27 Novembre 2022: “Dialogues des Carmélites” di Francis Poulenc apre la stagione al Teatro dell’Opera di Roma. Recensione di Vincenzo Grisostomi Travaglini.

Dialogues des Carmelites_Anna Caterina Antonacci (Madame de Croissy), Corinne Winters (Blanche) photo credits: Fabrizio Sansoni-Opera di Roma

Data simbolo è il 27 novembre, giorno dell’inaugurazione nel 1880  dell’allora Teatro Costanzi, oggi Opera, con Semiramide di Rossini, giorno prescelto dal nuovo corso della Fondazione Lirica romana quale appuntamento identificativo. Per il titolo d’apertura della stagione 2022/23, da subito, si distingue la nuova produzione de Dialogues des Carmélitesdiretta da Michele Mariotti e regia di Emma Dante, problematico quanto acclamato capolavoro di metà Novecento. Si proseguirà il 27 novembre del 2023 con Mefistofele di Arrigo Boito e nelle stagioni successive e sempre il fatidico “27” Simon Boccanegra di Giuseppe Verdi e nel 2025 Lohengrin, debutto wagneriano sia per il maestro Mariotti che per il regista Damiano Michieletto. Una prospettiva lungimirante del Massimo Capitolino, nel proposito d’imporsi con rinnovata impronta nel panorama lirico internazionale, segnatamente alla recente nomina a sovrintendente di Francesco Giambrone e all’esordio quale Direttore musicale di Michele Mariotti. Nei Dialogues des Carmélites il Maestro si afferma dal podio sostenendo con risoluzione la multiforme partitura di Francis Poulenc, consapevolmente specifico riguardo a una scrittura che si pone in bilico tra un percorso negato dall’aggressività impositiva avanguardista, in contrapposizione allo spiccato tormento creativo del musicista in dicotomia compositiva per una personalità singolare, dalle espresse convinzioni legate alla propria posizione, personale e artistica, non sempre in linea con le convenzioni.

Dialogues des Carmelites_Corinne Winters (Blanche) photo credits: Fabrizio Sansoni-Opera di Roma

Nella concertazione, Mariotti non avvalora alcuna prassi di riferimento, alieno da convenzioni esecutive, per lo più pregevoli quanto a tendenza retorica, procedendo conseguentemente per la propria strada, edotto dei tanti riferimenti e appoggi compositivi, ma senza pregiudiziali, proiettandosi nella lettura affermativa con ricerca d’espressione nell’incalzare di quel ritmo verbale che ne caratterizza lo svolgimento. Un’esecuzione ascrivibile a un austero affresco narrativo e dove richiesto, con accompagnamento “leggero” alla Schumann, nell’evidenza della parola, con segnatura di motivi simbolici e allusivi che niente hanno a che vedere con conformismi d’etichetta. Designazione, sia essa marcata quale anti-romantica o avversa all’impressionismo musicale, ma Debussy, che tanto aveva segnato la formazione di Poulenc, ne è per ammissione uno dei maggiori ispiratori, se si vuole assimilato quale precorritore esistenzialista, con particolarità nella funzione degli interludi e/o preludi, di peculiare rilievo tra il primo e secondo quadro dell’atto terzo. Ancora, a relazioni neo-classicistiche alle quali Mariotti concede pertinenza, ma che risolve con l’affermazione dell’originalità di scrittura che vi si distingue rivelatrice, nella dialogante musicalità e spessore della simbologia del suono riferito al singolo strumento o sezione di un ampio organico. Pur sempre, nel rifiuto di un’analisi semplicistica del modello artistico di riferimento estetico alla Erik Satie (ma anche Stravinskij), principale stimolo del poliedrico Gruppo dei Sei, infuso all’affermazione della scuola francese, cui Francis Poulenc aderisce con convinzione e nella scia drammaturgica di Jean Cocteau. Poeta e saggista, quest’ultimo, con il quale il compositore collaborò per il suo terzo e ultimo lavoro di palcoscenico: La voix Humaine. La vicenda de Dialogues des Carmélites si dipana in tre atti e dodici quadri, con culmine nel martirio delle sedici suore del convento delle Carmelitane Scalze che, in pieno Regime del Terrore nel 1794, s’immoleranno pur di non rinnegare la propria fede, epilogo segnato dalla problematica di relatività per la sfuggente vita terrena e di marcata, rinvenuta religiosità, concetti di testimoniata umanità che contraddistinguono la definizione di Poulenc nella ricerca d’irrealizzabile idealità. Caratteristiche dell’andamento angoscioso particolarmente marcato dalla direzione di Mariotti, evidenziate in pagine quali la straziante agonia dell’anziana priora Madame de Croissy, nella recita nell’atto secondo del Sancta Maria dell’intera comunità in sgorgante sospensione con il seguente Interludio, eseguiti in rivelante cognizione all’intensa produzione sacra di Poulenc e del linguaggio tonale che, attraverso la forma, si erige a emozione. Imperativo il conclusivo Salve Regina, intonato dalle Martiri di Compiègneal patibolo, con agghiacciante sonorità da Requiem, nello scandire al sibilo della lama della ghigliottina che ne spegne con il canto, una ad una, l’esistenza terrena, pagina di così drammatica aggressività, quanto pervasa da lucente spiritualità. All’Opera, conclusione simbiotica tra direzione e regia, enfatizzata nella ferruginosa amplificazione del tagliente sfregamento di lastre di metallo con lama d’acciaio e l’abbattersi di un velo bianco a cancellare delle martiri la visività, annullandole nella propria cornice esteriore, incombente Soeur Blanche crocifissa, ultima voce dell’Antifona.

Dialogues des Carmelites_Ewa Vesin (Madame Lidoine) photo credits: Fabrizio Sansoni-Opera di Roma

Michele Mariotti nel suo percorso direttoriale ha da sempre privilegiato la collaborazione con fautori di un palcoscenico attualizzato, nel proponimento di rendere evidente il legame di problematiche che trovino al presente un filo indissolubile perché continuativo e nei Dialogues sono individuabili specificate inquietudini che trovano nel nostro tempo piena intestazione. L’opera, che da Roma mancava dal 1991, si riferisce a un fatto storico e venne commissionata da Guido Valcarenghi, direttore della casa editrice Ricordi, sollecitato dal successo teatrale del testo di Georges Bernanos, dialoghi originalmente commissionati per una sceneggiatura destinata a un film, realizzato solo nel 1959/60 con protagonista Jeanne Moreau. Vicenda imperniata sulla novella Die Letzte am Schafott (L’ultima al patibolo) della scrittrice Gertrud von Le Fort del 1931; dialoghi, essendo mancato nel 1948 Bernanos, elaborati in libretto d’opera dallo stesso Poulenc, che ne era venuto a conoscenza per la prima volta proprio a Roma, leggendone con crescente implicazione il testo, seduto in un bar di piazza Navona. La prima assoluta in lingua italiana è datata 25 gennaio 1957 al Teatro alla Scala e quella parigina, nell’originale francese, sei mesi dopo all’Opéra. Nell’attuale proposta, in coproduzione con il Gran Teatro la Fenice, Emma Dante, nella sua indiscutibile padronanza di palcoscenico, antepone un percorso attinente a tematiche d’effetto, percorrendo a ritroso lo svolgersi della vicenda. La regista vi privilegia una ricerca tutta al femminile oltre e anche precedente alla trattazione del dramma, così come prevalentemente muliebre si pone l’unica opera seria di Poulenc, ricercando di ogni protagonista quel percorso psicologico e morale, tanto quanto di marcata fisicità, che le porterà alla scelta o costrizione conventuale. Sino all’epilogo, nello stravolgimento epocale della Rivoluzione francese, con determinazione al sacrificio. Riferendosi a dipinti d’epoca, di ogni religiosa è riportato il ritratto in abiti nobiliari da Jacques-Louis David, Ingres, François Gérard e contemporanei, ricreando una varietà di visioni esaltanti; la loro realtà a cornice del segreto nell’indefettibile vocazione.

Dialogues des Carmelites_Krystian Adam (L’aumonier du Carmel) photo credits Fabrizio Sansoni-Opera di Roma

A nudo, in resistenza concettuale a quell’essenzialità di costrizione monastica, infine enfatizzandone l’apoteosi di martirio universale distanziandosi, però, dalla spiritualità fondante la drammaturgia di Bernanos/Poulenc. Argomento prioritario, per la regia, è la violenza contro le donne, figure che svaniscono nel vuoto dietro una candida tela allo scandire della lama! Insomma, tanti altri cammini di una realtà contorta e lacerante, ma con Emma Dante è pur sempre teatro segnato da un’attualità che impone forza nella denuncia della condizione femminile. Come spesso negli allestimenti della celebre regista i movimenti mimici/coreografici sono insistenti sino all’esaurimento, a cura di Sandro Campagna. L’apparato scenico di Carmine Maringola rimanda a simbolismi di luogo e d’argomento, reclamante sovrabbondanti crocifissi, all’apologia del Cristo-donna. Con il fondamentale apporto delle luci di Cristian Zucaro, l’allestimento rende fluidità all’affastellamento attuativo imprimendovi significati o sottintesi, distinguendosi per la nitidezze di forme lineari nell’inquadrature di cornici dai molti utilizzi, eloquenti dell’ossessività narrativa, con colori riferenti lo stato emozionale dei personaggi. Raffigurazioni senza limite temporale, grate conventuali come sbarre di prigione. Piena sintonia nei costumi di Vanessa Sannino, sfarzosi abiti, tuniche e armature di combattenti alla “Giovanna d’Arco” con simil-aureole santificanti (le Carmelitane del convento di Compiègne furono beatificate da Pio X) e riferimenti molteplici, funzionali a un discorso parallelo, perché ai realizzatori non importa della semiotica cristiana, bensì personali convincimenti. Poco, nulla, aggiungono appesantimenti funebri, quali i cinquecento teschi (tipo Catacomba a Palermo o Cripta a Roma dei Cappuccini), che, piuttosto che terrificanti, appaiono farseschi. Le chincaglierie non mancano, con le pietre d’iniziazione a schiacciare sadicamente i piedi delle novizie, la loro notturna fuga liberatoria, felici pedalando biciclette gialle. Uno spettacolo avvincente, malgrado l’indifferenza a quel messaggio distinto di riflessione sul dramma della solitudine.

Dialogues des Carmelites_Krystian Adam (L’aumonier du Carmel) photo credits Fabrizio Sansoni-Opera di Roma

Nell’eclettica scrittura dell’opera non ci sono vere e proprie distinzioni nel protagonismo di ruolo, nel senso che ognuno è funzionale nella specifica comprensività delle caratteristiche metodizzanti della lingua francese, seguendo il naturale slancio ritmico delle parole con passione e coinvolgimento, pressoché un omaggio tardivo al linguaggio del grand-opéra. Da questo assunto le connesse distinzioni, come per Blanche de la Force impersonata da Corinne Winters che si colloca sempre più nel panorama internazionale per l’abnegazione a lavori richiedenti specifica e lancinante sonorità, quali a Roma Kát’a Kabanova, con ribadito successo alla recente edizione del Festival di Salisburgo, ma anche al Circo Massimo in Madama Butterfly. Il soprano statunitense, nel solco di Denise Duval alla quale Poulenc proporzionò la personalità di Blanche, si esprime con decisione, marcando le incertezze e fragilità del personaggio, nella gestione di Emma Dante intensificandone la forza interiore; con sostenuto lessico melodioso, abbandonandosi con corporea assimilazione, stilisticamente appropriata per dinamiche e malleabilità di lancinante intendimento. Di rilevante sottolineatura la determinazione con la quale annuncia al padre Marquis de la Force, l’autorevole baritono Jean-François Lapointe, l’intenzione di farsi suora: Mon père, il n’est pas d’incident si négligeable / où ne s’inscrit la volonté de Dieu e su tutt’altra intensità, ma se si vuole con consequenziale introversione alla natura dei personaggi, l’incontro in convento tra Blanche e suo fratello Chevalier de la Force, pregevolmente impersonato dal tenore Bogdan Volkov dagli accenti masnettiani, che con sottigliezza, quasi un inganno fanciullesco da confessionale, propone sottintesi stilistici di un duetto d’amore con straziante addio. Distinta percezione per Anna Caterina Antonacci, qui nella relativa vocalità invalsa all’uso comune, che nella soggettività da soprano tendente a suoni dal sapore remoto si contrae oltre il mezzosoprano espressivo aderendo all’anziana e malata Priora del Carmelo Madame Croissy: Relevez-vous, ma fille, obbligandosi nell’affermare l’interiore drammaticità del personaggio sino all’intensità vocale di contralto: Oh! oh! Dieu nous délaisse! Dieu nous renonce! Teatralmente l’artista si pone quale immagine simbolo della sofferenza, definita nello sventramento del suo essere corpo, in abito bianco, con avvolgimento e trazione degli arti in rosso sangue di parvenza iconica, tuttavia con forzatura nella regia da Skydancer. Anna Caterina Antonacci, già implicante artefice d’emozioni quale Voix nell’atto unico La voix Humaine di Poulenc al Teatro Comunale di Bologna, sempre con direttore Michele Mariotti e regista Emma Dante. Il soprano lirico spinto Ewa Vesin interpreta Madame Lidoine, nell’equilibrio delle sonorità, segnatamente soave quale succedente priora, toccante nell’accorato sostegno alle consorelle dopo la prima notte di carcere. Nella rappresentazione dell’innocenza giovanile di suor Costanze de Saint-Denis, nella tessitura da soprano leggero, ben s’identifica Emöke Baráth, per la scrittura di Poulenc esempio di definizione caratteriale nell’utilizzo di specifica tipologia vocale. Successivo modello d’evidenza timbrica caratterizzante è per Mère Marie de l’Incarnation, antinomia ben stabilita dal discordante brunito del mezzosoprano Ekaterina Gubanova. Negli ulteriori ruoli, funzionali nella numerosa compagnia tutta adeguatamente commisurata a un fondamentale equilibrio: Krystian Adam (L’Aumônier du Carmel), Alessio Verna (Le Geôlier et deuxième Commissaire), William Morgan (premier Commissaire) e Roberto Accurso (Officier). Significativo l’apporto dei giovani dal progetto Fabbrica Young Artist Program del Teatro dell’Opera: Irene Savignano (Mère Jeanne de l’Enfant-Jésus), Sara Rocchi (Soeur Mathilde) e Andrii Ganchuk (Thierry e Javelinot). Il Coro del Teatro dell’Opera di Roma specificatamente nella sezione femminile e limitatamente in quella maschile, pur nell’impegno contenuto è plasmato con meticolosità dal maestro Ciro Visco, al suo primo incarico stabile nella Fondazione.

Vincenzo Grisostomi Travaglini

27 novembre 2022

Photo credits: Fabrizio Sansoni – Opera di Roma

15th May 2022: Alessio Rezza nominated “Etoile” of the Ballet of the Opera of Rome… A star is born !

A very big and happy surprise was set up by Francesco Giambrone, Sovrintendente of the Opera of Rome and Eleonora Abbagnato, Director of the Ballet when, at the end of the last performance of “Il Corsaro”, while the audience was greeting with enthusiastic applause the cast, both of them came on stage to announce that Alessio Rezza was nominated “Etoile” of the Ballet of the Opera of Rome, under a rain of golden petals !

The confirmed and talented artist was born in Puglia, province of Bari and has grown up artistically under the advice of Eleonora Abbagnato, who describes him as “a dancer of unique temper, perfect for both classical an contemporary dance”.

Personally, I was particularly impressed by his interpretation of François in “The nutcracker” of Piotr Ilitch Tchaikowsky last Christmas. He was as naughty as irresistible, with the “Je ne sais quoi” of irony which made me think about how interesting his way of apprehending his art was.

Anyway, in those dark days, a new star has come to enlighten the sky of art and I am quite satisfied with my intuition which brought me to give all my attention and appreciation to this handsome and charming man, with wonderfully blue eyes and great modesty.

Photo credits: Fabrizio Sansoni and Yasuko Kageyama

13th May 2022: “Il Corsaro”, a magnificent ballet production at the Opera of Rome with “Etoile” Jacopo Tissi in the role of Conrad

Italian dancer Jacopo Tissi was already well-known in the world of dance to be one of the best dancers of his generation, which was definitely consacrated with his nomination as “Etoile” of the Bolchoi in december 2021 by Makhar Vaziev. He decided to come back to Italy in March 2022 and became a guest first dancer in the Scala Corps de Ballet, directed by ex French Etoile Manuel Legris.

In this warm springtime saturday evening, Rome was glittering with enthusiasm when appeared on stage the young and talented Jacopo Tissi in the role of Conrad, the main character of “Il Corsaro”, a classic of the repertoire, re-managed by world famous choreographer José Carlos Martinez.

The audience was captivated at once, as soon as Tissi appeared in the first scene, when his beloved Medora was about to be sold as a slave somewhere back in time in the Ottoman Empire. His graceful movements together with the unique charm of his magnetic presence on stage made many hearts beat faster…

The very special choreography of Martinez made the plot much easier to follow for the spectator but preserved the most famous moment of this utmost masterpiece of the classical repertoire of western ballet. Together with his beautiful Georgian partner, Maia Makhateli, Jacopo Tissi gave energy and elegance, with strength and delightful smiles in this very difficult ensemble of dancing movements, which render this “pas de deux” absolutely fabulous and unforgettable.

We do hope that Jacopo Tissi will come back to Rome as soon as possible. Doubtlessly, the intensity of the cheerful applause at the end of the performance could be clearly translated into a “Please do not leave us too long before bringing your art again in the Eternal City” !

My gratitude to Fabrizio Sansoni for the gorgeous photos.

Sisowath Ravivaddhana Monipong, 13th May 2022

“Il Trovatore negli immensi spazi della Roma antica”, un articolo del maestro Vincenzo Grisostomi Travaglini nella rivista mensile “L’Opera International Magazine”, Luglio/Agosto 2021

Il Trovatore di Giuseppe Verdi è dramma dall’elaborazione compositiva imprevedibile, dove l’originalità degli sviluppi e creatività, solo apparentemente contenuti in una struttura di convenzione, s’impongono più che nella indagine formale di ricercata esecuzione. Quest’ultima strada, però, sembra quella privilegiata da Daniele Gatti che nella sua carriera si cimenta per la seconda volta nel titolo, già diretto nel 2014 a Salisburgo, scelto per l’apertura della stagione estiva della Fondazione Teatro dell’Opera di Roma al Circo Massimo. Il maestro Gatti con questo titolo conclude l’esecuzione con i complessi dell’Opera, in periodo pandemico, della così detta trilogia, in ordine Rigoletto l’anno scorso al Circo Massimo, La traviata in forma di film-opera e Il trovatore. Tre opere che tra loro hanno ben poco in comune, se non il periodo di compimento, intorno agli anni ’50 dell’Ottocento.

Accumunati, certamente, nell’imporsi, non senza difficoltà,  di un Verdi già maturo e all’esplorazione di mutati e più vasti orizzonti. Proprio in questa perlustrazione Il trovatore si differenzia dagli altri due titoli che si vogliono compresi nel raggruppamento detto popolare o romantico, per l’immediatezza del fluire della scrittura. Come se la meno vincolante fonte letteraria dal drammaturgo spagnolo Antonio Garcìa Gutiérrez, in difformità dai più impegnati francesi Victor Hugo e Alexandre Dumas-figlio, liberasse nel compositore una vivacità tutta musicale, senza riferimenti o coercizioni a testi intellettualmente in elaborazione. Daniele Gatti, così come da suo perentorio approccio al repertorio romantico italiano, imprime una lettura personale, certamente di grande eleganza, ma priva di emozionalità, se non nel protagonismo orchestrale e lucidità di suoni. Un’orchestra al meglio delle sue prestazioni, con particolare attenzione agli stacchi direttoriali, in un susseguirsi di schegge che valutano la partitura come in un conseguire di numeri, scene e parti. Un’orchestrazione di minore coinvolgimento di disegno d’insieme e d’abbandono a un’esaltazione in musica, come si potrebbe definire Il trovatore; un’opera non per questo, anzi ancor più, esigente di una visione dello specifico repertorio a 360 gradi, compreso qualche lecito abbandono ad espressioni spontanee, non ammesse dalla lettura di Gatti, se non per effetti esteriori.

Per le voci, queste non sono aiutate da un’adeguata amplificazione, forse perché eravamo in apertura di stagione e i mezzi tecnici necessitavano di ulteriore verifica, nella vastità e spettacolarità dello spazio teatrale del Circo Massimo. Le peculiarità degli interpreti s’impongono egualmente e con distinzione. L’entusiasmo e tragicità romantica della giovane Roberta Mantegna, voce sopranile in rapida ascesa, vanto del progetto Fabbrica dell’Opera di Roma, qui Leonora sensibile e duttile alle diverse, estreme condizioni vocali quanto emotive, al meglio nella Scena e Aria della Parte IV e qui appassionata nella successiva Cabaletta Tu vedrai che amore in terra. Di classe il mezzosoprano Clémentine Morgaine per il ruolo di Azucena, finalmente schivo da effetti truculenti che di certo non appartengono a una scrittura così complessa e impervia, risolta appieno nell’accurato stile di canto.

Fabio Sartori, atteso Manrico, è interprete di chiara fama, ha ben delineato il ruolo che nella carriera ha sostenuto per la prima volta a Liegi nel 2018 e lo affronta con sicurezza, avvolte più con manifesto mestiere e soluzioni di provata esperienza, di sostegno in uno spazio così ampio e con orchestra incalzante. Esecuzione per lo più integrale, ma Ah! sì, ben mio ela sempre attesa Cabaletta Di quella pira con da capo, concettualmente epurati senza alcuna concessione, non emergono nell’insieme, risultando in sottotono. Discontinuo il baritono Christopher Maltman, poco convincente Conte di Luna, troppo schematico nell’impegnativo Il balen del suo sorriso, non sempre in sintonia con il gesto ed indicazioni direttoriali, più sicuro nel Duetto e Stretta Né cessi?Vivrà! e nel breve intervento della Scena finale. Decisamente non in una serata ottimale il basso Marco Spotti quale Ferrando. A completare la compagnia Marianna Mappa, ottima Ines (la qualità dei personaggi minori è pur sempre importante per definire una produzione), Domenico Pellicola (Ruiz), Leo Paul Chiarot (Un vecchio zingaro) e Michael Alfonsi (Un messo). Ottima la prova del coro con maestro Roberto Gabbiani, misurato nelle espressioni e partecipe nel canto; impossibilitato nei movimenti scenici per le vigenti norme di sicurezza e per la poca incisività registica.

Del regista Lorenzo Mariani, poco da dire, perché scarsamente si avverte del suo lavoro. Certamente, il vasto spazio di un palcoscenico di millecinquecento metri quadri è complesso da gestire, ma egualmente piccoli espedienti di limitato effetto non fanno di questa produzione uno dei suoi lavori migliori. Di Parte in Parte e sono otto, così è suddiviso Il trovatore nella sua complessità drammaturgica, si spostano tavoli e sgabelli, alla ricerche di figure o simboli il cui significato, al contrario, appare casuale. Ingombro il palcoscenico da enormi candelabri, spesso in bilico nelle mani dei diversi protagonisti. Lumicini per il coro degli Zingari che sembra di essere nelle gradinate dell’Arena di Verona e pertiche per gli Uomini d’arme come in un esercizio da palestra. S’inverte il significato della luna che cela e induce all’equivoco Leonora nel fatale fraintendimento del confondere il Conte con Manrico, non una luna “letteraria” dell’inganno bensì, al deflagrare del Terzetto, una luna quale presagio di sangue e di morte. Tutto rosso, come scontatamente nel secondo quadro de Il figlio della zingara. Fiamme e fiammette abbondano nelle proiezioni, ben realizzate nell’immenso schermo che delimita nel fondo il palcoscenico. Su questo sin dall’Introduzione si mostrano cieli ora corrucciati e al contrario costellati, presaghi pur sempre dell’imminente tragedia. Poco, nulla il risultato registico sugli interpreti che, pur tenendo conto del dovuto distanziamento, sono tutti staticamente compresi nelle difficoltà del canto, nella vastità del luogo e relatività acustica, impegnati in un rapporto rassicurante con il direttore d’orchestra. Scene e costumi impersonali di William Orlandi, luci di Vinicio Chelli, video di Fabio Massimo Iaquone e Luca Attili. Pubblico numeroso nell’incantevole cornice della Roma antica e dei suoi monumenti unici al mondo, alla presenza del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, accolto da una vigorosa esecuzione dell’Inno di Mameli, con la partecipazione del coro. Applausi cordiali di un pubblico da serata di gala, pur attento alle diverse valutazioni, accogliendo al termine con maggiore favore soprano, mezzosoprano e in parte il tenore; con particolare intensità il direttore e l’orchestra.

Vincenzo Grisostomi Travaglini

Photo credits: Fabrizio Sansoni (Teatro dell’Opera di Roma)

Roma, 15 giugno 2021

“Nel segno di Roma, una storia millenaria” e “Splendide sale per la Capitale d’Italia”, due articoli del Maestro Vincenzo Grisostomi Travaglini sui teatri storici nel Lazio, nella rivista mensile “L’Opera International Magazine”, Maggio e Giugno 2021

La storia dei luoghi teatrali della regione Lazio è fortemente marcata nel segno di Roma, dove i secoli perdono il loro scorrere temporale: centro dell’Impero, città dei Papi, capitale d’Italia.

Nella Prima Roma l’edificazione di compagini teatrali mobili, originalmente in legno, era consentita solo per cerimonie sacre e per lungo tempo non si eressero strutture stabili, perché vi era il timore che la libera frequentazione portasse a comportamenti contrari la morale, così come si ripeterà dal ‘600 in piena Controriforma e sino a Roma capitale del Regno d’Italia, trascorsi quasi due millenni, quando i luoghi destinati all’intrattenimento vennero avvolte esaltati, ma ben più spesso perseguitati dall’autorità papale quali sede di perversione. I ludi teatrali si svolgevano negli anfiteatri, le naumachie, gli spettacoli con fiere e belve e quelli circensi, con le corse di cavalli, parate e processioni, coincidevano puntualmente con festività religiose.

Siamo agli albori dell’Urbe e qui prende vita il teatro latino, una delle più significative espressioni della cultura dell’antica Roma, in origine rappresentata con testi greci tradotti o rielaborati, che si mescolavano a elementi di tradizione etrusca. Risale al 364 a.C. nel corso dei ludi romani una prima forma di teatro originale, che comprendeva canti e danze. I ludi scaenici avevano particolare importanza durante le campagne elettorali nella tarda repubblica e fu Giulio Cesare a voler far edificare un fastoso teatro che rivaleggiasse con quello di Pompeo fatto dorare da Nerone in un solo giorno, imponente edificio tutt’oggi visibile che venne inaugurato sotto Augusto e dedicato a Marco Claudio Marcello. Notizie sulla vita teatrale della Roma antica ci giungono dagli scritti di Livio, Tacito e Plinio, che accennano a strutture in legno in Campo Marzio o nei pressi del Palatino.

Una premessa indispensabile, perché imponenti sono tramandate le vestigia di edifici romani, tutt’oggi testimoni del glorioso passato; teatri, anfiteatri e circhi che convivono con la città moderna. Di altri si è persa traccia, nelle stratificazioni dei secoli, ma pur sempre partecipi di una città che vive nella sua storia un percorso di fasti e contraddizioni, che si perpetra nei secoli. L’elenco sarebbe quanto mai lungo e l’argomento avvincente, ma sarà interessante sottolineare come molte di queste costruzioni, sfidando il tempo, oltre che testimonianza millenaria, a tutt’oggi ospitano attività teatrali. Anche storiche strutture non finalizzate allo spettacolo sono diventate in epoca moderna sede di importanti manifestazioni, quali le Terme di Caracalla per la stagione estiva dell’Opera di Roma; nel 2020 viene allestito per la Fondazione capitolina un teatro all’aperto nel perimetro del Circo Massimo, offrendo più ampi spazi all’emergenza pandemica e alle regole di distanziamento. Saltuariamente, a causa di vincoli conservativi, ci si è avvalsi dell’Anfiteatro Flavio, meglio conosciuto quale Colosseo dove, ad esempio, si tenne un prezioso festival di respiro internazionale. Alle porte di Roma, celebrata è la stagione di prosa del Teatro di Ostia Antica e altre strutture nel territorio laziale sono utilizzate, sia pure saltuariamente, per spettacoli: il Teatro del Santuario di Ercole Vincitore nei pressi di Tivoli, il Teatro Romano di Tuscolo o Teatro di Cicerone, il Teatro Antico di Nemi.

Nel Novecento venne ristrutturato a Roma l’Anfiteatro Correa (per i romani er Corea), edificato nel 1780 sugli imponenti ruderi del Mausoleo di Augusto risalente al I secolo a.C. , qui dal 1882 al 1887 si eseguirono opere comiche e serie; l’Augusteo dal 1908 venne destinato a ospitare la stagione concertistica della Reale Accademia di Santa Cecilia, inaugurata il 16 febbraio con direttore Giuseppe Martucci. Rinnovato nel 1925 da Marcello Piacentini, prenderà il nome di Umberto I. Sarà demolito nel 1939 nel quadro della campagna mussoliniana finalizzata ad isolare i monumenti della Roma imperiale. Dal 1997, per alcuni anni, l’orchestra e coro dell’Accademia saranno ospitati all’interno della Basilica di Massenzio, nel programma di quell’estate romana voluta dall’allora Assessore alla cultura del Comune di Roma Renato Nicolini, su modello della Festa della Musica ideata in Francia dal Ministro alla cultura Jack Lang.

Progetto di Rafaello per Villa Madama

A ulteriore esempio di continuità, il citato Teatro di Pompeo venne inglobato in costruzioni medievali, tra cui il Teatro dei Satiri, che è stato definito con affettuosa enfasi il primo teatro di Roma in continuità storica dal 55 a.C. al 1946, quando la sala con facciata curvilinea che ricalca quello della cavea dell’antica struttura, venne rilevata dal conte Gianni Grifeo di Partanna, divenendo luogo di ritrovo e di cultura teatrale, situato tra il Valle e l’Argentina. Il Teatro di Marcello è conservato nelle sue linee portanti, grazie al suo utilizzo e ristrutturazione sin dal Medioevo a palazzo fortificato, ricavato a ridosso delle arcate originarie dalle potenti famiglie dei Pierleoni e dei Savelli, quest’ultima diede incarico di riorganizzare la propria abitazione a Baldassarre Peruzzi. Nel XVIII secolo ne divennero proprietari gli Orsini duchi di Gravina, la famiglia dei principi Orsini ci introdurrà in un altro argomento, sostanziale della vita teatrale della Roma rinascimentale e sino al XIX secolo, ovvero dell’importanza per lo sviluppo culturale della città della così detta nobiltà nera, all’interno delle lussuose dimore e quali promotori della costruzione delle principali strutture teatrali pubbliche, dal ‘600 a Ottocento inoltrato.

Attraverso i secoli, come nelle sensazioni offerte da una passeggiata notturna nel centro dell’Urbe al di là del tempo, si prende nota che a Nerone si devono le prime gare canore e nell’antica Roma venivano frequentemente allestiti spettacoli con musiche e canti. Sono manifestazioni che con l’avvento dei cristianesimo saranno considerate pagane, che procederanno nei secoli, anche contravvenendo al severo Editto di Milano, sino a tutto il Medioevo e che influenzeranno nel nuovo millennio i drammi liturgici che si volevano offrire sulla piazza del Laterano, in cui si narrava la vita dei Santi con canti dialettali, musiche e danze. Nel 1414 una Passione venne allestita nel Colosseo.

Siamo in pieno Rinascimento; di soli due giorni nel 1513 è la vita del primo edificio che segna l’attività teatrale della Seconda Roma. Interamente realizzato in legno venne eretto sul colle del Campidoglio su progetto dell’architetto Pietro Rosselli, per una capienza, si dice, di tremila posti con apparato scenografico di Baldassarre Peruzzi. Fu voluto da Papa Leone X della famiglia Medici, in occasione dei festeggiamenti per il conferimento della cittadinanza romana a suo fratello: Giuliano de’ Medici duca di Nemours. Circa del 1561 è il Teatro Anguillara, che si tramanda sia stato costruito dal poeta Giovanni Andrea Anguillara, appartenente a una delle famiglie più antiche di Roma, ricavato all’interno del suo palazzo in piazza Santi Apostoli. Con tutta probabilità già teatro pubblico fu quello edificato in via Giulia, attivo circa dal 1560 al 1575. A Roma il piacere per lo spettacolo attraversa i secoli: le corse dei cavalli e le naumachie a piazza Navona, cui seguiranno spettacoli di divertimento in musica con testi di Plauto e di Macchiavelli, a cui nel Rinascimento collaborerà quale scenografo anche Raffaello e nel Barocco Gian Lorenzo Bernini. A Raffaello Sanzio era stato commissionato da Leone X  il progetto di una villa suburbana su terreno di proprietà della famiglia Medici, che in seguito prenderà il nome di Villa Madama, includente un teatro, come annota lo stesso pittore e architetto in una dettagliata descrizione a Baldassarre Castiglione: «In questo spatio vi è un bello theatro fatto con questa misura et ragione (…) ce sono fatte le gradinate, la scena, il pulpito et l’horchestra (…) E questo theatro è collocato in modo che non può havere sole doppo il mezzodí, la quale è hora solita a simili giochi». A questi divertimenti in musica, in austero clima di Controriforma, s’ispireranno le altrimenti moraleggianti sacre rappresentazioni, da cui nel febbraio 1600 scaturirà il dramma sacro La rappresentazione di anima et di corpo con libretto di Agostino Manni e musica di Emilio de’ Cavalieri, eseguita all’Oratorio della Vallicella; una vera e propria opera rappresentata con scene, costumi e ricca di balli. Potrebbe sembrare una contraddizione, ma a Roma neanche i pontefici e le severe proibizioni poterono mutare nello scorrere degli eventi la vocazione di un popolo gaudente, che tendeva a trasformare in ricorrenza ogni tipo di evento, per cui anche le processioni erano giustificazione per giochi e sagre. In questi divertimenti primeggiava il Carnevale, la cui origine risale agli antichi Saturnali, tradizione che si protrarrà a simbolo della festosità del carattere dei romani, che in essi convive con la tristezza della rassegnazione e la saggia indolenza. Una tradizione che più di altre resisterà all’usura dei secoli e sino alla seconda metà del XX secolo, quando i bagliori di una città ormai snaturata da qualsiasi radice storico-culturale e troppo frettolosamente trasformata in capitale, verranno spenti dal dilagante borghesismo, soffocati anche negli aspetti più radicati.

De I Teatri di Roma ci siamo già occupati nello scorso numero di gennaio, ma sarà egualmente interessante, in un cammino solo apparentemente similare, ripercorrerne i momenti salienti, con ulteriori, stimolanti annotazioni. Tra i teatri che hanno lasciato traccia nella storia di Roma, all’interno delle residenze della nobiltà nera, primeggia quello della famiglia di Papa Urbano VIII, al secolo Maffeo Barberini. Non era ancora agibile il loro sontuoso palazzo alle Quattro Fontane sul colle del Quirinale quando i Barberini, nella più contenuta residenza ai Giubbonari, inaugurarono la stagione operistica mettendo in scena l’8 marzo 1631 il Sant’Alessio, con musica di Stefano Landi, libretto di Giulio Rospigliosi, futuro Papa Clemente IX: «la rappresentatione di S. Alessio (…) tutta recitata in musica, sendo riuscita una delle più belle fattesi da un tempo in qua». L’apparato scenico è del ferrarese Francesco Guitti, costruttore delle macchine berniniane. Ancora il Sant’Alessio il 23 febbraio 1634 per l’inaugurazione del Teatro Barberini alle Quattro Fontane, in occasione dei festeggiamenti in onore di Alexander Charles Wasa principe di Polonia. Attiguo al nuovo palazzo dei Barberini, innalzato a gloria del casato, si presenta con sala rettangolare, ballatoio su tre lati, banchi in platea e palcoscenico incorniciato tra colonne; la facciata è progettata da Pietro da Cortona. Si disse che potesse ospitare fino a 1500 spettatori; snaturato sin dal Settecento, venne definitivamente demolito nel 1926 nel piano di ristrutturazione di Roma capitale del Regno d’Italia con l’apertura di via Regina Elena, poi via Barberini. Il Sant’Alessio riveste una particolare importanza nella storia del teatro in musica, perché non solo fu la prima opera composta su soggetto storico, ma nel descrivere minuziosamente la vita interiore del santo tentò una caratterizzazione psicologica di tipo nuovo nell’ambito del teatro d’opera. L’attività, le grandi feste che fecero capo a questo spazio teatrale dei Barberini restano nella storia per la loro sontuosa creatività. Con Urbano VIII si concludeva di fatto la Controriforma e il pontefice prediligerà l’insorgente Barocco quale stile della Chiesa trionfante. Nei poco più di quarant’anni di regno di papa Barberini, l’Urbe diventerà una città ancora più imparagonabile, anche grazie alla creatività di artisti quali Gian Lorenzo Bernini, che si può indicare quale il massimo regista del Barocco romano. Per la corte papale il Bernini si dedicò a predisporre spettacoli in Vaticano e per il teatro di famiglia del pontefice si prodigò quale impareggiabile scenografo, regista ed attore. Bernini volle, inoltre, edificare nella sua casa di via del Corso uno spazio per spettacoli, il Teatro Bernini, oggi scomparso. Un versante quasi inesplorato del Seicento romano è quello dedicato a studi più approfonditi sul mecenatismo musicale della grandi famiglie della nobiltà nera e dei Principi della Chiesa.

A Roma, fra la fine del ‘500 e il primo ‘600, Alessandro Peretti Damasceni cardinal Montalto, pronipote di Sisto V, è un vero e proprio melomane e si contorna dei più celebrati cantanti dell’epoca: «(…) egli steso sonava il cimbalo (…) e cantava con maniera soave  et affettuosa» (da Ricerche di Alberto Cametti – Roma). Furono al suo sevizio, tra i tanti, il famoso eunuco Onofrio Gualfreducci, il compositore Cesare Marotta e sua moglie la clavicembalista Ippolita Recupito, amatissima cantante. Nel rione Parione si passa per via della Pace, dove si ergeva il teatro omonimo, ormai dimenticato, ma che rievoca un certo spaccato di vita della Roma Sei-Settecentesca, se si vuole minore quanto indiscutibilmente distintivo dei costumi di un epoca. Costruito negli ultimi anni del ‘600, la prima traccia è quella delle recite degli istrioni nel 1691, ovvero di attori che ancora nel XVII secolo si esibivano in uno stile dei tempi antichi. Nella stagione di Carnevale del 1694 si ha testimonianza della rappresentazione di due drammi: Roderico, con musica di Francesco Gasperini interpretato dal sopranista Alessandro Bisson e Orfeo con musica di Bernardo Sabatini, con scene dipinte, ci è tramandato magnifiche, di Ferdinando Galli da Bibbiena. Da sottolineare il ruolo che ebbe a Roma l’architetto teatrale e scenografo, appartenente alla celebre famiglia di artisti, nell’assicurare la continuità della corrente bibienesca nell’allestimento di spettacoli. Nel 1717 il Teatro Pace fu rinnovato dall’ingegnere teatrale e scenografo bolognese Domenico Maria Vellani e in seguito vi si eseguirono diversi drammi in musica, affidati alle celebrità dell’epoca, quali i musici soprano Domenico Gizzi, Felice Novelli e Cristoforo Raparini. Col progredire dei tempi il Teatro Pace andò sempre più decadendo e nel 1853 verrà demolito. Tra i teatri storici della città, di particolare rilievo fu quello ricavato all’interno di palazzo Altemps, costruito alla fine del 1480 alle spalle di Piazza Navona, tra lo Stadio di Domiziano e piazza Sant’ Apollinare, per il nipote di Sisto IV, il conte Girolamo Riario ed è riportato da documenti d’epoca che fu scenario di feste rinascimentali. Nel palazzo sarà edificato uno dei primi teatri privati, che venne detto tra più antichi di Roma, ma sono molti gli spazi per lo spettacolo, scorrendo le cronache, che ne vanterebbero il primato. Il palazzo verrà acquistato nel 1568 dal cardinale Marco Sittico Altemps, nipote di Pio IV, completato e rinnovato a opera di Martino Longhi il Vecchio. Ai primi del Seicento il secondo duca di Gallese, il mecenate Giovan Angelo Altemps, vi farà ricavare nel seminterrato un teatro dotato di una sala rettangolare lunga circa 20 metri, dove è attestato lo svolgersi di una vera e propria, articolata stagione teatrale: « (…) con costumi e utilizzo delle macchine di scena». La storia del teatro a palazzo Altemps attraversa il tempo lungo ben quattrocento anni, assecondando mode, gusti, tecniche e tecnologie dello spettacolo. Il 23 novembre del 1758, su invito del cardinale Carlo Rezzonico nipote del veneziano Clemente XIII, è in visita a Roma il drammaturgo Carlo Goldoni ed è da questo avvenimento che, probabilmente, il teatro gli venne dedicato. Nel 1870, con l’annessione di Roma al Regno d’Italia, il Goldoni verrà attestato tra quelli operanti in città anche se definito, con poca considerazione: Romanesco. Il palazzo Altemps  fu uno dei primissimi luoghi del cinema a Roma e le cronache raccontano delle folle accorse agli spettacoli con la lanterna magica e dopo il 1911 al Goldoni saranno proiettate le iniziali pellicole del muto, con accompagnamento di pianoforte. Sarà utilizzato per diverso tempo quale cinematografo, per poi riconvertirsi all’arte di palcoscenico e questo teatro, pur tra alterne vicende, non ha mai sospeso la sua attività fino al 1984. Il palazzo, con annesso teatro, passerà allo Stato e il Goldoni sarà riadattato nel nuovo secolo a sala moderna, accessoria al museo Nazionale Romano a Palazzo Altemps, conservando il palco originale in legno, con lo spazio scenico restituito a quello delle lontane origini.

Sono numerosi i teatri che operarono a Roma nel diciassettesimo secolo, principalmente privati e di dimensione ridotte, tra questi il Teatro del Collegio Romano, il Colonna, il Teatro del Collegio Clementino, l’Ameyden dedicato al poeta e storico naturalizzato romano, il Rospigliosi e il Teatro Orsini. I Ruspoli furono patroni di Händel e Caldara; il Cardinale Ottoboni di Corelli e Alessandro Scarlatti e il cardinale Pamphilj patrono di Corelli e Händel. Ancora, sono solo pochi esempi, il patronato musicale del cardinale Pietro Aldobrandini e dei già citati Barberini per Frescobaldi; il cardinale Montalto, i Ruspoli e i Borghese furono benefattori di Francesco Gasparini. Interessante sarebbe un approfondimento accedendo ad alcuni degli archivi di famiglia, a tutt’oggi in parte inesplorati, per un più preciso studio di quelle che furono le cariche e gli impegni dei musicisti e per il ritrovamento o riproposta di molte partiture, qui conservate negli scaffali. Accanto alle istituzioni religiose, inoltre, fiorirono nel Barocco romano congregazioni, confraternite, collegi, anche un’istituzione laica come l’Accademia di San Luca, che sosteneva annualmente una festa con l’esecuzione di importanti musiche, affidate nel primo Settecento ad Arcangelo Corelli; come pure l’Accademia dell’Arcadia.

La musica è spettacolo e non solo teatrale e messa in scena tra le più suntuose nello Stato Pontificio l’arrivo della regina Cristina, convertitasi al cattolicesimo e abdicato al trono di Svezia, fu trionfale. La sovrana vene accolta a Roma con grandi onori e feste da Alessandro VII al secolo Fabio Chigi, da poco eletto al Soglio di Pietro, successore di Innocenzo X della famiglia Pamphilij. Alessandro VII, uomo di raffinata cultura, fu il papa che più di ogni altro trasformò per Roma le ricorrenze liturgiche in cerimonie sontuose e memorabili spettacoli. L’ingresso sfarzoso a Roma di Cristina di Svezia doveva rappresentare per il pontefice il segno della politica estera, con la supremazia dei cattolici sui protestanti. La vita di corte a Roma si trasformerà sempre più nell’esaltazione della politica attraverso feste scenografiche ed eventi mondani, perché nella bellezza si manifestava la forza del papato e vi si identificava il concetto stesso di potere. Ci riportano le cronache, con dovizia di particolari, che il 20 dicembre 1655 la regina Cristina raggiunse il Vaticano a bordo di una lettiga appositamente disegnata da Gian Lorenzo Bernini. In suo onore, era stato lo stesso Bernini a restaurare Porta del Popolo, sulla quale si può ancor oggi leggere la scritta inneggiante al suo felice e fausto ingresso in città: «Felici faustoque ingressui». Quando la regina Cristina si stabilì a palazzo Barberini, prima tra le dimore romane, venne accolta da solenni festeggiamenti e da una folla di circa seimila spettatori, oltre che da una processione di cammelli ed elefanti abbigliati all’orientale e con torri in legno sulle loro groppe; memorabile il 28 febbraio 1656 in onore della sovrana la Giostra dei Caroselli, così come ci è trasmesso da un celebre dipinto di Filippo Gagliardi e Filippo Lauri. Trasferitasi a palazzo Farnese, decise di aprirvi il 24 gennaio 1656 l’Accademia Reale, imponendo ai componenti di aderire alla musica e al teatro.

Cristina di Svezia s’interessò diffusamente di cultura, quasi volesse trasformare la nuova corte in un esempio di rinnovato mecenatismo. La monarca, nel suo secondo soggiorno nella città dei Papi, fece costruire nel 1666 una sala nella sua residenza di palazzo Riario alla Lungara: il Teatro di Cristina di Svezia, dove si rappresentavano, oltre alle cantate, commedie che furono definite licenziosenell’ambiente eclesiastico, particolarmente critico nei confronti dei costumi liberaleggianti della sovrana. La struttura venne demolita dai Corsini, successivi proprietari dell’edificio. La regina Cristina si occupò di sale teatrali e in particolare del Tordinona, dove fece allestire per sé tre palchi con ingresso riservato, primo e prestigioso teatro pubblico romano, infelicemente demolito a fine Ottocento per far posto agli antiestetici muraglioni ai lati del Tevere della Roma post-unitaria. Il Teatro di Tordinona, poi Apollo, si può a diritto considerare quale il primo tra i grandi edifici teatrali della storia della Seconda Roma. Fu fatto edificare nel 1670 dal francese conte Giacomo (Jacques) d’Alibert, che il cardinale Decio Azzolino aveva raccomandato a Cristina di Svezia che lo nominò suo segretario dell’ambasciata o dei comandamenti. Il conte d’Alibert, per favorire la regina Cristina, fece richiesta che gli venisse concesso l’uso di una proprietà che affacciava sul Tevere per la costruzione di un teatro pubblico, una novità per la città di Roma.

Questo, prese il nome dall’antica torre: turris de Annona, della cinta muraria aureliana che nel ‘300 era passata di proprietà della famiglia Orsini, all’epoca prefetti dell’Annona, assumendo da questa qualifica l’appellativo. La richiesta fu accolta nel 1669 da papa Clemente IX, grazie alla mediazione della stessa sovrana. Per la costruzione furono abbattute strutture preesistenti, tra cui il vecchio carcere edificato nel 1410 della Confraternita di San Girolamo della Carità, da alcuni anni in disuso, con la tristemente celebre cella chiamata della vita dove fu rinchiuso, tra i tanti, Benvenuto Cellini. Il progetto venne affidato a Carlo Fontana, che ricavò una sala lignea nella tradizione del teatro all’italiana, con sei ordini di palchi. Del gennaio 1671 è la prima del dramma musicale Scipione Affricano di Francesco Cavalli, preceduto da un prologo di circostanza in lode di Clemente X e Cristina di Svezia, musicato da Alessandro Stradella. La vita del Tordinona sarà fortemente segnata dall’avvicendarsi al pontificato di personalità più o meno moralizzatrici, da cui ne dipesero le sorti. Nel 1675 anno giubilare, come imposto, tutti gli spettacoli nella Roma papale dovettero essere sospesi; in luglio dell’anno seguente morì Clemente X e il suo successore, Innocenzo XI, si dimostrò da subito avverso a ogni forma d’intrattenimento  e con provvedimenti restrittivi fece chiudere tutti i teatri. Una forma di repressione assoluta, tanto da essere soprannominato il papa minga, ovvero in dialetto lombardo, il papa del niente, chiosando il suo marcato accento comasco, da dove era originario papa Benedetto Odescalchi e marcato dall’ostilità per ogni forma d’intrattenimento che riuscì, però con difficoltà, a contenere l’irrefrenabile Carnevale romano. Alla morte di Innocenzo XI nel 1689, lo stesso anno della scomparsa di Cristina di Svezia, l’avvento al soglio pontificio del veneziano Alessandro VIII, nato Pietro Vito Ottoboni, permise la riapertura delle sale con la ripresa delle attività e fu l’occasione per il conte Giacomo d’Alibert di affidare nuovamente al Fontana il rinnovo del teatro.

Nel 1691 un altro cambio di pontefice e di conseguenza di filosofia per la Roma papalina, con l’elezione dell’intransigente Innocenzo XII, al secolo Antonio Pignatelli di Spinazzola, al quale sono riferite severe riforme, fra cui già nel 1792, un anno dopo la sua elezione, un decreto restrittivo sull’esecuzione di musiche nella liturgia. Il pontefice si mostrò talmente avverso a ogni tipo d’intrattenimento, che nel 1697 diede ordine di demolire il Tordinona, da poco ristrutturato, accusato di essere al centro di immoralità e scandali. Il teatro non venne riedificato sino al 1733, regnante il fiorentino Clemente XII, della famiglia Corsini. Ampliato, rimaneggiato, più volte a causa di crolli e incendi, la ricostruzione più importante per il Tordinona sarà quella intorno al 1790 di Felice Giorgi, nell’occasione rinominato Teatro Apollo, sul sipario dipinto da Felice Giani si volle far raffigurato Apollo sul carro del Sole. Considerato il teatro tra i più rilevanti della città, su quel palcoscenico vennero rappresentati molti lavori di maestri del ‘700, napoletani e veneziani. Dopo esser stato più volte venduto ed acquistato, dal 1820 divenne proprietà della famiglia Torlonia che nel 1831 provvide a commissionare un ulteriore rifacimento, con l’acquisizione della facciata neoclassica disegnata da un oramai anziano Giuseppe Valadier.

Nel 1839 venne dato incarico della gestione dell’Apollo all’impresario romano Vincenzo Jacovacci detto er Sor Cencio, che appoggiato dai Torlonia, gestì per quasi quarant’anni i principali teatri romani. Fu questo il periodo in cui l’Apollo conobbe maggior splendore, con in cartellone le opere dei più  famosi compositori e i cantanti più acclamati. Di quegli anni è la prima de Il trovatore di Giuseppe Verdi il 19 gennaio 1853 e sei anni dopo, il 17 febbraio 1859, quella di Un ballo in maschera avendo trovato il compositore per la sua nuova opera più comprensione nelle censura pontificia che in quella borbonica. Dopo l’elezione di Roma a capitale del Regno d’Italia nel 1871, l’Apollo fu promosso a teatro di prim’ordine e fu aggiunto il palco reale, ma inesorabilmente nel 1888/89 il teatro, che affacciava sul fiume, fu demolito per i lavori di costruzione degli argini del Tevere. Parte degli arredi saranno acquistati da Domenico Costanzi per arricchire gli interni del suo teatro, inaugurato al Viminale nel 1880. Nello stesso progetto verrà sacrificato anche un altro edificio teatrale, il più recente Politeama, che era stato inaugurato solamente nel 1862 sulla riva destra del Tevere, all’altezza di Ponte Sisto; qui due prime assolute per Roma di opere d’oltralpe: La notte di Valpurga di Gounod e Rienzi di Wagner. La famiglia Torlonia di origine francese di mercanti di tessuti e banchieri, nobilitati nell’Ottocento, oltre al Tordinona, acquisteranno anche i teatri Alibert, Capranica e Argentina, allo scopo di divenire arbitro della vita teatrale della città e in questo modo imporre una propria supremazia culturale, non scevri da fini investitivi, che nelle attività teatrali sono pur sempre rischiose.

Sempre i Torlonia, commissionarono un nuovo teatro, a uso sia pubblico che privato, all’interno del parco della villa di famiglia fuori le mura, conseguito nello stile del teatro di corte degli inizi del XVII secolo, ove all’impianto generale del teatro all’italiana venne aggiunto lo schema elaborato della Francia del XIX secolo, dotato di raffinati e stupefacenti marchingegni. I lavori del Teatro Torlonia iniziarono nel 1841 terminando solo nel 1871. Acquisito nella seconda metà del Novecento dal Comune di Roma in stato d’abbandono, quel palcoscenico è stato restituito alla città nel 2013, ma ancora in attesa di un utilizzo adeguato. La realtà romana, nei secoli, è piena di contraddizioni che affondano le radici nella volontà del Trono di Pietro che a rappresentare la città, al contrario di quanto accadeva in molti altre città di un’Italia ancora da unificare e nelle principali capitali europee in un rinnovato concetto urbanistico, non fosse il teatro ad apparire quale punto di riferimento di aggregazione sociale, bensì lo fossero i ben più indicativi, monumentali, edifici consacrati. A Roma i teatri sembrano erigersi con riserbo formale, per non essere in contrasto con il potere pontificio, che con la sua tramandata diffidenza e riserva nei confronti dei luoghi di spettacolo condizionava i costruttori con un tacito accordo di tolleranza, svago consentito con riserva, a patto che rimanga discreto al vedersi. Ancor più, perché i teatri erano dotati di piccoli salotti sospesi protetti dall’intrigante penombra, come definì Marcel Proust i palchi ed è racconto che lo scrittore si riferisse con questa descrizione a quelli del Teatro Argentina, ma Proust non soggiornò mai a Roma. Della vita teatrale romana s’interessò Stendhal, che non fu benevolo nei confronti della città, il quale nota stupito dei tendaggi dei palchi, uno diverso dall’altro, così come dei colori e degli stemmi di famiglie reali in esilio, che avevano trovato protezione nella città dei papi e che al pari e ancor più della nobiltà nera, abbellivano il palco di proprietà, spesso in una sorta di gara del lusso. Le dame vanno a teatro più per essere rimirate, corteggiate, vezzeggiate dai loro cavalieri e cicisbei, che per interessarsi allo spettacolo. Le stagioni d’opera a Roma si aprono puntualmente il 26 dicembre e durano sino all’ultimo giorno di Carnevale il martedì grasso, arrivate le Ceneri è consentito solo rappresentare oratori sacri. Già il Valadier lamentava di non aver potuto realizzare il suo progetto di un nuovo splendido teatro pubblico a Roma, presentato nel 1789 per il Concorso Clementino e da realizzarsi nell’area del Convento delle Convertite in via del Corso, così come non ci riuscirà nel tempo nessun’altra illustre figura. Proseguendo, del 1718 è il teatro voluto dallo stesso conte Giacomo d’Alibert sul fabbricato di sua proprietà per il gioco della pallacorda, aspirazione realizzata dal figlio Antonio. Il Teatro Alibert verrà edificato non lontano da piazza di Spagna, inaugurato con Alessandro Severo del compositore napoletano Francesco Mancini. Nel 1720 l’architetto Francesco Galli da Bibbiena lo amplia, ristrutturandone la sala. A causa dell’anno giubilare del 1725 tutti i teatri romani saranno chiusi e Antonio d’Alibert, aggravato dalle tante spese sostenute, verrà a trovarsi in difficoltà finanziarie, tantoché le autorità romane nel 1726 metteranno il teatro all’asta. Verrà acquistato da un consorzio di nobili e rinominato Teatro delle Dame, alla moda dell’epoca di dedicare le sale alle dame o ai cavalieri. La direzione del teatro passerà, quindi, ai Cavalieri di Malta, con i quali alcuni membri del consorzio avevano stretti legami. Nella prima metà degli anni ‘30 del Settecento è un ulteriore intervento, con ampia ristrutturazione e abbellimento, su progetto dell’architetto Ferdinando Fuga, con riapertura nel 1738 con il dramma per musica di Nicola Logroscino: Quinto Fabio. Felicissimi i cartellone di quegli anni e molti i titoli in prima su quel palcoscenico, considerato alla moda e di successo, dove si alternarono i cantanti più famosi dell’epoca.  Nel 1847 il duca Raffaele Torlonia, dopo averlo fatto demolire, ne affida la ricostruzione in solida muratura a Carlo Nicola Carnevali, corredandolo di vani per la sartoria, scuole di ballo e di musica. Il 15 febbraio 1836 un incendio, si sospettò doloso, lo distrugge definitivamente.

Altra casata di rilievo per la storia teatrale dell’Urbe è quella del cardinale Domenico Capranica, che vanterà nel tempo ben tre sale per lo spettacolo. Il primo teatro fu voluto nel 1679 da Pompeo Capranica, a  uso privato, all’interno del palazzo di famiglia a Santa Maria in Acquino. Ricostruito dal 1692 al 1695 dell’architetto Carlo Buratti, allievo di Carlo Fontana, venne aperto al pubblico. Nella sua storia ospitò circa 140 prime esecuzioni e per quel palcoscenico scrissero o riadattarono, all’uso dell’epoca: Antonio Caldara, Giovanni Bononcini, Antonio Vivaldi, Fernando Leo, Baldassarre Galluppi, Raimondo Lorenzini, Giovanni Paisiello, Niccolò Piccini, senza dimenticare lavori di Alessandro Scarlatti e Niccolò Porpora. Dopo un susseguirsi di traversie, nel 1881 venne chiuso per inagibilità dopo una recita di Ernani di Verdi. Degradato a deposito, il Capranica dal 1922 al 2000 è utilizzato quale sala cinematografica e infine centro congressi. Più nota la storia del secondo teatro voluto dai Capranica, costruito alle spalle del palazzo di famiglia a la Valle, dove nell’antichità era lo stagno di Agrippa. Venne edificato, forse, sui resti di un precedente edificio adibito a spettacoli costruito anch’esso in legno, su quelli che erano i giardini pensili con terrapieno del palazzo della famiglia dei Della Valle a Sant’Eustacchio, dove il cardinale Andrea Della Valle aveva raccolto una ricca collezione di marmi antichi, sistemandoli in un disegno di basilica all’aperto, anticipando così il concetto di museo. Il Valle, innalzato su progetto di Tommaso Morelli, venne inaugurato nel 1727 e vanterà molte prime di opere in musica che resteranno nella storia della composizione con protagonisti i più celebri compositori della Scuola Napoletana del ‘700 e nel secolo successivo Gioachino Rossini, come anche Gaetano Donizetti. Il Valle nel 1819 divenne in muratura su progetto di Giuseppe Valadier il quale, dopo il crollo dell’arco scenico, rinunciò e viene sostituito da Gaspare Salvi. Scrive il Valadier: «(…) era giunto alla sua decrepitezza il Teatro Valle, che fabbricato di Legnami, giusta il costume antico, formò per lungo tempo la delizia dei colti Abitanti di Roma. Quindi il Governo mi ordinò di esporre in disegno le mie idee sulla riedificazione di esso da farsi, no coi fragili Legni, ma coi cementi, in modo che fosse degno della città Regina».

L’impegno del Valadier assicurò al Valle una degna facciata in stile neoclassico, sia pur sempre discreta. Il Valle manterrà il suo prestigio nei secoli XVIII e XIX e dopo l’Unità d’Italia verrà corredato di palco reale, spesso frequentato dalla regina Margherita. La prosa prenderà il posto della lirica, salvo iniziative sporadiche quali il Sant’Alessio di Stefano Landi nel 1981 e due brevi stagioni a cura del Teatro dell’Opera nel 1991/’92 con La cenerentola di Rossini, che al Valle era stata rappresentata per la prima volta nel 1816, rinnovando con questa iniziativa la collaborazione con lo Sperimentale di Spoleto e la nuova produzione di Adina, ovvero il Califfo di Bagdad di Rossini. Chiuso per alterne vicende, dopo un successivo, accurato restauro il teatro è oggi a disposizione unicamente per attività di carattere culturale, non meglio definite. Un altro piccolo teatro verrà ricavato dai Capranica all’interno del loro palazzo a la Valle, all’altezza del piano nobile, il Valletto, attivo dal 1855 fu la prima sala a Roma ad essere illuminata a gas.

Voluto dal duca Giuseppe Sforza-Cesarini l’Argentina è l’ultima grande struttura edificata nella Roma papale, quasi un secolo e mezzo prima dell’elezione della città, nel 1871, a capitale del Regno d’Italia e dei grandi sventramenti e speculazioni edilizie che ne mutarono, almeno in parte, quella morfologia venutasi a formare nei secoli. L’Argentina avviò la sua attività il 13 gennaio 1732 con Berenice di Domenico Sarro, principale interprete il celebrato farfallino, il famoso castrato Giacinto Fontana, voce bianca particolarmente apprezzata da Montesquieu. Impresso nella storia il Teatro Argentina rimarrà per la tempestosa prima de Il Barbiere di Siviglia di Rossini del 1816, presentato per l’occasione con il titolo di Almaviva ossia l’inutil precauzione per evitare, inutilmente, la suscettibilità dei fautori del grande maestro Paisiello che aveva musicato sullo stesso libretto de Il barbiere nel 1782, al Teatro dell’Hermitage di San Pietroburgo. Ancora nella storia del teatro, nel 1849 durante la Repubblica Romana, la prima de La battaglia di Legnano di Giuseppe Verdi, con il teatro invaso da una folla entusiasta: “Viva l’Italia/ Sacro un patto/ tutti spinge i figli suoi”. Il progetto del nuovo edificio era stato affidato al marchese Girolamo Theodoli, che lo aveva realizzato con l’ausilio di un valido capomastro che vantava due sottoposti, fra cui mastro Zabaglia, inventore dei sampietrini. Prese il nome dalla torre che domina la piazza antistante, voluta dal vescovo Giovanni Burcardo, nel ‘500 maestro delle cerimonie pontificie, nativo di Argentoratum che è il nome latino di Strasburgo. Il Teatro Argentina nacque nella consapevolezza del suo ruolo protagonistico nella vita musicale della città e assunse da subito un ruolo importante nel panorama culturale romano, offrendo spettacoli di grande livello. Dal 1739 la rappresentazione di drammi in prosa con intermezzi musicali cedette il passo alla lirica, con particolare attenzione al dramma che era considerato un genere aristocratico rispetto alla più popolare opera buffa che, per questo, non apparve che raramente nei cartelloni del nuovo teatro. Più di 150 prime assolute costituiscono la ricca dote dell’Argentina. La costruzione dell’interno era così ammirata che l’architetto Giannantonio Selva la prese a modello per il progetto realizzato nel 1790/92 del Gran Teatro La Fenice di Venezia. Meno felice, come di prassi nella città dei Papi, risultò la facciata. Protagonisti di quegli anni: Alessandro Scarlatti, Christoph Willibald Gluk, Giovanni Paisiello, Domenico Cimarosa e sovrano incontrastato dell’opera seria il librettista Metastasio.

Tra le grandi feste musicali ospitate nella sala dell’Argentina, quella voluta dall’ambasciatore del Portogallo a Roma ad inizio del XVIII secolo, in segno della magnificenza del sovrano Giovanni V di Braganza, con ingresso libero per tutti i concittadini e alla quale molti romani si presentarono per entrar gratuitamente, affermando di essere di origine portoghese, da cui il detto fare il portoghese. Altro evento memorabile è quello commissionato nel 1757 da Frédéric Jérôme de la Rochefoucauld, ambasciatore di Francia presso lo Stato della Chiesa, per celebrare il decennale delle seconde nozze del Gran Delfino Louis Ferdinand di Borbone, con Maria Giuseppa di Sassonia, avvenute a Versailles. Innumerevoli gli eventi legati all’Argentina, teatro che meriterebbe da solo un intero capitolo di questa pur fuggevole carrellata dei teatri storici di Roma e del Lazio. Nel 1826 un restauro di Pietro Holl rivede la sala e realizza la nuova facciata neoclassica ed è così che il teatro apparve quando nel 1843 i Torlonia lo acquisteranno, sostituendo il loro più recente stemma a quello degli Sforza Cesarini. Il teatro cambia nuovamente aspetto per gli importanti lavori di ristrutturazione affidati all’architetto Nicola Carnevali, che ne modificano sostanzialmente la struttura. La vita dell’Argentina è destinata radicalmente a mutare dal 1869 con la vendita dei Torlonia al Comune. E’ la vigilia dell’annessione di Roma e nel 1871 viene decretata la sua elezione a capitale del Regno d’Italia. Dal 1870 risultò, in compagnia del solo Apollo, quale teatro di prim’ordine ed anche per l’Argentina era il momento per costruire il palco reale. Indispensabile per la capitale, alla stregua dei tempi, è di poter contare su di un nuovo, grande teatro di rappresentanza. I progetti si susseguiranno, nel 1886 il Consiglio Municipale manifesterà l’intenzione, in previsione della demolizione dell’Apollo, di costruire un nuovo teatro Massimo della città, da edificarsi su progetto dagli architetti Cipolla e Grimaldi nell’area oggi archeologica di fronte a quello che fu definito con poco rispetto il vecchio Argentina. Contrariamente, nell’impossibilità di garantire finanziamenti adeguati, verrà optato dal 1887 ed il 1888 per la ristrutturazione proprio del Teatro Argentina, per mano dell’architetto emerito del Comune di Roma: Gioachino Ersoch. L’architetto donerà alla struttura un’impronta tipicamente ottocentesca, arricchendola di ornati e tendaggi, soprattutto sostituendo i materiali settecenteschi con più solide murature, senza però alterarne le linee  caratterizzanti e proporzioni.In quegli anni, nuove per Roma all’Argentina: La bohème di Puccini, Andrea Chénier di Giordano, Loreley di Catalani, la Walkiria e il Crespuscolo degli dei di Wagner e tanti altri titoli. Il resto è pur sempre storia, nel 1926 un ulteriore restauro è affidato a Marcello Piacentini, architetto che in quegli anni aveva proposto al regine fascista un progetto per la costruzione nella capitale di un nuovo rappresentativo teatro reale. Ancora una volta ragioni economiche impedirono all’amministrazione pubblica di finanziarne il progetto e il governatorato deciderà di acquistare la maggioranza delle azioni dagli eredi di Domenico Costanzi che con i suoi mezzi, aveva fatto realizzare al Viminale, tra il 1979 al 1980, un nuovo teatro, il Costanzi, la cui ristrutturazione nel 1928 venne affidata allo stesso Piacentini, che sarà obbligato ad accettare l’incarico. L’Argentina negli anni successivi vivrà ulteriori interventi ed ancora affronti, come quello attuato del 1967 all’insegna della furia iconoclasta che ne alterò, fortunatamente non in modo irrimediabile, l’aspetto dei locali d’accesso e la sala. L’Argentina tornerà al suo splendore nel 1993 a seguito del minuzioso intervento di Paolo Portoghesi, senza più palco reale, ritrovando una sua più precisa linea stilistica.

Siamo nella Terza Roma è primo tra i grandi edifici edificati nell’eletta capitale del Regno d’Italia è il Costanzi, che prese il nome da Domenico Costanzi, abile costruttore e gestore di grandi alberghi, nativo di Macerata, dove aveva coltivato la passione per la musica frequentando il teatro locale dei Nobili Condomini, poi Lauro Rossi. In terra marchigiana primeggiavano le produzioni rossiniane e si dice che il giovane Domenico, che professionalmente avrebbe seguito le orme del padre costruttore, abbia partecipato nel 1832 quale corista a un’esecuzione al pianoforte del Guglielmo Tell in casa degli Azzolino. Domenico Costanzi, dopo aver girato l’Europa e aver approfondito la realtà di molte importanti città, si trasferì a Roma, Qui, dopo essersi arricchito con speculazioni edilizie, volle che un nuovo teatro fosse realizzato vicino al maggiore dei suoi alberghi, la Locanda del Quirinale. Costanzi aveva proposto, nella moda del tempo, la costruzione di un grande politeama destinato soprattutto al pubblico borghese dei nuovi quartieri, ma la promiscuità di questo genere di edificio aveva provocato tali diffidenze da invitare il costruttore da recedere dal modello. Nel presentare il suo progetto Costanzi aveva avuto fiducia di poter contare su fondi pubblici, che a parte insignificanti interventi, gli furono sempre negati. Dovette, quindi, impegnare tutto il suo capitale per portare a termine l’edificio, tanto da dover ipotecare, poi vendere, alcune sue proprietà, la casa della moglie e infine la propria. L’avversità dei romani per un nuovo teatro, da erigere sul colle del Viminale, considerato luogo troppo lontano da quelli che era stati per secoli i luoghi tradizionali dello svolgersi della vita della città, dove erano stati innalzati i principali edifici storici, sembrò insanabile:  «Un teatro lassù! – si mormorava in città – E chi vorrà andarci? (…) Torni, torni all’albergo». Fu così che Domenico Costanzi, forse suo malgrado, si trasformò in generoso mecenate della vita musicale romana. L’incarico di progettare il nuovo edificio venne affidato all’architetto milanese Achille Sfondrini di comprovata esperienza, a cui si doveva l’edificazione di numerosi teatri in Lombardia e in Emilia, ma in quella fine di secolo la commissione del Costanzi sarà per lui l’occasione più rilevante. Concepito sempre a forma di ferro di cavallo, in stile eclettico, con particolare cura per il risultato acustico, ideato come in una «camera armonica» (così è definita in Cenni Illustrativi del Nuovo Teatro Nazionale del signor Domenico Costanzi, sul progetto dell’ingegner architetto Achille Sfondrini), il teatro verrà completato in soli diciotto mesi eretto, forse casualmente, tra le vie rispettivamente intitolate a Torino, prima capitale e Firenze, capitale ad interim.

Teatro dell’Opera di Roma Photo credits: Yasuko Kageyama

In origine il teatro può ospitare circa 2000 posti, disponendo di tre ordini di palchi, il quarto non poté essere realizzato per i costi crescenti, di un anfiteatro e di una galleria, il tutto sormontato dalla cupola affrescata dal perugino Annibale Brugnoli. L’esterno, in stile cinquecentesco, era mancante di una facciata vera e propria e dotato di tre ingressi distinti, per rassicurare aristocratici e borghesi di non doversi mischiare con il popolo delle due gallerie. Il Costanzi, poi Reale, infine Teatro dell’Opera, che sarà soggetto ai pesanti interventi di Marcello Piacentini degli anni venti del ‘900 che vi portarono rilevanti modifiche, rappresenta per Roma l’ultimo esempio di quella architettura teatrale-musicale italiana avviatasi ai prima del ‘600 col Barocco e passata attraverso il lungo ciclo del neoclasicismo, durato in campo teatrale anche in pieno romanticismo e post romanticismo. Inaugurato il 27 novembre 1880 con Semiramide di Rossini, quella sera al Costanzi, era presente tutta l’aristocrazia romana e l’alta borghesia.

Re Umberto I e la regina Margherita vi erano giunti fra due drappelli di corazzieri in alta uniforme, accolti trionfalmente al loro ingresso, con orchestra e banda in palcoscenico inneggiando la Marcia Reale. Domenico Costanzi, per agevolare il riconoscimento del suo edificio a teatro di rappresentanza della capitale, aveva voluto che l’architetto Sfondrini prevedesse un elegante palco reale con corona sovrastante, che venne rimossa dopo la proclamazione della Repubblica, lasciando i due putti che la sorreggevano sostenere il nulla, corona ricostruita e rimessa al suo posto, in una concezione storica di ripristino della sala, negli anni ’90. L’orchestra abbassata ribassata rispetto al livello della platea, all’uso wagneriano, era una novità per il pubblico romano, che l’aveva guardata con proverbiale diffidenza.

Il Costanzi, oggi Fondazione Teatro dell’Opera di Roma, sin dai primi anni acquistò un’importanza europea, divenendo il teatro dei nuovi autori, quali Mascagni con Cavalleria Rusticana e Iris e Puccini che aprì il secolo facendo furore con il più romano dei melodrammi Tosca. Ripercorrerne la storia richiederebbe un volume dedicato; riporteremo solo alcuni tra i tanti episodi che ne caratterizzarono le attività. La gestione del Costanzi era passata nel 1888 a Eduardo Sonzogno, l’editore investì immediatamente il teatro a sede di rappresentazione delle sue pubblicazioni, in palese contrasto con l’editore Ricordi che ostacolava a queste l’ingresso al Teatro alla Scala di Milano.

Soffitto dell’Opera di Roma: Affresco di Annibale Brugnoli

Sonzogno lavorò con scrupolo a una stagione estremamente ricca di titoli e aperta a novità musicali di compositori italiani e d’oltralpe, tanto da assicurarsi l’interesse di pubblico e critica. Intanto erano maturi i tempi per la seconda edizione Concorso Sanzogno, che prevedeva di presentare all’apposita commissione un‘opera inedita in un atto unico da rappresentarsi nel teatro. Al primo posto venne selezionata Cavalleria rusticana di Pietro Mascagni. La prima di Cavalleria nella sala del Costanzi era prevista per martedì 13 maggio sennonché, per la superstizione della protagonista Gemma Bellincioni, la data slittò a sabato 17 maggio 1890. Il teatro, essendo la rappresentazione di un compositore allora sconosciuto, era tutt’altro che gremito, ma un fu un vero trionfo, con numerose chiamate al proscenio per Mascagni, il direttore Leopoldo Mugnone, la Bellincioni e Tito Stagno. Dal 1909, per un breve periodo, Pietro Mascagni è nominato direttore artistico del teatro. Il 14 gennaio del ‘900 al Costanzi la prima di Tosca, quella sera voci allarmistiche aveva turbato la concentrazione degli artisti. Riporta la brillante penna di Gino Tani che poco prima dell’inizio un uomo sconosciuto si avvicinò al direttore di origine napoletana Leopoldo Mugnone: «Maestro – disse – qualunque cosa accada lei attacchi subito la marcia reale» e il maestro allarmato «…ma che d’è. Che succede? E vuoie chi site? » e in risposta: «sono il commissario di pubblica sicurezza … pare che si tratti di un complotto .. si parla di bombe». Re Umberto il 29 luglio di quell’anno sarà assassinato a Monza. In sala al Costanzi un pubblico elegantissimo, con eminenti personalità politiche e culturali, presente la stessa regina Margherita che, trattenuta da un pranzo a corte, era giunta in ritardo. Nessun attentato in sala, ma molti fastidi tra il pubblico che entrava a spettacolo iniziato, tanto che per alcuni minuti si dovette sospendere l’esecuzione. Successo tiepido ed il capolavoro di Puccini dovette attendere le repliche per il meritato riconoscimento. La conduzione amministrativa del teatro fu rilevata nel 1907 dall’impresario Walter Mocchi e nel 1908 entra prepotentemente nella vita del teatro la figura di Emma Carelli, non più solo quale acclamata interprete ma, in compagnia del marito Walter Mocchi, abile e ed intelligente organizzatrice. Nel 1912 Emma Carelli viene nominata direttrice e responsabile della nuova Impresa Costanzi e per il teatro iniziava una nuova, brillante pagina, che si sarebbe conclusa nel 1926, con una recita de Il matrimonio segreto di Cimarosa, con la quale la Carelli lasciava l’impresariato del teatro, ceduto al Governatorato di Roma, che ne aveva acquistato dagli eredi di Domenico Costanzi la maggioranza delle azioni, per trasformarlo in teatro reale, alla stregua delle maggiori capitali europee. Il regime fascista voleva per Roma un grande teatro di rappresentanza e nell’impossibilità, anche allora per ragioni economiche e organizzative, di provvedere all’edificazione di un nuovo edificio, era stato deciso di fare rinnovare il Costanzi da Marcello Piacentini, uno dei più stimati architetti del momento. Piacentini non avrebbe voluto accettare, avendo presentato un progetto per un nuovo teatro innovativo e non volendo ripiegare su di un lavoro di ristrutturazione, come lui stesso motiverà nei suoi Studi per il teatro Massimo di Roma: «In Roma Capitale d’Italia, manca il grande Teatro di Stato. Sono celebri i Teatri di Corte  o di Stato di altre nazioni (…) Le altre Città d’Italia, già Capitali di Stati, anche piccoli hanno magnifici Teatri (…) In Roma il Costanzi di proprietà privata … pur avendo una sala di grandi linee, non risponde alle esigenze estetiche  e tecniche di una grande Teatro moderno …». Nasceva così il Teatro Reale dell’Opera, con le modifiche volute da Macello Piacentini, che ancora una volta era stato costretto ad imporsi un ulteriore radicale ripensamento delle sue ambizioni, in questa occasione sulla possibilità di trasformazione del Costanzi, del quale aveva previsto una parziale demolizione. Il lavoro comprendeva la costruzione del quarto ordine di palchi che venne, però, realizzato solo nell’estate del ‘28, aggiunta che era stata prevista nell’originale progetto di Sfondrini che, come già detto, vi aveva dovuto rinunciare a causa delle sopraggiunte ristrettezze economiche. Venivano eseguite con maggiore ricchezza le decorazioni in sala e nei locali d’intrattenimento del pubblico. Un grandioso lampadario, realizzato a Murano in cristallo di Boemia, il più grande d’Europa, dominava ora la sala. Il teatro era arricchito, inoltre, da un nuovo sipario di 80 metri quadrati, tessuto da esperte ricamatrici delle Industri Femminile Italiane con la tecnica degli antichi parati eclesiastici, velario che andò distrutto in un principio d’incendio circa nel 1989. Venne ampliato il palcoscenico, avvalendosi delle capacità di Pericle Ansaldo. Si realizzava la facciata, anche con ulteriori interventi, sia dell’estate del ’28 che del ’29, fatta avanzare con un portico venutosi a creare su via Viminale, oggi piazzale Beniamino Gigli, dopo la dolorosa demolizione del confinante Casino degli Strozzi.

Il 25 febbraio 1928 il teatro riaprì con la prova generale del Nerone, seguita due giorni dopo dall’inaugurazione del Reale, con l’opera incompiuta di Arrigo Boito, titolo favorito dal regime fascista perché riferito alla storia dell’antica Roma. Impresario di questa prima stagione è Ottavio Scotto, chiamato a sostituire Emma Carelli, che scomparirà improvvisamente per un incidente d’auto pochi mesi più tardi, nel maggio del ’28. Custodi del turno di notte tramandano di aver visto una signora con cappello e il viso velato, affacciarsi tra le tenebre della sala nel palco dal terzo ordine di palchi (che all’Opera si chiama secondo), proprio quello da cui era solita affacciarsi l’artista, il più vicino al suo ufficio. Scriverà Augusto Carelli alcuni anni più tardi ricordando la sorella Emma: «Il destino ha coinvolto la vita di mia sorella nelle mura e nell’anima sonante del Teatro Costanzi (…) Il Teatro Costanzi è stato sempre lo spasimo e la gioia della sua vita». I primi cartelloni del Teatro Reale si gonfiano di titoli e a Roma sono presenti per le ricche stagione dell’Opera i principali artisti. Nel 1958/59 si eseguirono nuovi lavori di restauro e consolidamento, sempre su progetto di Marcello Piacentini. Si modifica la facciata e l’anziano architetto ne affida la realizzazione a un assistente. Il risultato non fu dei più felici, tanto che su Il Messaggero del 30 novembre 1959 il cronista espresse la sua più vivace disapprovazione: «(…) contentiamoci della brutta architettura che abbiamo potuto realizzare (…) Ognuno ha quel che si merita e Roma non meritava di più».

Nell’attuale periodo di chiusura, a causa della pandemia si è provveduto a lavori di manutenzione e tra i diversi interventi, in vista della riapertura al pubblico che si spera imminente, verranno sostituite le poltrone di platea, che saranno rimpiazzate con delle nuove realizzate su disegno di quelle originali del Reale del 1926, poltroncine singole accostate tra di loro, recuperando una tradizione d’arredo più consona ed elegante.

Nel Lazio i teatri storici che rivestono una certa importanza si trovano a Civitavecchia, Viterbo, Rieti e il più recente, del Novecento, a Latina. Vi sono molte altre sale teatrali, a sud di Roma nei suoi Castelli, in Sabina e un poco ovunque, ricavate in chiese sconsacrate, all’interno dei monumentali palazzi principeschi, per lo più passati di proprietà comunale o derivanti da locali che nascevano quali cinema e dove successivamente venne ricavato un sia pur ridotto palcoscenico; per lo più in uso per la prosa, concerti con organico ridotto e pur sempre luogo d’incontro per la cittadinanza.

A nord di Roma, d’importanza strategica per il suo porto è la città di Civitavecchia, nei pressi della villa dell’imperatore Traiano, fondatore della tirrenica Centumcella, dove il principale teatro della città, nella emancipata coscienza storica che animerà l’Ottocento italiano, non poteva che essergli dedicato. Già dal 1786 Civitavecchia vantava un teatro interamente in legno, progettato da Ubaldo Minozzi da cui prese il nome, realizzato nella parte centrale e storica della città. Realizzato nella forma ad U in uso nel XVIII secolo, dotato di 40 palchi posti su tre ordini. Monsignor Vincenzo Annovazzi arcivescovo d’Iconio, nella sua Storia di Civitavecchia, c’informa  che durante la visita di papa Gregorio XVI il 20 maggio del 1835 furono chiesti al pontefice interventi per migliorare l’aspetto urbano della città, tra cui l’edificazione di un nuovo teatro. Nell’atto consiliare datato 11 giugno 1838 per la prima volta ci si riferisce al progetto per il nuovo teatro, da realizzarsi in solida muratura dall’architetto Antonio De Rossi.

La sua struttura è quella tipica a ferro di cavallo, con un’ampia platea, quattro ordini di palchi e un grande loggione. Si volle situarlo nel lussuoso quartiere con vista mare di Monte Claire e il Teatro Traiano venne inaugurato il 4 maggio 1844 con Estorgia da Romano di Donizetti, abile travestimento di Lucrezia Borgia, rinominata e modificata al fine di evitare problemi con la censura pontificia e con La vestale di Saverio Mercadante, inoltre due balli. Il vecchio Minozzi venne probabilmente chiuso e destinato all’abbandono, ma non precedentemente al 20 gennaio 1841, quando ospitò Gaetano Donizetti in una delle undici repliche a cura dell’Accademia Filarmonica di Civitavecchia de L’esule di Roma. Così descrive l’Annovazzi il nuovo teatro: «La figura di perfetto ferro di cavallo lo rende armonico a sufficienza, e la sua ampiezza è tale da poter contenere mille spettatori; il grande sipario dipinto maestrevolmente ad olio dal chiaro professor Podesti rappresenta uno de’ più belli fatti dell’istorie di Civitavecchia, quando cioè l’imperatore Traiano gettava le fondamenta del porto, ed offeriva sul lido stesso un sacrificio a Nettuno».

Per tutto il XIX secolo Il Traiano proseguì un’intensa attività e divenne punto di riferimento della vita culturale-politica della città. Il 2 ottobre 1870 ospitò il plebiscito all’annessione di Civitavecchia al Regno d’Italia. Il teatro fu distrutto quasi completamente il 14 maggio del 1943 dal devastante bombardamento su Civitavecchia dalle forze aeree americane, si salvarono solo la facciata e i locali adiacenti. Fu ricostruito in modo totalmente differente, con una piccola galleria e un’ampia sala. Inaugurato nella nuova configurazione nel 1948, fu successivamente adibito a cinema. Chiuso per restauri nel 1978 è stato riaperto dopo ventuno anni di silenzio il 29 maggio del 1999. Il sipario, dipinto dall’anconetano Vincenzo Podesti, fratello del più noto Francesco, membro dell’Accademia di San Luca, salvato dalle distruzioni del conflitto bellico è andato perso nel dopoguerra.

Teatro Unione di Viterbo – Progetto di Virginio Vespignani (1808-1882)

Nell’alto Lazio o Tuscia vi è la città di Viterbo, la cui principale costruzione teatrale è dovuta all’ unione di un gruppo di cittadini viterbesi che nel 1844 formarono la Società dei palchettisti e che da questi prende il nome di Teatro Unione o dell’Unione. Considerato oramai inadeguato il precedente Teatro del Genio, per capienza e scarsa connotazione sul tessuto urbano, per soddisfare le rinnovate esigenze ed il grande interesse che i viterbesi nutrivano per l’opera lirica, venne deciso di edificare un nuovo teatro. Scartata l’ipotesi di demolire la precedente struttura, la scelta del luogo dove erigerlo ricadde sulla Contrada San Marco. La Deputazione propose, inoltre, che la nuova costruzione dovesse richiamarsi nella forma al celebrato Teatro Argentina di Roma. Il 20 Giugno 1845 fu bandito il concorso per il progetto e l’incarico di valutarne le proposte fu attribuito all’Accademia Nazionale di San Luca, che ne affidò la realizzazione all’architetto Virginio Vespignani, esponente di spicco del tardo classicismo eclettico.

Il Teatro Unione venne edificato con sala a ferro di cavallo e 4 ordini di palchi e fu detto tra i più belli del Lazio. Inaugurato nel 1855 con una stagione lirica che ebbe inizio il 4 agosto per concludersi il 25 settembre, comprendeva l’esecuzione di tre melodrammi e un balletto, tra cui il Viscardello di Giuseppe Verdi, anche in questo caso un espediente per raggirare l’ottusa censura del tempo, qui impersonata dal censore artistico pontificio il poeta romanesco Giuseppe Gioachino Belli, per mascherare il messaggio considerato eversivo del Rigoletto di Giuseppe Verdi/Victor Hugo. A causa dei gravi danneggiamenti subiti dai bombardamenti della Seconda guerra mondiale, nella necessità di reperire ingenti somme per la ricostruzione, venne posto fine a quel condominio costituente tra Palchettisti e Comune e dal 9 dicembre 1949, con decreto prefettizio, la proprietà passò esclusivamente a comunale. Il teatro fu nuovamente inaugurato nel settembre del 1952. Dopo un’ulteriore chiusura di oltre sei anni, dovuta a lavori di ristrutturazione, l’Unione è stato riaperto al pubblico il 13 giugno 2017. Il teatro, oltre a spettacoli operistici e di prosa, ospita il Concorso internazionale di canto intitolato al tenore viterbese Fausto Ricci.

Nel 1923 il territorio di Rieti fu scorporato dall’Umbria ed inserito nel Lazio e nel 1927 venne ricostituita la provincia. Quindi, laziale è da considerarsi il Teatro Vespasiano di Rieti, edificato tra il 1883 e il 1893 da Achille Sfondrini, ben conosciuto nello Stato della Chiesa per aver realizzato il Costanzi di Roma, architetto che per il progetto dell’interno del Flavio Vespasiano prese come modello il Teatro Verdi che aveva precedentemente realizzato a Padova, non del tutto dissimile dalla sala del Costanzi, sia pure in formato ridotto. Il nuovo teatro veniva a sostituire precedenti strutture, la prima delle quali a Rieti era stato lo spazio organizzato dell’Accademia del Tizzone, i cui locali nello scorrere del tempo si erano dimostrati non più confacenti alle rinnovate esigenze, così che tra il 1765 e il 1768 l’edificio venne demolito e al suo posto edificato il Teatro dei Condomini, una costruzione più ampia, sempre realizzata in legno. Nel passare del tempo anche questo edificio si dimostrò inadeguato, nell’orgoglio cittadino di poter contare su di un teatro di maggiore prestigio che potesse competere con le nuove sale teatrali che si andavano costruendo nel resto degli Stati italiani. Del 1838 è un primo progetto di Luigi Poletti, ma fu l’architetto Vincenzo Ghinelli ad individuarne la collocazione lungo l’attuale via Garibaldi. La bella impresa, come fu definita, non riusciva, però,  a prendere quota se non quando costretti, nel 1883, essendo stati l’anno precedente dichiarati inagibili i teatri lignei, così che si placarono le molte discussioni che avevano tardato di quasi cinquanta anni la realizzazione del nuovo teatro. Il 16 dicembre 1883 fu posta la prima pietra di quello che sarà il Flavio Vespasiano, dedicato all’imperatore romano che vantava origini sabine. Anche su questa denominazione si aprirono vivaci controversie, perché in molti avrebbero voluto intitolarlo al compositore reatino Giuseppe Ottavio Pitoni alla cui memoria, però, nell’entusiasmo post-risorgimentale, fu rimproverata un’appartenenza troppo clericale. Dopo dieci anni di lavori e ritocchi sotto la direzione dell’architetto Sfondrini, soprattutto a causa del perdurare dei lavori per la decorazione della sala, il teatro fu inaugurato il 20 settembre 1893 con le rappresentazioni di Faust di Charles Gounod e di Cavalleria rusticana di Pietro Mascagni. Dopo appena cinque anni l’edificio fu danneggiato dal terremoto del 1898, che provocò il crollo della cupola e di parte della facciata. Del 1901 è la nuova cupola con pittura a tempera di Giulio Rolland. Nel corso della Seconda guerra mondiale il teatro ha subito gravi danni a causa dello scavo di un rifugio antiaereo. Restituito alla città, per diversi anni ha ospitato le attività del Concorso intitolato al celebre baritono Mattia Battistini, voluto nel 1979 dal direttore d’orchestra Maurizio Rinaldi con il fondamentale apporto dell’attrice e regista Franca Valeri, che tanto si prodigarono con questa iniziativa alla promozione di giovani voci italiane. Si susseguono per il Vespasiano interventi di adeguamento e ripristino che alla fine degli anni novanta ne restituiscono l’originario decoro. La sala a ferro di cavallo, che con i restauri effettuati dal 2005 al 2009 ha ritrovato le ottocentesche tonalità crema, si presenta oggi con le sue poltroncine rosse, tre ordini di palchi per un totale di 72 palchetti, loggione e palco reale. L’interno è sovrastato dalla grande cupola, con imponente lampadario che ricorda quello del Reale dell’Opera di Roma. Dal 2019 il sipario storico raffigurante La resa di Gerusalemme a Tito Flavio Vespasiano, dipinto da Antonino Calcagnadoro nel 1910, restaurato dall’Accademia di belle arti dell’Aquila, è nuovamente esposto al pubblico. Il Teatro Flavio Vespasiano è noto, inoltre, per l’ottima acustica.

Siamo nel Novecento, nell’originaria Littoria, edificata a seguito della Bonifica dell’Agro Pontino, ribattezza in seguito Latina. Nato come Caserma della Gioventù Italiana il Palazzo della Cultura è l’edificio realizzato nel 1942 su progetto dell’architetto Oriolo Frezzotti, di cui fanno parte il Teatro Comunale Gabriele D’Annunzio, il più contenuto Comunale Cafaro e quello che è stato definito un piccolo gioiello: il Teatro dei Mille. Strutture per la cui riapertura e agibilità non sono mancate accese polemiche. Negli anni ’90, l’allora sovrintendente del Teatro dell’Opera di Roma Giampaolo Cresci venne interessato al rilancio della struttura, che si risolse con pochi appuntamenti, tra cui un trionfale concerto del soprano Katia Ricciarelli. Riaprire il D’Annunzio, quale punto di riferimento culturale della città, deve essere un impegno di tutti, è stato dichiarato e l’augurio è che possa avvenire al più presto, con una programmazione adeguata.

Vincenzo Grisostomi Travaglini

“Due magnifiche proposte verdiane”, un articolo del Maestro Vincenzo Grisostomi Travaglini in “L’Opera International Magazine”, Giugno 2021

Ci sono gesti che rimarranno a segno di questa attesa riapertura del Teatro dell’Opera di Roma, dopo l’accoglienza del sindaco della Capitale, è il maestro Michele Mariotti, a girarsi dal podio verso la sala illuminata e con l’orchestra in piedi, a liberarsi dalle tensioni in un lungo applauso rivolto dall’ampio palco al pubblico ritrovato. Due giorni dopo, per Santa Cecilia, il Direttore musicale Sir Antonio Pappano, prende la parola e si rivolge ai presenti: «Caro… Carissimo pubblico», accentuando con il superlativo quel sollievo per un’espressione artistica altrimenti imposta al vuoto del vasto auditorium. Con l’orchestra dell’Accademia è Pëtr Il’ič Čajkovskij a trionfare con l’esecuzione della Sinfonia n. 6 in si minore Patetica di rara, appassionante intensità. Nella sala del Costanzi, il protagonista è Giuseppe Verdi, con tre dei ballabili tratti da opere nell’edizione parigina da Grand Opéra, dove al terzo atto l’inframmezzarsi della danza all’azione drammaturgica era pressoché d’obbligo. A Roma, però, il tradizionale ponentino si rafforza di ben altri venticelli che, stando ad insistenti indiscrezioni, causerebbero un mulinello di nomine ai vertici delle due Fondazioni Capitoline. Il maestro anglo-italiano Antonio Pappano è stato recentemente designato Chief conductor della London Symphony Orchestra e alla scadenza quale Direttore musicale dell’Accademia romana nel 2023 assumerà per Santa Cecilia la carica di Direttore emerito, un’accennata “Brexit-musicale” nonostante le rassicurazioni che non si tratterà di una funzione solo di facciata e al suo posto potrebbe essere nominato Daniele Gatti, che in passato vi aveva ricoperto la carica di Direttore stabile dal 1992 al 1997. Gatti che lascerebbe a fine mandato analogo incarico al Teatro dell’Opera, dove a succedergli sarebbe Michele Mariotti. Tutto al condizionale, ma già si vocifera, a presumibile conferma dei fatti, sull’ipotesi che nel 2024 quando sarà l’orchestra dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia a presiedere al Festival di Pasqua di Salisburgo, che a dirigere la prevista Madama Butterfly, che si vorrebbe sostituita con La forza del destino, sarebbe confermato Pappano e non il subentrante Gatti; tante ipotesi di un mondo della musica in divenire. Per restare all’oggi, di certo, all’Opera di Roma con il recente concerto dedicato ai ballabili e a poca distanza della Luisa Miller in forma di concerto, si consolida nel nome di Giuseppe Verdi l’ottimo rapporto di Mariotti con l’orchestra del Lirico della capitale. L’esecuzione dei ballabili era già in programma quando è arrivata la notizia sulla possibilità di riaprire i teatri al pubblico e in poche ore la biglietteria, con ingressi a prezzo simbolico, ha fatto registrare il tutto esaurito, sia pure nella ridotta disponibilità consentita di platea e palchi. L’interesse maggiore della proposta è stato nella valutazione schiva da prevenzioni di Mariotti per queste musiche, un tempo relegate quali superflue appendici ballettistiche, diminuite nel giudizio a un opportunismo compositivo avulso da esigenze narrative, se non nell’obbligo del Grand Opéra, in quella Parigi a cui Verdi si rivolgeva.

Mariotti, nella sua lettura personale, ne ha liberato l’effettivo valore musicale e di struttura, con convinzione e vivacità e l’esecuzione si è arricchita, nella raffinata strumentazione, di uno spessore narrativo quanto sinfonico che si è imposto su qualsiasi pregiudizio. Primo tra i ballabili quelli per il Don Carlos, tante volte ripensati dall’autore in quella complessa concatenazione di prove, idee e costrizioni. Il risultato per Le ballet de la reine: La Pérégrina, è di grande raffinatezza, elegante orchestrazione e dinamicità. Importante è crederci sino in fondo, così che il suono strumentale nella lettura di Mariotti s’identifica in canto, negli assolo e nel dialogare delle sezioni, con tale partecipata passionalità, tanto che nel finale la bacchetta gli è sfuggita di mano, sino a raggiungere le poltrone della platea. L’approccio alla musica verdiana di Mariotti è di volta in volta differente e il maestro si lascia come “stupire” dalle molte invenzioni, spronandone ogni spunto e in questi ballabili ve ne sono tanti, per valorizzare nella raffigurazione l’impulso in un segmento altrimenti riservato alle esigenze dei danzatori, evocatore di quella teatralità che puntualmente e in ogni genere è presente in Verdi. Incalzanti, seguono i ballabili dal Macbeth inseriti nell’edizione parigina, voluti in un più ampio ripensamento del compositore, che da lavoro giovanile per il Théâtre Lyrique traghetta il “suo” Shakespeare nell’accuratezza di una raggiunta maturità, tantoché Casa Ricordi li riportò in Italia nella rinnovata edizione a stampa. Concludono i più ampi ballabili da Les vêpres siciliennes, inquadrati nel tema codificato de Les quatre saisons.

Si torna allo streaming per la successiva Luisa Miller, rinviata a poche ore dall’esecuzione, a causa del tampone positivo di alcuni elementi del coro e riproposta a distanza di meno di due settimane. La prima è diffusa in diretta da Rai Radio3 e successivamente offerta in differita sul canale YouTube dell’Opera di Roma. Predisposta in forma di concerto in periodo di chiusura, per il dovuto distanziamento il coro è sistemato in platea e nei palchi e quindi senza la possibilità di accogliere il potenziale pubblico ed è impossibile ripensarne l’allestimento in così poco tempo. Per Mariotti è un debutto nel titolo e sin dalle prime battute la memoria torna al 2007, quando il giovane direttore si presentò al Comunale di Bologna con il Simon Boccanegra, perché l’approccio alla partitura verdiana, ieri come oggi, presenta caratteristiche analoghe, sia pure con la diversa consapevolezza delle proprie validità, ma con immutata passione. Il direttore affronta la partitura di Luisa Miller prendendo avvio dal solco della tradizione, per poi manifestarsi in tutte quelle sonorità di una sensibile, vigorosa ricerca di un’espressione che non fluisca da costruzioni pragmatiche, bensì da un naturale sviluppo di una riaffermata vitalità. Il direttore si avvale per questo debutto di una compagnia di canto, nell’insieme, di ottimo livello, nella partecipazione della quale si mostra, nelle intenzioni esecutive, una netta spartizione generazionale, tra artisti di più recente affermazione e smaliziati professionisti. Tra i primi il valido soprano Roberta Mantegna che nella sua già significativa carriera è d’orgoglio dell’iniziativa Fabbrica il programma per giovani artisti dell’Opera di Roma; il già affermato tenore Antonio Poli e il basso Marko Mimika. Questi tre interpreti hanno dimostrato maggiore disponibilità ad esprimersi, pur nella staticità della forma di concerto, priva di movimenti, ma non d’intenzioni. Roberta Mantegna è una Luisa appassionata e dagli adeguati mezzi vocali e se risente nel terzo atto di una minore aderenza espressiva, va a sua difesa l’evidente emozione nell’affrontare un personaggio di così complessa configurazione, con impegno vocale a tutto campo. Dall’enfasi al patetico il Rodolfo di Antonio Poli si presenta al meglio in tessiture che richiedono al tenore ampia flessibilità, esprimendosi appieno nell’elegiaco di Quando le sere al placido, dove il solista si raccoglie, quasi trasfigurando, esibendo un buon legato e alla ricerca di raffinate mezze voci proprie della scrittura verdiana e nei limiti di una tradizione interpretativa, ma che per il pieno risultato, pur apprezzandone l’impegno, necessiterebbe uniformemente di maggiore naturalezza. L’impressione in generale è che per i cantanti sarebbero state necessarie più prove, ma probabilmente la particolare situazione, il rinvio dovuto al contagio, gli spazi ristretti per una pur contenuta dinamica della parola scenica che sempre necessità di vitale svolgimento, tutto questo potrebbe aver influito per una più convincente resa d’insieme e sviluppo nell’introspezione dei ruoli, che in Luisa Miller rappresenta la vera svolta della complessità verdiana agli albori degli anni ’50 dell’Ottocento.

Di queste barriere sembrerebbe averne risentito anche il fronte più navigato, con Roberto Frontali di provata esperienza, oramai ospite fisso dell’Opera, che di recente vi ha affrontato ruoli che si possono ben considerare in linea evolutiva con la figura paterna di Miller, ma che pur in pochi anni di scrittura verdiana hanno marcato ben distinti accenti, così che il baritono è apparso già composto genitore nel ricorrente rapporto di padre e figlia, per un Miller che vorrebbe una maggiore aderenza a quel canto, di cui Frontali fu maestro, riferito più a un Verdi trascinante o ancor prima a un’eleganza e trasporto di derivazione donizettiana. A suo agio l’altro indiscusso professionista, il basso Michele Pertusi, che ha ben ribaltato alcune stanchezze vocali in personale assimilazione, cattivo ma non troppo Conte di Walter, già autoritario precursore con consapevole mestiere del gioco delle sonorità assegnate al basso della maturità verdiana, qui dai colori disimpegnati nella musicalità danzante di un ancor risorgimentale compositore, dominante sul complementare secondo basso, il castellano Wurm, la cui malvagità è restituita con opportuna misura da Marko Mimika. Più personaggio che interprete la stimata Daniela Barcellona quale duchessa Federica. Apprezzabile il livello dei comprimari: Irene Savignano (Laura) e Rodrigo Ortiz (Un contadino). La posizione frammentata tra platea e palchi, nonostante l’amplificazione, non ha giovato alla resa complessiva del coro, con maestro Roberto Gabbiani. Artisti del coro che al termine sono rimasti soli al di là della ribalta, compostamente a colmare il vuoto della sala e ad applaudire i protagonisti in palcoscenico, in un’apprezzabile pantomima dei saluti rituali, tanto meritati, quanto malinconici. Ancor più, se confrontati al trionfo del precedente concerto con pubblico in presenza. E’ stata necessità, che nulla toglie allo spessore della proposta.

Vincenzo Grisostomi Travaglini

Concerto ballabili – 28 aprile 2021

Luisa Miller – 30 aprile 2021

“I Teatri di Roma”, un articolo del Maestro Vincenzo Grisostomi Travaglini in “L’Opera International Magazine”, Gennaio 2021

Gli antichi teatri italiani, così ricchi di storia, sono oramai popolati da illustri fantasmi. Veri e propri castelli della musica, in essi è il segno tangibile di una tradizione che resta sempre viva e presente. Ancor più nell’oggi, a simbolo di una volontà di resistere e oltre la speranza, di tornare a fare parte dinamica della società. I mezzi di comunicazione ben suppliscono a questa mancanza, il rapporto è tenuto vivo da una vivacità di dirette o differite che si sarebbero ritenute impossibili e che oggi raggiungono lo spettatore in ogni luogo ma, non deve accadere, come afferma con preoccupazione Riccardo Muti: «(…) che il pubblico possa essersi abituato a fare a meno dei teatri, dei concerti dal vivo» e aggiungerà il maestro in occasione del Concerto di Capodanno 2021 a Vienna da lui diretto: «(…) la musica è una missione verso la società, il suo futuro e la sua salute». Perché, se dopo la pandemia Covid, nulla sarà più come prima ed è insito nello stesso concetto di evoluzione l’esigenza di cambiamento, ancor più evidente nella transizione di momenti particolarmente difficili, i valori fondamentali della nostra cultura e la loro storia devono rappresentare la radice del nuovo sviluppo.

Segno di vitalità, il deflagrare delle tante iniziative, oltre alla preziosa riproposta di registrazioni d’archivio, spettacoli lirici con artisti in presenza, concerti delle più rinomate orchestre o semplici gruppi musicali, nel ritrovarsi e lanciare, assordante, questo grido di conservazione tramite televisione (ma l’impegno potrebbe essere ancora più significativo) e soprattutto avvalendosi dello streaming, un termine riservato agli appassionati del web e oggi così familiare. La reazione è stata significativa e tra grandi eventi ed iniziative più contenute, l’apertura della stagione 2020/21, pur senza pubblico in sala, è stata mantenuta, in attesa e nella speranza di potersi ritrovare, anche se la data sembra sempre più allontanarsi. «Ci sentiamo puniti (…)», afferma il maestro Antonio Pappano e ancora Gianluca Floris presidente di Assolirica dichiara: «(…) abbiamo distrutto l’opera lirica italiana».  E’ nostro dovere, infatti, non dimenticare che la cultura musicale è un vero e proprio patrimonio artistico e architettonico; le sale teatrali in Italia, gli auditori e qualsiasi altro luogo adibito allo spettacolo sono la viva sede di una cultura musicale profondamente sentita nel nostro Paese, sognata da tutto il mondo. La Lirica che, a differenza di qualsiasi altra disciplina, ha bisogno di un rapporto tutto proprio con il pubblico, quello della mediazione dell’artista che su di un palcoscenico, attraverso la propria sensibilità, restituisce ed interpreta l’opera del compositore. E’ proprio questo salto verso i grandi ricordi della storia musicale della Capitale che mi ha catturato, riportandomi indietro nel tempo, anche sfogliando gli appunti di un libro che scrissi negli anni ’90, cogliendo l’occasione di ripercorrere la storia dei teatri a Roma. Un viaggio, il nostro, nell’intrattenimento teatrale al tempo dei Papi, un percorso che nell’ambiente romano riflette la seduzione e le contraddizioni di una corte dalla quale lo spettacolo è sempre stato amato e allo stesso tempo ripudiato.

Le porte dell’Opera sono oggi chiuse, non ci sono produzioni da commentare ed è l’occasione da non perdere per ripercorrere un cammino di secoli, tra il serio e il faceto, perché se le luci alla ribalta sono spente, l’intera città di Roma è da sempre palcoscenico. Nella Città dei Papi la storia del teatro sembra voler vivere una propria realtà composta di “passioni”, onori e povertà e la passione per lo spettacolo a Roma vanta antiche radici, sin nella città imperiale, dove numerosi si ergevano teatri per la commedia e dove la tragedia vantava ascendenti d’origine greca, ma anche anfiteatri, circhi e ogni luogo che si prestasse a tramutarsi spontaneamente in palcoscenico. Qui il gusto per l’esibirsi non subisce interruzioni e anche i pontefici nei secoli della nuova era dovettero lasciare  libertà al popolo che non aveva nessuna intenzione di sacrificare il proprio carattere godereccio, al punto che anche le processioni potevano divenire pretesto per sagre popolari.

 A Roma il teatro fiorì in tutte le sue forme; gli edifici che dal ‘600 in poi furono destinati all’intrattenimento venivano visti sia come luogo di cultura che come sede di “perversione” e per questo spesso perseguitati dall’autorità papale. Non per nulla, molti dei fabbricati della Città dei Papi, dopo il proliferare delle sale barocche in palazzi principeschi, non comparivano all’esterno con sontuose facciate, come ad esempio a Napoli o a Milano. Al contrario, si nascondevano ipocritamente tra case e casupole. Anche i principali luoghi teatrali della città settecentesca, quali il Tordinona (poi Apollo), l’Alibert, il Valle e ultimo l’Argentina, dovettero attendere perché si progettasse e realizzasse per loro una degna, sia pur sempre contenuta, facciata. I teatri brulicavano di vita dove aristocrazia e popolino spesso si trovavano ad applaudire lo stesso interprete, lo stesso spettacolo, in un mescolare da sempre tipico della romanità, dove il principe gioca a carte con il portiere avanti a un bicchiere di vino dei Castelli, altrove impensabile.

Per la costruzione del primo teatro dell’età moderna, bisogna attendere il 1513 e Papa Leone X, dell’illuminata famiglia Medici, che ne ordinerà la costruzione sul colle del Campidoglio a opera di Pietro Rosselli e Baldassarre Peruzzi. Proprio dall’erezione di questo edificio in legno si vuole indicare per l’attività teatrale la data d’inizio della Seconda Roma, ancora una volta a dimostrare, come intuito dagli antichi greci, che il teatro è il cuore e l’immagine di una città e si muove pari passo con la sua evoluzione sociale e quindi civile. Nella Roma rinascimentale anche Raffaello progetta due teatri, a Villa Madama e negli appartamenti papali di Castel Sant’Angelo. Nella città impazza il Carnevale, la cui follia vuole essere un contraltare all’umanità ideale rappresentata  dall’universale del trono di Pietro, un violento contrasto tra sacro e profano, anche questo unico nella sua natura. Roma si arricchisce, sotto la spinta di un nuovo incremento edilizio, di luoghi per lo spettacolo e nel 1606 se ne possono contare ben 52 tra quelli ospitati in palazzi aristocratici e sale pubbliche, anche improvvisate. L’attività dei teatri nella Città del Papi prende nuovi sviluppi, ma è limitata nelle intenzioni e agli umori dei pontefici. Sin dal 1558 Paolo IV Carafa avrebbe bandito le donne dai palcoscenici, che vi potranno tornare, salvo una breve parentesi sotto il pontificato di di Clemente X Altieri, solo con la Repubblica Romana del 1798 e poi con l’annessione all’impero napoleonico. Giulio Rospigliosi, futuro Clemente IX, scrive il libretto del Sant’Alessio,musicato da Stefano Landi. Papa Barberini (Urbano VIII) darà anch’egli pieno impulso al teatro e sotto il suo pontificato Bernini si troverà ad allestire spettacoli in Vaticano e a dar lustro alla sala del palazzo della famiglia del Pontefice, esibendosi quale attore, oltre che celebrato scenografo e regista. Tra i pontefici ostili a qualsiasi forma di spettacolo è Innocenzo XII Pignatelli, che dopo aver tassato i proventi dei luoghi pubblici ordina la chiusura di ogni sala. I nuovi teatri vengono ricavati avvolte disordinatamente da sale e cortili e poco si curano di essere identificati all’esterno da una facciata. Superficialità che caratterizzò sino a parte dell’800 l’edilizia teatrale a Roma, quando architetti quali il Valadier e il Carnevali si dovranno affannare per dare una dignità alle principali strutture operanti.

Così il critico Milizia in un sin troppo severo scritto dell’epoca: «Roma ha una dozzina di Teatri. Saranno tutti eccellentemente modellati sopra i suoi tanti monumenti  dell’aureo secolo di Augusto, e specialmente sul Teatro di Marcello? Così dovrebbe essere, ma è tutto il contrario. I peggiori Teatri d’Italia sono quelli di Roma, tutti irregolari e sconci nelle forme (…) e frattanto essa si crede d’avere i più bei Teatri del mondo (…)».

Nella seconda metà del ‘600 nasce a Roma la prima concreta struttura pubblica e nello stesso periodo la città si arricchisce culturalmente con la presenza di Cristina regina di Svezia, stabilitasi a Roma dopo la propria conversione e abdicazione al trono, che con la sua influenza ed apertura darà un contributo essenziale all’evoluzione culturale della città. Primo tra gli edifici teatrali pubblici di questo periodo è il Tordinona, una malfamata locanda trasformata mirabilmente in teatro dall’architetto e scultore Carlo Fontana, voluto nel 1670 dal conte Giacomo (Jacques) d’Alibert, segretario d’ambasciata della regina Cristina, sovrana che volle per sé la proprietà di cinque palchi ed il privilegio di un ingresso privato. Il Tordinona alternava periodi di splendore  ad altri di decadenza e spesso, a causa delle piene del Tevere, vi si accedeva da scomode tavole di legno, per non affondare i piedi nel fango. Ma tutto questo non impedì che fosse considerato tra i più importanti edifici della città del Sei-Settecento.

Scrive Goethe nel 1788: «Il grande teatro di Tordinona, già distrutto da un incendio è, appena ricostruito, crollato improvvisamente, e purtroppo ora non sollazza più il popolino con le sue rappresentazioni di gala e le altre meraviglie e –conclude Goethe dopo aver descritto altri luoghi di spettacolo della città- (…) La passione dei romani per il teatro è grande».

Nel 1795 il Tordinona mutò il nome in Apollo e nell’Ottocento visse stagioni di particolare fervore con “prime” a Roma di Rossini, Bellini, Donizetti e in “prima assoluta” la Matilde di Shabran di Gioachino Rossini, Il Trovatore e Un ballo in Maschera di Giuseppe Verdi, oltre al debutto italiano de La forza del destino in una forma censurata dal titolo Don Alvaro e nel Carnevale del 1854 Violetta, vero e proprio travisamento de La Traviata, che suscitò l’indignazione del compositore, il quale scrisse a Vincenzo Luccardi: «Tante grazie! Così ha guastato tutte le posizioni, tutti i caratteri. Una puttana deve sempre essere una puttana. Se nella notte splendesse il sole, non vi sarebbe più la notte. Insomma, non capiscono nulla».

Nel 1871 Roma diviene capitale del Regno d’Italia e l’Apollo corredato, così come lo sarà l’Argentina, del palco reale. Nel 1875 Giuseppe Garibaldi è a Roma per sollecitare in Parlamento la soluzione del “problema” Tevere, le cui continue alluvioni costituivano una piaga secolare per la città. Viene deciso di costruire dei muraglioni che delimitassero il corso del fiume che ne avrebbero, però, snaturato l’aspetto, obbligando alla demolizione di molti edifici costruiti lungo i suoi argini. Fra questi l’Apollo, che spegnerà definitivamente la ribalta la sera del 31 gennaio 1888 con Hamlet di Thomas.

Altro edificio teatrale di storica importanza a Roma era il Teatro d’Alibert, chiamato delle Dame, dall’uso di dedicare le opere alle dame o ai cavalieri. Voluto dal conte Antonio d’Alibert nel 1718, compiendo un progetto del padre Giacomo, fu edificato sul fabbricato di sua proprietà sito non lontano da piazza di Spagna, adibito per il gioco della pallacorda. Felicissimi i cartelloni di quegli anni e numerosi i titoli in “prima assoluta”. Su quel palcoscenico, considerato alla moda e di successo, ben presto trionfarono i castrati, tra cui il celebre Caffariello. Subito il pungente commento nella poesia popolare romana:

«Sarà dunque permesso alli villani

nello Stato Papale, impunemente

di castrare i lor figli empiamente

acciò strillin cantando in modo strano?» (di anonimo).

C’informa il compositore Ambroise Thomas, ospite alla Villa Medici di Roma e futuro Prix de Rome nel 1832: « (…) L’interno del teatro è tutto illuminato a candele, messe in lampadari o in candelabri di legno dorato posti a ciascun lato dei palchetti».  Scrive Antonio Nibby nel 1838, sempre riferendosi all’Alibert: «E’ il più vasto di tutti quelli della nostra città (…) sei ordini di comodi palchi si trovano (…) ma all’esterno non solo ha prospetto di sorta, ma più che di Teatro ha faccia da fienile (…)». Dopo vari interventi, il Teatro d’Alibert viene riedificato nel 1859 in solida muratura, ma nel 1863 un incendio lo distrugge definitivamente.

Le stagioni in tutti i teatri si aprivano in Carnevale, che prendeva l’avvio il 26 dicembre, per chiudersi rigorosamente all’inizio della Quaresima, quando nei luoghi di culto i sacerdoti indossavano i paramenti viola, a segno del periodo di lutto della Chiesa. Il colore viola è rimasto quale simbolo di negatività per l’artista che si trovava costretto a interrompere , sino alla nuova stagione, il proprio lavoro.

Nel’700 i teatri erano sempre affollatissimi e tutta Roma vi passava le sere e sino alla mezzanotte ad assistere a spettacoli in prosa, musica e danza. Di notte, nei palchi, al lume delle tante candele, si giocava a scacchi, a tombola, si organizzavano intrattenimenti e nelle sale più povere si mangiava e si beveva. I teatri ospitavano i grandi balli di Carnevale che tanto impressionarono illustri letterati e pittori del Sette-Ottocento che amavano dimorare nella città. I palchi erano dotati di una tenda che, al bisogno, poteva isolare l’interno da occhi indiscreti!..

«E’ incredibile quanto i romani tengano a recarsi agli spettacoli – appunta il Volkman nel suo saggio sull’Italia del 1777- se anche dovessero prendere in prestito il denaro e impegnare la loro roba, il marito deve condurre la moglie alcune volte all’opera durante il carnevale».

Per l’assegnazione dei palchi spesso scoppiavano delle proprie e vere risse, nonché incidenti tra i vari ambasciatori che obbligarono persino alla chiusura dei teatri. Punto d’onore del romano era comunque riuscire ad entrare gratuitamente.

Così scrive Giuseppe Gioachino Belli ne Li teatri de Roma:

«Otto Teatri fanno in sta stagione

De carnovale si me s’aricorda:

Fiani, Ornano, er Naufraggio, Pallaccorda,

Pace, Valle, Argentina e Tordinone.

Crepanica nun fa, manco er Pavone,

Ma c’è invece er casotto: e ssi ss’accorda

Quello de le quilibbre e ball’in corda,Caccia puro Libberti er bullettone (…)».

Due i teatri edificati dalla nobile famiglia Capranica: il primo nel 1679 a Santa Maria in Aquino, ricavato all’interno di un’ala nel palazzo del Cardinale  Domenico Capranica, inizialmente a uso privato e a fine Seicento aperto al pubblico. Un secondo, il Valle, costruito alle spalle del palazzo di famiglia “a la Valle”, vicino a Sant’Andrea, che prese il nome dal luogo ove il teatro venne edificato, dove nell’antichità era lo stagno di Agrippa. Il Valle venne costruito su progetto dell’architetto Tommaso Morelli e inaugurato nel 1727. Molte in quegli anni le “prime assolute” di opere in musica che resteranno nella storia della composizione. Non sempre gli spettacoli dovevano esservi allestiti, però, con ricchezza di mezzi, se si arrivò nel 1802 a multare l’impresario De Santis di 1.000 scudi per aver proposto al pubblico una compagnia scadente.

«Li Teatri de Roma sò ariuperti,

Ciovè la Valle e ‘r teatrino Fiani.

In quanto a Cassandrino li Romani

Dicheno a chi ce va: “Lei se diverti”.

Ma ppe la Valle state puro certi

Che manco se farebbe a li villani.

Madonna, che cantà! Cristo che cani!

Peggio assai de li gatti de Libberti!» (Giuseppe Gioachino Belli da Li teatri de primavera).

Dopo il rifacimento del 1791, Gioachino Rossini scrisse appositamente per il Valle Demetrio e Polibio, Torvaldo e Dorliska e nel 1817 qui la “prima assoluta” de La Cenerentola.

Una curiosità, l’ingresso al palco centrale del Valle, di proprietà della famiglia Capranica, era situato nel cortile del palazzo e venne fatto murare da un amministratore dei marchesi dopo la proclamazione delle Repubblica, in occasione di un’annunciata visita del Presidente Enrico De Nicola, che non poté usufruirne.

Il Valle dopo alterne vicende, tra cui l’occupazione nel 2011 da un gruppo di lavoratori dello spettacolo, passa di proprietà dallo Stato al Comune di Roma che ne cura un minuzioso restauro, ma a tutt’oggi le luci della ribalta restano scandalosamente spente.

L’Argentina, voluto dal duca Giuseppe Sforza Cesarini, è l’ultimo dei principali teatri romani prima del Costanzi, edificato dopo più di un secolo e mezzo nel 1880. L’inaugurazione dell’Argentina è del 13 gennaio 1732 con Berenice, musica di Domenico Sarro. Nei primi anni si privilegiano nei programmi drammi in prosa con Intermezzi musicali, che dal 1739 cedono il passo alla lirica. Nel suo repertorio figura l’opera seria, considerata un genere più aristocratico rispetto alla più popolare opera buffa, ma vi primeggiano anche spettacoli di ballo con l’illustre famiglia dei Viganò. Più di 150 “prime assolute” costituiscono la ricca dote del nuovo, prestigioso palcoscenico romano. Protagonisti di quegli anni Alessandro Scarlatti, Gluck, Paisiello, Cimarosa e sovrano incontrastato dell’opera seria è il librettista Metastasio. Dopo aver vissuto intensamente gli anni napoleonici con il primo esperimento della Repubblica Romana, il ritorno al potere temporale e l’arresto da parte delle truppe francesi di Pio VII Chiaramonti, il Nobil Teatro di Torre Argentina torna  alla musica con il fiasco solenne, nel 1816, della “prima assoluta”  de Il barbiere di Siviglia (Almaviva o sia l’inutile precauzione) di Gioachino Rossini. Nel 1837 va in scena Lucia di Lammermoor di Donizetti con protagonista il soprano Giuseppina Strepponi, futura moglie di Giuseppe Verdi (la “prima” romana è dell’anno precedente al Valle). Del maestro di Busseto nel 1844 viene eseguita in “prima assoluta” l’opera I due Foscari. Acceso da risorgimentale fervore sull’esperienza mazziniana della Seconda Repubblica Romana, il palcoscenico dell’Argentina accoglie un’altra prima assoluta verdiana La battaglia di Legnano (1849). In quella storica serata erano presenti in sala Garibaldi e Mameli ed i palchi erano tutti addobbati con stoffe tricolori, così come nastri bianchi rossi e verdi primeggiavano nelle acconciature delle signore. L’Argentina segue da protagonista i grandi mutamenti politici di quegli anni ed il Teatro, usato anche quale spazio per riunioni, spesso viene chiuso per paura di disordini. La vita dell’Argentina è destinata, però, a mutare radicalmente nel 1869, proclamata l’Unità d’Italia, con la vendita del Teatro al Comune. E’ la vigilia dell’annessione di Roma all’Italia (1870) e l’anno successivo viene decretata la sua elezione a capitale. Anche per l’Argentina è tempo di edificare il palco reale. Indispensabile per Roma è ora di poter contare su di un grande teatro di rappresentanza ed il Comune, nell’impossibilità di garantire un finanziamento adeguato per la costruzione di un nuovo edificio, decide la ristrutturazione dell’Argentina. Nel febbraio 1888, alla sua riapertura, la Regina Margherita commenta soddisfatta: «di una baracca avete fatto un Teatro».

Iniziano le prime polemiche sull’opportunità di concedere sovvenzionamenti pubblici a sostegno del “Comunale”, mentre si vengono pian piano a creare presupposti, assai sdrucciolevoli, di un sistema teatrale pubblico. Discussioni anche discordi che porteranno tra innumerevoli difficoltà, dopo oltre mezzo secolo, al superamento della formula dell’impresariato e alla nascita dell’Ente Lirico.

Particolarità del tutto romana era stata, infatti, l’impossibilità, dalla seconda metà del Settecento in poi, di edificare un grande teatro alla stregua con l’evolversi dei tempi. Ci aveva provato, come detto, il Valadier e con lui tanti altri celebri architetti e sino all’Unità d’Italia, quando con il riconoscimento di Roma a capitale si era sentita ancora più evidente la necessità di poter contare su di un teatro di rappresentanza. La città, intesa come nucleo sociale, andava disgregandosi e né l’Amministrazione comunale, né il Governo riuscivano a varare importanti progetti, come al contrario avveniva a Vienna e Parigi. L’esigenza di un edificio per spettacoli che avesse funzioni di rappresentanza, nuovo per la città, venne raccolto da un privato, Domenico Costanzi, un uomo che doveva la sua ricchezza a fortunati investimenti nell’edilizia, che tra innumerevoli difficoltà riuscirà con le sue forze a edificare un grande e sfarzoso teatro cittadino. Lo volle costruire nel quartiere alto al Viminale, là dove aveva concentrato i suoi investimenti, lontano, quindi, dai quartieri storci della città. Il progetto risultò subito inviso alla popolazione della Roma ex-papalina e la sua collocazione scomoda e inopportuna. Il Comune, sotto la pressione delle forze più tradizionaliste, aveva ignorato Domenico Costanzi, approvando la funzione pubblica di Massimo teatro lirico romano unicamente per l’Argentina e l’Apollo, non riconoscendo le potenzialità della nuova elegante sala destinata alle rappresentazioni operistiche. L’Apollo era, però, uscito di scena per l’ “infame” decreto di demolizione e l’Argentina restava solo contro il Costanzi. La situazione dell’Argentina divenne sempre più critica e la sua tradizione lirica era destinata a interrompersi, nella continuità, dalla stagione 1898/99, a causa di una serie di incidenti artistici e difficoltà finanziarie. Non avendo il Comune ritenuto di accordare altri contributi l’impresa falliva: «Mentre era in tutti penetrata la convinzione che le sorti del Teatro comunale, fin qui così depresse, si sarebbero in questo scorcio di stagione risollevate (…) si annunciata improvvisamente che tutto è finito (…)» (da La Tribuna).

Il Teatro Argentina, dopo vari restauri, infelice quello “iconoclasta” del 1967, è tornato nel 1993 all’antico splendore grazie all’intervento dell’architetto Paolo Portoghesi ed è oggi sede dello Stabile: Teatro di Roma.

Con il passare degli anni, tra fine Ottocento e inizio Novecento, la realtà del Costanzi era andata sempre più affermandosi, mancando a Roma un teatro di più vaste dimensioni, aperto nel cartellone a una visione più ampia del panorama musicale europeo. Questa realtà s’impose di diritto, ma troppo tardi per Domenico Costanzi, che per compiere l’ambizioso progetto, deluso lungo il percorso dai negati appoggi pubblici e privati, vi aveva investito la propria fortuna, sino a trovarsi in rovina, solo e abbandonato da tutti. Il Costanzi divenne il Massimo della capitale, ristrutturato da Marcello Piacentini, a cui era stato negato il progetto per l’edificazione di un nuovo teatro, fu nuovamente inaugurato nel 1928 quale Teatro Reale dell’Opera con il Nerone di Boito; dall’avvento della Repubblica nel 1946 rinominato: Teatro dell’Opera. Nella sala voluta e finanziata dall’imprenditore Domenico Costanzi, all’indomani dell’elezione di Roma a capitale, di quell’edificio che oggi porta il nome di Teatro dell’Opera, sono passate intere generazioni di artisti e di dirigenti così che l‘edificio ha vissuto, pur sempre nella prospettiva di sequenze infinite anch’esse pullulanti di leggende e di fantasmi, in una sua propria e caratterizzante vicenda nel realizzarsi di fatti, soprattutto concreti, che si sono susseguiti vertiginosamente, evolvendosi nel tempo e sino al presente, all’incerta stagione 2020/21 … L’Opera riaprirà al suo pubblico, superata l’emergenza sanitaria, in attesa del sorgere di un nuovo giorno, rinnovando il suo rapporto, tutto proprio, con il pubblico, quello della mediazione dell’artista che su di un palcoscenico, attraverso la propria sensibilità, che restituisce ed interpreta l’opera del compositore. Ogni rappresentazione, ogni esecuzione, infatti, è unica ed irrepetibile e la storia delle nostre sale è scandita da tutte le serate nelle quali il sipario si alza e la ribalta s’illumina. Il Teatro non è quindi un museo, bensì un luogo dove si ripete un dramma, una commedia in musica, il dipanarsi di una sinfonia, il rituale di un concerto che, per essere eseguiti, hanno bisogno di una cura tutta speciale. Questa particolarità è anche il suo fascino. Frequentare un palcoscenico è un momento magico, come, nella fiaba di Alice nel paese delle meraviglie, quando la fanciulla attraverso lo specchio, al di là del mondo, dove tutto diviene possibile, così in un teatro, perché qui il tempo e lo spazio vi assumono, magicamente, nuovi ritmi e infiniti orizzonti.

Vincenzo Grisostomi Travaglini

“Il fascino dell’opera incompiuta”, articolo del Maestro Vincenzo Grisostomi Travaglini nella rivista mensile “L’Opera International Magazine”, Novembre 2020 su “Zaide” di Wolfgang Amadeus Mozart al Teatro dell’Opera di Roma

Il fascino dell’opera incompiuta è un qualche cosa d’inspiegabile, come se ognuno di noi volesse impersonarsi nell’autore e nel suo lavoro non risolto. Irrazionale, se si vuole, perché è la creatività di ognuno che si pone a confronto con l’ignoto, per quel messaggio che l’artista avrebbe voluto trasmettere e che ora è affidato all’imprevedibile. Tale è il Singspiel (teatro di prosa in lingua tedesca e opera in musica)  Zaide, presentato al Teatro dell’Opera di Roma, di cui ci sono pervenuti 15 numeri musicali, tra melologhi (una rarità in Mozart), arie, un coro di quattro schiavi, duetto, terzetto, quartetto, incompiuta al secondo atto e senza i dialoghi andati perduti, dai quali sarebbero dovuti emergere e motivati i sentimenti, la rabbia e l’inganno, le cui conseguenze sono espresse nel canto dei protagonisti e nell’inteso, espressivo accompagnamento musicale. Ulteriore occasione, questa della proposta della Fondazione capitolina, per spaziare nell’universo del genio di Wolfgang Amadeus Mozart, che nella sua musica cela significati spesso intellegibili, se si vuole anche contraddittori, tratteggiando in partitura contenuti inconfessati. Un’opportunità da non perdere e mai definitiva, così come lo fu nel 1981 per Italo Calvino, tra gli scrittori più significativi della seconda metà del ‘900, che venne coinvolto da Adam Pollock e Graham Vick per il festival Musica nel chiostro di Batignano in provincia di Grosseto con il sostegno dalla Regina d’Olanda, nella ricostruzione della trama di quest’opera. Lavoro riproposto l’anno successivo durante il carnevale veneziano nel cortile di Palazzo Grassi, con un pubblico in maschera e nell’occasione venne pubblicato uno studio sulle Turcherie: secondo Mozart, in quell’abbinamento tra evento e approfondimento che rendeva quegli anni così culturalmente propositivi.  Calvino, fedele alla sua narrativa de Le città invisibili (l’Oriente favoloso), alla struttura combinatoria del fantastico Castello dei destini incrociati e di tanti altri suoi lavori, non volle, per la ricostruzione della trama di Zaide, proporre una compiutezza perduta, bensì aprire il suo lavoro a significati dai diversi orizzonti per, sono sue parole: «…mettere in valore quello stato d’animo di sospensione che ogni opera incompiuta comunica». Con sorpresa accettò di scrivere un testo, che dovesse essere recitato da un narratore in sostituzione dei dialoghi perduti, con interventi che legassero in una storia l’esecuzione dei numeri musicali a noi pervenuti, ma non limitandosi a una pura congettura, se si vuole banalizzante come era accaduto in passato per analoghi tentativi, ma approfittando a ogni occasione per una personale visione, avvolte discreta, con tratti di graffiante ironia e allo stesso tempo traboccante poeticità, senza mancare il gioco degli equivoci o meglio di approfondimento di diverse ipotesi narrative, in contradditorio l’una con l’altra. Il risultato è che ogni proposta del narratore, la più sorprendente, è pur sempre logica e coinvolge interpreti e pubblico; sembra di assistere al teatro nel teatro di Pirandello, perché ogni diversa lettura risulta la più veritiera, inserendo il sospetto del rapporto e intenzioni tra i protagonisti. Il dubbio è introdotto, sì, dal narratore, qui l’autorevole Remo Girone, che interrompe ripetutamente l’esecuzione del terzetto posto al termine del primo atto e del quartetto conclusivo l’opera, almeno così come ci è pervenuta, ma sorprendente è come ogni diversa situazione, a ritroso nella narrazione, sembra essere confermata dalla musica, nel richiamo di alcuni accordi oltre le parole, nell’insistere ritmico, nell’insinuarsi dell’ambiguo. In questo lavoro del poco più che ventenne Mozart vi sono espressi principi compositivi che lo accompagneranno nell’intero arco creativo, se si vuole d’impulso giovanile, ma il tempo così breve della vita del compositore è quanto mai relativo, nell’immediata maturità del genio. Quindi, anticipazioni, ad esempio per il soprano, di una Susanna o Fiordiligi e nella tematica della ricerca del bene e del male di quel capolavoro di sintesi di pensiero che è il Singspiel per eccellenza Die Zauberflöte. Ispirato con tutta probabilità alla Zaire di Voltaire, ma con ben altro sviluppo drammaturgico, Mozart lavorò a questa composizione, lasciata senza titolo, presumibilmente dal 1779, dopo il tentativo di musicare Semiramide, per poi dedicarsi all’opera seria Idomeneo e soprattutto subendo l’interruzione di ogni attività nel 1780 a causa del lutto per la morte dell’Imperatrice Maria Teresa d’Asburgo. Ancor più, nel susseguirsi rapido delle circostanze, la vivacità compositiva di Mozart verrà attratta dalla proposta di un argomento analogo Die Entführung aus dem Serail, da annoverarsi tra le “turcherie” così di moda e gradite dal pubblico, nel quale possiamo trovare molte analogie con l’incompiuta Zaide. Mozart, dopo alcuni ripensamenti, abbandonò definitivamente il progetto e il manoscritto fu dimenticato. Il libretto era stato affidato a Johann Andreas Schachter, autore a cui si devono anche parte dei dialoghi del primo Singspiel musicato dal salisburghese Bastien und Bastienne, la cui fonte d’ispirazione fu più direttamente Das Serail di Franz Joseph Sebastiani, con musica di Joseph von Frieberth, ma non per questo affrontato con le medesime finalità. La moglie Costanze, dopo la morte del compositore, rinvenne il manoscritto e nel 1799 lo vendette a Johann Anton André che, avvalendosi dei rifacimenti di Carl Gollmick, ne approntò una personale versione. Questo lavoro andrà in scena solamente nel 1866 a Francoforte in occasione dei 110 anni dalla nascita di Mozart, con le aggiunte e finale composti dallo stesso editore André, che ne aveva curato la pubblicazione nel 1838 scegliendo d’intitolarlo Zaide, dal nome della protagonista, per non confonderlo con l’ormai conosciuto Die Entführung aus dem Serail. La storia delle rappresentazioni e rifacimenti delle parti mancanti sarebbe qui lunga da elencare, perché il Singspiel ha conosciuto diversi rimaneggiamenti, compreso l’inserimento della Sinfonia in Sol maggiore KV 318, per sopperire alla mancanza di ouverture. Si cimentarono nell’impresa, in tempi più recenti Lorenzo Arruga e il compositore Luciano Berio con l’ambizioso Vor, Wahrend, Nach Zaide , quest’ultimo, va ricordato per dovere di cronaca e a dimostrazione dei legami dell’arte, si avvalse di Calvino quale librettista per i suoi La vera storia e Un re in ascolto.

A differenza di precedenti e avvolte poco credibili arrangiamenti, si può ben affermare che quella del 1981/82 fu la proposta ideale per il lavoro incompiuto di Mozart. In Calvino la conclusione di Zaide resta sospesa in una pennellata di pura poesia che testimonia, oltre qualsiasi previsione, l’incontro nel tempo tra il suo essere artista e la creatività della musica di Mozart. Come annotava lo stesso scrittore, la composizione di Zaide si presta a questa frammentaria giocosità e la produzione oggi proposta all’Opera di Roma ne restituisce appieno i valori aggregativi, perché operazioni di tale impegno culturale e di fragilità, hanno significato solo se riproposte con il massimo impegno qualitativo. Qui si apre un’altra storia, quella dell’oggi che nella cronaca s’impone sin dall’ingresso in Teatro; perché Zaide è il primo titolo nel cartellone dell’Opera di Roma nella sala del Costanzi in periodo pandemico e sostituisce in cartellone The Rake’s Progress di Stravinsky, la cui realizzazione si è resa impossibile a causa delle misure di prevenzione. Zaide non è stato un ripiego, va specificato, bensì in questo periodo d’incertezze, un’opportunità; in attesa del Don Giovanni diretto da Daniele Gatti, quando le condizioni sanitarie lo renderanno possibile. Il proscenio, assente il sipario, è incorniciato da impalcature e sul palcoscenico vi è un andirivieni di operai, come se si fosse in un cantiere, il tutto realizzato con tale efficacia che viene quasi il dubbio, ad esempio per gli stucchi dei palchi sul boccascena, che veramente la sala sia in restauro. La simbologia è evidente, il cantiere è quello dell’opera non terminata di Mozart, che si ripropone in una pur relativa compiutezza con convinzione e tenacia; in un messaggio di “costruttività”, nella volontà di tenere aperto il teatro e di mantenere, dopo la stagione estiva al Circo Massimo, un rapporto con il pubblico. Sul podio il direttore musicale Daniele Gatti, la regia è di Graham Vick che nel 1981 prese parte al progetto del festival di Batignano convincendo Italo Calvino a partecipare alla riformulazione dell’opera non terminata e che, nel tempo, ha sempre più approfondito il significato di questa operazione, sino a restituirla nell’odierna nuova produzione con tempi e sincronismo pressoché perfetti. Il direttore entra in orchestra con discrezione, quasi nascostamente; vi è un effetto luce e al centro della scena si evidenzia un baule, dal quale il narratore (Remo Girone in abito anni ‘80) estrae dei fogli impolverati. Quella ritrovata nel baule non è una partitura qualsiasi, bensì un manoscritto di Mozart del quale si avevano solo tracce nell’epistolario con il padre, in cui accennava di lavorare a un suo Das Serail, probabilmente destinato alla compagnia di Böhm o di Schikaneder. In detto baule, però, sono conservati solo quindici numeri musicali, perché il testo dei dialoghi è andato perduto, come il narratore ci illustra con voce sin troppo stentorea e da questo presupposto, in sintesi come in un cantiere che si estende oltre il palcoscenico, prende il via l’esecuzione romana. L’orchestra, composta da un organico equilibrato, è quanto mai raffinata, con ottime prime parti evidenziate negli “a solo” e mai si presta alle suggestioni e sin troppo facili trabocchetti musicalmente compiacenti degli intrecci teatrali che si snodano in palcoscenico, sempre così chiara, leggibile, tanto da mettere in luce tutte quelle “tessere del mosaico musicale”, così come le definisce Calvino, del ricco e suggestivo, non più apparentemente frammentato, materiale musicale mozartiano. Il rigore e l’eleganza di Daniele Gatti imprimono autorevolezza a questa proposta, incisività sin nell’iniziale coro dei quattro schiavi Brüder, lasst uns lustig sein che subito ci riporta all’imperfezione del mondo immaginato da Sarastro nel Die Zauberflöte: Raffaele Feo, Luca Cervoni con Domingo Pellicola e Rodrigo Ortiz del Progetto Fabbrica. La nuova produzione del Teatro dell’Opera, in collaborazione con il Circuito Lirico Lombardo, trova il suo punto di forza nella regia di Graham Vick, una significativa prova di teatro musicale, dove tutto funziona solo se perfettamente sincronizzato, dove l’espressione e recitazione sono in un tutt’uno con il canto, dove il cantante-attore partecipa alla rivelazione musicale ed entra nella sciarada del testo in prosa mimando con spontaneità quanto elaborato con minuziosa  riflessione dal narratore, ricomponendo scena dopo scena ripercorse con diverso tracciato. Il regista coglie ogni occasione per vivacizzare il racconto e non tralascia nulla alla vitalità dello spettacolo, coadiuvato dal gioco di luci di Giuseppe Di Iorio che entra e si rende partecipe nell’azione con effetti spregiudicati, quanto validi. Scene e costumi di Italo Grassi, come detto un vasto cantiere, eppure nell’immaginario le impalcature non sono che piani d’azione dove gli interpreti si destreggiano immaginando ogni luogo. Non è difficile immedesimarsi nel simbolismo dello snodarsi di tubolari che altro non raffigura che il tronco di una palma, interrata su un bidone di detriti edili. Contenitore che sollevato fa fluire della sabbia ed ecco che nella fuga dei due amanti si fantastica originalmente di un’isola sperduta. Curati i costumi che nella loro classicità turcheggiante ben s’inseriscono nel contrasto dell’insieme. Inappuntabili i movimenti mimici di Ron Howell, a dimostrazione che la partecipazione di mimi-attori può significare un valido arricchimento dell’azione. S’impongono i protagonisti e va evidenziato che i cantanti sono gli stessi che avrebbero dovuto prendere parte al programmato The Rake’s Progress, che da sensibili artisti si sono calati con pertinenza nel Singspiel mozartiano. Si snoda l’incredibile, inventivo melologo di Gomatz, il cristiano reso schiavo, restituito con piena partecipazione e attinenza vocale, stile e generosa partecipazione da Juan Francisco Gatell, l’innamorato di Zaide, la favorita del sultano Soliman. Segue l’aria di Zaide Ruhe sanft, mein holdes Leben, interpretata con languore dal soprano Chen Reiss, con tempi in orchestra insolitamente larghi a sottolinearne la malinconica espressività. Ancora lo schiavo Gomatz con l’aria Herr und Freund! wie dank’ ich dir, così che l’esecuzione acquista ulteriore spessore e s’impone a seguire con  la presenza del terzo personaggio, l’enigmatico ministro o altrimenti identificato sorvegliante Allazim, che nelle intenzioni di Calvino si pone come vero protagonista, qui sottolineato  con autorevolezza vocale e distinzione interpretativa da Markus Werba. E’ lui che sosterrà la fuga dei due amanti Gomatz e Zaide, scatenando l’ira dell’onnipotente Soliman il tenore Paul Nilon, superba l’aria furente del secondo atto Ich bin so bös’ als gut, nel cui testo il sultano ripete con insistenza “sono tanto cattivo, quanto buono”; ed ecco che si compie l’alchimia… L’ambiguità di Allazim, ma con quali intenzioni? Nel potente sultano prevarrà crudeltà o nobiltà d’animo, oppure la sua è solo bramosia di potere! Si profilano i diversi ingredienti per il narratore nel formulare ogni possibile ipotesi di svolgimento e finale. In questa vicenda non poteva mancare, inoltre, l’eccezione che in Mozart è regola nella commistione di generi, qui costituita dal ruolo di Osmin e la sua aria buffa Wer hungrig bei der Tafel sitzt, interpretata con gusto e spontaneità da Davide Giangregorio. Del finale mozartiano, nessuna traccia perché mai composto e quindi mano libera al “narratore”; Calvino rifiuta a priori l’ipotesi tutt’altro che scontata di precedenti rielaborazioni, in cui si era voluto rifarsi al già citato testo del Singspiel Das Serail di Joseph Sebastiani (Bolzano, 1779) con analoga risoluzione, ovvero che Gomatz e Zaide, dopo essere condannati a morte dallo spietato sultano, si rivelino fratello e sorella, scioglimento di comodo che di fatto stride con bel altro sentimento, espresso tra i due sin dall’esordio dalla musica del salisburghese con tanta passione (duetto Zaide, Gomatz: Meine Seele hüpft vor Freuden) ed allora … Forse, Allazim favorendone la fuga ha voluto proteggere la giovane coppia? Oppure è innamorato di Zaide? C’è un’ulteriore soluzione per l’immaginario del narratore, ovvero che il ministro riconosca nell’infelice schiavo la propria passata condizione, così che voglia favorirlo e dargli protezione e il regista Vick sembra spingersi oltre ipotizzando attrazione, perché no! … Nella musica mozartiana le allusioni non hanno limiti d’interazione. I cantanti-attori recitano impazienza nel dover mimare ogni volta riavvolgendosi nel passato, nel gusto di puro stampo letterario di Calvino, ma nella trama s’impone una quarta ipotesi di finale, il ministro vuole proteggere il sultano e la continuità del suo potere assoluto, ma al dì la di ogni convinzione, nel secolo dei Lumi prevale la benevolenza e la ragione e i due giovani sono graziati da Soliman, e qui il riflesso del pensiero settecentesco da Voltaire a Rousseau, a cui Mozart aderisce e che ritroviamo espresso appieno nel finale de Die Entführung aus dem Serail… Oppure, per Calvino, è tutto un gioco? Forse: « (…) i tasselli verranno inseriti in un altro mosaico, sulla volta di una moschea. I mongoli di Gengis Khan invadono il paese e incendiano la moschea. I lapislazzuli e le ametiste salvati dalle fiamme serviranno per altri mosaici, lungo le scale d’un bazar, nel cortile d’un caravanserraglio, nella reggia d’un califfo, in una fortezza sul deserto, in cima alla cuspide d’un minareto, nel fondo di una vasca dove le odalische fanno il bagno…» (dal dattiloscritto di Italo Calvino per Zaide di Mozart).

Vincenzo Grisostomi Travaglini

18 ottobre 2020

“Tra successi e flop, si riparte” articolo del Maestro Vincenzo Grisostomi Travaglini nella rivista mensile “L’Opera International Magazine”, Settembre 2020Roma: trionfa Pappano all’Accademia di Santa Cecilia. Delude Rigoletto, firmato da Damiano Michieletto. Successo per Barbiere e Vedova. Anna Netrebko e Yusif Eyvazov rendono omaggio alla Capitale.

Potrebbe sembrare un semplice slogan: Roma riparte, eppure la semplice locuzione è ricca di significati. Sono passati solo pochi mesi, un tempo che ci è sembrato interminabile, da quando come sotto un incantesimo malefico i nostri teatri, sale da concerto e ogni luogo, uno dopo l’altro, cadevano sconfitti dal dilagare dell’epidemia, costretti a chiudere annullando ogni attività. Lunghi, ottenebranti silenzi, interrotti da iniziative sporadiche, da eventi a porte chiuse, che pur nella forza intrinseca della proposta, ne rendevano spettrale il risultato. Un artista qualsivoglia: solista, professore d’orchestra, cantante o altra disciplina … lì sul palco! Da solo, avanti a una spettrale platea vuota, a palchi deserti che colmavano d’angoscia. Eventi ripresi da una telecamera che ne diffondeva il messaggio, ma che mai potrà sostituire la presenza di un pubblico, di un respiro! La notizia, dunque, è principalmente questa, da Roma, dall’Italia tutta … Ci siamo ritrovati ad assistere a un’opera, in forma scenica o semi-scenica, a concerti sinfonici e strumentali. Il sentimento è indescrivibile! Il direttore, prima di salire sul podio, non stringe più la mano al primo violino, basta un cenno; in palcoscenico come in platea ci sono nuove regole da rispettare, ma anche questo cerimoniale, di prevenzione sanitaria, entra a far parte di una ritualità mutevole perché vitale e l’importante è tornare a parteciparvi! Dopo di ciò, il dovere della critica, l’analisi delle proposte e della loro validità, s’impone nel rituale del mondo dello spettacolo e del sempre costruttivo scambio di opinioni. Anche questo fa parte del “gioco” e la notizia, come ripete Tosca: tornalo a dire, è che quel silenzio assordante è stato colmato di musica, di suoni, di canto, nel pieno rispetto delle norme anti-Covid, garantendo il distanziamento interpersonale e la massima sicurezza di spettatori, musicisti e tecnici.

A Roma, l’Amministrazione capitolina è stata particolarmente sensibile al rilancio delle attività in campo operistico e sinfonico con un risultato eccellente e una risposta di pubblico, sia per la stagione estiva del Teatro dell’Opera che dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia, che ha distinto il tutto esaurito per ogni evento. I cartelloni presentati non si sono piegati alle ristrettezze di una crisi incombente, bensì a dimostrazione della creatività tutta italica, sia pure nel rispetto delle norme vigenti, hanno offerto il meglio in ogni situazione. Troppo spesso nella politica, soprattutto in questo particolare momento, si è parlato dell’importanza della cultura musicale per l’immagine del Paese, perché l’Italia è certamente simbolo nel mondo dell’arte, ma si era fatto ben poco, almeno questa l’impressione. La notizia recente è l’impegno di Dario Franceschini, Ministro per i Beni e le Attività Culturali, per un aiuto tangibile ai lavoratori dello spettacolo, che ci auguriamo possa svilupparsi con l’erogazione di fondi adeguati in un rilancio qualitativo ed anche, preso atto della richiesta, quantitativo, delle proposte. Prima Fondazione romana ad accogliere il pubblico è stata l’Accademia Nazionale di Santa Cecilia, con un ricco programma, proposto nell’area all’aperto del Parco della Musica, la cavea, rinominata emotivamente a Ennio Morricone, in memoria della sua recente scomparsa. In programma l’integrale delle Sinfonie di Beethoven nel duecentocinquantenario della nascita, con sul podio Antonio Pappano, totalmente disponibile per l’Orchestra di cui è Direttore musicale, a causa della sospensione dell’attività del Covent Garden, dove Pappano sarebbe stato impegnato per tutto il mese di luglio. Un successo di pubblico ragguardevole e una particolare attenzione all’esecuzione della Quinta, alla presenza del Presidente Sergio Mattarella. Stessa Sinfonia riproposta in tournée nel capoluogo ligure per l’inaugurazione del viadotto Genova San Giorgio, progettato da Renzo Piano, il medesimo architetto del Parco della Musica di Roma. Sempre nella cavea, per il gran finale della stagione, l’esecuzione della Nona con il coinvolgimento del Coro, maestro Piero Monti, di recente nomina. Orchestra e Coro di cui si è apprezzato il particolare impegno e attenzione con una resa eccellente, nonostante le condizioni acustiche non ottimali.

Problemi di acustica anche per l’immensa struttura al Circo Massimo, realizzata in tempi da primato dalle maestranze della Fondazione operistica capitolina. Anche in questo caso, prima che ogni altra considerazione, s’impone il coinvolgimento delle masse artistiche e tecniche del Teatro. Un programma articolato e ricco per questa inaspettata e tempestiva iniziativa; lodevole la puntualità di un’organizzazione ineccepibile. Il programma ha fatto parte del nuovo palinsesto di Roma Capitale Romarama. Nel corso degli eventi, si apre ora il secondo capitolo, quello dedicato alle proposte del cartellone della stagione estiva dell’Opera, che si è svolta eccezionalmente al Circo Massimo e non, come da tradizione, ospitata tra gl’imponenti ruderi delle Terme di Caracalla, luogo che non offriva, in tempi di pandemia, quelle condizioni indispensabili per accogliere spettacoli, soprattutto Rigoletto voluto in forma scenica quale titolo inaugurale; il 16 luglio alla presenza del Capo dello Stato, in diretta RAI. A Roma, la magia è vivere pur sempre al centro della storia plurimillenaria, a Caracalla oppure al Circo Massimo, tra i colli del Celio, il Palatino, l’Aventino e nessun’altra città al mondo può offrire una tale opportunità. Il palcoscenico allestito per l’occasione ha una estensione di millecinquecento metri quadri, tale da permettere la più temeraria messa in scena; la platea, con gli adeguati distanziamenti, è stata concessa per la capienza di millequattrocento spettatori, con speciale ordinanza della Regione Lazio, coadiuvata da una squadra di esperti. Gli ingredienti per la miglior riuscita della stagione ci sono tutti, dall’Orchestra, particolarmente motivata, al Coro maschile per Rigoletto e Il barbiere di Siviglia, senza esclusione di quello femminile impegnato in uno speciale concerto da loro eseguito e frizzanti Grisette ne La vedova allegra, maestro del coro Roberto Gabbiani. L’attenzione, per l’inaugurazione, si è voluta accentrare sulla parte scenica, comprensibilmente per l’eccezionale vastità del luogo e per le grandi possibilità offerte dall’apporto tecnico, con il palcoscenico delimitato nel fondo da un gigantesco schermo su cui si alternavano di volta in volta, con diversi concetti progettuali, proiezioni in una definizione d’ottima qualità. Il grande schermo resterà quale elemento essenziale della struttura per tutta la stagione, per le dimensioni, la sua funzione di scenografia e anche quale barriera acustica per delimitare lo spazio teatrale, nella vastità dell’antico Circo Massimo di 620 metri di lunghezza. Eppure, è stata proprio la regia di Rigoletto a lasciare perplessi, avanzata quale geniale invenzione per uno spettacolo degno di Hollywood e forse, nelle intenzioni e nella realizzazione di questa nuova produzione, ci si potrebbe realmente riferire a un kolossal, per sviluppo e mezzi impiegati, ma al contrario attenendosi al risultato, converrebbe definirlo una confusa rilettura scenica, appesantita dalla sovrapposizione di concetti per lo più avulsi dal contesto e dal più rilevante messaggio letterario-musicale, nonché sociale, del capolavoro verdiano. Certamente, delle così dette riletture di Rigoletto, tratto da Le roi s’amuse di Victor Hugo (con libretto di Francesco Maria Piave), negli ultimi decenni ne abbiamo viste in abbondanza. L’andamento visivo di questa produzione potrebbe ricordare la trasgressività a oltranza del regista spagnolo Calixto Bieito e più propriamente per Rigoletto la produzione allo Sferisterio di Macerata con firma di Federico Grazzini, fra i tendoni di un luna park: istintivo e brutale.

Nell’impostazione di Michieletto la musica, testo e intenzioni del compositore, sono per lo più superflui. L’attenzione del regista si accentra su ulteriore disagio dei personaggi, in un ambiente di malavitosi e emarginati seconda metà del Novecento, più pertinente a una periferia alla West Side Story, ma ben lontana da rendere quell’implicita eleganza. Ampio, smisurato, alla fin fine incontrollato, l’uso di mezzi tecnologici e proiezioni che s’impongono sul grande schermo, sino a distogliere l’attenzione da un palcoscenico affollato da mimi (pur con il dovuto distanziamento), talmente disorganico da confondere lo spettatore, nel chiedersi quale sia il messaggio del regista oltre-opera, della funzione in questa ideazione della musica e del canto. L’uso di mezzi cinematografici è stato già largamente sperimentato sui palcoscenici e si potrebbero citare, per restare a Verdi e a Victor Hugo, il Rigoletto andato in scena al Massimo di Palermo nel 2018, firmato dall’attore e regista di origine statunitense John Turturro e proseguendo con i raffronti, che potrebbero essere numerosi, al meno recente Rigoletto espressionista della Semper Oper di Dresda, con la regia di Nikolaus Lehnhoff. Questo, a dimostrazione che un messaggio attualizzato può essere più o meno apprezzato, ma dovrebbe pur sempre essere di valida effettività. Della messa in scena di Michieletto resta nella memoria solo la presunzione di prolisse dichiarazioni d’intenzione, che non vale la pena riportare, perché effettivo è solo quello che lo spettatore recepisce, ovvero: un palcoscenico immenso, invidiabile per qualsiasi regista, caratterizzato dall’assembramento di vetture tipo sfascia carrozze, di marca automobilistica andante nel primo atto, lussuose nel secondo per gli appartamenti del Duca/gangster e da parcheggio, con roulotte al posto della casupola diroccata di Sparafucile e della sorella Maddalena, con Rigoletto che conduce una Mercedes e Gilda seduta nei sedili posteriori per distanziamento Covid; tante armi da fuoco per minacce, omicidi, esecuzioni. Poi, i filmati, alcuni sembrerebbero in diretta, con riprese da operatori onnipresenti in palcoscenico, finalizzate a evidenziare le espressioni dei personaggi, altrimenti confusi nel marasma dello spazio, immagini inframmezzate con abile montaggio a impressioni di carattere patologico, di una moglie e madre perduta nella mediocrità di un’estasi di ricordi; di falsa identità, come per Gilda presentata ingannevolmente innocente, che prima dell’incontro con il padre si sveste dagli abiti di donna di strada, che nel finale muore incamminandosi nelle acque marittime (quante volte lo abbiamo visto!) e tanto, troppo d’altro. Con tali mezzi nel terzo atto si sarebbe immaginato un turbinio di eventi naturali, dove d’eccellenza romantica, la natura fa eco al sentimento dell’umano tormento, ma niente! Forse, troppo banale, ma in realtà tutto lo spettacolo è risultato inutilmente convenzionale, semmai alla ricerca di un protagonismo registico smisurato. Per la parte musicale, sul podio il Direttore Musicale Daniele Gatti e per lui nessun altro paragone, se non con se stesso due anni or sono, sempre in Rigoletto, nella sala del Costanzi. L’orchestra nonostante gli obblighi di posizionamento e un’amplificazione tutt’altro che impeccabile, ha dato ottima prova seguendo con compatezza tempi singolari, insolitamente pacati nella prima parte, poi accelerati sino a schiacciare respiri ed espressioni. Tutt’altro risultato, pur sempre di alto pregio, che l’interpretazione che diede lo stesso Gatti, lucida e coerente, della precedente lettura all’Opera; certamente, in un teatro, al “chiuso”, con maggiore concentrazione. Al Circo Massimo la tanto osannata edizione critica di Rigoletto della University of Chicago a cui il direttore si è riferito con rigore, punto di partenza essenziale per una lettura più consona del capolavoro verdiano, è sembrata limitarne la personalità, quasi a costrizione di un respiro che, quanto mai in Verdi, deve imporsi quale teatrale. La citata amplificazione non ha giovato neanche ai solisti, al pur eccellente Roberto Frontali la cui resa del personaggio è apparsa meno convincente, in una linea di canto di cui si stentava a definirne le qualità; apprezzata la Gilda di Rosa Feola, dal canto espressivo, almeno nelle intenzioni, purtroppo vanificate dal piattume dovuto a microfoni e altoparlanti, per cui la voce poteva giungere da qualsiasi parte e luogo senza farne la differenza, apparentemente monotona, come a esempio nel delicato, sognante e rivelatore: Gualtier MaldèCaro nome, seduta sulla grande giostra posizionata sulla destra del palcoscenico che girando in tondo, faceva perdere la visuale dell’interprete, lasciando intatta la fonte sonora che risultava artificiale. Gilda, durante l’esecuzione della celebre Aria, spariva, nel ruotare del marchingegno e si ritrovava soltanto alzando lo sguardo sullo schermo in un’immagine, per scelta o per difetto, spesso, anzi sempre, fastidiosamente fuori sincrono. Tra i solisti il giovane tenore Iván Ayón Rivas, sempre partecipe, compenetrato e quanto mai convinto del ruolo assegnato, ma per estensione e vocalità andrebbe ascoltato in diversa situazione. Nell’insieme la compagnia è di ottimo livello, peccato che qualsivoglia personalità sia andata perduta nel calderone dell’indefinito, così come per l’efficace Sparafucile di Riccardo Zanellato e la seducente Maddalena di Martina Belli. Giovanna è Irida Dragoti diplomata al progetto Fabbrica; Il conte di Monterone il poco autorevole Gabriele Sagona. Completano: Marullo di Alessio Verna; Borsa è Pietro Picone; Il conte di Ceprano: Matteo Ferrara; La Contessa: Angela Nicoli; il Paggio: Marika Spadafino; l’Usciere: Leo Paul Chiarot. Nutrita la squadra registica, con scenografo Paolo Fantin, costumista Carla Teti. Il coro è posto immobile ai lati su pedane, probabilmente su indicazioni sanitarie, ma la scena è egualmente popolata in un andirivieni di mimi con movimenti coreografici di Chiara Vecchi; luci o meglio penombre di Alessandro Carletti; regia camere live con immagini protagoniste di Filippo Rossi. Una nuova produzione del Teatro dell’Opera di Roma in collaborazione con Indigo Film. Intervalli brevi, con richiesta al pubblico di restare ai propri posti per evitare assembramenti e nelle pause, come per tutta la stagione, è proiettato un filmato molto ben realizzato di una Roma deserta, vista dall’alto nell’insieme e nei particolari. Senza vita, probabilmente con un girato nel periodo della pandemia, quando i tesori urbanistici, architettonici della Capitale, erano negati e solitari, quanto incantevoli; un cortometraggio realizzato con professionalità e alta definizione delle immagini.

Da qui, nel proseguo della stagione, il contrasto più evidente, ovvero quello dei due titoli a seguire, annunciati in concerto e realizzati in una piacevolissima e godibile forma semi-scenica. Il Barbiere rossiniano e La vedova allegra, erano previsti per la stagione di Caracalla, mantenuti dalla Direzione dell’Opera di Roma al Circo Massimo, sia pure senza scene e costumi. S’inizia con Il barbiere di Siviglia in edizione pressoché integrale (qualche eccezione, più che giustificata per Berta e Ambrogio). Sul podio Stefano Montanari che con padronanza dirige un’orchestra di rara duttilità, impareggiabile dal podio, suonando su una tastiera camuffata da clavicembalo, dove si diletta con pertinenza e cultura su diverse sonorità, passando dagli accenti del clavicembalo a quelli del fortepiano e avvalendosi di qualsiasi altra risorsa, intervenendo nei brani orchestrali e imperante nei recitativi, solo all’apparenza creativamente in libertà a sostegno degli ottimi solisti. La lettura di Montanari si è rivelata dinamica, stilisticamente appropriata e pur senza artifici, disponibile per il miglior rendimento dei cantanti, per restituirne, di ognuno, le migliori qualità. Una compagnia d’eccellenza tutta italiana, con protagonista del titolo il baritono Davide Luciano, che avrebbe dovuto essere a Salisburgo, se il Festival quest’anno non si fosse svolto in forma ridotta, che ha donato un Figaro esuberante, motivato nella gioia dell’espressione e nell’incanto della voce, così come la Rosina di Chiara Amarù di carattere fermo e determinato, d’impostazione solida e colore affascinante di vero mezzo-soprano rossiniano; insieme non hanno mancato occasione per coinvolgersi in tutt’uno con l’orchestrazione, se vogliamo in un risultato originale, in quanto alla ricerca di sonorità non sempre evidenti; esemplare il duetto Dunque io son… ! Una lettura attenta per il direttore e gl’interpreti tutti, minuziosa e soprattutto vivace, per un Rossini che si potrebbe definire assimilato da una propria sensibilità d’approccio musicale. Montanari rispetta la partitura in ogni sua parte, se non autorizzato da quelle digressioni specificamente legate alla generosa inventiva del pesarese, per quella vitalità musicale per cui l’opera deve vivere il tempo in cui è eseguita, nel massimo rispetto di quanto ci è tramandato dallo scritto, dalla genesi, dagli sviluppi compositivi, così sempre attuale nell’esecuzione e mai oggetto museale. Questo andamento si è avvertito sin dalla trascinante Sinfonia, che a tratti sembrava riportare ad accenti mozartiani, per poi esplodere nella piena, dialogante eloquenza rossiniana. Il pubblico ha potuto godere di ogni momento di un titolo che vide la luce a Roma nel 1816, nel non lontano Teatro Argentina. Tutta la compagnia è appropriata e ognuno dei solisti si muove con pertinenza nel vasto proscenio, risolvendo con intelligenza teatrale ogni situazione, nella dinamica vocale congiunta al movimento, superando con ingegno i limiti precauzionali. Il Conte d’Almaviva di Giorgio Misseri è apparso un poco in impaccio nella sortita di Ecco ridente in cielo, poi in crescendo, padrone del ruolo sino all’esecuzione, impeccabile e non compiaciuta di virtuosismi, della così detta terza aria: Cessa di più resistere. Una citazione particolare per il basso-baritono o basso comico (senza confusione nella terminologia) Marco Filippo Romano, a dimostrazione che Don Bartolo può essere divertente, senza mai uscire dallo scritto e dal buon gusto, ottimo nel sillabato. Ancora, il basso Nicola Ulivieri un eccellente Don Basilio; Francesca Benitez ancor giovane e meno esperta della vita di privazione di Berta, per restare con Beaumarchais, con radici nella Marcellina di Mozart (l’accostamento è di fantasia) e per terminare Fiorello: Alessandro Della Morte del progetto Fabbrica, non nella forma migliore, tra il basso e il baritono o l’infreddato, peccato per il pur breve, ma piacevole recitativo posto tra la prima e la seconda parte dell’atto primo, raramente eseguito. Interessante il progetto visivo di Gianluigi Toccafondo, semplice quanto aggraziato, con proiezioni sullo schermo delle immagini a didascalia con i titoli dei principali brani, riportati su un fondo acquerellato, caratterizzante della grafica del Teatro dell’Opera, con cambi di tonalità discreti, sempre appropriati all’armonia dell’insieme. La serata è stata dedicata agli operatori sanitari, medici e infermieri, in segno di riconoscenza per il loro prezioso operato nella lotta al Codid-19. A seguire Le quattro stagioni, musica di Vivaldi, con il Corpo di ballo del Teatro dell’Opera, nuova creazione del coreografo e regista Giuliano Peparini. Quindi La vedova allegra in lingua originale (Die lustige Witwe), anche in questo caso annunciata in forma di concerto, ma realizzata in forma semi-scenica. Direttore sempre Stefano Montanari che con Franz Lehár si trova fuori dal proprio repertorio, almeno di quello più frequentato, essendo di cultura barocca e classica, soprattutto Rossini. Qui mancava di uno degli strumenti essenziali, come d’abitudine del maestro, ovvero la tastiera sulla quale Montanari, nel suo abbigliamento originale, dopo aver riposto la bacchetta a mo’ di freccia nella faretra, ovvero nel retro della camicia, fa scivolare le dita con la capacità d’immersione totale, trasbordando musica. Egualmente, l’orchestra, come per il Barbiere posizionata sul palcoscenico con alle spalle il coro, ha recepito il segnale di simulata spontaneità dello sgorgare del suono, ovvero di attento controllo e rigore, senza complesso di limitazioni oppressive, approccio fondamentale in questo lavoro che più che operetta, si potrebbe definire opera austro-danubiana, non per nulla presente nel repertorio delle maggiori Fondazioni liriche. L’Introduzione è spumeggiante, come si addice alla cultura viennese, ma subito dopo è penalizzata dall’intervento del barone Mirko Zeta di Andrea Concetti, ambasciatore del Pontevedro, che pur affermato artista, si presenta con in mano lo spartito, facendo evaporare sul nascere la spontaneità del racconto, successivamente impeccabile in ogni suo intervento; peccato veniale in paragone all’indifferente partecipazione del soprano Hasmik Torosyan quale Valencienne, incollata allo spartito per canto e dialoghi, dando la colpevole impressione di non essere padrona della parte, sicuramente privandola di ogni comunicazione, se non nel Can-can del terzo atto, vivacizzato da irrefrenabili, simpatiche grisettes. Non avendo una Valencienne da corteggiare e desiderare il tenore Juan Francisco Gatell in tutta la prima parte, nei duetti, appare penalizzato, ma il suo Camille de Rossillon prende quota, sino a primeggiare nella romanza di Come di rose un cespo, eseguita con elegante, comunicativa poeticità. Entrano in scena i due mattatori e lo spettacolo si scatena, perché Nadja Mchantaf e Markus Werba sono Hanna Glawari e il conte Danilo Danilowitsch per eccellenza. Cosa dire, impeccabili nel canto quanto nell’espressione, partecipi nella recitazione, non si risparmiano in nulla. Nella Romanza della Vilja la ricca e corteggiata vedova appare in un abito verde smeraldo, forse per riecheggiare le tinte lacustri della leggenda e si atteggia, danza, si muove con disinvoltura, si raccoglie dando a ogni passaggio il giusto colore. Non da meno il conte Danilo, spavaldo: Vo’ da Maxim allor, indisponente, innamorato, protagonista! Così delicati nello sfiorarsi mimando il valzer in: Tace il labbro.

Bene tutta la numerosa la compagnia, comprensibilmente sacrificati alcuni dialoghi, che sarebbero risultati prolissi in lingua tedesca. Nei diversi ruoli, per il visconte Cascada: Simon Schnorr; Raoul de St-Brioche: Marcello Nardis; Bogdanowitsch: Roberto Accurso; Kromow: Roberto Maietta; Pritschitsch: Alessio Verna. Dal progetto Fabbrica: Marianna Mappa (Sylviane), Angela Schisano (Olga) e infine diplomata al progetto Fabbrica: Sara Rocchi (Praskowia). Un commento per lo schermo, qui utilizzato con proiezioni da Giulia Randazzo e Giulia Bellè, entrambi del progetto Fabbrica del Teatro dell’Opera, per lo più realizzate con assemblaggi da pellicole appartenenti allo sfarzo hollywoodiano il più spettacolare e non mancano Charlie Chaplin e Fred Astaire; montaggi con immagini d’epoca, ricostruzioni d’ambienti parigini, sempre gradevoli e ben costruiti, filmati intervallati di quando in quando da didascalie nello stile del cinema muto, volutamente ingenue, tanto da far sorridere il numeroso pubblico.

A chiudere la stagione estiva un Omaggio a Roma del soprano Anna Netrebko e del tenore Yusif Eyvazov che si conobbero proprio a Roma nel 2014 al Teatro dell’Opera, in una produzione di Manon Lescaut diretta da Riccardo Muti. Sul podio Jader Bignamini, più conosciuto all’estero, a cui il merito di aver dato alla serata il suo tocco di stile, accompagnando i celebri solisti con attenzione, non assecondandoli, ma armonizzandosi con attenzione! Efficace la scelta dei brani per sola orchestra, la Sinfonia dal Nabucco di Verdi, l’Ouverture da Ruslan e Ljudmila di Glinka e di Puccini, dalle giovanili Villi, l’Intermezzo: La Tregenda. Sempre di Puccini l’esecuzione dell’Intermezzo dalla Manon Lescaut, quanto mai introiettato e vibrante, con un avvio dove il tempo sembra infinito, velocizzato nella conclusione nell’affanno di un tragico destino. Lo schermo alle spalle dei protagonisti e dell’orchestra, resta incombente e non potrebbe essere altrimenti, qui utilizzato con riprese in diretta per evidenziare il podio e il proscenio, con diverse inquadrature del direttore Jader Bignamini, di cui si apprezzava il gesto pulito ed efficace; per i solisti ripresi dalla platea, dal fondo e dai lati, nella massima libertà di movimento, perché sempre protagonisti d’eccezione, in tutto  e per tutto. La Netrebko è oggi uno dei soprani con ragione più celebrati, anche se in produzioni recenti si sono avvertiti dei cedimenti, in un repertorio tra i più vasti, alla ricerca di appoggi e posizioni non sempre pertinenti. A Yusif Eyvazov, sicuramente, la vicinanza della Netrebko ha giovato nella padronanza della tecnica, anche se in alcune scelte si spinge al  limite consentito del repertorio. Qui a Roma, entrambi, hanno donato il meglio della propria arte; sono entrati a braccetto, affettuosamente, come si addice a marito e moglie e per loro non vi sono limitazioni e distanziamenti, si sono amati, baciati, sfuggiti, ritrovati. Un vero piacere per l’udito e per la vista. Nell’Omaggio a Roma, nel ricco programma, non poteva mancare Tosca: Floria e Cavaradossi da: Mario! Mario!Vissi d’arteE lucevan le stelle e nei bis, insieme per il gran finale la canzone: Chitarra romana, appassionante, come non l’avevamo mai sentita. Un regalo per questa inaspettata estate romana e un saluto affettuoso per un pubblico entusiasta.

Si guarda ora alla stagione d’autunno al Costanzi. Dopo il concerto di fine agosto con Orchestra, Coro e i cantanti del progetto Fabbrica e a inizio settembre Tutto Verdi dedicato alle pagine più popolari del compositore di Busseto con direttore Paolo Arrivabeni, è prevista in programma la ripresa del balletto Le quattro stagioni. Il primo ottobre la Petite messe solennelle di Rossini. Di particolare interesse dal 18 ottobre un nuovo allestimento di Zaide, Singspiel incompiuto di Wolfgang Amadeus Mozart, rappresentato postumo a Francoforte nel 1866, su testo di Johann Andreas Schachtner andato perduto, nella ricostruzione del libretto proposto nel 1981  da Italo Calvino per il  Festival Musica nel Chiostro di Batignano (Grosseto). Direttore Daniele Gatti; regia di Graham Vick. Dal 4 novembre, torna La Traviata di Verdi, nell’allestimento Sofia Coppola/Valentino, con la regia riadattata alle norme anti-Covid; direttore Paolo Arrivabeni. Per il pubblico, si prevede una capienza nella sala del Costanzi tra i 500 e gli 800 spettatori.

Vincenzo Grisostomi Travaglini

Rigoletto – 18 luglio 2020

Il barbiere di Siviglia – 22 luglio 2020

La vedova allegra – 7 agosto 2020 Omaggio a Roma – 9 agosto 2020

RIGOLETTO de GIUSEPPE VERDI: L’oeuvre-symbole de la Renaissance de l’art lyrique à Rome après les longs mois de confinement…

Il Teatro dell’Opera di Roma per la “ripartenza” ha avuto l’opportunità di una struttura unica al mondo, realizzata nell’incantevole cornice del Circo Massimo, con un palcoscenico gigantesco di mille e cinquecento metri quadri e una vasta platea capace di mille e quattrocento posti, tenuto conto delle norme di distanziamento. Il titolo d’apertura della stagione, tra i più amati dal pubblico: Rigoletto, in una nuova produzione firmata da Daniele Gatti, Direttore Musicale della Fondazione capitolina e per la regia di Damiano Michieletto che si è voluto distinguere in una sorta di sfida alle leggi della regia, tra spazi teatrali e set cinematografico. Il pubblico aspettava con impazienza di tornare a godere della musica, del canto, del ballo e si deve riconoscere che in questa produzione vi erano tutti gli ingredienti per un risultato che si sarebbe voluto all’altezza dei mezzi a disposizione. La magia di Roma e un meteo ideale, con il caratteristico Ponentino, rappresentano l’eccellenza per una gradevole serata d’estate romana; un parterre di primo piano, con il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, i Presidenti delle due Camere, la Sindaca Raggi, ancorché della star internazionale del cinema Ralph Fiennes. Rilevante la rappresentanza diplomatica e presenti autorevoli esponenti dell’aristocrazia romana… veramente non mancava nulla affinché questo Rigoletto fosse l’evento più atteso. Così com’è stato, sin dall’Inno Nazionale Italiano eseguito dall’Orchestra dell’Opera di Roma e un pubblico commosso.

Tutti sono rimasti colpiti dagli imponenti mezzi tecnici a disposizione della produzione: dal palcoscenico immenso, dalle luci pontentissime e da tutti gli artifici messi in campo dal regista per imporre le proprie scelte, per brillare ancora di più nell’universo della notorietà. Ancora, uno schermo “massimo” come fondale, assolutamente in tono con il luogo stesso della recita. La direzione del Maestro Daniele Gatti prometteva di offrire una lettura singolare del capolavoro di Verdi, mentre la scelta di Damiano Michieletto si annunciava come una visione molto personale del concetto stesso di regia operistica al tempo del Covid. In un certo senso, si potrebbe affermare che il risultato è stato ottenuto, con una produzione originale, che sicuramente segnerà le loro rispettive carriere, con un sigillo al sapore provocatorio di quella “nuova era” che sembra si stia aprendo dopo la pandemia. La scelta di ambientare la corte del Duca di Mantova in un immenso drive-in della fine degli anni cinquanta e di vestire tutte le donne in minigonne di paillette colorate sino all’eccesso, ha subito suggerito un riferimento insolente ad alcune pellicole musicali del periodo Disco. Da parte del regista non sono mancati i referimenti ai grandi maestri e si sente la sua voglia di condividere con il pubblico il feroce impulso di rinascita dopo un lungo periodo di astinenza anche se, l’uso dello schermo come tentativo di una “mise en abime” alla maniera di Corneille nella sua Illusion comique, era sin troppo evidente. Il problema è che non si tratta di una tragedia del ‘600 francese, ma di un’opera famosissima del più celebrato compositore della lirica italiana. In altri termini, “la maionese non ha preso”. Lo schermo era una distrazione inutile per lo spettatore, la giostra sulla destra del palcoscenico dava un’impressione inevitabile di déjà-vu e l’uso delle mascherine da pagliaccio dei cortigiani venuti a rapire la povera Gilda era palesemente una ri-elaborazione infelice della figura del clown assassino, un cliché del cinema americano contemporaneo…

Per la parte musicale, è complicato trovare una strada originale per un’opera come Rigoletto, che il pubblico conosce a memoria. I tempi del Maestro Gatti fanno riflettere per l’inadeguatezza alle nostre abitudini, ma è anche possibile che lo stimato direttore d’orchestra sia stato costretto a rallentare alcuni tempi per facilitare l’interpretazione dei cantanti in difficoltà: niente più acuti, seguendo i dettami dello scritto. Complessivamente un Rigoletto debole, di poche emozioni, meno accorto nelle esigenze musicali e maggiormente centrato nell’espressione, eccessivamente rimarcata, dalla parte visiva, di violenza e di vendetta. Il Duca di Mantova Ivan Ayon Rivas, dalla voce soave e deliziosa, era ampiamente aiutata dall’amplificazione; un meritato applauso al soprano Rosa Feola, che ha saputo trasmettere con molta grazia, emozioni e genuinità alla sua Gilda. Martina Belli ci ha donato una Maddalena sensuale a oltranza con il giusto pizzico di rammarico che conviene e Riccardo Zanellato nelle vesti di Sparafucile appariva grandioso nel suo ruolo d’implacabile verità. Ovviamente, Roberto Frontali è un grande professionista e ammirato Rigoletto, non ultima la sua esibizione nel ruolo nella sala del Costanzi dell’Opera di Roma di due anni fa; qui ha dovuto conformarsi a un ruolo volutamente sotto tono e senza grande rilievo. La sua presenza scenica e la sua arte nel superare le difficoltà di un canto complesso l’hanno portato, in ogni caso, a conquistare l’assenzo entusiastico di un pubblico alla ricerca di punti di riferimento, per un ritorno in teatro, sia pure con tutte le restrizioni di mascherine e distanziamento sociale.

Una bella idea, realizzata con arte, è stata quella di proiettare sullo schermo durante i brevi intervalli dei filmati di Roma vista dal cielo durante il periodo del confinamento, iniziativa che ha acuito l’emozione di questa “rimpatriata” in terra musicale e artistica. Rigoletto a Roma nel luglio 2020 è senza dubbio una produzione da considerare con uno sguardo diverso, come una fenice che rinasce dalle proprie ceneri in un momento particolarmente delicato e sensibile. La questione da porsi è di sapere come confrontarsi con una proposta che riunisce le diverse arti del palcoscenico, allo scopo di permettere a un pubblico numeroso di ritrovarsi in un teatro, all’aperto, senza paura e nel piacere del godimento di una produzione operistica. Come rendere la sensualità erotica di un duca di Mantova perverso e allo stesso tempo tenero, senza toccarsi, né mani, né labbra? Come esprimere la violenza della vendetta del buffone che assolda uno spadaccino per lavare l’onore perduto della sua figlia unica? La risposta è difficile e ci vorrà molto tempo prima di tornare a un modo espressivo soddisfacente, teatralmente e musicalmente.

Una volta perso nella tempesta, l’uomo ritorna ai suoi fondamentali per ri-studiare le fonti della sua cultura. L’innovazione non è sempre sinonimo di genialità e molto spesso si ha tendenza a perdersi nell’eccesso di concetti ingarbugliati, correnti di pensiero e dissonanze di visioni. Il risultato, così, diventa insipido, malgrado la quantità di riferimenti ai Grandi dell’arte, nonostante la qualità della musica e dei musicisti e la benevolenza del publico che ri-vuole il suo teatro, che chiede di tornare a quel rito di una socialità che per un momento, che è sembrato interminabile, sembrava perduto. Coraggio e perseveranza aspettano questi nuovi creatori della lirica post-Covid, affinché possano trovare una più equilibrata espressione, nel rispetto della scrittura della musica, delle didascalie sceniche della partitura e della creatività personale. Siamo all’alba di una era di rinnovo, dopo un doloroso affogamento, nell’angoscia estrema di fronte ad una malattia sconosciuta. Però, attenzione a non cadere nella trappola della superficialità, per mancanza di umiltà e il senso del limite rimane pur sempre una qualità imprescindibile.

Sisowath Ravivaddhana Monipong

Photo credits: Yasuko Kageyama & Kimberley Ross

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