già utilizzato in anni recenti per ospitare spettacoli teatrali e musicali. La successiva fioritura di spazi destinati allo spettacolo, dal XVI secolo in poi, risulta dall’imporsi degli avvenimenti; la formazione dei territori si diversifica nell’identificazione del Libero comune di origine medievale e nell’orgoglio di proprie identità, che verranno mantenute anche in tempi successivi, remoti quanto recenti e in ogni comunità grande o piccola che sia, allo sviluppo di una propria specificità, di cui l’edificio teatrale sarà parte integrante.Per l’avvio di questa realtà, che con azzardo potremo definire d’epoca recente, si può indicare una data e un luogo: la corte d’Urbino nel 1513, nello storico ducato che fu dei Montefeltro, dove nasce il primo allestimento scenico dell’età moderna, quando nella Sala del trono di Palazzo Ducale in onore di Francesco Maria I Della Rovere, si allestisce un grandioso spettacolo con La Calandria del cardinale Bernardo Dovizi da Bibbiena e Prologo di Baldassarre Castiglione: «in prosa, non in versi; moderna, non antiqua; vulgare, non latina». E’ l’occasione per l’incontro di tre grandi ingegni quali Bernardo Dovizi detto il Bibbiena, l’architetto di corte Girolamo Genga che ne progetta la grandiosa scenografia e Baldassare Castiglione, uno dei più celebri intellettuali del Rinascimento, che compone i quattro Intermezzi della commedia e firma la prima regia di quella che definiremo l’ età moderna della messa in scena. La descrizione fatta dal Castiglione permette di avere un’idea del nuovo rapporto venutosi a creare tra teatro e città grazie alle scenografie realizzate per La Calandria da Girolamo Genga, dalle quali s’introduce la scenografia prospettica dipinta, codificata e divulgata in Europa attraverso il celebre trattato di Sebastiano Serlio. Questa nuova realtà culturale non si limita alla corte, a distanza di pochi anni in altre città marchigiane la Sala delle commedie viene allestita all’interno del Palazzo pubblico. Le regione vanta anche altri primati in campo teatrale, poiché l’architetto pesarese Nicola Sabbatini scrisse nel 1637 il primo trattato di scenografia Pratica di fabbricar schene e Machine ne’ Teatri, mentre l’architetto e scenografo Giacomo Torelli, nativo di Fano, si afferma come il più grande scenografo d’Europa, prima a Venezia, poi in Francia alla corte del Re Sole. La molteplicità dello spazio barocco trova espressione nelle Marche nelle realizzazioni di Nicola Sabbatini e del celebre Giacomo Torelli, la cui abilità scenotecnica porta alla realizzazione di scene mobili. Le strutture effimere, originali dei teatri, sono rapidamente soppiantate da arredi, apparati, palchi, in un’articolazione sempre più complessa dello spazio scenico ricavato all’interno della così detta Sala grande, fino a giungere a costruzioni di legno ben strutturate, spesso ricavate all’interno del Palazzo di città, comunale o residenza gentilizia che ben presto, però, si riveleranno a grosso rischio d’incendio.


La filosofia illuminista, penetrando nelle classi più colte, favoriva il gusto per lo spettacolo e la creazione di strutture stabili per il teatro. Dal XVIII secolo le regione è appassionata nella diffusione capillare di sale da spettacolo, che coinvolge non solo i maggiori, ma anche i piccoli centri. Nelle Marche in particolare, ma in diversi aspetti anche in altre regioni, i teatri sono inizialmente costruiti su iniziativa di associazioni di privati che assumono il nome di Società condominiali, che provvedono al finanziamento per la realizzazione del progetto, fissando delle quote associative che garantiscono a ogni famiglia la proprietà di un palco, assicurando anche la gestione e la manutenzione dell’edificio. Alternativo alla Sala dello spettacolo del palazzo era il giardino o roccolo della villa di campagna, dove venivano ricavate tramite una strutturazione artificiale del verde, dei veri e propri schemi vegetali. Nel parco di Villa Caprile nel pesarese, residenza estiva della famiglia dei marchesi Mosca, ancora oggi si conserva nello splendido giardino all’italiana il Teatro di Verzura, a testimonianza di questo gusto per l’Arcadia che tanto peso ebbe nella cultura settecentesca. Qui, tra gli altri, fu accolto Giacomo Casanova e nell’Ottocento vennero ospiti Stendhal, Gioachino Rossini, Giacomo Leopardi e il generale Napoleone Bonaparte. Nel 2001, nell’ex galoppatoio di Villa Caprile, venne allestita dal Rossini Opera Festival la Festa musicale Le nozze di Teti e di Peleo, un pastiche con composizioni del compositore pesarese. Altra testimonianza è quella di Villa Centofinestre, nel comune di Filotrano, dove è ancora visibile il semicerchio di cipressi dove all’epoca, con tutta probabilità, vi era una struttura di verde più articolata.


Le Marche dell’epoca non conoscevano ancora un’unità amministrativa, anche se questo non impedì la formazione di un senso di appartenenza comune. E’ così che in molte città si approfitta della favorevole congiuntura economica legata allo sviluppo agricolo per dare vita a una fioritura di edifici teatrali. Dalla seconda metà del ‘700 e per tutto il XIX secolo ogni comune, che avesse voluto svolgere un ruolo sul territorio circostante, cominciò a programmare la costruzione del proprio teatro, anche se con una capienza di soli 50 posti. Per la progettazione prende avvio una vera e propria gara tra le diverse realtà territoriali al fine di potersi aggiudicare l’architetto più in vista del momento e vantare nel proprio comune l’edificio il più sorprendente. Vengono interpellati rinomati architetti marchigiani quali Domenico Bianconi, Pietro Ciaffaroni, Giuseppe Lucatelli, Ireneo Aleandri, Pietro e Vincenzo Ghinelli, Giuseppe Sabbatini, Luigi Petrini e ancor più celebri Antonio Galli Bibiena, Giuseppe Piermarini, Domenico Morelli, Pietro Maggi e Luigi Poletti. Nel corso dell’Ottocento si diffonde la passione per il melodramma e per il teatro di prosa, praticato non solo da attori professionisti, ma anche da rampolli della nobiltà locale. Nel 1834 in una delle pubblicazioni del maceratese Amico Ricci, lo storico dell’arte ipotizza che i giovani delle nobili casate marchigiane, non essendo più coinvolti in fatti di guerra, si erano talmente appassionati alle lettere, poesia e testi teatrali, da incentivare nelle città di appartenenza la costruzione di sale, appositamente per potersi esibire nei loro componimenti. Il teatro così detto all’italiana diviene il simbolo di questa distinzione dei ceti sociali ed è proprio il luogo di spettacolo che rappresenta l’esigenza di testimonianza intellettuale della città. Si costruiscono e si rinnovano sale, si moltiplicano accademie, si ampliano le cappelle musicali. Sempre più, si avverte l’esigenza di dotare i centri urbani di un teatro pubblico, con lo scopo di creare uno spazio destinato a un “sano” divertimento, soprattutto per i giovani. Tra questi giovani, il poeta Giacomo Leopardi che recita nel piccolo teatro privato all’interno del palazzo Cassi a Pesaro, parenti della nonna Virginia Mosca, struttura, purtroppo, demolita nel 1950, così come a Palazzo Leopardi a Recanati, dove il padre, conte Monaldo, aveva fissato la sede di un’accademia e dove il divario nella”sala grande” compiuto da due scalini, oggi colmati da una struttura lignea, ne lascia intravedere la forma originale. Quasi tutti i teatri nei palazzi nobiliari nella regione, un tempo fiorenti, sono stati nel tempo smantellati, quali ad Ascoli nelle case Alvitreti e Ciucci, affittando le scene del Comune, oppure dai Passionei di Fossombrone, dove si realizzarono dei veri e propri palchettoni.
Nel 1868 si possono contare nelle Marche ben 113 teatri e tutti i comuni si facevano vanto di esserne dotati, rivaleggiando tra loro nell’abbellimento della sala e per artisti ospiti. Ogni centro urbano, in una sorta di campanilismo persistente, realizza questo spazio, coinvolgendo qualità di manodopera e di professionalità, favorendo altresì l’economia del luogo. Le città si rinnovano ed il teatro in muratura dall’inizio dell’Ottocento è spesso al centro delle nuove sistemazioni quale punto di riferimento connotativo al decoro urbano. Le scelte architettoniche seguono avvolte le mode, l’esigenze avvolte capricciose della committenza o la conformazione degli spazi dove la sala verrà compresa. Nella realizzazione si passa dall’arcadica conformazione a U, alla fantasiosa tipologia a campana introdotta dai celebri Galli Bibiena, alla neoclassica interpretazione della forma ellissoidale, per giungere alla più tipica pianta a ferro di cavallo con il bulbo più o meno accentuato, ma senza che queste diverse soluzioni abbiano avuto, nell’incalzante ambizione del primeggiare, una logica temporale. I condomini teatrali, nell’evolversi dei tempi, si trasformano per lo più da privati in pubblici, in quanto l’iniziativa della costruzione del nuovo edificio in muratura, spesso a sostituzione della vetusta struttura in legno, viene presa in carico dalla municipalità che ne mantiene la proprietà; in altri casi i condomini si riorganizzano nel sistema così detto “misto”, ovvero gestito con capitali sia della municipalità che di privati; quest’ultimi, vistosi successivamente negata la proprietà del palco, intenteranno causa all’amministrazione comunale, senza ottenere risultato. I palchi, avvolte, di stagione in stagione, vengono estratti a sorte, per evitare rivendicazioni delle famiglie più facoltose. Il teatro è definitivamente un bene pubblico.


Il melodramma è il dominatore incontrastato delle scene; dalla seconda metà del Settecento ai primi decenni del Novecento, fino alla prima guerra mondiale, si allestiscono importanti stagioni liriche con la partecipazione di famosi cantanti, a testimoniare la passione di un pubblico attento e partecipe. La crisi degli anni ’80 del XIX secolo influì pesantemente sull’industria dello spettacolo, segnando una battuta d’arresto alla sua evoluzione. Seguirono anni di silenzioso abbandono! Dei 131 teatri censiti nel 1868 nelle Marche, numerosi sono stati tramandati, tenendo conto delle mutazioni evolutive, pressoché intatti, sia pure dopo accurati restauri; altri ricostruiti in seguito ad incendi e bombardamenti delle due guerre, sono stati poi gradualmente scalzati dall’avvento del cinematografo, che stravolge l’uso di alcuni spazi, subendo un’alterazione radicale della sala con la semplice organizzazione in platea e galleria. Altri, saranno trasformati in magazzini, degradati e rimpiazzati per speculazione da edifici commerciali. Sono 73 i teatri storici presenti oggi nella regione, con diverso metodo di calcolo se ne potrebbero annoverare sino a 76, quando nel 1995, al momento dell’avvio dell’attività del nuovo governo regionale, il quadro della conservazione di molti degli edifici storici era di fatto preoccupante, anche se alcuni progetti di restauro erano stati già avviati. Solo una quindicina quelli in attività, i lavori di recupero di altri in molti casi fermi, avvolte nemmeno avviati. Non si può non riconoscere che a metà anni ‘90 con la nomina del professor Gino Troli ad Assessore alla cultura della Regione Marche avvenne una vera e propria svolta che ha condotto alla riapertura, alle porte del nuovo millennio, della quasi totalità dei teatri storici marchigiani, con lo stanziamento di fondi principalmente regionali, comunali e provenienti da sovvenzioni dell’Unione Europea. Nella realizzazione del progetto di recupero di questo patrimonio, fondamentale è stato il coinvolgimento di Eustacchio Montemurro Dirigente del Servizio Beni e Attività culturali e dell’architetto Tiziana Maffei, così come le iniziative congiunte del Fai-Marche e dell’Associazione Marche Segrete, presiedute dalla principessa Giulia Panichi Pignatelli di Castel di Lama, che con determinazione ed impegno ha promosso l’individuazione, recupero e rivalutazione di tanti spazi teatrali e beni storici in abbandono. Un lavoro certosino per un risultato considerevole dove, però, a un ritrovato splendore delle strutture, non sempre ha corrisposto il legittimo ritorno a una rinnovata vita culturale.


I devastanti terremoti del 2016 e 2017 hanno lesionato alcuni di questi edifici, soprattutto il Teatro Filippo Marchetti di Camerino, che è nella lista tra i primi monumenti su cui intervenire; solo piccoli lesioni per il Filippo Marchetti di Camerino e il Feronia di San Severino Marche. Sono tanti i teatri storici presenti nelle grandi e medie città, così come nei piccoli centri delle Marche e tutti meriterebbero di essere menzionati in questo grand-tour regionale, ma ci limiteremo ad alcuni esempi. Non si può che iniziare dalla provincia di Pesaro e Urbino, che vede raggruppati i due maggiori centri del territorio. Il Teatro Raffaello Sanzio di Urbino venne eretto sulla parte superiore della rampa elicoidale, denominata dell’Abbondanza. Sin dal 1829 la comunità gentilizia di Urbino si era espressa a favore della costruzione di un nuovo edificio teatrale «primo ed essenziale ornamento di ogni culta città», che andasse a rimpiazzare il Teatro dell’Accademia dei Nobili Pascolini, la cui collocazione all’interno di Palazzo Ducale ne rendeva limitata la fruizione. Nel 1840 venne indetto un concorso, vinto dall’architetto Vincenzo Ghinelli di Senigallia, che volle inserirlo in un più articolato piano urbanistico, non integralmente realizzato. L’inaugurazione è del 1853. La struttura è stata radicalmente modificata in epoca relativamente recente, tra il 1996 e ‘97, alterandone l’assetto originale. Si volle intitolato all’illustre concittadino Raffaello Sanzio, di cui nell’atrio è conservato il busto incompiuto dello scultore Carlo Finelli. A Pesaro è situato il teatro che porta il nome dell’illustre compositore nativo pesarese, Gioachino Rossini. Per risalire alle origini della costruzione bisogna rievocare il Teatro del Sole, eretto al posto delle vecchie scuderie ducali di Guidubaldo II Della Rovere nel 1637 e nello stesso luogo, nel 1818 praticamente riedificato, quale Teatro Nuovo, inaugurato con La gazza ladra, presente lo stesso autore ventiseienne. Progettato con la forma classica a forma di ferro di cavallo con quattro ordini di palchi più il loggione, il Nuovo nel 1855 verrà intitolato Rossini, ancora vivente il compositore. Dal 1980 è sede principale del prestigioso Rossini Opera Festival, che si avvale anche dell’Auditorium Pedrotti, nato quale sala da concerto nella sede del Liceo Musicale, anch’esso dedicato all’illustre pesarese, dove sono stati ospitati importanti produzioni liriche, tra cui nel 1984 l’indimenticata “prima” de Il viaggio a Reims di Rossini, direttore Claudio Abbado, regia di Luca Ronconi, scene di Gae Aulenti; oggi la sala è temporaneamente chiusa per restauri. La richiesta di una platea più vasta per il Festival ha imposto la scelta di spazi capienti, identificati dal 2006 ne l’Adriatic Arena poi dal 2019 Vitrigo Arena, un funzionale impianto polivalente, spazioso e moderno, quanto poco consono per rappresentazioni liriche. Altro gioiello della provincia di Pesaro-Urbino è il Teatro della Fortuna di Fano, il cui nome risale alla denominazione latina della città: Fanum Fortunae, dal tempio della Fortuna, probabilmente eretto a testimonianza della battaglia del Metauro nell’anno 207 a.C. . All’interno del Palazzo del Podestà di Fano la prima esecuzione teatrale è documentata al Carnevale del 1491 con la Rappresentatio Apollinis et Daphnes conversae in laurum di Giovanni Antonio Torelli, avo dell’illustre scenografo e architetto Giacomo Torelli. A quest’ultimo, di ritorno dalla Francia di Luigi XIV, venne affidata la progettazione del nuovo teatro a pianta di rettangolo absidato con cinque ordini di palchi, così come realizzato nei più importanti teatri dell’epoca. I lavori vennero ultimati nel 1677. La tradizione vuole che l’imperatore Leopoldo I d’Asburgo volle far edificare il teatro di Vienna sul modello ideato dal Torelli per Fano. Nel 1718 fu incaricato del restauro Ferdinando Bibiena, che fece ridipingere l’intero complesso, ampliò la dote scenografica del palcoscenico e fece realizzare un sipario in cui era raffigurata in prospettiva simmetrica, come in uno specchio, la sala del teatro in una contrapposizione di stampo tipicamente barocco tra il contenitore e il suo riflesso. Nel 1842 fu commissionata a Luigi Poletti la progettazione del nuovo teatro sempre all’interno del Palazzo del Podestà, demolendo quello del Torelli. Per la stagione inaugurale del 1863 vennero programmate 23 serate, con in scena Il Trovatore e il Macbeth di Verdi, La Favorita di Donizetti. Gravemente danneggiato nel corso dell’ultima guerra, il Teatro della Fortuna è stato riaperto nel 1998, dopo cinquattaquattro anni di complessi, meticolosi interventi di restauro e ristrutturazione, restituito al suo originario splendore e rinnovato negli impianti e attrezzature tecniche. All’interno si possono ammirare, oltre a una bellissima cavea neoclassica, uno dei più significativi sipari storici opera di Francesco Grandi, che raffigura un immaginario ingresso dell’Imperatore Cesare Ottaviano Augusto nell’antica Colonia Iulia Fanestris.


Dedicato a Mario Tiberini è l’ottocentesco teatro di San Lorenzo in Campo. Inizialmente denominato Teatro Trionfo, è un modello di “teatro di sala” ricavato in quella che probabilmente era la Sala da ballo, all’interno del cinquecentesco Palazzo Della Rovere, dove dalla metà del Settecento vi era un teatrino “alla francese”, montato e smontato secondo esigenza. Della nuova costruzione s’inizio a discutere nel 1813 durante il napoleonico Regno d’Italia, teatro che fu edificato solo dopo la restaurazione pontificia del 1816 su disegno del capomastro Luigi Tiberi; intitolato nel 1880 a Mario Tiberini celebre tenore nativo di San Lorenzo in Campo. Dopo un accurato restauro, il teatro è stato riaperto al pubblico nel 1983, mantenendo, nel suo insieme, l’aspetto originario. Caratteristico è il Teatro della Rocca di Sassocorvaro, posto all’interno della Rocca Ubaldinesca, che si distingue per essere strutturato alla francese, in una composizione del tutto particolare, privo di palchi, dotato di un solo palchettone ligneo fiancheggiato da paraste. Caratterizzato in elegante stile settecentesco nelle decorazioni, pur essendo state realizzate a metà dell’Ottocento. L’edificio diede rifugio a 10.000 opere d’arte italiane durante la seconda guerra mondiale. Il Teatro delle Muse risalente al 1754 è la prima struttura teatrale nel Comune di Cagli, sostituita dall’attuale Comunale inaugurato nel 1878 con la prima assoluta de Il violino del diavolo del compositore Agostino Mercuri nato nella non lontana Sant’Angelo in Vado. La struttura si caratterizza per le eclettiche decorazioni di fine Ottocento, che nel codice decorativo delle sale teatrali segna l’avvenuto trapasso del pluralismo neoclassico. Nel teatro è conservata la dotazione scenotecnica, così come in altre sale nelle Marche, con preziosi fondali d’epoca e gli originali comodini, ovvero un sipario arretrato rispetto al principale, utilizzato per il cambiamento delle scene e dotato di una passaggio centrale o due laterali, per permettere agli artisti di mostrarsi alla ribalta per gli applausi. Dieci fondali e quinte, inoltre, sono conservati nel palcoscenico del Comunale, realizzati da Girolamo Magnani, lo scenografo prediletto da Giuseppe Verdi. Restando in argomento sipari storici e fondali, vanno ricordati alcuni dipinti dalla famiglia degli scenografi Liverani, la cui testimonianza è conservata in alcuni teatri marchigiani, tra cui il Teatro del Trionfo nel piccolo borgo di Cartoceto, costruito fra il 1725 e il 1730 in un’ex deposito di olive, riedificato nel 1801 è dotato di tre ordini di palchi in legno. Nella provincia è annoverato quale terzo per antichità, dopo il Teatro Angel dal Foco di Pergola e l’Apollo di Mondavio. All’interno del Teatro del Trionfo la cui sala, nonostante alcuni lavori di manutenzione è, purtroppo, ancora inagibile, vi è conservato, in condizioni non ottimali, il pregevole sipario storico di Romolo Liverani.


Dalla provincia di Pesaro-Urbino a quella di Ancona, che, secondo una guida redatta dagli uffici della Regione, possiede 15 teatri storici, ma il numero potrebbe salire a 31 se si contano anche altre strutture. Per diritto di precedenza al capoluogo, inizieremo la visita dal Teatro delle Muse di Ancona, che dopo la ricostruzione della sala, ferita durante la Seconda Guerra Mondiale e poi demolita, nella logica di un intervento che fa ancor oggi discutere, avrebbe diritto di essere riconosciuto, dalla riapertura, quale sede di Fondazione lirico-sinfonica. Nell’Italia centrale ben due regioni non vantano il privilegio di una Fondazione lirico-sinfonica, le Marche e l’Umbria. Polemiche a parte, i bombardamenti che colpirono duramente Ancona, in quanto città portuale, danneggiarono la copertura del Delle Muse e l’attività dovette essere sospesa e lo rimarrà per ben 59 anni. Dopo molte controversie, si decise per la demolizione della sala, mentre altre strutture interne e l’apprezzabile facciata in forma neoclassica rimasero intatte. Il progetto definitivo di ricostruzione è degli architetti Danilo Guerri e Paola Salmoni, il cui scopo dichiarato fu quello di stabilire un rapporto armonico tra la riprogettazione in stile moderno della sala e lo spazio urbano circostante; all’impatto visivo, ancora una volta nell’edificazione di una struttura di sala da spettacolo, seguendo il concetto urbinate di Baldassare Castiglione. Viene mantenuta la facciata neoclassica di derivazione palladiana e in parte conservata la scala di ingresso e l’originario atrio. Vengono nuovamente decorate in stile moderno dall’architetto Leonello Cipolloni le sale del Casino Dorico, pur non avendo subito danneggiamenti significativi, destinate a feste e incontri culturali. All’interno dell’edificio è ricavato un ridotto. La nuova struttura è inaugurata nel 2002 con Idomeneo di Mozart, Lucia di Lammermoor di Donizetti, Madama Butterfly di Puccini e la prima di Canto di Pace, su parole di S. Giovanni Paolo II e musica di Marco Tutino. La storia del Massimo anconetano è lunga e complessa, così come per le principali strutture marchigiane. Un primo edificio è documentato sin dal 1665 con il nome di Teatro dell’Arsenale, distrutto nel novembre 1709 da un incendio. Dopo solo due anni venne inaugurato il nuovo Teatro della Fenice, rinascente dalle ceneri del precedente, una caratteristica ricorrente nella storia dei teatri italiani. Curioso sottolineare che alla ricostruzione del Teatro della Fenice contribuirono le donazioni di alcune facoltose famiglie, che in cambio entrarono a far parte della nobiltà anconitana. Nello scorrere del tempo e nel maturare delle nuove esigenze legate agli spazi urbani con la collocazione dell’edificio teatrale quale perno urbano a simbolo della vita culturale, nel 1819, un’apposita commissione determinò la demolizione del medioevale Palazzo del Bargello e al suo posto venne edificato il nuovo edificio che si volle dedicato alle nove Muse, raffigurate nel bassorilievo del timpano della facciata opera dello scultore Giacomo De Maria. Il Teatro delle Muse fu inaugurato nel 1827 presente Girolamo Bonaparte con due opere di Gioachino Rossini Aureliano in Palmira e Ricciardo e Zoraide. Altro ospite d’onore Vittorio Emanuele II per la stagione allestita nel 1861, in occasione dell’annessione di Ancona al Regno d’Italia, con in programma Il trovatore di Verdi. Il Teatro delle Muse, nella sua veste rinnovata, è considerato il più spazioso delle Marche, se si escludono luoghi teatrali impropri, classificato quale tredicesimo per capienza in Italia.
Il concetto del teatro quale elemento civico, modello introdotto dalla nuova concezione urbanistica dell’Ottocento, si realizza appieno nel Teatro Pergolesi di Jesi, già della Concordia. Il Teatro della Concordia venne inaugurato nel Carnevale del 1798 con esecuzione di tre operine: Lo spazzacamino principe e Le confusioni della somiglianza ossia Li due gobbi di Marcos António Portugal e La capricciosa corretta di Vicente Martín y Soler, con protagonista il soprano pesarese Anna Guidarini, madre di Gioachino Rossini. Una serata particolare, a causa delle vittorie napoleonica e del Trattato di Campoformio, con un pubblico di popolani e di giacobini “invasori”. Nel 1883 il Teatro venne intitolato a Giovan Battista Pergolesi nativo di Jesi. Precedentemente a Jesi, tra il 1728 ed il 1731 venne eretto il Teatro del Leone, una delle prime strutture “stabili” delle Marche. Per terminare la visita nella provincia di Ancona è d’obbligo una tappa al Teatro Gentile da Fabriano inaugurato nel 1884 con Aida di Verdi, terza struttura edificata nella città, dopo il Teatro dell’Aurora del 1692 e del Teatro Camurrio del 1852.


La provincia di Macerata è ricca di spazi teatrali e vanta il privilegio di avere una città, San Ginesio, dedicata al santo romano protettore degli attori e dei mimi. All’interno della regione, ci troviamo ora in quella che fu capitale del piccolo, ma importante Stato autonomo di Camerino, Signoria dei Da Varamo. Qui, dal 1728, si ergeva il teatro in legno ancora una volta intitolato al favoloso uccello sacro La Fenice. Il progetto per una nuova struttura in muratura, voluta dal Municipio e dall’aristocrazia, quindi nel sistema “misto”, risale al 1845 ed è di Vincenzo Ghinelli, architetto a cui si devono, tra gli altri, i teatri di Senigallia, Urbino, Cesena e Pesaro. Battezzato La Nuova Fenice, si apre con il Gentile da Varano del compositore Filippo Marchetti. Restaurato nel 1872, nel 1881 viene dedicato a Filippo Marchetti, con la messa in scena del suo dramma lirico più celebre il Ruy Blas, composto nel 1869. Da Camerino a Macerata, dove è operante uno dei teatri più rappresentativi della regione, dedicato nel 1884 al compositore Lauro Rossi. L’incarico di affidare il progetto per il nuovo teatro ad Antonio Galli detto il “Bibbiena” fu assegnato nel 1765 da quarantasei nobili maceratesi, che costituirono per l’impresa un condominio, volendo per la città una nuova struttura pubblica «…nell ’istesso sito ma in forma più amplia» della precedente, ovvero della cinquecentesca Sala de la Comedia. Il Bibbiena invia una pianta che ricalca il suo Teatro Pubblico, poi Comunale, di Bologna. Nella realizzazione viene mantenuta l’anomala tipologia a campana. Il teatro è un mirabile, quanto originale, esempio di prospetto urbano. Macerata è sede di un importante Festival, la cui sede principale per rappresentazioni liriche all’aperto è la suggestiva Arena Sferisterio, originalmente edificata per il gioco del pallone col bracciale. La progettazione dell’arena venne affidata nel 1823 al’architetto Ireneo Aleandri, a cui si deve, tra gli altri, il Teatro Nuovo di Spoleto, di recente dedicato alla memoria di Gian Carlo Menotti.


Proseguendo nel nostro percorso nel maceratese, ci troviamo in pieno classicismo al Teatro Comunale di Matelica, progettato da Giuseppe Piermarini nel 1805. A Giuseppe Lucatelli, pittore e architetto nativo del maceratese, si deve il progetto del Teatro dell’Aquila di Tolentino, successivamente intitolato al compositore concittadino Nicola Vaccaj. Lucatelli, allievo a Roma del pittore e storico dell’arte Anton Raphael Mengs, affascinato dal purismo francese, vi sperimenta con successo le sue doti d’architetto. Ultimati i lavori nel 1795, a causa della campagna d’Italia intrapresa da Napoleone Bonaparte, si dovette attendere per l’inaugurazione sino al 10 settembre 1797, giorno della ricorrenza di San Nicola da Tolentino. Nei primi anni del XVIII, trovandosi San Severino Marche priva di una sala di spettacolo a causa della demolizione del Palazzo Consolare, una delegazione di nobili costituirono un condominio per l’edificazione della nuova struttura in piazza Maggiore, affidandone nel 1740 la progettazione all’architetto fanense Domenico Bianconi, denominato Teatro de’ Condomini. Nel 1823 la struttura in legno risultò insicura per cui la Congregazione teatrale decise per un nuovo edificio in muratura, il Teatro Feronia, affidandone la realizzazione a Ireneo Aleandri, allievo presso l’Accademia di San Luca di Roma del neoclassico Raffaello Stern, giovane architetto locale che quello stesso anno aveva ricevuto l’incarico per l’edificazione dello Sferisterio di Macerata. Aleandri progetta una struttura elegante e slanciata verso l’alto, con pianta a ferro di cavallo, nella quale mostra per la prima volta nel soffitto le così dette unghiature bibianesche, che costituiranno in seguito una cifra distintiva del suo stile architettonico teatrale. Il sipario storico realizzato su bozzetto di Filippo Bigioli, è considerato un importante esempio di arte neoclassica. Terminati i lavori, il teatro venne inaugurato nel 1828 con Mosè in Egitto e Matilde di Shabran di Gioachino Rossini. Su una delle caratteristiche colline marchigiane, a cavallo tra la provincia di Ancona e di Macerata, a metà strada tra la dorsale appenninica e la costa adriatica, spicca lo storico centro di Montefano con il Teatro della Rondinella. La sala all’interno del Palazzo Comunale risale al 1802 e negli anni subì diversi interventi di manutenzione e ristrutturazione, fino a quello più radicale del 1887, su un’idea dell’architetto Luigi Daretti realizzata dall’ingegner Virgilio Tombolini, allora direttore tecnico al Gran Teatro la Fenice di Venezia. Chiuso per restauri, il teatro è stato riaperto nel 2004. A Recanati non potevamo che incontrare la nobile famiglia Leopardi, dove nel 1823 fu l’allora gonfaloniere Monaldo, padre del poeta Giacomo, a proporre l’erezione di un teatro tutto nuovo, in sostituzione del Teatro dei Nobili del 1719. La proposta fu accetta, ma subito iniziarono discussioni sul terreno su dove edificarlo, tanto che la città, per poter vantare il nuovo teatro dedicato al compositore concittadino Giuseppe Persiani, su disegno dell’architetto recanatese Tommaso Brandoni, dovette attendere il 1840. Per l’inaugurazione verrà rappresentata La Beatrice di Tenda di Vincenzo Bellini. Lasceremo il maceratese, solo dopo aver visitato nel comune di Penna San Giovanni, di circa mille abitanti, uno dei più piccoli teatri d’Italia: il Teatro Flora, vero gioiello architettonico edificato intorno al 1780, quasi interamente in legno, su indicazione dall’artista pennese Antonio Liuzzi, che ha conservato l’originaria decorazione barocca del pennese Antonio Liuzzi, con preziose pitture e a trompe l’oeil.


Nella provincia di Fermo e ancor prima nella sua più vasta collettività delle terre e dei castelli sotto la propria giurisdizione, ogni paese vantava la presenza di un teatro a dimostrazione di una consuetudine consolidata, per una popolazione che aveva recepito il melodramma quale parte integrante della propria formazione, sensibile alla cultura e alle novità dell’epoca. Molte delle sale teatrali della rinnovata provincia di Fermo e in particolare gli spazi presenti nei palazzi comunali dei piccoli centri, sono stati nel tempo demoliti. S’inizia dal teatro di Amandola, che percorre sentieri simili a quelli dell’intera regione. Qui il nuovo edificio viene inaugurato nel 1813 con il nome di Teatro dei Sigg. Condomini La Fenice, quindi più semplicemente La Fenice. Danneggiato dal terremoto del 2016/17, è in attesa di essere restituito al suo pubblico. Altro teatro storico nel territorio collinare del fermano è il Vincenzo Pagani di Monterrubbiano, inaugurato nel 1875, nell’area di un palazzo cinquecentesco detto il Palazzaccio della famiglia Pagani a cui appartiene il pittore Vincenzo. I restauri iniziati dal Comune nel 1984 ne hanno permesso la riapertura nel 1999. Il teatro è sede dell’Accademia di canto intitolata al celebre tenore recanatese Beniamino Gigli. Piccola perla del fermano è il Teatro dell’Iride di Petritoli, eretto nella seconda metà dell’Ottocento su progetto dell’ingegner Giuseppe Sabbatini di Montegiorgio, ispirato al Teatro della Fortuna di Fano che rappresentava, nelle Marche, l’esempio più innovativo della corrente purista, particolarmente sensibile al recupero filologico del repertorio classico.


L’inaugurazione è del 20 Maggio 1877. Dalla collina, alla costa adriatica con un altro piccolo, ma particolare teatro, il Comunale di Porto San Giorgio, sulla cui facciata troneggia la scritta del latinista francese Jean de Santeul: CASTIGAT RIDENDO MORES (-la satira- corregge i costumi deridendoli) . Inaugurato nel 1817 su disegno dell’architetto progettista Giuseppe Locatelli di Tolentino, venne intitolato a Vittorio Emanuele II nel 1860, in occasione del passaggio del re lungo la costa adriatica, avvenimento che ispirò lo scenografo Mariano Piervittori di Foligno per la pittura del sipario storico che, purtroppo, venne trafugato negli anni ’60. Dal 1992 il teatro ospita eventi di diverso genere e, con fierezza, esecuzioni del celebrato Corpo Bandistico Sangiorgese.
Brevemente, per il più recente Teatro Comunale di Campofilone, edificato negli anni 1928-1930 con una sottoscrizione pubblica di muratori e i braccianti che offrirono gratuitamente giornate di lavoro, altri sottoscrissero polizze di cento lire. Gravemente danneggiato, trasformato in ritrovo per sfollati, è stato recentemente restituito nella sua forma originaria grazie ad un attento restaurato. Con caratteristiche tutte proprie si presenta il Teatro Alaleona di Montegiorgio. Che Montegiorgio possa vantare un rilevante teatro storico non è frutto del caso, poiché l’inclinazione alla rappresentazione scenica è sempre stata una caratteristica di questa cittadinanza, testimoniata già dai secoli passati. E’ del 1869 l’iniziativa di affidare all’architetto locale Giuseppe Sabbatini di realizzare un progetto per il nuovo edificio, al cui estro si dovrà la particolare distinzione nell’assetto della sala a ferro di cavallo, con tre ordini di palchi ornati da cariatidi poste a rifinire i muri di divisione, con una sala dai rilucenti colori, restituiti dopo i recenti restauri. Il Teatro verrà chiamato inizialmente dell’Aquila ed inaugurato con la Maria di Rohan di Gaetano Donizetti. Ribattezzato nel 1914 Teatro Verdi, verrà dedicato alla memoria di Domenio Alaleona in data 8 settembre 1945 con un concerto di artisti marchigiani tra i più famosi, il tenore recanatese Beniamino Gigli e il basso di Ripatransone Luciano Neroni, direttore d’orchestra il maestro montegiorgese Mario Marcantoni. Montegiorgio manterrà, così, vivo il ricordo di Domenico Alaleona, uno dei suoi cittadini più illustri che fu compositore, scrittore, docente e fondatore della Società Nazionale di Musica Moderna, tra quella nutrita schiera di compositori che cercarono di rinnovare il linguaggio della musica all’inizio del XX secolo. Sebbene non abbia aderito al movimento futurista, tuttavia molti dei suoi atteggiamenti ne sono riconducibili, tanto da essere considerato l’unico rappresentate di questa corrente.


Centro politico e culturale del territorio nel corso dei secoli è Fermo, con il suo Teatro dell’Aquila, autentico vanto della città, tra i più significativi d’Italia per interesse storico e dimensioni. La città vantava un primo teatro “stabile” dal XVI secolo, chiamato Sala delle Commedie, oggi Sala del Mappamondo. Nel 1687 venne deciso di trasferire la sede per lo spettacolo nell’allora Gran Sala del Suffitto, oggi Sala dei Ritratti, denominata dal 1690 Teatro di Fermo oppure Sala del Teatro. Nel 1746, nello stesso luogo, venne realizzata in legno una prima struttura che, dai disegni a schizzo conservati, si presume fosse dotata d una platea di 124 posti e di tre ordini di palchi, di cui il primo diviso in “casini” e gli altri due a loggia, che prese il nome di Nuovo Teatro dell’Aquila, dall’attigua Sala dell’Aquila, quella dell’antico Concilium generale. Il 18 febbraio 1779 Il Consiglio di Cernita, essendo la sala stata danneggiata nel 1774 da un incendio sia pure di piccola entità, decise di non ricostruire il teatro nella medesima sede, bensì di «trasportarlo in sito meno pericoloso». Definitivamente accantonato il progetto Cordella-Fontana di ristrutturazione del primo piano del Palazzo degli Studi per un erigendo teatro, venne approvata l’idea di Augustoni e Paglialunga per una struttura totalmente nuova, così come citato nel verbale del Consiglio «di fianco alla strada gironale, e precisamente il semipiano alla parte di mezzo giorno, passato il Palazzo Apostolico del Governo». Il 21 agosto 1780 il terreno dove edificare il nuovo teatro venne ceduto da Monsignor Andrea dei conti Minucci, Arcivescovo e Principe di Fermo. Ritenuto non adeguato alle aspettative l’ulteriore progetto Augustoni-Paglialunga, venne affidato il nuovo incarico all’architetto Cosimo Morelli, molto presente nello Stato Pontificio a cui si doveva, sia pure di minori dimensioni, un analogo disegno per il Teatro dei Cavalieri Associati di Imola. Il 26 settembre 1790, a circa dieci anni dall’apertura del cantiere e a lavori non ultimati, venne programmata una serata «per eseguire un saggio del nostro Teatro dell’Aquila per ciò che riguarda il meccanismo e la pittura giunta al sospirato compimento e per provare l’illuminazione», con l’esecuzione dell’opera-oratorio La morte di Abele di Giuseppe Giordani detto il Giordaniello. Nell’agosto dell’anno successivo il Teatro dell’Aquila venne ufficialmente inaugurato con il dramma sacro La distruzione di Gerusalemme, sempre del Giordani, maestro di cappella della Cattedrale di Fermo. La vera e propria attività del Teatro dell’Aquila iniziò solo nel 1796 con la stagione di Carnevale, ma già l’anno successivo vennero affidate all’architetto Giuseppe Lucatelli di Magliano le prime modifiche, che riguardarono principalmente il palcoscenico, eliminando la scena a tre bocche, sostituita da un più canonico boccascena unico. Nella notte tra il 23 e 24 gennaio del 1826 un incendio danneggiò l’edificio compromettendone in parte la stabilità. Per riparare i danni tra il 1826 e il 1830 furono effettuati sostanziali lavori di restauro e rinnovamento così che la struttura assunse al suo interno le caratteristiche di stile ottocentesco che ancor oggi possiamo ammirare, con 124 palchi su cinque ordini e loggione, su progetto dall’architetto Pietro Ghinelli. Del 1828 è la realizzazione della pittura a tempera del volto, ad opera di Luigi Cochetti, autore anche del sipario storico raffigurante Armonia che consegna la cetra al genio fermano. In quegli anni fu acquistato a Parigi il lampadario a 56 bracci in ferro dorato e foglie lignee, alimentato originariamente a carburo; venne, inoltre, effettuata la commissione per alcuni fondali al celebre scenografo-pittore Alessandro Sanquirico. I sei scenari originali raffigurano una piazza con palazzo greco-romano, il luogo magnifico, bosco, interno rustico, e due interni. Gli scenari sono tornati alla luce nel corso dei più recenti lavori di restauro del teatro, insieme a 16 scenografie ottocentesche che ne rappresentavano la così detta “dote”, cioè quelle immagini a tema fisso: carcere, sala regia, sala civile, paesaggio di campagna e altre, adattabili a ogni esigenza del libretto. Le cronache del XIX secolo descrivono le stagioni liriche del Teatro dell’Aquila come vero e proprio vanto per la città, con un pubblico particolarmente esigente. In queste si può leggere che nel 1861, durante la Stagione lirica invernale, si manifestò da parte del pubblico un forte disappunto per la scarsa qualità degli artisti del Don Pasquale di Donizetti e Florina di Carlo Pedrotti, tale da far sospendere gli spettacoli e chiudere il teatro. Di tutto rilievo, eccezioni a parte, era la qualità dei cartelloni e spesso vi venivano rappresentate opere a pochi mesi dalla loro esecuzione in capitali quali Parigi, Londra e San Pietroburgo, con i più celebri artisti. Puccini fu presente il 17 agosto 1886 alla rappresentazione della sua giovanile prima opera Le Villi e successivamente nell’agosto 1896 tornò per La Bohème.

Nelle sale d’ingresso del teatro sono incastonati alle pareti diversi medaglioni raffiguranti artisti celebri che calcarono la scena del Teatro dell’Aquila nelle diverse epoche. Esempio mirabile, insieme ad altri teatri delle Marche, dell’importanza della lirica in provincia e non di provincia, come sembra essere equivocato in anni più recenti. Il teatro, sin dalla sua costruzione, manca di una facciata. Il progetto del 1865 su disegno dell’architetto fermano Gian Battista Carducci, non venne mai realizzato. A metà degli anni ’80 del Novecento, i nuovi lavori di manutenzione furono affidati all’ingegnere fermano Giovanni Monelli. Nel corso di questi e a causa di alcuni interventi all’interno con utilizzo improprio di cemento armato, che avrebbero nuociuto all’acustica della sala, i lavori furono momentaneamente sospesi dall’allora sindaco Francesco De Minicis , trovando successivamente la migliore soluzione per rimediare al’inconveniente. Un’occasione perduta, nel corso di questo recente intervento di restauro del Teatro dell’Aquila dal 1984 al 1997, è stata la mancata attuazione delle proposte dell’architetto di fama internazionale Gae Aulenti, che interessatasi alla città di Fermo venne rapita dal fascino del Teatro dell’Aquila, offrendo un progetto di straordinario valore che, se da un lato richiamava al prospetto ottocentesco del Carducci per la facciata principale, proponeva per la sala un intervento che aveva lo scopo di rimettere in valore tutto il percorso storico, stilistico e architettonico del teatro, operazione innovativa nel rispetto di tutti i passati interventi, con la valorizzazione e acquisizione di nuovi spazi. Punto essenziale del progetto era la creazione di una struttura da realizzare in acciaio e cristallo, in tutto e per tutto all’avanguardia, ma allo stesso tempo non invasiva, per la valorizzazione della parte retrostante il teatro, una volta esterna rispetto al centro storico, già deturpata negli anni ‘60 da costruzioni improprie. Qui, erano previsti passaggi tramite scale e ascensori a vista per un nuovo, agevole e mai visto nella sua originalità, accesso al teatro, che avrebbe fornito un moderno motivo d’interesse e di caratterizzazione urbana, della storica città. Un progetto di grande valore, che a causa della poca lungimiranza, divergenze politiche e diffidenza, non venne recepito, se non seguendo alcuni suggerimenti, pur fondamentali, per il risultato finale del restauro. La riapertura del Teatro dell’Aquila avvenne il giorno 8 marzo del 1997.


Restando in tema di grandi strutture siamo nel capoluogo del Piceno, ad Ascoli con il Ventidio Basso, che rappresenta, semmai ce ne fosse bisogno, un ulteriore esempio della ricchezza nelle Marche di teatri storici di valore inestimabile. Questa città è l’unica a possedere ben due edifici per lo spettacolo dal vivo di antico lustro, oltre al Teatro Ventidio Basso, il Teatro dei Filarmonici. Non per nulla il maestro Giancarlo Menotti, prima di eleggere Spoleto per il Festival dei Due Mondi, aveva proposto Ascoli quale sede della manifestazione, ma il proposito non trovò accoglimento adeguato. La storia di un edificio per lo spettacolo in Ascoli, s’identifica con la continuità della tradizione teatrale che caratterizza tutta la regione dal XV secolo ai nostri giorni. La prima struttura della città risalente al 1579 era realizzata interamente in legno e si trovava nel palazzo Anzianale, nel salone anticamente del Consiglio generale; la sua gloriosa attività si concluse nel 1839. Già nel 1827 si era ipotizzata la realizzazione di un nuovo grande edificio comunale da edificarsi sul Trivio, ovvero in prossimità della Chiesa di San Francesco non lontano della rinomata Piazza del Popolo, dove erano vari edifici di epoca rinascimentale, mentre l’Accademia dei Filodrammatici aveva in animo di costruire in autonomia un proprio teatro. Si decise di affidarne la progettazione ad Ireneo Aleandri di Sanseverino Marche, uno dei maggiori architetti del tempo, ma il progetto fu realizzato solo tra il 1840 ed il 1846, perché l’architetto aveva rinunciato per dissapori con la committenza. Gli subentrarono gli ascolani Marco Massimi e Gabriele Gabrielli con l’architetto fermano Giambattista Carducci, i quali apportarono numerose modifiche e innovazioni alle linee originali del disegno di Aleandri. Il teatro si compose con sala ovale e quattro ordini di palchi, suddivisi in 23 palchetti ciascuno ed il loggione a galleria. La facciata neoclassica, in travertino, presenta un colonnato centrale composto da sei colonne ioniche in pietra, aggiunte da Gabriele Gabrielli nel 1851. Inaugurato nel novembre 1846 con Ernani di Giuseppe Verdi e I puritani di Vincenzo Bellini, fu intitolato al generale ascolano Publio Ventidio Basso, vissuto nel I secolo a.C. che riuscì a salire i più alti gradi della gerarchia militare romana. Il teatro venne chiuso nel 1980 a causa dei danni del tempo, lesioni riportate nel terremoto del 1972 e altri deterioramenti, ma da subito ci si accorse che le condizioni della struttura portante, soprattutto il tetto e la sottostante cupola, avrebbero necessitato di ben altro impegno. La situazione sembrò ristagnare sino al 1993, quando l’allora sindaco Nazzareno Cappelli si convinse che per restituire il Massimo ascolano si dovevano accelerare i tempi con un provvedimento straordinario, così che fu fissata la data di ottobre 1994 per la riconsegna del teatro. Nell’agosto 1994, in prossimità della festa di Sant’Emidio, venne in Ascoli da Praga Josef Svoboda, celebre scenografo, innovatore dei mezzi dei mezzi di palcoscenico attraverso l’impiego di esperienze creative, che in un sopralluogo indicò soluzioni sceno-tecniche, fondamentali per la dotazione del teatro. In meno di un anno, accelerati i passaggi amministrativi e con la collaborazione di tutti, il 15 ottobre 1994, preceduto dall’esecuzione dell’Inno di Mameli con il pubblico in piedi ed emozionato, il teatro venne riaperto con una indimenticabile nuova produzione de La traviata di Verdi, con Giusy Devinu, Giuseppe Sabbatini, Roberto Servile, primo ballerino Raffaele Paganini, scene di Carlo Centolavigna collaboratore di Franco Zeffirelli, costumi di Anna Biagiotti confezionati nella Sartoria Tirelli. Il direttore Giuliano Carella ringraziò per essere stato prescelto, perché mai aveva avvertito una così forte condivisione di un’intera cittadinanza, partecipe con emozione a un evento culturale. Il Ventidio ritornò, in quegli anni, per la qualità delle produzioni, ad essere al centro dell’attenzione nazionale ed estera. Il Teatro dei Filarmonici, già dei Filodrammatici, venne costruito tra il 1829 ed il 1831 nelle vicinanze della sede dell’Accademia dei Filodrammatici di Ascoli. A causa dello scioglimento dell’Accademia nel 1860, il teatro fu gestito dall’Amministrazione comunale e nel 1897 acquistato dalla Società Filarmonica Ascolana. Passato di proprietà, la sala fu utilizzata per proiezioni cinematografiche; infine nel 1994 ceduto al Comune che provvide a far eseguire un accurato restauro. Il teatro si presenta in forma di ferro di cavallo, con platea, quattro ordini di palchi e loggione ed è stato riaperto il 20 maggio 2018.
Lungo la consolare Salaria sino a Castel di Lama, dove nell’affascinate Borgo Storico Seghetti Panichi sono in corso importanti lavori di ripristino, che prevedono nel giardino storico il ripristino di un teatro di verzura e iniziative legate alla ripresa della vita culturale e musicale del territorio. Si gira alla rotonda in direzione Offida, dove è ubicato un teatro dal nome affascinante: Teatro Serpente Aureo, dalla tradizione che vuole che in età preromana vi fosse un tempio dedicato al mitico Serpente d’Oro: “Ophite”, raffigurato sul sipario storico del Teatro dipinto da Giovanni Battista Magini. E’ documentato che prima del 1768 esistesse in una sala del Palazzo comunale un palcoscenico a «guisa di teatro», costruito «senza distinzione di ceto». Questo non piacque all’aristocrazia tanto che «per riparare», così è riportato in un verbale datato 8 luglio 1768, fu accolta la proposta per realizzare una struttura di legno con palcoscenico e 29 palchetti in giro di tre ordini. Il lavoro venne completato nel 1771, ma ben presto si rivelò troppo piccolo, poiché molte delle famiglie nobili erano rimaste senza palco. Il 21 ottobre 1801 venne affidato a Paolo Cipolletti l’incarico di rinnovarlo su disegno di Pietro Maggi, architetto ticinese che si stabilì nelle Marche al seguito del padre Carlo, molto attivo nella Bassa Marca, specialista nell’inserire le sue sale per lo spettacolo negli antichi palazzi comunali. Il progetto per Offida consisteva in un nuovo edificio dal costo di 900 scudi, ma nonostante la spesa fosse stata approvata nella seduta consiliare del 15 gennaio 1802, non si trovò alcuna impresa disposta ad eseguire il lavoro per una somma giudicata esigua. Nel frattempo Pietro Maggi era tornato ad Offida e aveva proposto un secondo progetto che prevedeva soluzioni più economiche. Pietro Maggi essendo venuto a mancare nel 1816, non poté assistere alla costruzione del nuovo teatro, la cui realizzazione ebbe inizio solo nel 1820, dopo che i signori del luogo convinsero un intraprendente imprenditore a realizzare il lavoro nei pressi del cortile a “tramontana” del Palazzo comunale. L’attuale Teatro risale al 1862, ampliato e decorato dall’artista offidano Alcide Allevi, ricavato demolendo parte dell’antica Casa comunale, soprannominato “La Bomboniera”. Come molti altri teatri nella Marche e soprattutto nel territorio del Piceno, nel periodo di Carnevale la sala viene utilizzata per i veglionissimi.Ancora l’architetto Pietro Maggi nel 1790, per lo studio di un progetto di teatro da realizzarsi all’interno del trecentesco Palazzo del Podestà di Ripatransone per la cui apertura, sebbene incompleto, si dovrà attendere sino al 1824: il Teatro del Leone. In una seconda fase, venne assegnato l’incarico all’architetto Francesco Bassotti, che ne seguì i lavori di completamento con riapertura nel 1843 con Lucia di Lammermoor di Gaetano Donizetti. Nel 1894 il teatro venne intitolato al poeta risorgimentale, lo “spigolatore” ripano Luigi Mercantini.


Terminato il nostro giro per i teatri storici delle Marche in gran parte restaurati e restituiti alla cittadinanza, si apre ora un’altra fase, tutt’ora parzialmente irrisolta, quella della gestione e della promozione, che fa i conti con i problemi di abbondanza di edifici preposti allo spettacolo dal vivo e quindi di necessaria razionalizzazione dell’offerta. Eppure, mai come in questo lungo periodo di pandemia, si è sentito così indispensabile l’andare a teatro, non solo come esigenza culturale di approfondimento, ma soprattutto come ritrovo di luogo di aggregazione, di scambio intellettuale e distacco mentale dall’impegnativo vivere quotidiano. Questo straordinario unicum dei teatri storici delle Marche nel panorama europeo rappresenta, inoltre, una potenziale offerta turistica, culturalmente senza uguali. Perché oggi, così come al momento della loro costruzione, devono tornare a rispondere a un processo di socializzazione e di rilancio occupazionale della comunità.


Vincenzo Grisostomi Travaglini

Vincenzo Grisostomi Travaglini (Photo: Giovanni Pirandello)

“Scherzo lirico”, un articolo del Maestro Vincenzo Grisostomi Travaglini in “L’Opera International Magazine”, Marzo 2021

Uno scherzo lirico, assai vivace, briosamente soprannominato Il pasteggiar cantando, che vede alla ribalta ricette ideate o dedicate ai più celebri personaggi del melodramma, in prevalenza italiano e francese.

Nell’Ottocento grandi cuochi vollero cimentarsi in piatti che prendessero il nome dei beniamini del pubblico del melodramma, dal celebre compositore parigino Giacomo Meyerbeer, a Bizet e Berlioz. Il più noto protagonista, però, resta l’inappagabile Gioachino Rossini, raffinato gourmet e complice dei più noti chef della Parigi dell’epoca, da Marie-Antoine Carême detto il cuoco dei re e il re dei cuochi al celebrato Auguste Escoffier la cui cucina entusiasmò a tal punto Guglielmo II da fargli affermare: «Io sono l’imperatore di Germania, ma tu sei l’imperatore degli chef». Se Rossini è ben conosciuto nel mondo della gastronomia, meno consueto è l’imbattersi con altri buongustai, quali furono Giuseppe Verdi e Giacomo Puccini. Verdi prima d’intraprendere un viaggio inviava agli amici e ospiti ricette scritte di suo pugno, affinché al suo arrivo potesse deliziarsi dei suoi piatti preferiti. Puccini si ritrovava con i suoi amici nel Club La bohème dove nello statuto erano previsti cibi prelibati, soprattutto cacciagione e vini senza parsimonia. Vietato, sempre nello statuto de La bohème, esimersi dai piaceri della tavola.

Un passo indietro, agli albori del XVII secolo, a Firenze e l’occasione sono le storiche alleanze matrimoniali; una di queste furono i grandiosi festeggiamenti in occasione del matrimonio di Cristina di Lorena con il granduca di Toscana Ferdinando de’ Medici. Tra banchetti favolosi, siamo all’alba della nascita del melodramma, protagonista è la progenitrice della figura della primadonna Vittoria Archillei, interprete del primo degli Intermedi eseguito nel Regio Salon di Palazzo. Nel 1608 saranno ancora una volta i cantanti ad avere la scena nel banchetto di nozze di Cosimo II de’ Medici con Maria Maddalena arciduchessa d’Austria: Vittoria Archilei, Francesca e Settimia Caccini, Melchiorre Palantrotti, il meglio che all’epoca si potesse chiedere alla scena canora. In quel lontano 1608 nel Salone dei Cinquecento, a Palazzo Vecchio a Firenze, vennero servite sei portate ed è ben precisato nelle cronache dell’epoca “abbondanti”: pavoni, capponi, tortore, fagiani, galli, mandorle, pistacchi, pan di spagna, bietole, prugne e mele; in tavola predominava sempre e comunque il sapore agrodolce. Così che tra banchetti, con timballi, fagiani, pernici e tanto vino, nacque il melodramma. All’epoca quella musica venne definita: “musica celestiale per chi ama il cibo degli dei”, con un buon condimento, aggiungerei, di piacere profano.

La felice unione tra musica e cibo è, in realtà, ben antica. L’uso d’accompagnare i banchetti con musiche risale fin dai tempi degli Egizi, per essere ripreso da Greci, Etruschi e Romani. Metà Odissea è cantata a un pranzo; la petroniana Cena di Trimalcione è interamente a ritmo di musica, perfino la liturgia missale è esaltazione cantata di un pasto rituale. La tradizione, che perdurò nel corso del Medioevo, si rinvigorì a partire dal ‘400. Per i conviti solenni, a cominciare dai pranzi di nozze, la presenza di cantori e musici era d’obbligo. Nei banchetti ufficiali delle corti, al liuto ed all’arpa era assegnato: “il compito di deliziare con delicate danze strumentali, le orecchie degli illustri commensali“. Nei pranzi domenicali e nelle occasioni speciali, si aggiungevano a questi “i trombetti, i corni e i piffari“. Nella cucina barocca i ricchi amavano lo sfarzo anche attraverso l’uso di spezie, che arrivavano direttamente dall’Oriente. Per un lungo periodo perfino il riso fu considerato una spezia, prima che se ne scoprisse l’utilità in cucina, dal dolce al salato. In questa fase storica il cibo diventava spettacolo, i banchetti erano una vera e propria messa in scena di piatti elaboratissimi, tagliati e serviti seguendo determinati movimenti, sempre volti a ricercare lo stupore dei commensali. Michel-Richard Delalande pubblica nel 1703 Les Symphonies pour les Soupers du Roy, composte come sottofondo musicale ai pasti di Luigi XIV. Georg Philip Telemann chiamò le sue grandiose suites Tafelmusik (Musica da tavola), forse per farci capire che la musica deve non solo essere ascoltata, ma anche degustata come se fosse cibo prelibato. L’espressione Musica da tavola, più nota nella versione tedesca e in quella francese Musique de table, designa il variegato repertorio di brani espressamente composti per essere eseguiti durante il banchetto. Di musiche da tavola ne scrive ad esempio Giovanni Battista Lulli (Jean-Baptiste Lully). Anche Beethoven compose musica da tavola, l‘Ottetto per fiati op. 103 del 1792, scritto per allietare la mensa dell’Elettore di Bonn e in tempi più recenti Paul Hindemith e molti altri. Cibo e musica vanno a braccetto da sempre e presentano anche similitudini lessicali; un piatto si compone e Leonard Bernstein ha ideato il ciclo delle “quattro ricette” per voce e pianoforte, basato su un testo che si chiama La bonne cuisine. Non dimentichiamoci dei direttori d’orchestra che amavano cucinare, quali ad esempio Karajan e Erich Kleiber, quest’ultimo affermò ed è quanto mai attuale: «Ascoltare solo musica registrata e non andare ai concerti è come mangiare solo cibi in scatola. E invece fa bene mangiare cibi freschi».

Da Firenze a Venezia, nel fulgore della gloria della Serenissima, con Antonio Vivaldi che come ci riportano le poche cronache concernenti la vita privata del musicista, non poteva rinunciare al risotto in tutte le sue più fini declinazioni, come pure del pesce; riso usato in circa 220 piatti durante l’epoca barocca. Ispirandosi all’opera di Vivaldi e seguitando la scia dei profumi musicali, si è voluto scherzare molto vivacemente con “interpretazioni” venete del riso sulla più celebre composizione del Prete Rosso: Le quattro stagioni. Senza voler forzare il paragone, per l’Inverno si è volto scegliere la ricetta del riso e cavolfiore; certamente il risotto risi e bisi ben si sposerebbe con la Primavera, questa portata era d’obbligo il 25 aprile, giorno di San Marco patrono della città; per l’Estate risotto alle seppie; infine  il risotto ai finferli (gallinacci)  e prosecco per quanto riguarda le nebbie lagunari evocate nell’Autunno. Il riso, che tanto amava Vivaldi, era arrivato nella Repubblica di Venezia dai paesi arabi, per poi essere coltivato nel veronese.

Eccoci nelle Marche con tre grandi compositori, in ordine cronologico: Giovan Battista Pergolesi, Gaspare Spontini e ovviamente il gastronomo per eccellenza che in questo incontro la farà da protagonista, Gioachino Rossini. A Giovan Battista Pergolesi, nato a Jesi nel 1710, è legato un piatto all’epoca caratteristico della sua città natale la Coratella d’agnello con cipolla alla Giovan Battista Pergolesi, una ricetta d’uso comune dei cordai jesini, che vivevano a pochi passi dalla casa natale del celebre compositore. Nell’intermezzo buffo La serva padrona di Pergolesi la cioccolata è quasi il fulcro della vicenda, così in Mozart l’astuta Despina del Così fan tutte prepara una cioccolata che poi servirà alle sue dame in preda a un attacco di malinconia d’amore. Mozart, lo incontreremo nuovamente al momento del dolce, era particolarmente bramoso di chocolate e a lui sono state dedicate molte ricette che fanno del cacao l’ingrediente principale. Molti grandi musicisti ne erano ghiotti, da Rossini a Verdi. Tornando alla Marche, un gran goloso di chocolate era Gaspare Spontini la cui moglie, Celeste Erard, ha lasciato una ricetta, Crème au chocolat râpé (Crema alla cioccolata grattugiata), tramandataci in un manoscritto ancor oggi conservato a Jesi. Andiamo per ordine, non abbiamo che accennato a Gioachino Rossini e riconducibili alla musica da tavola sono le brevi composizioni per pianoforte del pesarese intitolate ad antipasti e dessert, composte a Parigi in epoca matura, «le sole infrazioni» come lui stesso scherzosamente le aveva definite, alla decisione del compositore presa nel 1829 di non scrivere più musica. In realtà, fortunatamente, non sono le sole “infrazioni” raccolte nei 13 volumi che Rossini stesso chiamerà, con delizioso sarcasmo, i suoi Péchés de vieillesse (Peccati di vecchiaia), brevi composizioni alle quali Rossini darà titoli ironici e dissacranti, quali Quatre hors-d’oeuvres, nei quali c’è un’intera collezione di brani per pianoforte chiamati  Antipasti (ravanelli, acciughe, burro…) e quattro Desserts di frutta secca (fichi, uva, mandorle, noci).

Altro argomento è quello dei grandi cuochi dell’Ottocento, per non risalire a epoche più remote, che hanno dedicato le loro creazioni a compositori o cantanti. Nella sola cucina francese esistono quattro tipi di uova a tema: alla Daniel Auber, in camicia e poste su pomodori ripieni di pollo e tartufo tritati, poi coperti con salsa vellutata; alla Hector Berlioz, alla coque, accompagnate da croustades, patate duchesse, tartufo e funghi in salsa di Madeira; alla Georges Bizet, cotte in stampini foderati con lingua sott’aceto e servite su cuori di carciofo con salsa Périgueux e alla Giacomo Meyerbeer , in cocotte, guarnite con rognone d’agnello alla griglia. Il leggendario Auguste Escoffier s’innamorò a tal punto della Carmen di Bizet da volerle dedicare ben due ricette, le Costolette d’agnello e l’Insalata di pollo, ovviamente dette alla Carmen. A Bizet è anche dedicata la Torta che porta il suo nome, che unisce meringa e crema al burro. Di Georges Bizet da Le Docteur Miracle è doveroso citare Il brillante Quartetto de l’omelette. Tra le tante ricette dedicate a Giacomo Mayerber, il compositore per eccellenza del grand-opéra, è il Filet mignon à la Meyerbeer, ma in particolare queste ricette risulterebbero al palato odierno tra le più impegnative. In Francia nacquero, inoltre, i famosi Tournedos alla Rossini, detti la Suprema esagerazione per via del connubio fra filetto, burro, foie gras, pane, tartufo nero e salsa al Madeira, anche se non si sa con certezza il nome del primo chef a prepararli; forse il rinomato cuoco Marie-Antoine Carême o altrimenti l’altrettanto noto Casimir Moisson. Di sicuro la ricetta scaturì dalla fantasia inarrestabile del golosissimo genio pesarese. Gioachino Rossini, soprattutto nel suo secondo periodo parigino, si appassionò così tanto all’arte culinaria e alla mondanità da essere denominato il Principe della gastronomia. Elaborò anche diversi piatti, che andremo a indagare più avanti. A lui in epoca recente è stato anche dedicato il famosissimo Cocktail Rossini a base di fragole e prosecco, una variante del Bellini, che però non prende il nome da Vincenzo, il compositore catanese, come si potrebbe credere, bensì dal pittore Giovanni Bellini.

Altri compositori buongustai finirono per battezzare il loro piatto prediletto quali Niccolò Paganini per i ravioli al ragù; un prezioso manoscritto autografo conservato presso la Library of Congress di Washington ci racconta come il sommo Niccolò Paganini, oltre ai 24 Capricci per violino solo, compilò la sua personale ricetta del sugo di manzo per i Ravioli alla genovese. La descrizione che ne segue è gastronomicamente ineccepibile: «Per una libbra e mezza di farina due libbre di buon manzo magro per fare il suco. Nel tegame si mette del butirro, indi un poco di cipolla ben tritolata che soffrigga un poco. Si mette il manzo, e fare che prenda un po’ di colore. E per ottenere un suco consistente si prende poche prese di farina, ed adagio si semina in detto suco affinché prenda il colore. Poi si prende della conserva di pomodoro, si disfa nell’acqua, e di quest’acqua se ne versa entro alla farina che sta nel tegame e si mescola per scioglierla maggiormente, e per ultimo si pongono entro dei funghi secchi ben tritolati e pestati; ed ecco fatto il succo. Ora veniamo alla pasta per tirare le sfoglie senza ovi. Un poco di sale entro la pasta gioverà alla consistenza della medesima. Ora veniamo al pieno. Nello stesso tegame colla carne si fa in quel suco cuocere mezza libbra di vitella magra, poi si leva, si tritola e si pesta molto. Si prende un cervello di vitello, si cuoce nell’acqua, poi si cava la pelle che copre il cervello, si tritola e si pesta bene separatamente, si prende quattro soldi di salsiccia luganega, si cava la pelle, si tritola e si pesta separatamente. Si prende un pugno di borage chiamata in Nizza boraj, si fanno bollire, si premono molto, e si pestano come sopra. Si prendono tre ovi che bastano per una libbra e mezza di farina. Si sbattano, ed uniti e nuovamente pestati insieme tutti gli oggetti soprannominati, in detti ovi ponendovi un poco di formaggio parmigiano. (…)». Come si nota leggendo, tra gli ingredienti Paganini fu uno dei promotori e cultori dell’uso del pomodoro in cucina, in un’epoca in cui questo ortaggio iniziava ad imporsi quale alimento.

Nella letteratura epistolare di compositori e interpreti, spesso, più che parlare di musica ci si scambiano ricette o curiosità culinarie! E’ risaputo che nel mondo dell’opera i piaceri della tavola rappresentavano parte integrante della vita dei più importanti compositori. «Mangiare e amare, cantare e digerire: questi sono in verità i quattro atti di questa opera buffa che si chiama vita e che svanisce come la schiuma d’una bottiglia di champagne», questa frase suona lapidaria e la si potrebbe definire il “credo” di Gioachino Rossini. Durante tutta la sua vita, da Pesaro a Bologna, Firenze e infine Parigi, allora vera capitale della gastronomia, Gioachino Rossini non fu solo il musicista dalla sterminata bibliografia, bensì un uomo con tanti interessi culturali e politici. Si racconta che a sei anni facesse il chierichetto e che regolarmente fosse sgridato per aver bevuto dalle ampolle di vin santo nelle sacrestie delle chiese di Pesaro. Un altro episodio viene spesso citato: nel 1816, la prima rappresentazione de Il barbiere di Siviglia al Teatro Argentina di Roma fu un insuccesso. Comunicando l’accaduto al suo grande amore, la cantante Isabella Angela Colbran, Rossini tenne a precisare: «(…) ma ciò che mi interessa ben altrimenti che la musica, cara Angela, è la scoperta che ho fatto di una nuova insalata, della quale mi affretto ad inviarti la ricetta (…) prendete dell’olio di Provenza, mostarda inglese, aceto di Francia, un po’ di limone, pepe, sale, battete e mescolate il tutto; poi aggiungete qualche tartufo tagliato a fette sottili. I tartufi danno a questo condimento una sorta di aureola, fatta apposta per mandare in estasi un ghiottone. Il cardinale segretario di Stato, che ho conosciuto in questi ultimi giorni, mi ha impartito, per questa scoperta, la sua apostolica benedizione». Un’altra storia, forse leggenda, è quella di Rossini seduto in un ristorante di Venezia in attesa della cottura del suo risotto e qui compose l’aria di Tancredi con la cabaletta: Di tanti palpiti, che dopo la prima dell’opera il 6 febbraio 1813 al Gran Teatro la Fenice di Venezia divenne il brano più in voga in tutta Europa e fu soprannominata, date le particolari circostanze: ‘’l’aria del risotto di Rossini’’. Il palato del pesarese era non solo goloso, ma anche pronto agli abbinamenti più bizzarri, raffinato in fatto di vini ed insaziabile, i suoi piatti traboccano di tartufi, olive, fois gras, burro, carni, uova, stufati, zamponi e rognoni. Molte furono le ricette a lui dedicate, ma nei 39 anni di silenzio musicale riuscì a esprimere il suo talento e creatività con ricette proprie. Non aveva solo un grande appetito, ma era anche una fonte di sapienza in cucina; le sue ricette spaziano dai Tournedos, alla Torta Guglielmo Tell, un dolce servito in occasione della “prima” a Parigi nel 1829: naturalmente riferendosi al leggendario eroe svizzero, a base di mele, decorata con un pomo trafitto da una freccia di zucchero. Non è un caso che Rossini abbia confessato di aver pianto soltanto tre volte nel corso della sua vita, cioè dopo i fischi indirizzati alla sua prima opera, quando ascoltò il violino di Paganini e dopo la caduta di un tacchino farcito con i tartufi mentre era in barca per una gita. Il tacchino farcito doveva essere senza dubbio uno dei suoi piatti preferiti, a riguardo disse: «Per mangiare il tacchino bisogna assolutamente essere in due: io ed il tacchino». La pasta ripiena era un altro piatto a cui non poteva resistere, lui stesso ideò una ricetta: I maccheroni alla Rossini, per i quali utilizzava parmigiano reggiano, tartufi tritati, brodo, burro, spezie, prosciutto magro e panna. Sono molti i piatti ideati da Rossini o a lui dedicati che vale la pena ricordare; il più famoso sono i Tournedos, filetti di manzo con tartufo nero e fois gras. Non vanno dimenticati il Consommé di coda di bue al tartufo, gli Spaghetti alla Scala (sempre con una generosa spolverata di tartufo) e le Uova alla Rossini, ovvero dei tuorli d’uovo arricchiti con besciamella e fois gras, racchiusi all’interno di un guscio di pasta sfoglia. Apprezzava la cucina originaria delle sue native Marche, la cucina italiana, quella francese e quella internazionale. Da ciascuna traeva ciò che conveniva al suo gusto cosmopolita: si faceva portare dal suo amico Giovanni Vitali le olive da Ascoli Piceno, il panettone da Milano, vari tipi di stracchino dalla Lombardia, gli zamponi da Modena, la mortadella ed i tortellini da Bologna, il prosciutto da Siviglia, i formaggi piccanti o fermentati dall’Inghilterra, la crema di nocciole da Marsiglia ed infine le sardine royal, che gli ammiratori facevano a gara per mandargli. Pur apprezzando le finezze della cucina francese, non risparmiava lazzi all’indirizzo dei gusti del Paese che lo ospitava, come ben testimonia questa sua frase: «Gli amici gallici preferiscono la ricotta al formaggio, locchè equivale al preferire la romanza al pezzo concertato. Ah tempi! Ah miserie!». La sua vera passione erano i prodotti genuini e caserecci italiani, suoi compagni d’infanzia. Scrive al vecchio amico Marchese Antonio Busca: «(…) i due stracchini ricevuti … mi procurano la dolce reminiscenza della augusta madre sua che fu la prima a farmi gustare i nobili prodotti di Gorgonzola. Oh tempi felici! Oh gioventù!» La ricetta dei suoi maccheroni venne scritta sotto dettatura dello stesso Rossini il 26 dicembre 1866: «Per essere sicuri di poter fare dei buoni maccheroni, occorre innanzitutto avere dei tegami adeguati. I piatti di cui io mi servo vengono da Napoli e si vendono sotto il nome di terre del Vesuvio. La preparazione dei maccheroni si divide in quattro parti. La cottura è una delle operazioni più importanti e occorre riservarle la più grande cura. Si comincia col versare la pasta in un brodo in piena ebollizione precedentemente preparato; il brodo deve essere stato passato e filtrato; si fa allora cuocere la pasta su un fuoco basso dopo avervi aggiunto alcuni centilitri di panna e un pizzico di arancia amara. Quando i maccheroni hanno preso un colore trasparente per il grado di cottura, vengono tolti immediatamente dal fuoco e scolati sino a quando non contengano più acqua. Li si tiene da parte prima di essere sistemati a strati con parmigiano e tartufo». Negli anni venti dell’Ottocento a Parigi eccelleva il “divino” cuoco Marie-Antoine Carême che, dopo aver lavorato per i più importanti personaggi del suo tempo, gestiva le cucine dei Rothschild. Fu proprio in casa Rothschild che i due si conobbero e da quell’incontro nacque un’amicizia fatta di stima e d’affetto. Carême sosteneva che Rossini fosse il solo che lo aveva saputo comprendere; il Maestro rispose con una composizione musicale titolata: “Da Rossini a Caréme”. Caréme gli dedicò molti piatti, così come un altro celebre cuoco Auguste Escoffier autore del libro di ricette divenuto la bibbia della cucina moderna; nella sua Le Guide Culinaire ci sono talmente tante ricette dedicate a Rossini che si potrebbero compilare interi menu quali «leccorniose orchestrazioni» e non semplici liste di pietanze. Fu nel 1864 che il barone Rotschild mandò in dono al musicista alcuni grappoli provenienti dai suoi vigneti, che di tutta risposta in una missiva rispose come ringraziamento: «(…) la vostra uva è eccellente, ve ne ringrazio, ma il vino in pillole non mi piace affatto», sicché in cambio gli vennero recapitate alcune bottiglie del suo vino: il Chateau-Lafite. Questo aneddoto delinea in Rossini non solo la passione per la tavola, ma anche per il vino, di cui era esperto conoscitore e bevitore, tanto che discettava con produttori e cantinieri sui metodi di imbottigliamento e produzione, accrescendo così le sue conoscenze in campo enologico. Presso la Biblioteca Laurenziana Medicea di Firenze è custodito un menu, redatto dallo stesso compositore, particolarmente interessante per l’attento abbinamento dei vini ai piatti: il Madera ai salumi, il Bordeaux al fritto, il Reno al pasticcio freddo, lo Champagne all’arrosto, l’Alicante e la Lacrima a frutta e formaggio. La sua cantina conteneva di tutto, dal suo vino personale imbottigliato nelle isole Canarie alle bottiglie di Bordeaux, dal vino bianco di Johannesburg che Metternich gli inviò da Malaga, a bottiglie di raro Madeira, da bottiglie di Marsala al Porto della Riserva Reale che il Re del Portogallo, suo fanatico ammiratore, gli aveva donato.

I piaceri della tavola sono da sempre parte integrante della vita dei più importanti compositori d’opera. Si racconta di un Rossini apprensivo che durante la visita di Richard Wagner nella sua villa di Passy alle porte di Parigi si alzò più volte durante la conversazione per poi tornare a sedersi dopo pochi minuti, giusto per innaffiare la lombata di capriolo.  Rossini curava personalmente i suoi piatti, a volte abbandonando per qualche minuto i suoi ospiti, come accadde per Wagner su cui, a Parigi, girava una voce inquietante, ovvero si sospettava che fosse vegetariano. Peccato mortale!

Per Vincenzo Bellini ci viene subito in mente la Pasta alla Norma. Un piatto che, stando alla tradizione, adottò il nome del capolavoro di Bellini per ripagarlo del fiasco della prima scaligera del 1831. La prima della Norma fu accolta con freddezza alla Scala e Bellini dichiarò: «Fiasco, fiasco, solenne fiasco»e pare che abbia inoltre commentato:«I milanesi non hanno ancora digerito il risotto di ieri». In realtà la nascita della pasta alla Norma è molto più recente ed ha una data ben precisa, quella dell’ autunno del 1920. Occorre, però, far una breve premessa: “Pari ‘na Norma” ovvero “sembra una Norma”, era il paragone corrente, il massimo complimento per i catanesi, Catania città natale di Vincenzo Bellini, per magnificare oltre ogni dire tutto ciò che amavano, ammiravano e gustavano. Dunque il luogo è Catania, precisamente la via Etnea e fu lo scrittore e poeta Nino Martoglio che di fronte ad un piatto di pasta con pomodoro, basilico, melanzane fritte e ricotta salata battezzò “alla Norma”, ovvero sublime, questa ricetta. A Bellini piaceva frequentare i salotti del bel mondo, a Napoli e soprattutto a Milano, di palato raffinato, ma delicato. A lui, soprannominato il Cigno di Catania, sono stati dedicati recentemente nella città natale I cigni, praline di purissimo cioccolato di Modica che si ispirano alle dieci opere del celebre compositore.

Nel Gianni da Parigi di Donizetti vi è una gustosa pagina musicale che è paragonabile ad un menu, la scena così detta dei perniciotti: “Eccellenza… se vedesse… perde un pranzo da sovrano /  È squisito… sorprendente. Che portate! Che apparecchi! Quanti vini, e tutti vecchi! / Passerotti, starne, tordi, perniciotti… /  Un storione.  / Pasticcini, pasticcetti, salse, intingoli, guazzetti, e per colmo in un gran piatto un superbo vol au vent. / Poi faggiani… / Squisitissime omelettes, ma soufflées. / In qual bivio, (oh Dio! Mi-mal lo mette) Il decoro e l’omelette! Qual contrasto nel mio/suo core / fra l’onore e il vol au vent! / (…)  E quel fagiano!… (…) il mio-suo cervello girar farà. / (…) Dunque io vado. / L’ova e il pane a preparar”. …Cosa dire, poi, di Johann Strauss che compose una cotolekt-polka per esaltare la famosa cotoletta impanata, sulla cui paternità ancora oggi si contendono milanesi e viennesi!

Giuseppe Verdi fu uomo di mondo, ma egli stesso amava definirsi  pur sempre un contadino della Bassa. E’ la festa di san Donnino, il 10 ottobre del 1813, per le vie di Le Roncole, piccola frazione di Busseto in provincia di Parma, si aggira un gruppo di suonatori girovaghi. In una modesta casa colonica adibita a posteria, Carlo Verdi gestisce un’osteria in cui si preparano pasti per i viandanti e i passeggeri delle diligenze. Alle otto di sera nasce suo figlio Giuseppe. Giuseppe Verdi rimase sempre legato alla sua origine e amò i frutti della sua terra tanto da portarli con sé nei suoi viaggi o farseli spedire a destinazione. Grande è l’attenzione che il compositore dimostra nei confronti della terra e dei suoi prodotti. Come si può pensare a Sir John Falstaff senza l’Osteria della Giarrettiera? A Verdi furono dedicate da cuochi famosi molte ricette, una delle più conosciute è il Risotto Giuseppe Verdi, ideato e dedicato al Maestro dallo chef francese Henri-Paul Pellaprat. Pellaprat scrisse diversi manuali di gastronomia francese tra cui L’arte della cucina moderna e diresse la scuola di alta specializzazione Le Cordon Bleu fondata a Parigi nel 1895. Nella ricetta dedicata al bussetano: riso carnaroli, burro, funghi coltivati, punte di asparagi, prosciutto crudo, pomodori pelati, panna da cucina, brodo di carne, cipolla e non poteva mancare il Parmigiano Reggiano. In realtà, la preparazione di questo risotto non è del tutto frutto dell’ingegno di Pellaprat, bensì della moglie di Verdi, Giuseppina Strepponi, che in una lettera svela a Camille Du Locle, direttore de l’Opéra-Comique di Parigi, la ricetta del «maître pour le risotto», un piatto che a Giuseppe riesce particolarmente bene e che è per molti versi simile, se non uguale, a quella firmata dallo “chef” parigino. Vi era, però, una ricetta che Giuseppe Verdi gradiva particolarmente, quella de La spalla cotta. La spalla cotta è un prodotto tipico della Bassa (pianura Padana) e spesso Verdi la inviava agli amici, accompagnandola con affettuose istruzioni per l’uso: «Prima di cuocere la spalla – secondo le indicazioni del Maestro, occorre – (…) levarla di sale (…) lasciandola per due ore in acqua tiepida. Si pone quindi la spalla in una pentola che la contenga e si riempie di acqua; si lascia cuocere a fuoco dolce per almeno sei ore. Si lascerà raffreddare nel brodo di cottura, quindi si asciugherà e sarà pronta da gustare». Un ritratto sulle abitudini gastronomie di Giuseppe Verdi è tratteggiato dal poeta e musicista Arrigo Boito: «Il Maestro ama i pranzi prolissi e le opere concise. Cucina poderosa dei vecchi tempi. Gli piace anche la moderna quando è all’Hotel ed è finissimo assaporitore. Ma a casa sua… vuole le grandi fette di bue condite con la mostarda di Cremona, i funghi in aceto, la salsa verde. Quasi tutta la sua vita mangia, a desinare, un mezzo ovo sodo dopo l’arrosto. Il suo desinare in casa è composto di antipasti, d’una minestra, per solito sostanziosa (risotto, pasta asciutta, ravioli in brodo), d’un piatto di carne lessa, d’una frittura abbondante, d’un arrosto, d’un dolce formaggio, desert varii. Un’ora dopo il desinar fabbrica lui stesso il caffè».

Spaziando nel mondo dei compositori potremo fare molti altri esempi; viene narrato a tale proposito un episodio ambientato durante una cena avvenuta a Milano tra Pietro Mascagni e l’amico Giacomo Puccini, mentre i due ricordavano gli anni di studi e sacrifici condivisi nella stessa stanzetta a Milano, fra loro sarebbe esplosa una goliardica discussione sul se era più succulento un piatto di cacciucco livornese o una folaga rosolata lucchese. Per Mascagni non vi erano dubbi, migliore è il caciucco poi denominato alla Mascagni, che il compositore amava aromatizzare con salvia e zenzero. Nel 1901 il rinomato pasticciere Antonio Lo Verso, in occasione del debutto a Palermo di Iris di Mascagni, creò un dolce fritto da servire per la prima colazione, ripieno di crema alla ricotta. Nel 1930 Pietro Mascagni compose La danza dei gianduiotti per il Teatro Regio di Torino, in onore dei principi Umberto di Savoia e Maria José.

Il tema dell’amicizia che torna a tavola è quanto mai presente con Puccini. Egli coltivò sempre il piacere nell’arte del cucinare, ad esempio assieme all’amico Mascagni durante gli studi milanesi preparando piatti poveri, ma gustosi. Negli anni giovanili Puccini si dimostrò, quando poté, molto attento ai piaceri della tavola, concludendo le giornate lavorative di fronte a una sostanziosa cena. Se i soldi mancavano, da buona forchetta, si divertiva a creare personalmente ricette come la Pasta con le anguille o le Aringhe coi ravanelli. Così scriveva negli anni di studio, caratterizzati da ristrettezze economiche: «(…) La sera, quando ho quattrini vado al caffé, ma passano moltissime sere che non ci vado, perchè un ponce costa 40 centesimi… Mangio maletto, ma mi riempio di minestroni…e la pancia è soddisfatta». Si narra che Puccini andasse a far visita a sua sorella Iginia, monaca col nome di suor Giulia Enrichetta al Monastero della Visitazione della nativa Lucca, spinto dalla passione per i fagioli cotti al fiasco, che mangiava al refettorio. Automobili, donne e cucina erano le sue grandi passioni. A Torre del Lago Puccini, accanito cacciatore, si riuniva sulle rive del lago di Massaciucoli con un gruppo di artisti e scrittori presso una bettola chiamata La capanna di Giovanni dalle bande nere, da subito ribattezzata Club La bohème. Qui con gli amici passava molto tempo, festeggiando allegramente, bevendo vino e giocando a carte. Questi buontemponi redigettero anche una specie di scherzoso statuto:

Art 1 I soci del Club “La Bohème”, fedeli interpreti dello spirito onde il club è stato fondato, giurano di bere e mangiar meglio.

Art. 2 Ammusoniti, pedanti, stomachi deboli, poveri di spirito, schizzinosi e altri disgraziati del genere non sono ammessi o vengono cacciati a furore di soci.

Art. 3 Il presidente funge da conciliatore, ma s’incarica d’ostacolare il cassiere nella riscossione delle quote sociali.

Art. 4 Il cassiere ha la facoltà di fuggire con la cassa.

Art. 5 L’illuminazione del locale è fatta con lampada a petrolio. Mancando il combustibile, servono i “moccoli” dei soci.

Art. 6 Sono severamente proibiti tutti i giochi leciti.

Art. 7 È vietato il silenzio.

Art. 8 La saggezza non è ammessa neppure in via eccezionale”.

Ancora, la lista dei piatti legati alla musica operistica prosegue con tutta una serie di ricette dedicate ai grandi cantanti: La poularde Adelina Patti, Il chicken Tetrazzini e Le pesche Melba; più recente, golosissimo, è il dolce in omaggio a Renée Fleming rinominato La Diva Renée, un’esplosione di cioccolato. Non manca Maria Callas, con la torta che porta il suo nome e vi è anche  la ricetta di uno dei suoi piatti preferiti, i Bigoli con ragù d’anatra alla veneta, nella ricetta di Pia Meneghini, sorella di colui che fu marito e mentore del celebre soprano, Giovanni Battista Meneghini.

Diversa è la storia che lega il tenore Enrico Caruso alla sua Napoli. Secondo il racconto, nel 1901 Caruso dopo una lunga serie di trionfi italiani e internazionali tornò a Napoli per interpretare Nemorino ne L’elisir d’amore di Gaetano Donizetti al Teatro San Carlo, ma proprio nella sua città venne accolto con freddezza. La sua delusione fu tale che egli promise a se stesso di non cantare più a Napoli e di tornarvi solo per mangiare i suoi adorati spaghetti, mai più quale protagonista canoro e questo solenne giuramento, passato alla storia come “Il giuramento dei vermicelli”, avvenne proprio avanti al suo piatto preferito, ovvero gli spaghetti con un semplice condimento a base di aglio schiacciato, olio, peperoncino e prezzemolo tritato. Vi è un piatto che porta il nome del celebre tenore, i Bucatini alla Caruso e si vuole che sia un omaggio dell’artista alla sua amata Napoli. Una ricetta semplice e buonissima che arriva da Napoli e fa sentire ancora nell’aria il profumo della bella stagione. Per preparare i Bucatini alla Caruso, infatti, bisogna approfittare delle ultime settimane d’estate, quando al mercato si trovano ancora carnosi peperoni e zucchine piccole e tenere, protagonisti di questo piatto che secondo la tradizione fu ideato proprio dal grande tenore partenopeo. I Bucatini alla Caruso e si raccomanda nella ricetta «(…) non gli spaghetti, che non darebbero il giusto spessore alla pietanza», sono una specialità che racchiude i sapori e i colori della terra campana: pomodori San Marzano, freschi o pelati, una pregiata varietà coltivata dalla fine del Settecento nell’Agro sarnese-nocerino, peperoni gialli e rossi, il basilico e il peperoncino piccante, per un tocco di “carattere” in più. Caruso suggerì questa ricetta agli chef dei due hotel in cui soggiornava abitualmente, il Vittoria di Sorrento e il Vesuvio di Napoli. A Caruso venne dedicato anche un famosissimo cocktail dal tipico color verde smeraldo, a base di vermouth secco, gin e crema di menta.

Siamo arrivati al dolce con protagonista Wolfgang Amadeus Mozart. Che Mozart amasse la buona cucina lo si apprende dal suo epistolario, nelle sue lettere, infatti, il compositore austriaco descrive più volte il suo amore per il cibo e in particolare per quello italiano e le cronache ci tramandano di quanto Wolfgang Amadeus Mozart fosse ghiotto di dolci e in particolare di cioccolato. A Vienna il suo nome è indissolubilmente legato nella gastronomia dolciaria, al souvenir gastro-musicale per eccellenza, le Mozartkugeln, in origine chiamate Mozart-Bonbon, create a Salisburgo nel 1890 dal pasticciere austriaco Paul Fürst in onore del compositore a circa un secolo dalla scomparsa. In Austria si possono anche acquistare i Marrons glacés di Mozart e questo particolare riaccende un’antica, forse presunta, rivalità, perché a prediligere i marrons glacés non era tanto Mozart, quanto Antonio Salieri, il compositore di Legnago che ne era un grande appassionato. Veniamo ora alla predilezione di Mozart per quella bevanda che ci giungeva dalla terre di conquista spagnola, dalle Indie occidentali, poi Americhe: il chocolate. In passato il legame tra musica e cacao era esaltato dal fatto che i concerti, eseguiti nelle stanze dei palazzi nobiliari, venivano ascoltati sorbendo chicchere di cioccolata. Con il melodramma e le opere liriche, che descrivevano i costumi della società, il chocolate calcò il palcoscenico, come nel già citato dramma giocoso Così fan tutte, in cui la servetta Despina si lamenta del fatto che è costretta a servire la stuzzicante bevanda, senza mai gustarla: “È mezz’ora che sbatto; / Il cioccolatte è fatto, ed a me tocca / Restar ad odorarlo a secca bocca?”. È sempre Mozart, nel Don Giovanni, a mettere in scena il noto seduttore mentre ordina al fido servo Leporello di accompagnare i suoi ospiti e di ordinare: “ch’abbiano cioccolata, caffè, vini, prosciutti”.

Anche Georg Friedrich Händel ebbe la propria torta, sia pur sotto forma di preparato. Richard Strauss scrisse nel 1922 il balletto Schlagobers, i cui giovani protagonisti entrano in pasticceria per ordinare cioccolata e panna montata. Nel cammino nell’arte dolciaria dobbiamo ancora una volta riferirci all’acclamato chef francese Georges-Auguste Escoffier al quale si deve, oltretutto, l’invenzione di due famosi dessert: le Poires Belle Hélène (pere cotte nello sciroppo di zucchero e servite con gelato alla vaniglia e cioccolato fuso, in omaggio all’operetta di Jacques Offenbach La béllè Helene, 1864) e la Pesca Melba, in onore della cantante australiana Nellie Melba (Helen Porter Mitchell), alla quale, nel 1892, Escoffier servì un cigno di ghiaccio contenente gelato alla vaniglia, pesche, salsa di lamponi e un fiocco di zucchero filato per coronarne il trionfo al Covent Garden. Secondo la tradizione Escoffier aveva particolarmente apprezzato Nellie in una sua interpretazione del Lohengrin di Wagner e per omaggiarla, le fece trovare il giorno dopo a cena il dolce inventato in suo onore. Leggiamo da Ricordi inediti dello stesso Georges-Auguste Escoffier: «Ripensando al maestoso cigno mitico che apparve nel primo atto del Lohengrin, le feci servire, al momento opportuno, delle pesche disposte su di un letto di gelato alla vaniglia, all’interno di una coppa d’argento incastrata tra le ali di un superbo cigno scolpito in un blocco di ghiaccio e ricoperto da un velo di zucchero filato. L’effetto prodotto fu sorprendente e la signora Melba si mostrò estremamente colpita dalla mia attenzione. La grande artista, che di recente mi è capitato di rivedere all’Hôtel Ritz di Parigi, mi ha ricordato la serata delle famose pesche al cigno». Successo e risonanza furono grandissimi e il dolce divenne ben presto molto popolare e imitato, anche liberamente. Originariamente chiamato Pesche al cigno, secondo alcune fonti solo all’inaugurazione successiva dell’ Hotel Carlton fu ribattezzato Pêche Melba.

Il più celebre di tutti i dolci è il Gâteau Opéra definito: “il più amato omaggio al mondo del melodramma”, che è un dessert che non poteva mancare dopo ogni grande serata operistica. La ricetta originaria è andata perduta e la prima variante di questa torta (a base di Joconde, crema al burro al caffè e ganache al cioccolato) risale al 1890, quando lo chef Louis Clichy decise di preparare il dolce ideale per accompagnare il caffè che gli spettatori dell’Opéra Garnier prendevano sempre fra un atto e l’altro. La Torta Clichy divenne ufficialmente Opéra a metà del Novecento e, anche se la paternità della sua forma attuale (che prevede gli strati ben esposti, a simbolo dei vari atti dell’opera) se la contendono Cyriaque Gavillon e Gaston Lenôtre, chiunque ne sia l’ autore, non ci sono dubbi sul fatto che questo dolce sia davvero come una rappresentazione d’opera, ovvero: del tutto speciale. Chiudiamo l’offerta del nostro carrello con la Torta Donizetti. Secondo la leggenda, fu Gioachino Rossini a chiedere al suo cuoco un dolce per alleviare il mal d’amore dell’amico Gaetano Donizetti, suggerendo al cuoco di preparare una torta semplice, ma molto dolce con canditi e zucchero a velo, per dispensarlo almeno per un momento dai tormenti del cuore ed ecco la Torta del Dunizet, una delicata ciambella margherita con albicocca e ananas. In realtà, questo dolce venne ideato solo nel 1948 da Alessandro Balzer, per celebrare il centenario della morte del compositore bergamasco.

Siamo al caffè e Johann Sebastian Bach si divertì a glorificare la sua bevanda favorita nella graziosissima e deliziosa Kaffeekantate (La Cantata del caffè) scritta tra il 1732 e il 1734, per essere eseguita allo Zimmermannsche Kaffeehaus di Lipsia. Accanito fumatore e bevitore di caffè Bach compone con questo ironico e raffinato pezzo una lode al caffè come simpatico alleggerimento delle tribolazione quotidiane e ci dimostra che i grandi uomini, se veramente grandi, sono in grado di apprezzare le gioie quotidiane, di sorridere e di ironizzare su se stessi. Caffè, cacao amaro, zucchero e panna montata sono gli ingredienti della Barbajada, che prende il nome da Domenico Barbaja. Garzone e cameriere, grazie alle sue geniali invenzioni e abilità imprenditoriale si eleverà a titolare del rinomato Caffè dei Virtuosi, locale di moda aperto a pochi metri dalla Scala. Grazie al suo acume diventerà, in seguito, uno degli impresari più influenti d’Europa, da cui dipesero le sorti dei più celebri compositori dell’epoca, per citarne alcuni: Rossini, Donizetti e Bellini. Fu a capo di numerose imprese, tra cui quella della Scala e del San Carlo, tanto da essere soprannominato il principe degli impresari e il viceré di Napoli.

Vincenzo Grisostomi Travaglini

Vincenzo Grisostomi Travaglini