27 Novembre 2022: “Dialogues des Carmélites” di Francis Poulenc apre la stagione al Teatro dell’Opera di Roma. Recensione di Vincenzo Grisostomi Travaglini.

Dialogues des Carmelites_Anna Caterina Antonacci (Madame de Croissy), Corinne Winters (Blanche) photo credits: Fabrizio Sansoni-Opera di Roma

Data simbolo è il 27 novembre, giorno dell’inaugurazione nel 1880  dell’allora Teatro Costanzi, oggi Opera, con Semiramide di Rossini, giorno prescelto dal nuovo corso della Fondazione Lirica romana quale appuntamento identificativo. Per il titolo d’apertura della stagione 2022/23, da subito, si distingue la nuova produzione de Dialogues des Carmélitesdiretta da Michele Mariotti e regia di Emma Dante, problematico quanto acclamato capolavoro di metà Novecento. Si proseguirà il 27 novembre del 2023 con Mefistofele di Arrigo Boito e nelle stagioni successive e sempre il fatidico “27” Simon Boccanegra di Giuseppe Verdi e nel 2025 Lohengrin, debutto wagneriano sia per il maestro Mariotti che per il regista Damiano Michieletto. Una prospettiva lungimirante del Massimo Capitolino, nel proposito d’imporsi con rinnovata impronta nel panorama lirico internazionale, segnatamente alla recente nomina a sovrintendente di Francesco Giambrone e all’esordio quale Direttore musicale di Michele Mariotti. Nei Dialogues des Carmélites il Maestro si afferma dal podio sostenendo con risoluzione la multiforme partitura di Francis Poulenc, consapevolmente specifico riguardo a una scrittura che si pone in bilico tra un percorso negato dall’aggressività impositiva avanguardista, in contrapposizione allo spiccato tormento creativo del musicista in dicotomia compositiva per una personalità singolare, dalle espresse convinzioni legate alla propria posizione, personale e artistica, non sempre in linea con le convenzioni.

Dialogues des Carmelites_Corinne Winters (Blanche) photo credits: Fabrizio Sansoni-Opera di Roma

Nella concertazione, Mariotti non avvalora alcuna prassi di riferimento, alieno da convenzioni esecutive, per lo più pregevoli quanto a tendenza retorica, procedendo conseguentemente per la propria strada, edotto dei tanti riferimenti e appoggi compositivi, ma senza pregiudiziali, proiettandosi nella lettura affermativa con ricerca d’espressione nell’incalzare di quel ritmo verbale che ne caratterizza lo svolgimento. Un’esecuzione ascrivibile a un austero affresco narrativo e dove richiesto, con accompagnamento “leggero” alla Schumann, nell’evidenza della parola, con segnatura di motivi simbolici e allusivi che niente hanno a che vedere con conformismi d’etichetta. Designazione, sia essa marcata quale anti-romantica o avversa all’impressionismo musicale, ma Debussy, che tanto aveva segnato la formazione di Poulenc, ne è per ammissione uno dei maggiori ispiratori, se si vuole assimilato quale precorritore esistenzialista, con particolarità nella funzione degli interludi e/o preludi, di peculiare rilievo tra il primo e secondo quadro dell’atto terzo. Ancora, a relazioni neo-classicistiche alle quali Mariotti concede pertinenza, ma che risolve con l’affermazione dell’originalità di scrittura che vi si distingue rivelatrice, nella dialogante musicalità e spessore della simbologia del suono riferito al singolo strumento o sezione di un ampio organico. Pur sempre, nel rifiuto di un’analisi semplicistica del modello artistico di riferimento estetico alla Erik Satie (ma anche Stravinskij), principale stimolo del poliedrico Gruppo dei Sei, infuso all’affermazione della scuola francese, cui Francis Poulenc aderisce con convinzione e nella scia drammaturgica di Jean Cocteau. Poeta e saggista, quest’ultimo, con il quale il compositore collaborò per il suo terzo e ultimo lavoro di palcoscenico: La voix Humaine. La vicenda de Dialogues des Carmélites si dipana in tre atti e dodici quadri, con culmine nel martirio delle sedici suore del convento delle Carmelitane Scalze che, in pieno Regime del Terrore nel 1794, s’immoleranno pur di non rinnegare la propria fede, epilogo segnato dalla problematica di relatività per la sfuggente vita terrena e di marcata, rinvenuta religiosità, concetti di testimoniata umanità che contraddistinguono la definizione di Poulenc nella ricerca d’irrealizzabile idealità. Caratteristiche dell’andamento angoscioso particolarmente marcato dalla direzione di Mariotti, evidenziate in pagine quali la straziante agonia dell’anziana priora Madame de Croissy, nella recita nell’atto secondo del Sancta Maria dell’intera comunità in sgorgante sospensione con il seguente Interludio, eseguiti in rivelante cognizione all’intensa produzione sacra di Poulenc e del linguaggio tonale che, attraverso la forma, si erige a emozione. Imperativo il conclusivo Salve Regina, intonato dalle Martiri di Compiègneal patibolo, con agghiacciante sonorità da Requiem, nello scandire al sibilo della lama della ghigliottina che ne spegne con il canto, una ad una, l’esistenza terrena, pagina di così drammatica aggressività, quanto pervasa da lucente spiritualità. All’Opera, conclusione simbiotica tra direzione e regia, enfatizzata nella ferruginosa amplificazione del tagliente sfregamento di lastre di metallo con lama d’acciaio e l’abbattersi di un velo bianco a cancellare delle martiri la visività, annullandole nella propria cornice esteriore, incombente Soeur Blanche crocifissa, ultima voce dell’Antifona.

Dialogues des Carmelites_Ewa Vesin (Madame Lidoine) photo credits: Fabrizio Sansoni-Opera di Roma

Michele Mariotti nel suo percorso direttoriale ha da sempre privilegiato la collaborazione con fautori di un palcoscenico attualizzato, nel proponimento di rendere evidente il legame di problematiche che trovino al presente un filo indissolubile perché continuativo e nei Dialogues sono individuabili specificate inquietudini che trovano nel nostro tempo piena intestazione. L’opera, che da Roma mancava dal 1991, si riferisce a un fatto storico e venne commissionata da Guido Valcarenghi, direttore della casa editrice Ricordi, sollecitato dal successo teatrale del testo di Georges Bernanos, dialoghi originalmente commissionati per una sceneggiatura destinata a un film, realizzato solo nel 1959/60 con protagonista Jeanne Moreau. Vicenda imperniata sulla novella Die Letzte am Schafott (L’ultima al patibolo) della scrittrice Gertrud von Le Fort del 1931; dialoghi, essendo mancato nel 1948 Bernanos, elaborati in libretto d’opera dallo stesso Poulenc, che ne era venuto a conoscenza per la prima volta proprio a Roma, leggendone con crescente implicazione il testo, seduto in un bar di piazza Navona. La prima assoluta in lingua italiana è datata 25 gennaio 1957 al Teatro alla Scala e quella parigina, nell’originale francese, sei mesi dopo all’Opéra. Nell’attuale proposta, in coproduzione con il Gran Teatro la Fenice, Emma Dante, nella sua indiscutibile padronanza di palcoscenico, antepone un percorso attinente a tematiche d’effetto, percorrendo a ritroso lo svolgersi della vicenda. La regista vi privilegia una ricerca tutta al femminile oltre e anche precedente alla trattazione del dramma, così come prevalentemente muliebre si pone l’unica opera seria di Poulenc, ricercando di ogni protagonista quel percorso psicologico e morale, tanto quanto di marcata fisicità, che le porterà alla scelta o costrizione conventuale. Sino all’epilogo, nello stravolgimento epocale della Rivoluzione francese, con determinazione al sacrificio. Riferendosi a dipinti d’epoca, di ogni religiosa è riportato il ritratto in abiti nobiliari da Jacques-Louis David, Ingres, François Gérard e contemporanei, ricreando una varietà di visioni esaltanti; la loro realtà a cornice del segreto nell’indefettibile vocazione.

Dialogues des Carmelites_Krystian Adam (L’aumonier du Carmel) photo credits Fabrizio Sansoni-Opera di Roma

A nudo, in resistenza concettuale a quell’essenzialità di costrizione monastica, infine enfatizzandone l’apoteosi di martirio universale distanziandosi, però, dalla spiritualità fondante la drammaturgia di Bernanos/Poulenc. Argomento prioritario, per la regia, è la violenza contro le donne, figure che svaniscono nel vuoto dietro una candida tela allo scandire della lama! Insomma, tanti altri cammini di una realtà contorta e lacerante, ma con Emma Dante è pur sempre teatro segnato da un’attualità che impone forza nella denuncia della condizione femminile. Come spesso negli allestimenti della celebre regista i movimenti mimici/coreografici sono insistenti sino all’esaurimento, a cura di Sandro Campagna. L’apparato scenico di Carmine Maringola rimanda a simbolismi di luogo e d’argomento, reclamante sovrabbondanti crocifissi, all’apologia del Cristo-donna. Con il fondamentale apporto delle luci di Cristian Zucaro, l’allestimento rende fluidità all’affastellamento attuativo imprimendovi significati o sottintesi, distinguendosi per la nitidezze di forme lineari nell’inquadrature di cornici dai molti utilizzi, eloquenti dell’ossessività narrativa, con colori riferenti lo stato emozionale dei personaggi. Raffigurazioni senza limite temporale, grate conventuali come sbarre di prigione. Piena sintonia nei costumi di Vanessa Sannino, sfarzosi abiti, tuniche e armature di combattenti alla “Giovanna d’Arco” con simil-aureole santificanti (le Carmelitane del convento di Compiègne furono beatificate da Pio X) e riferimenti molteplici, funzionali a un discorso parallelo, perché ai realizzatori non importa della semiotica cristiana, bensì personali convincimenti. Poco, nulla, aggiungono appesantimenti funebri, quali i cinquecento teschi (tipo Catacomba a Palermo o Cripta a Roma dei Cappuccini), che, piuttosto che terrificanti, appaiono farseschi. Le chincaglierie non mancano, con le pietre d’iniziazione a schiacciare sadicamente i piedi delle novizie, la loro notturna fuga liberatoria, felici pedalando biciclette gialle. Uno spettacolo avvincente, malgrado l’indifferenza a quel messaggio distinto di riflessione sul dramma della solitudine.

Dialogues des Carmelites_Krystian Adam (L’aumonier du Carmel) photo credits Fabrizio Sansoni-Opera di Roma

Nell’eclettica scrittura dell’opera non ci sono vere e proprie distinzioni nel protagonismo di ruolo, nel senso che ognuno è funzionale nella specifica comprensività delle caratteristiche metodizzanti della lingua francese, seguendo il naturale slancio ritmico delle parole con passione e coinvolgimento, pressoché un omaggio tardivo al linguaggio del grand-opéra. Da questo assunto le connesse distinzioni, come per Blanche de la Force impersonata da Corinne Winters che si colloca sempre più nel panorama internazionale per l’abnegazione a lavori richiedenti specifica e lancinante sonorità, quali a Roma Kát’a Kabanova, con ribadito successo alla recente edizione del Festival di Salisburgo, ma anche al Circo Massimo in Madama Butterfly. Il soprano statunitense, nel solco di Denise Duval alla quale Poulenc proporzionò la personalità di Blanche, si esprime con decisione, marcando le incertezze e fragilità del personaggio, nella gestione di Emma Dante intensificandone la forza interiore; con sostenuto lessico melodioso, abbandonandosi con corporea assimilazione, stilisticamente appropriata per dinamiche e malleabilità di lancinante intendimento. Di rilevante sottolineatura la determinazione con la quale annuncia al padre Marquis de la Force, l’autorevole baritono Jean-François Lapointe, l’intenzione di farsi suora: Mon père, il n’est pas d’incident si négligeable / où ne s’inscrit la volonté de Dieu e su tutt’altra intensità, ma se si vuole con consequenziale introversione alla natura dei personaggi, l’incontro in convento tra Blanche e suo fratello Chevalier de la Force, pregevolmente impersonato dal tenore Bogdan Volkov dagli accenti masnettiani, che con sottigliezza, quasi un inganno fanciullesco da confessionale, propone sottintesi stilistici di un duetto d’amore con straziante addio. Distinta percezione per Anna Caterina Antonacci, qui nella relativa vocalità invalsa all’uso comune, che nella soggettività da soprano tendente a suoni dal sapore remoto si contrae oltre il mezzosoprano espressivo aderendo all’anziana e malata Priora del Carmelo Madame Croissy: Relevez-vous, ma fille, obbligandosi nell’affermare l’interiore drammaticità del personaggio sino all’intensità vocale di contralto: Oh! oh! Dieu nous délaisse! Dieu nous renonce! Teatralmente l’artista si pone quale immagine simbolo della sofferenza, definita nello sventramento del suo essere corpo, in abito bianco, con avvolgimento e trazione degli arti in rosso sangue di parvenza iconica, tuttavia con forzatura nella regia da Skydancer. Anna Caterina Antonacci, già implicante artefice d’emozioni quale Voix nell’atto unico La voix Humaine di Poulenc al Teatro Comunale di Bologna, sempre con direttore Michele Mariotti e regista Emma Dante. Il soprano lirico spinto Ewa Vesin interpreta Madame Lidoine, nell’equilibrio delle sonorità, segnatamente soave quale succedente priora, toccante nell’accorato sostegno alle consorelle dopo la prima notte di carcere. Nella rappresentazione dell’innocenza giovanile di suor Costanze de Saint-Denis, nella tessitura da soprano leggero, ben s’identifica Emöke Baráth, per la scrittura di Poulenc esempio di definizione caratteriale nell’utilizzo di specifica tipologia vocale. Successivo modello d’evidenza timbrica caratterizzante è per Mère Marie de l’Incarnation, antinomia ben stabilita dal discordante brunito del mezzosoprano Ekaterina Gubanova. Negli ulteriori ruoli, funzionali nella numerosa compagnia tutta adeguatamente commisurata a un fondamentale equilibrio: Krystian Adam (L’Aumônier du Carmel), Alessio Verna (Le Geôlier et deuxième Commissaire), William Morgan (premier Commissaire) e Roberto Accurso (Officier). Significativo l’apporto dei giovani dal progetto Fabbrica Young Artist Program del Teatro dell’Opera: Irene Savignano (Mère Jeanne de l’Enfant-Jésus), Sara Rocchi (Soeur Mathilde) e Andrii Ganchuk (Thierry e Javelinot). Il Coro del Teatro dell’Opera di Roma specificatamente nella sezione femminile e limitatamente in quella maschile, pur nell’impegno contenuto è plasmato con meticolosità dal maestro Ciro Visco, al suo primo incarico stabile nella Fondazione.

Vincenzo Grisostomi Travaglini

27 novembre 2022

Photo credits: Fabrizio Sansoni – Opera di Roma

15th May 2022: Alessio Rezza nominated “Etoile” of the Ballet of the Opera of Rome… A star is born !

A very big and happy surprise was set up by Francesco Giambrone, Sovrintendente of the Opera of Rome and Eleonora Abbagnato, Director of the Ballet when, at the end of the last performance of “Il Corsaro”, while the audience was greeting with enthusiastic applause the cast, both of them came on stage to announce that Alessio Rezza was nominated “Etoile” of the Ballet of the Opera of Rome, under a rain of golden petals !

The confirmed and talented artist was born in Puglia, province of Bari and has grown up artistically under the advice of Eleonora Abbagnato, who describes him as “a dancer of unique temper, perfect for both classical an contemporary dance”.

Personally, I was particularly impressed by his interpretation of François in “The nutcracker” of Piotr Ilitch Tchaikowsky last Christmas. He was as naughty as irresistible, with the “Je ne sais quoi” of irony which made me think about how interesting his way of apprehending his art was.

Anyway, in those dark days, a new star has come to enlighten the sky of art and I am quite satisfied with my intuition which brought me to give all my attention and appreciation to this handsome and charming man, with wonderfully blue eyes and great modesty.

Photo credits: Fabrizio Sansoni and Yasuko Kageyama

13th May 2022: “Il Corsaro”, a magnificent ballet production at the Opera of Rome with “Etoile” Jacopo Tissi in the role of Conrad

Italian dancer Jacopo Tissi was already well-known in the world of dance to be one of the best dancers of his generation, which was definitely consacrated with his nomination as “Etoile” of the Bolchoi in december 2021 by Makhar Vaziev. He decided to come back to Italy in March 2022 and became a guest first dancer in the Scala Corps de Ballet, directed by ex French Etoile Manuel Legris.

In this warm springtime saturday evening, Rome was glittering with enthusiasm when appeared on stage the young and talented Jacopo Tissi in the role of Conrad, the main character of “Il Corsaro”, a classic of the repertoire, re-managed by world famous choreographer José Carlos Martinez.

The audience was captivated at once, as soon as Tissi appeared in the first scene, when his beloved Medora was about to be sold as a slave somewhere back in time in the Ottoman Empire. His graceful movements together with the unique charm of his magnetic presence on stage made many hearts beat faster…

The very special choreography of Martinez made the plot much easier to follow for the spectator but preserved the most famous moment of this utmost masterpiece of the classical repertoire of western ballet. Together with his beautiful Georgian partner, Maia Makhateli, Jacopo Tissi gave energy and elegance, with strength and delightful smiles in this very difficult ensemble of dancing movements, which render this “pas de deux” absolutely fabulous and unforgettable.

We do hope that Jacopo Tissi will come back to Rome as soon as possible. Doubtlessly, the intensity of the cheerful applause at the end of the performance could be clearly translated into a “Please do not leave us too long before bringing your art again in the Eternal City” !

My gratitude to Fabrizio Sansoni for the gorgeous photos.

Sisowath Ravivaddhana Monipong, 13th May 2022

“Il Trovatore negli immensi spazi della Roma antica”, un articolo del maestro Vincenzo Grisostomi Travaglini nella rivista mensile “L’Opera International Magazine”, Luglio/Agosto 2021

Il Trovatore di Giuseppe Verdi è dramma dall’elaborazione compositiva imprevedibile, dove l’originalità degli sviluppi e creatività, solo apparentemente contenuti in una struttura di convenzione, s’impongono più che nella indagine formale di ricercata esecuzione. Quest’ultima strada, però, sembra quella privilegiata da Daniele Gatti che nella sua carriera si cimenta per la seconda volta nel titolo, già diretto nel 2014 a Salisburgo, scelto per l’apertura della stagione estiva della Fondazione Teatro dell’Opera di Roma al Circo Massimo. Il maestro Gatti con questo titolo conclude l’esecuzione con i complessi dell’Opera, in periodo pandemico, della così detta trilogia, in ordine Rigoletto l’anno scorso al Circo Massimo, La traviata in forma di film-opera e Il trovatore. Tre opere che tra loro hanno ben poco in comune, se non il periodo di compimento, intorno agli anni ’50 dell’Ottocento.

Accumunati, certamente, nell’imporsi, non senza difficoltà,  di un Verdi già maturo e all’esplorazione di mutati e più vasti orizzonti. Proprio in questa perlustrazione Il trovatore si differenzia dagli altri due titoli che si vogliono compresi nel raggruppamento detto popolare o romantico, per l’immediatezza del fluire della scrittura. Come se la meno vincolante fonte letteraria dal drammaturgo spagnolo Antonio Garcìa Gutiérrez, in difformità dai più impegnati francesi Victor Hugo e Alexandre Dumas-figlio, liberasse nel compositore una vivacità tutta musicale, senza riferimenti o coercizioni a testi intellettualmente in elaborazione. Daniele Gatti, così come da suo perentorio approccio al repertorio romantico italiano, imprime una lettura personale, certamente di grande eleganza, ma priva di emozionalità, se non nel protagonismo orchestrale e lucidità di suoni. Un’orchestra al meglio delle sue prestazioni, con particolare attenzione agli stacchi direttoriali, in un susseguirsi di schegge che valutano la partitura come in un conseguire di numeri, scene e parti. Un’orchestrazione di minore coinvolgimento di disegno d’insieme e d’abbandono a un’esaltazione in musica, come si potrebbe definire Il trovatore; un’opera non per questo, anzi ancor più, esigente di una visione dello specifico repertorio a 360 gradi, compreso qualche lecito abbandono ad espressioni spontanee, non ammesse dalla lettura di Gatti, se non per effetti esteriori.

Per le voci, queste non sono aiutate da un’adeguata amplificazione, forse perché eravamo in apertura di stagione e i mezzi tecnici necessitavano di ulteriore verifica, nella vastità e spettacolarità dello spazio teatrale del Circo Massimo. Le peculiarità degli interpreti s’impongono egualmente e con distinzione. L’entusiasmo e tragicità romantica della giovane Roberta Mantegna, voce sopranile in rapida ascesa, vanto del progetto Fabbrica dell’Opera di Roma, qui Leonora sensibile e duttile alle diverse, estreme condizioni vocali quanto emotive, al meglio nella Scena e Aria della Parte IV e qui appassionata nella successiva Cabaletta Tu vedrai che amore in terra. Di classe il mezzosoprano Clémentine Morgaine per il ruolo di Azucena, finalmente schivo da effetti truculenti che di certo non appartengono a una scrittura così complessa e impervia, risolta appieno nell’accurato stile di canto.

Fabio Sartori, atteso Manrico, è interprete di chiara fama, ha ben delineato il ruolo che nella carriera ha sostenuto per la prima volta a Liegi nel 2018 e lo affronta con sicurezza, avvolte più con manifesto mestiere e soluzioni di provata esperienza, di sostegno in uno spazio così ampio e con orchestra incalzante. Esecuzione per lo più integrale, ma Ah! sì, ben mio ela sempre attesa Cabaletta Di quella pira con da capo, concettualmente epurati senza alcuna concessione, non emergono nell’insieme, risultando in sottotono. Discontinuo il baritono Christopher Maltman, poco convincente Conte di Luna, troppo schematico nell’impegnativo Il balen del suo sorriso, non sempre in sintonia con il gesto ed indicazioni direttoriali, più sicuro nel Duetto e Stretta Né cessi?Vivrà! e nel breve intervento della Scena finale. Decisamente non in una serata ottimale il basso Marco Spotti quale Ferrando. A completare la compagnia Marianna Mappa, ottima Ines (la qualità dei personaggi minori è pur sempre importante per definire una produzione), Domenico Pellicola (Ruiz), Leo Paul Chiarot (Un vecchio zingaro) e Michael Alfonsi (Un messo). Ottima la prova del coro con maestro Roberto Gabbiani, misurato nelle espressioni e partecipe nel canto; impossibilitato nei movimenti scenici per le vigenti norme di sicurezza e per la poca incisività registica.

Del regista Lorenzo Mariani, poco da dire, perché scarsamente si avverte del suo lavoro. Certamente, il vasto spazio di un palcoscenico di millecinquecento metri quadri è complesso da gestire, ma egualmente piccoli espedienti di limitato effetto non fanno di questa produzione uno dei suoi lavori migliori. Di Parte in Parte e sono otto, così è suddiviso Il trovatore nella sua complessità drammaturgica, si spostano tavoli e sgabelli, alla ricerche di figure o simboli il cui significato, al contrario, appare casuale. Ingombro il palcoscenico da enormi candelabri, spesso in bilico nelle mani dei diversi protagonisti. Lumicini per il coro degli Zingari che sembra di essere nelle gradinate dell’Arena di Verona e pertiche per gli Uomini d’arme come in un esercizio da palestra. S’inverte il significato della luna che cela e induce all’equivoco Leonora nel fatale fraintendimento del confondere il Conte con Manrico, non una luna “letteraria” dell’inganno bensì, al deflagrare del Terzetto, una luna quale presagio di sangue e di morte. Tutto rosso, come scontatamente nel secondo quadro de Il figlio della zingara. Fiamme e fiammette abbondano nelle proiezioni, ben realizzate nell’immenso schermo che delimita nel fondo il palcoscenico. Su questo sin dall’Introduzione si mostrano cieli ora corrucciati e al contrario costellati, presaghi pur sempre dell’imminente tragedia. Poco, nulla il risultato registico sugli interpreti che, pur tenendo conto del dovuto distanziamento, sono tutti staticamente compresi nelle difficoltà del canto, nella vastità del luogo e relatività acustica, impegnati in un rapporto rassicurante con il direttore d’orchestra. Scene e costumi impersonali di William Orlandi, luci di Vinicio Chelli, video di Fabio Massimo Iaquone e Luca Attili. Pubblico numeroso nell’incantevole cornice della Roma antica e dei suoi monumenti unici al mondo, alla presenza del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, accolto da una vigorosa esecuzione dell’Inno di Mameli, con la partecipazione del coro. Applausi cordiali di un pubblico da serata di gala, pur attento alle diverse valutazioni, accogliendo al termine con maggiore favore soprano, mezzosoprano e in parte il tenore; con particolare intensità il direttore e l’orchestra.

Vincenzo Grisostomi Travaglini

Photo credits: Fabrizio Sansoni (Teatro dell’Opera di Roma)

Roma, 15 giugno 2021