27 Novembre 2022: “Dialogues des Carmélites” di Francis Poulenc apre la stagione al Teatro dell’Opera di Roma. Recensione di Vincenzo Grisostomi Travaglini.

Dialogues des Carmelites_Anna Caterina Antonacci (Madame de Croissy), Corinne Winters (Blanche) photo credits: Fabrizio Sansoni-Opera di Roma

Data simbolo è il 27 novembre, giorno dell’inaugurazione nel 1880  dell’allora Teatro Costanzi, oggi Opera, con Semiramide di Rossini, giorno prescelto dal nuovo corso della Fondazione Lirica romana quale appuntamento identificativo. Per il titolo d’apertura della stagione 2022/23, da subito, si distingue la nuova produzione de Dialogues des Carmélitesdiretta da Michele Mariotti e regia di Emma Dante, problematico quanto acclamato capolavoro di metà Novecento. Si proseguirà il 27 novembre del 2023 con Mefistofele di Arrigo Boito e nelle stagioni successive e sempre il fatidico “27” Simon Boccanegra di Giuseppe Verdi e nel 2025 Lohengrin, debutto wagneriano sia per il maestro Mariotti che per il regista Damiano Michieletto. Una prospettiva lungimirante del Massimo Capitolino, nel proposito d’imporsi con rinnovata impronta nel panorama lirico internazionale, segnatamente alla recente nomina a sovrintendente di Francesco Giambrone e all’esordio quale Direttore musicale di Michele Mariotti. Nei Dialogues des Carmélites il Maestro si afferma dal podio sostenendo con risoluzione la multiforme partitura di Francis Poulenc, consapevolmente specifico riguardo a una scrittura che si pone in bilico tra un percorso negato dall’aggressività impositiva avanguardista, in contrapposizione allo spiccato tormento creativo del musicista in dicotomia compositiva per una personalità singolare, dalle espresse convinzioni legate alla propria posizione, personale e artistica, non sempre in linea con le convenzioni.

Dialogues des Carmelites_Corinne Winters (Blanche) photo credits: Fabrizio Sansoni-Opera di Roma

Nella concertazione, Mariotti non avvalora alcuna prassi di riferimento, alieno da convenzioni esecutive, per lo più pregevoli quanto a tendenza retorica, procedendo conseguentemente per la propria strada, edotto dei tanti riferimenti e appoggi compositivi, ma senza pregiudiziali, proiettandosi nella lettura affermativa con ricerca d’espressione nell’incalzare di quel ritmo verbale che ne caratterizza lo svolgimento. Un’esecuzione ascrivibile a un austero affresco narrativo e dove richiesto, con accompagnamento “leggero” alla Schumann, nell’evidenza della parola, con segnatura di motivi simbolici e allusivi che niente hanno a che vedere con conformismi d’etichetta. Designazione, sia essa marcata quale anti-romantica o avversa all’impressionismo musicale, ma Debussy, che tanto aveva segnato la formazione di Poulenc, ne è per ammissione uno dei maggiori ispiratori, se si vuole assimilato quale precorritore esistenzialista, con particolarità nella funzione degli interludi e/o preludi, di peculiare rilievo tra il primo e secondo quadro dell’atto terzo. Ancora, a relazioni neo-classicistiche alle quali Mariotti concede pertinenza, ma che risolve con l’affermazione dell’originalità di scrittura che vi si distingue rivelatrice, nella dialogante musicalità e spessore della simbologia del suono riferito al singolo strumento o sezione di un ampio organico. Pur sempre, nel rifiuto di un’analisi semplicistica del modello artistico di riferimento estetico alla Erik Satie (ma anche Stravinskij), principale stimolo del poliedrico Gruppo dei Sei, infuso all’affermazione della scuola francese, cui Francis Poulenc aderisce con convinzione e nella scia drammaturgica di Jean Cocteau. Poeta e saggista, quest’ultimo, con il quale il compositore collaborò per il suo terzo e ultimo lavoro di palcoscenico: La voix Humaine. La vicenda de Dialogues des Carmélites si dipana in tre atti e dodici quadri, con culmine nel martirio delle sedici suore del convento delle Carmelitane Scalze che, in pieno Regime del Terrore nel 1794, s’immoleranno pur di non rinnegare la propria fede, epilogo segnato dalla problematica di relatività per la sfuggente vita terrena e di marcata, rinvenuta religiosità, concetti di testimoniata umanità che contraddistinguono la definizione di Poulenc nella ricerca d’irrealizzabile idealità. Caratteristiche dell’andamento angoscioso particolarmente marcato dalla direzione di Mariotti, evidenziate in pagine quali la straziante agonia dell’anziana priora Madame de Croissy, nella recita nell’atto secondo del Sancta Maria dell’intera comunità in sgorgante sospensione con il seguente Interludio, eseguiti in rivelante cognizione all’intensa produzione sacra di Poulenc e del linguaggio tonale che, attraverso la forma, si erige a emozione. Imperativo il conclusivo Salve Regina, intonato dalle Martiri di Compiègneal patibolo, con agghiacciante sonorità da Requiem, nello scandire al sibilo della lama della ghigliottina che ne spegne con il canto, una ad una, l’esistenza terrena, pagina di così drammatica aggressività, quanto pervasa da lucente spiritualità. All’Opera, conclusione simbiotica tra direzione e regia, enfatizzata nella ferruginosa amplificazione del tagliente sfregamento di lastre di metallo con lama d’acciaio e l’abbattersi di un velo bianco a cancellare delle martiri la visività, annullandole nella propria cornice esteriore, incombente Soeur Blanche crocifissa, ultima voce dell’Antifona.

Dialogues des Carmelites_Ewa Vesin (Madame Lidoine) photo credits: Fabrizio Sansoni-Opera di Roma

Michele Mariotti nel suo percorso direttoriale ha da sempre privilegiato la collaborazione con fautori di un palcoscenico attualizzato, nel proponimento di rendere evidente il legame di problematiche che trovino al presente un filo indissolubile perché continuativo e nei Dialogues sono individuabili specificate inquietudini che trovano nel nostro tempo piena intestazione. L’opera, che da Roma mancava dal 1991, si riferisce a un fatto storico e venne commissionata da Guido Valcarenghi, direttore della casa editrice Ricordi, sollecitato dal successo teatrale del testo di Georges Bernanos, dialoghi originalmente commissionati per una sceneggiatura destinata a un film, realizzato solo nel 1959/60 con protagonista Jeanne Moreau. Vicenda imperniata sulla novella Die Letzte am Schafott (L’ultima al patibolo) della scrittrice Gertrud von Le Fort del 1931; dialoghi, essendo mancato nel 1948 Bernanos, elaborati in libretto d’opera dallo stesso Poulenc, che ne era venuto a conoscenza per la prima volta proprio a Roma, leggendone con crescente implicazione il testo, seduto in un bar di piazza Navona. La prima assoluta in lingua italiana è datata 25 gennaio 1957 al Teatro alla Scala e quella parigina, nell’originale francese, sei mesi dopo all’Opéra. Nell’attuale proposta, in coproduzione con il Gran Teatro la Fenice, Emma Dante, nella sua indiscutibile padronanza di palcoscenico, antepone un percorso attinente a tematiche d’effetto, percorrendo a ritroso lo svolgersi della vicenda. La regista vi privilegia una ricerca tutta al femminile oltre e anche precedente alla trattazione del dramma, così come prevalentemente muliebre si pone l’unica opera seria di Poulenc, ricercando di ogni protagonista quel percorso psicologico e morale, tanto quanto di marcata fisicità, che le porterà alla scelta o costrizione conventuale. Sino all’epilogo, nello stravolgimento epocale della Rivoluzione francese, con determinazione al sacrificio. Riferendosi a dipinti d’epoca, di ogni religiosa è riportato il ritratto in abiti nobiliari da Jacques-Louis David, Ingres, François Gérard e contemporanei, ricreando una varietà di visioni esaltanti; la loro realtà a cornice del segreto nell’indefettibile vocazione.

Dialogues des Carmelites_Krystian Adam (L’aumonier du Carmel) photo credits Fabrizio Sansoni-Opera di Roma

A nudo, in resistenza concettuale a quell’essenzialità di costrizione monastica, infine enfatizzandone l’apoteosi di martirio universale distanziandosi, però, dalla spiritualità fondante la drammaturgia di Bernanos/Poulenc. Argomento prioritario, per la regia, è la violenza contro le donne, figure che svaniscono nel vuoto dietro una candida tela allo scandire della lama! Insomma, tanti altri cammini di una realtà contorta e lacerante, ma con Emma Dante è pur sempre teatro segnato da un’attualità che impone forza nella denuncia della condizione femminile. Come spesso negli allestimenti della celebre regista i movimenti mimici/coreografici sono insistenti sino all’esaurimento, a cura di Sandro Campagna. L’apparato scenico di Carmine Maringola rimanda a simbolismi di luogo e d’argomento, reclamante sovrabbondanti crocifissi, all’apologia del Cristo-donna. Con il fondamentale apporto delle luci di Cristian Zucaro, l’allestimento rende fluidità all’affastellamento attuativo imprimendovi significati o sottintesi, distinguendosi per la nitidezze di forme lineari nell’inquadrature di cornici dai molti utilizzi, eloquenti dell’ossessività narrativa, con colori riferenti lo stato emozionale dei personaggi. Raffigurazioni senza limite temporale, grate conventuali come sbarre di prigione. Piena sintonia nei costumi di Vanessa Sannino, sfarzosi abiti, tuniche e armature di combattenti alla “Giovanna d’Arco” con simil-aureole santificanti (le Carmelitane del convento di Compiègne furono beatificate da Pio X) e riferimenti molteplici, funzionali a un discorso parallelo, perché ai realizzatori non importa della semiotica cristiana, bensì personali convincimenti. Poco, nulla, aggiungono appesantimenti funebri, quali i cinquecento teschi (tipo Catacomba a Palermo o Cripta a Roma dei Cappuccini), che, piuttosto che terrificanti, appaiono farseschi. Le chincaglierie non mancano, con le pietre d’iniziazione a schiacciare sadicamente i piedi delle novizie, la loro notturna fuga liberatoria, felici pedalando biciclette gialle. Uno spettacolo avvincente, malgrado l’indifferenza a quel messaggio distinto di riflessione sul dramma della solitudine.

Dialogues des Carmelites_Krystian Adam (L’aumonier du Carmel) photo credits Fabrizio Sansoni-Opera di Roma

Nell’eclettica scrittura dell’opera non ci sono vere e proprie distinzioni nel protagonismo di ruolo, nel senso che ognuno è funzionale nella specifica comprensività delle caratteristiche metodizzanti della lingua francese, seguendo il naturale slancio ritmico delle parole con passione e coinvolgimento, pressoché un omaggio tardivo al linguaggio del grand-opéra. Da questo assunto le connesse distinzioni, come per Blanche de la Force impersonata da Corinne Winters che si colloca sempre più nel panorama internazionale per l’abnegazione a lavori richiedenti specifica e lancinante sonorità, quali a Roma Kát’a Kabanova, con ribadito successo alla recente edizione del Festival di Salisburgo, ma anche al Circo Massimo in Madama Butterfly. Il soprano statunitense, nel solco di Denise Duval alla quale Poulenc proporzionò la personalità di Blanche, si esprime con decisione, marcando le incertezze e fragilità del personaggio, nella gestione di Emma Dante intensificandone la forza interiore; con sostenuto lessico melodioso, abbandonandosi con corporea assimilazione, stilisticamente appropriata per dinamiche e malleabilità di lancinante intendimento. Di rilevante sottolineatura la determinazione con la quale annuncia al padre Marquis de la Force, l’autorevole baritono Jean-François Lapointe, l’intenzione di farsi suora: Mon père, il n’est pas d’incident si négligeable / où ne s’inscrit la volonté de Dieu e su tutt’altra intensità, ma se si vuole con consequenziale introversione alla natura dei personaggi, l’incontro in convento tra Blanche e suo fratello Chevalier de la Force, pregevolmente impersonato dal tenore Bogdan Volkov dagli accenti masnettiani, che con sottigliezza, quasi un inganno fanciullesco da confessionale, propone sottintesi stilistici di un duetto d’amore con straziante addio. Distinta percezione per Anna Caterina Antonacci, qui nella relativa vocalità invalsa all’uso comune, che nella soggettività da soprano tendente a suoni dal sapore remoto si contrae oltre il mezzosoprano espressivo aderendo all’anziana e malata Priora del Carmelo Madame Croissy: Relevez-vous, ma fille, obbligandosi nell’affermare l’interiore drammaticità del personaggio sino all’intensità vocale di contralto: Oh! oh! Dieu nous délaisse! Dieu nous renonce! Teatralmente l’artista si pone quale immagine simbolo della sofferenza, definita nello sventramento del suo essere corpo, in abito bianco, con avvolgimento e trazione degli arti in rosso sangue di parvenza iconica, tuttavia con forzatura nella regia da Skydancer. Anna Caterina Antonacci, già implicante artefice d’emozioni quale Voix nell’atto unico La voix Humaine di Poulenc al Teatro Comunale di Bologna, sempre con direttore Michele Mariotti e regista Emma Dante. Il soprano lirico spinto Ewa Vesin interpreta Madame Lidoine, nell’equilibrio delle sonorità, segnatamente soave quale succedente priora, toccante nell’accorato sostegno alle consorelle dopo la prima notte di carcere. Nella rappresentazione dell’innocenza giovanile di suor Costanze de Saint-Denis, nella tessitura da soprano leggero, ben s’identifica Emöke Baráth, per la scrittura di Poulenc esempio di definizione caratteriale nell’utilizzo di specifica tipologia vocale. Successivo modello d’evidenza timbrica caratterizzante è per Mère Marie de l’Incarnation, antinomia ben stabilita dal discordante brunito del mezzosoprano Ekaterina Gubanova. Negli ulteriori ruoli, funzionali nella numerosa compagnia tutta adeguatamente commisurata a un fondamentale equilibrio: Krystian Adam (L’Aumônier du Carmel), Alessio Verna (Le Geôlier et deuxième Commissaire), William Morgan (premier Commissaire) e Roberto Accurso (Officier). Significativo l’apporto dei giovani dal progetto Fabbrica Young Artist Program del Teatro dell’Opera: Irene Savignano (Mère Jeanne de l’Enfant-Jésus), Sara Rocchi (Soeur Mathilde) e Andrii Ganchuk (Thierry e Javelinot). Il Coro del Teatro dell’Opera di Roma specificatamente nella sezione femminile e limitatamente in quella maschile, pur nell’impegno contenuto è plasmato con meticolosità dal maestro Ciro Visco, al suo primo incarico stabile nella Fondazione.

Vincenzo Grisostomi Travaglini

27 novembre 2022

Photo credits: Fabrizio Sansoni – Opera di Roma

“Due magnifiche proposte verdiane”, un articolo del Maestro Vincenzo Grisostomi Travaglini in “L’Opera International Magazine”, Giugno 2021

Ci sono gesti che rimarranno a segno di questa attesa riapertura del Teatro dell’Opera di Roma, dopo l’accoglienza del sindaco della Capitale, è il maestro Michele Mariotti, a girarsi dal podio verso la sala illuminata e con l’orchestra in piedi, a liberarsi dalle tensioni in un lungo applauso rivolto dall’ampio palco al pubblico ritrovato. Due giorni dopo, per Santa Cecilia, il Direttore musicale Sir Antonio Pappano, prende la parola e si rivolge ai presenti: «Caro… Carissimo pubblico», accentuando con il superlativo quel sollievo per un’espressione artistica altrimenti imposta al vuoto del vasto auditorium. Con l’orchestra dell’Accademia è Pëtr Il’ič Čajkovskij a trionfare con l’esecuzione della Sinfonia n. 6 in si minore Patetica di rara, appassionante intensità. Nella sala del Costanzi, il protagonista è Giuseppe Verdi, con tre dei ballabili tratti da opere nell’edizione parigina da Grand Opéra, dove al terzo atto l’inframmezzarsi della danza all’azione drammaturgica era pressoché d’obbligo. A Roma, però, il tradizionale ponentino si rafforza di ben altri venticelli che, stando ad insistenti indiscrezioni, causerebbero un mulinello di nomine ai vertici delle due Fondazioni Capitoline. Il maestro anglo-italiano Antonio Pappano è stato recentemente designato Chief conductor della London Symphony Orchestra e alla scadenza quale Direttore musicale dell’Accademia romana nel 2023 assumerà per Santa Cecilia la carica di Direttore emerito, un’accennata “Brexit-musicale” nonostante le rassicurazioni che non si tratterà di una funzione solo di facciata e al suo posto potrebbe essere nominato Daniele Gatti, che in passato vi aveva ricoperto la carica di Direttore stabile dal 1992 al 1997. Gatti che lascerebbe a fine mandato analogo incarico al Teatro dell’Opera, dove a succedergli sarebbe Michele Mariotti. Tutto al condizionale, ma già si vocifera, a presumibile conferma dei fatti, sull’ipotesi che nel 2024 quando sarà l’orchestra dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia a presiedere al Festival di Pasqua di Salisburgo, che a dirigere la prevista Madama Butterfly, che si vorrebbe sostituita con La forza del destino, sarebbe confermato Pappano e non il subentrante Gatti; tante ipotesi di un mondo della musica in divenire. Per restare all’oggi, di certo, all’Opera di Roma con il recente concerto dedicato ai ballabili e a poca distanza della Luisa Miller in forma di concerto, si consolida nel nome di Giuseppe Verdi l’ottimo rapporto di Mariotti con l’orchestra del Lirico della capitale. L’esecuzione dei ballabili era già in programma quando è arrivata la notizia sulla possibilità di riaprire i teatri al pubblico e in poche ore la biglietteria, con ingressi a prezzo simbolico, ha fatto registrare il tutto esaurito, sia pure nella ridotta disponibilità consentita di platea e palchi. L’interesse maggiore della proposta è stato nella valutazione schiva da prevenzioni di Mariotti per queste musiche, un tempo relegate quali superflue appendici ballettistiche, diminuite nel giudizio a un opportunismo compositivo avulso da esigenze narrative, se non nell’obbligo del Grand Opéra, in quella Parigi a cui Verdi si rivolgeva.

Mariotti, nella sua lettura personale, ne ha liberato l’effettivo valore musicale e di struttura, con convinzione e vivacità e l’esecuzione si è arricchita, nella raffinata strumentazione, di uno spessore narrativo quanto sinfonico che si è imposto su qualsiasi pregiudizio. Primo tra i ballabili quelli per il Don Carlos, tante volte ripensati dall’autore in quella complessa concatenazione di prove, idee e costrizioni. Il risultato per Le ballet de la reine: La Pérégrina, è di grande raffinatezza, elegante orchestrazione e dinamicità. Importante è crederci sino in fondo, così che il suono strumentale nella lettura di Mariotti s’identifica in canto, negli assolo e nel dialogare delle sezioni, con tale partecipata passionalità, tanto che nel finale la bacchetta gli è sfuggita di mano, sino a raggiungere le poltrone della platea. L’approccio alla musica verdiana di Mariotti è di volta in volta differente e il maestro si lascia come “stupire” dalle molte invenzioni, spronandone ogni spunto e in questi ballabili ve ne sono tanti, per valorizzare nella raffigurazione l’impulso in un segmento altrimenti riservato alle esigenze dei danzatori, evocatore di quella teatralità che puntualmente e in ogni genere è presente in Verdi. Incalzanti, seguono i ballabili dal Macbeth inseriti nell’edizione parigina, voluti in un più ampio ripensamento del compositore, che da lavoro giovanile per il Théâtre Lyrique traghetta il “suo” Shakespeare nell’accuratezza di una raggiunta maturità, tantoché Casa Ricordi li riportò in Italia nella rinnovata edizione a stampa. Concludono i più ampi ballabili da Les vêpres siciliennes, inquadrati nel tema codificato de Les quatre saisons.

Si torna allo streaming per la successiva Luisa Miller, rinviata a poche ore dall’esecuzione, a causa del tampone positivo di alcuni elementi del coro e riproposta a distanza di meno di due settimane. La prima è diffusa in diretta da Rai Radio3 e successivamente offerta in differita sul canale YouTube dell’Opera di Roma. Predisposta in forma di concerto in periodo di chiusura, per il dovuto distanziamento il coro è sistemato in platea e nei palchi e quindi senza la possibilità di accogliere il potenziale pubblico ed è impossibile ripensarne l’allestimento in così poco tempo. Per Mariotti è un debutto nel titolo e sin dalle prime battute la memoria torna al 2007, quando il giovane direttore si presentò al Comunale di Bologna con il Simon Boccanegra, perché l’approccio alla partitura verdiana, ieri come oggi, presenta caratteristiche analoghe, sia pure con la diversa consapevolezza delle proprie validità, ma con immutata passione. Il direttore affronta la partitura di Luisa Miller prendendo avvio dal solco della tradizione, per poi manifestarsi in tutte quelle sonorità di una sensibile, vigorosa ricerca di un’espressione che non fluisca da costruzioni pragmatiche, bensì da un naturale sviluppo di una riaffermata vitalità. Il direttore si avvale per questo debutto di una compagnia di canto, nell’insieme, di ottimo livello, nella partecipazione della quale si mostra, nelle intenzioni esecutive, una netta spartizione generazionale, tra artisti di più recente affermazione e smaliziati professionisti. Tra i primi il valido soprano Roberta Mantegna che nella sua già significativa carriera è d’orgoglio dell’iniziativa Fabbrica il programma per giovani artisti dell’Opera di Roma; il già affermato tenore Antonio Poli e il basso Marko Mimika. Questi tre interpreti hanno dimostrato maggiore disponibilità ad esprimersi, pur nella staticità della forma di concerto, priva di movimenti, ma non d’intenzioni. Roberta Mantegna è una Luisa appassionata e dagli adeguati mezzi vocali e se risente nel terzo atto di una minore aderenza espressiva, va a sua difesa l’evidente emozione nell’affrontare un personaggio di così complessa configurazione, con impegno vocale a tutto campo. Dall’enfasi al patetico il Rodolfo di Antonio Poli si presenta al meglio in tessiture che richiedono al tenore ampia flessibilità, esprimendosi appieno nell’elegiaco di Quando le sere al placido, dove il solista si raccoglie, quasi trasfigurando, esibendo un buon legato e alla ricerca di raffinate mezze voci proprie della scrittura verdiana e nei limiti di una tradizione interpretativa, ma che per il pieno risultato, pur apprezzandone l’impegno, necessiterebbe uniformemente di maggiore naturalezza. L’impressione in generale è che per i cantanti sarebbero state necessarie più prove, ma probabilmente la particolare situazione, il rinvio dovuto al contagio, gli spazi ristretti per una pur contenuta dinamica della parola scenica che sempre necessità di vitale svolgimento, tutto questo potrebbe aver influito per una più convincente resa d’insieme e sviluppo nell’introspezione dei ruoli, che in Luisa Miller rappresenta la vera svolta della complessità verdiana agli albori degli anni ’50 dell’Ottocento.

Di queste barriere sembrerebbe averne risentito anche il fronte più navigato, con Roberto Frontali di provata esperienza, oramai ospite fisso dell’Opera, che di recente vi ha affrontato ruoli che si possono ben considerare in linea evolutiva con la figura paterna di Miller, ma che pur in pochi anni di scrittura verdiana hanno marcato ben distinti accenti, così che il baritono è apparso già composto genitore nel ricorrente rapporto di padre e figlia, per un Miller che vorrebbe una maggiore aderenza a quel canto, di cui Frontali fu maestro, riferito più a un Verdi trascinante o ancor prima a un’eleganza e trasporto di derivazione donizettiana. A suo agio l’altro indiscusso professionista, il basso Michele Pertusi, che ha ben ribaltato alcune stanchezze vocali in personale assimilazione, cattivo ma non troppo Conte di Walter, già autoritario precursore con consapevole mestiere del gioco delle sonorità assegnate al basso della maturità verdiana, qui dai colori disimpegnati nella musicalità danzante di un ancor risorgimentale compositore, dominante sul complementare secondo basso, il castellano Wurm, la cui malvagità è restituita con opportuna misura da Marko Mimika. Più personaggio che interprete la stimata Daniela Barcellona quale duchessa Federica. Apprezzabile il livello dei comprimari: Irene Savignano (Laura) e Rodrigo Ortiz (Un contadino). La posizione frammentata tra platea e palchi, nonostante l’amplificazione, non ha giovato alla resa complessiva del coro, con maestro Roberto Gabbiani. Artisti del coro che al termine sono rimasti soli al di là della ribalta, compostamente a colmare il vuoto della sala e ad applaudire i protagonisti in palcoscenico, in un’apprezzabile pantomima dei saluti rituali, tanto meritati, quanto malinconici. Ancor più, se confrontati al trionfo del precedente concerto con pubblico in presenza. E’ stata necessità, che nulla toglie allo spessore della proposta.

Vincenzo Grisostomi Travaglini

Concerto ballabili – 28 aprile 2021

Luisa Miller – 30 aprile 2021