“Due magnifiche proposte verdiane”, un articolo del Maestro Vincenzo Grisostomi Travaglini in “L’Opera International Magazine”, Giugno 2021

Ci sono gesti che rimarranno a segno di questa attesa riapertura del Teatro dell’Opera di Roma, dopo l’accoglienza del sindaco della Capitale, è il maestro Michele Mariotti, a girarsi dal podio verso la sala illuminata e con l’orchestra in piedi, a liberarsi dalle tensioni in un lungo applauso rivolto dall’ampio palco al pubblico ritrovato. Due giorni dopo, per Santa Cecilia, il Direttore musicale Sir Antonio Pappano, prende la parola e si rivolge ai presenti: «Caro… Carissimo pubblico», accentuando con il superlativo quel sollievo per un’espressione artistica altrimenti imposta al vuoto del vasto auditorium. Con l’orchestra dell’Accademia è Pëtr Il’ič Čajkovskij a trionfare con l’esecuzione della Sinfonia n. 6 in si minore Patetica di rara, appassionante intensità. Nella sala del Costanzi, il protagonista è Giuseppe Verdi, con tre dei ballabili tratti da opere nell’edizione parigina da Grand Opéra, dove al terzo atto l’inframmezzarsi della danza all’azione drammaturgica era pressoché d’obbligo. A Roma, però, il tradizionale ponentino si rafforza di ben altri venticelli che, stando ad insistenti indiscrezioni, causerebbero un mulinello di nomine ai vertici delle due Fondazioni Capitoline. Il maestro anglo-italiano Antonio Pappano è stato recentemente designato Chief conductor della London Symphony Orchestra e alla scadenza quale Direttore musicale dell’Accademia romana nel 2023 assumerà per Santa Cecilia la carica di Direttore emerito, un’accennata “Brexit-musicale” nonostante le rassicurazioni che non si tratterà di una funzione solo di facciata e al suo posto potrebbe essere nominato Daniele Gatti, che in passato vi aveva ricoperto la carica di Direttore stabile dal 1992 al 1997. Gatti che lascerebbe a fine mandato analogo incarico al Teatro dell’Opera, dove a succedergli sarebbe Michele Mariotti. Tutto al condizionale, ma già si vocifera, a presumibile conferma dei fatti, sull’ipotesi che nel 2024 quando sarà l’orchestra dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia a presiedere al Festival di Pasqua di Salisburgo, che a dirigere la prevista Madama Butterfly, che si vorrebbe sostituita con La forza del destino, sarebbe confermato Pappano e non il subentrante Gatti; tante ipotesi di un mondo della musica in divenire. Per restare all’oggi, di certo, all’Opera di Roma con il recente concerto dedicato ai ballabili e a poca distanza della Luisa Miller in forma di concerto, si consolida nel nome di Giuseppe Verdi l’ottimo rapporto di Mariotti con l’orchestra del Lirico della capitale. L’esecuzione dei ballabili era già in programma quando è arrivata la notizia sulla possibilità di riaprire i teatri al pubblico e in poche ore la biglietteria, con ingressi a prezzo simbolico, ha fatto registrare il tutto esaurito, sia pure nella ridotta disponibilità consentita di platea e palchi. L’interesse maggiore della proposta è stato nella valutazione schiva da prevenzioni di Mariotti per queste musiche, un tempo relegate quali superflue appendici ballettistiche, diminuite nel giudizio a un opportunismo compositivo avulso da esigenze narrative, se non nell’obbligo del Grand Opéra, in quella Parigi a cui Verdi si rivolgeva.

Mariotti, nella sua lettura personale, ne ha liberato l’effettivo valore musicale e di struttura, con convinzione e vivacità e l’esecuzione si è arricchita, nella raffinata strumentazione, di uno spessore narrativo quanto sinfonico che si è imposto su qualsiasi pregiudizio. Primo tra i ballabili quelli per il Don Carlos, tante volte ripensati dall’autore in quella complessa concatenazione di prove, idee e costrizioni. Il risultato per Le ballet de la reine: La Pérégrina, è di grande raffinatezza, elegante orchestrazione e dinamicità. Importante è crederci sino in fondo, così che il suono strumentale nella lettura di Mariotti s’identifica in canto, negli assolo e nel dialogare delle sezioni, con tale partecipata passionalità, tanto che nel finale la bacchetta gli è sfuggita di mano, sino a raggiungere le poltrone della platea. L’approccio alla musica verdiana di Mariotti è di volta in volta differente e il maestro si lascia come “stupire” dalle molte invenzioni, spronandone ogni spunto e in questi ballabili ve ne sono tanti, per valorizzare nella raffigurazione l’impulso in un segmento altrimenti riservato alle esigenze dei danzatori, evocatore di quella teatralità che puntualmente e in ogni genere è presente in Verdi. Incalzanti, seguono i ballabili dal Macbeth inseriti nell’edizione parigina, voluti in un più ampio ripensamento del compositore, che da lavoro giovanile per il Théâtre Lyrique traghetta il “suo” Shakespeare nell’accuratezza di una raggiunta maturità, tantoché Casa Ricordi li riportò in Italia nella rinnovata edizione a stampa. Concludono i più ampi ballabili da Les vêpres siciliennes, inquadrati nel tema codificato de Les quatre saisons.

Si torna allo streaming per la successiva Luisa Miller, rinviata a poche ore dall’esecuzione, a causa del tampone positivo di alcuni elementi del coro e riproposta a distanza di meno di due settimane. La prima è diffusa in diretta da Rai Radio3 e successivamente offerta in differita sul canale YouTube dell’Opera di Roma. Predisposta in forma di concerto in periodo di chiusura, per il dovuto distanziamento il coro è sistemato in platea e nei palchi e quindi senza la possibilità di accogliere il potenziale pubblico ed è impossibile ripensarne l’allestimento in così poco tempo. Per Mariotti è un debutto nel titolo e sin dalle prime battute la memoria torna al 2007, quando il giovane direttore si presentò al Comunale di Bologna con il Simon Boccanegra, perché l’approccio alla partitura verdiana, ieri come oggi, presenta caratteristiche analoghe, sia pure con la diversa consapevolezza delle proprie validità, ma con immutata passione. Il direttore affronta la partitura di Luisa Miller prendendo avvio dal solco della tradizione, per poi manifestarsi in tutte quelle sonorità di una sensibile, vigorosa ricerca di un’espressione che non fluisca da costruzioni pragmatiche, bensì da un naturale sviluppo di una riaffermata vitalità. Il direttore si avvale per questo debutto di una compagnia di canto, nell’insieme, di ottimo livello, nella partecipazione della quale si mostra, nelle intenzioni esecutive, una netta spartizione generazionale, tra artisti di più recente affermazione e smaliziati professionisti. Tra i primi il valido soprano Roberta Mantegna che nella sua già significativa carriera è d’orgoglio dell’iniziativa Fabbrica il programma per giovani artisti dell’Opera di Roma; il già affermato tenore Antonio Poli e il basso Marko Mimika. Questi tre interpreti hanno dimostrato maggiore disponibilità ad esprimersi, pur nella staticità della forma di concerto, priva di movimenti, ma non d’intenzioni. Roberta Mantegna è una Luisa appassionata e dagli adeguati mezzi vocali e se risente nel terzo atto di una minore aderenza espressiva, va a sua difesa l’evidente emozione nell’affrontare un personaggio di così complessa configurazione, con impegno vocale a tutto campo. Dall’enfasi al patetico il Rodolfo di Antonio Poli si presenta al meglio in tessiture che richiedono al tenore ampia flessibilità, esprimendosi appieno nell’elegiaco di Quando le sere al placido, dove il solista si raccoglie, quasi trasfigurando, esibendo un buon legato e alla ricerca di raffinate mezze voci proprie della scrittura verdiana e nei limiti di una tradizione interpretativa, ma che per il pieno risultato, pur apprezzandone l’impegno, necessiterebbe uniformemente di maggiore naturalezza. L’impressione in generale è che per i cantanti sarebbero state necessarie più prove, ma probabilmente la particolare situazione, il rinvio dovuto al contagio, gli spazi ristretti per una pur contenuta dinamica della parola scenica che sempre necessità di vitale svolgimento, tutto questo potrebbe aver influito per una più convincente resa d’insieme e sviluppo nell’introspezione dei ruoli, che in Luisa Miller rappresenta la vera svolta della complessità verdiana agli albori degli anni ’50 dell’Ottocento.

Di queste barriere sembrerebbe averne risentito anche il fronte più navigato, con Roberto Frontali di provata esperienza, oramai ospite fisso dell’Opera, che di recente vi ha affrontato ruoli che si possono ben considerare in linea evolutiva con la figura paterna di Miller, ma che pur in pochi anni di scrittura verdiana hanno marcato ben distinti accenti, così che il baritono è apparso già composto genitore nel ricorrente rapporto di padre e figlia, per un Miller che vorrebbe una maggiore aderenza a quel canto, di cui Frontali fu maestro, riferito più a un Verdi trascinante o ancor prima a un’eleganza e trasporto di derivazione donizettiana. A suo agio l’altro indiscusso professionista, il basso Michele Pertusi, che ha ben ribaltato alcune stanchezze vocali in personale assimilazione, cattivo ma non troppo Conte di Walter, già autoritario precursore con consapevole mestiere del gioco delle sonorità assegnate al basso della maturità verdiana, qui dai colori disimpegnati nella musicalità danzante di un ancor risorgimentale compositore, dominante sul complementare secondo basso, il castellano Wurm, la cui malvagità è restituita con opportuna misura da Marko Mimika. Più personaggio che interprete la stimata Daniela Barcellona quale duchessa Federica. Apprezzabile il livello dei comprimari: Irene Savignano (Laura) e Rodrigo Ortiz (Un contadino). La posizione frammentata tra platea e palchi, nonostante l’amplificazione, non ha giovato alla resa complessiva del coro, con maestro Roberto Gabbiani. Artisti del coro che al termine sono rimasti soli al di là della ribalta, compostamente a colmare il vuoto della sala e ad applaudire i protagonisti in palcoscenico, in un’apprezzabile pantomima dei saluti rituali, tanto meritati, quanto malinconici. Ancor più, se confrontati al trionfo del precedente concerto con pubblico in presenza. E’ stata necessità, che nulla toglie allo spessore della proposta.

Vincenzo Grisostomi Travaglini

Concerto ballabili – 28 aprile 2021

Luisa Miller – 30 aprile 2021

“Tra successi e flop, si riparte” articolo del Maestro Vincenzo Grisostomi Travaglini nella rivista mensile “L’Opera International Magazine”, Settembre 2020Roma: trionfa Pappano all’Accademia di Santa Cecilia. Delude Rigoletto, firmato da Damiano Michieletto. Successo per Barbiere e Vedova. Anna Netrebko e Yusif Eyvazov rendono omaggio alla Capitale.

Potrebbe sembrare un semplice slogan: Roma riparte, eppure la semplice locuzione è ricca di significati. Sono passati solo pochi mesi, un tempo che ci è sembrato interminabile, da quando come sotto un incantesimo malefico i nostri teatri, sale da concerto e ogni luogo, uno dopo l’altro, cadevano sconfitti dal dilagare dell’epidemia, costretti a chiudere annullando ogni attività. Lunghi, ottenebranti silenzi, interrotti da iniziative sporadiche, da eventi a porte chiuse, che pur nella forza intrinseca della proposta, ne rendevano spettrale il risultato. Un artista qualsivoglia: solista, professore d’orchestra, cantante o altra disciplina … lì sul palco! Da solo, avanti a una spettrale platea vuota, a palchi deserti che colmavano d’angoscia. Eventi ripresi da una telecamera che ne diffondeva il messaggio, ma che mai potrà sostituire la presenza di un pubblico, di un respiro! La notizia, dunque, è principalmente questa, da Roma, dall’Italia tutta … Ci siamo ritrovati ad assistere a un’opera, in forma scenica o semi-scenica, a concerti sinfonici e strumentali. Il sentimento è indescrivibile! Il direttore, prima di salire sul podio, non stringe più la mano al primo violino, basta un cenno; in palcoscenico come in platea ci sono nuove regole da rispettare, ma anche questo cerimoniale, di prevenzione sanitaria, entra a far parte di una ritualità mutevole perché vitale e l’importante è tornare a parteciparvi! Dopo di ciò, il dovere della critica, l’analisi delle proposte e della loro validità, s’impone nel rituale del mondo dello spettacolo e del sempre costruttivo scambio di opinioni. Anche questo fa parte del “gioco” e la notizia, come ripete Tosca: tornalo a dire, è che quel silenzio assordante è stato colmato di musica, di suoni, di canto, nel pieno rispetto delle norme anti-Covid, garantendo il distanziamento interpersonale e la massima sicurezza di spettatori, musicisti e tecnici.

A Roma, l’Amministrazione capitolina è stata particolarmente sensibile al rilancio delle attività in campo operistico e sinfonico con un risultato eccellente e una risposta di pubblico, sia per la stagione estiva del Teatro dell’Opera che dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia, che ha distinto il tutto esaurito per ogni evento. I cartelloni presentati non si sono piegati alle ristrettezze di una crisi incombente, bensì a dimostrazione della creatività tutta italica, sia pure nel rispetto delle norme vigenti, hanno offerto il meglio in ogni situazione. Troppo spesso nella politica, soprattutto in questo particolare momento, si è parlato dell’importanza della cultura musicale per l’immagine del Paese, perché l’Italia è certamente simbolo nel mondo dell’arte, ma si era fatto ben poco, almeno questa l’impressione. La notizia recente è l’impegno di Dario Franceschini, Ministro per i Beni e le Attività Culturali, per un aiuto tangibile ai lavoratori dello spettacolo, che ci auguriamo possa svilupparsi con l’erogazione di fondi adeguati in un rilancio qualitativo ed anche, preso atto della richiesta, quantitativo, delle proposte. Prima Fondazione romana ad accogliere il pubblico è stata l’Accademia Nazionale di Santa Cecilia, con un ricco programma, proposto nell’area all’aperto del Parco della Musica, la cavea, rinominata emotivamente a Ennio Morricone, in memoria della sua recente scomparsa. In programma l’integrale delle Sinfonie di Beethoven nel duecentocinquantenario della nascita, con sul podio Antonio Pappano, totalmente disponibile per l’Orchestra di cui è Direttore musicale, a causa della sospensione dell’attività del Covent Garden, dove Pappano sarebbe stato impegnato per tutto il mese di luglio. Un successo di pubblico ragguardevole e una particolare attenzione all’esecuzione della Quinta, alla presenza del Presidente Sergio Mattarella. Stessa Sinfonia riproposta in tournée nel capoluogo ligure per l’inaugurazione del viadotto Genova San Giorgio, progettato da Renzo Piano, il medesimo architetto del Parco della Musica di Roma. Sempre nella cavea, per il gran finale della stagione, l’esecuzione della Nona con il coinvolgimento del Coro, maestro Piero Monti, di recente nomina. Orchestra e Coro di cui si è apprezzato il particolare impegno e attenzione con una resa eccellente, nonostante le condizioni acustiche non ottimali.

Problemi di acustica anche per l’immensa struttura al Circo Massimo, realizzata in tempi da primato dalle maestranze della Fondazione operistica capitolina. Anche in questo caso, prima che ogni altra considerazione, s’impone il coinvolgimento delle masse artistiche e tecniche del Teatro. Un programma articolato e ricco per questa inaspettata e tempestiva iniziativa; lodevole la puntualità di un’organizzazione ineccepibile. Il programma ha fatto parte del nuovo palinsesto di Roma Capitale Romarama. Nel corso degli eventi, si apre ora il secondo capitolo, quello dedicato alle proposte del cartellone della stagione estiva dell’Opera, che si è svolta eccezionalmente al Circo Massimo e non, come da tradizione, ospitata tra gl’imponenti ruderi delle Terme di Caracalla, luogo che non offriva, in tempi di pandemia, quelle condizioni indispensabili per accogliere spettacoli, soprattutto Rigoletto voluto in forma scenica quale titolo inaugurale; il 16 luglio alla presenza del Capo dello Stato, in diretta RAI. A Roma, la magia è vivere pur sempre al centro della storia plurimillenaria, a Caracalla oppure al Circo Massimo, tra i colli del Celio, il Palatino, l’Aventino e nessun’altra città al mondo può offrire una tale opportunità. Il palcoscenico allestito per l’occasione ha una estensione di millecinquecento metri quadri, tale da permettere la più temeraria messa in scena; la platea, con gli adeguati distanziamenti, è stata concessa per la capienza di millequattrocento spettatori, con speciale ordinanza della Regione Lazio, coadiuvata da una squadra di esperti. Gli ingredienti per la miglior riuscita della stagione ci sono tutti, dall’Orchestra, particolarmente motivata, al Coro maschile per Rigoletto e Il barbiere di Siviglia, senza esclusione di quello femminile impegnato in uno speciale concerto da loro eseguito e frizzanti Grisette ne La vedova allegra, maestro del coro Roberto Gabbiani. L’attenzione, per l’inaugurazione, si è voluta accentrare sulla parte scenica, comprensibilmente per l’eccezionale vastità del luogo e per le grandi possibilità offerte dall’apporto tecnico, con il palcoscenico delimitato nel fondo da un gigantesco schermo su cui si alternavano di volta in volta, con diversi concetti progettuali, proiezioni in una definizione d’ottima qualità. Il grande schermo resterà quale elemento essenziale della struttura per tutta la stagione, per le dimensioni, la sua funzione di scenografia e anche quale barriera acustica per delimitare lo spazio teatrale, nella vastità dell’antico Circo Massimo di 620 metri di lunghezza. Eppure, è stata proprio la regia di Rigoletto a lasciare perplessi, avanzata quale geniale invenzione per uno spettacolo degno di Hollywood e forse, nelle intenzioni e nella realizzazione di questa nuova produzione, ci si potrebbe realmente riferire a un kolossal, per sviluppo e mezzi impiegati, ma al contrario attenendosi al risultato, converrebbe definirlo una confusa rilettura scenica, appesantita dalla sovrapposizione di concetti per lo più avulsi dal contesto e dal più rilevante messaggio letterario-musicale, nonché sociale, del capolavoro verdiano. Certamente, delle così dette riletture di Rigoletto, tratto da Le roi s’amuse di Victor Hugo (con libretto di Francesco Maria Piave), negli ultimi decenni ne abbiamo viste in abbondanza. L’andamento visivo di questa produzione potrebbe ricordare la trasgressività a oltranza del regista spagnolo Calixto Bieito e più propriamente per Rigoletto la produzione allo Sferisterio di Macerata con firma di Federico Grazzini, fra i tendoni di un luna park: istintivo e brutale.

Nell’impostazione di Michieletto la musica, testo e intenzioni del compositore, sono per lo più superflui. L’attenzione del regista si accentra su ulteriore disagio dei personaggi, in un ambiente di malavitosi e emarginati seconda metà del Novecento, più pertinente a una periferia alla West Side Story, ma ben lontana da rendere quell’implicita eleganza. Ampio, smisurato, alla fin fine incontrollato, l’uso di mezzi tecnologici e proiezioni che s’impongono sul grande schermo, sino a distogliere l’attenzione da un palcoscenico affollato da mimi (pur con il dovuto distanziamento), talmente disorganico da confondere lo spettatore, nel chiedersi quale sia il messaggio del regista oltre-opera, della funzione in questa ideazione della musica e del canto. L’uso di mezzi cinematografici è stato già largamente sperimentato sui palcoscenici e si potrebbero citare, per restare a Verdi e a Victor Hugo, il Rigoletto andato in scena al Massimo di Palermo nel 2018, firmato dall’attore e regista di origine statunitense John Turturro e proseguendo con i raffronti, che potrebbero essere numerosi, al meno recente Rigoletto espressionista della Semper Oper di Dresda, con la regia di Nikolaus Lehnhoff. Questo, a dimostrazione che un messaggio attualizzato può essere più o meno apprezzato, ma dovrebbe pur sempre essere di valida effettività. Della messa in scena di Michieletto resta nella memoria solo la presunzione di prolisse dichiarazioni d’intenzione, che non vale la pena riportare, perché effettivo è solo quello che lo spettatore recepisce, ovvero: un palcoscenico immenso, invidiabile per qualsiasi regista, caratterizzato dall’assembramento di vetture tipo sfascia carrozze, di marca automobilistica andante nel primo atto, lussuose nel secondo per gli appartamenti del Duca/gangster e da parcheggio, con roulotte al posto della casupola diroccata di Sparafucile e della sorella Maddalena, con Rigoletto che conduce una Mercedes e Gilda seduta nei sedili posteriori per distanziamento Covid; tante armi da fuoco per minacce, omicidi, esecuzioni. Poi, i filmati, alcuni sembrerebbero in diretta, con riprese da operatori onnipresenti in palcoscenico, finalizzate a evidenziare le espressioni dei personaggi, altrimenti confusi nel marasma dello spazio, immagini inframmezzate con abile montaggio a impressioni di carattere patologico, di una moglie e madre perduta nella mediocrità di un’estasi di ricordi; di falsa identità, come per Gilda presentata ingannevolmente innocente, che prima dell’incontro con il padre si sveste dagli abiti di donna di strada, che nel finale muore incamminandosi nelle acque marittime (quante volte lo abbiamo visto!) e tanto, troppo d’altro. Con tali mezzi nel terzo atto si sarebbe immaginato un turbinio di eventi naturali, dove d’eccellenza romantica, la natura fa eco al sentimento dell’umano tormento, ma niente! Forse, troppo banale, ma in realtà tutto lo spettacolo è risultato inutilmente convenzionale, semmai alla ricerca di un protagonismo registico smisurato. Per la parte musicale, sul podio il Direttore Musicale Daniele Gatti e per lui nessun altro paragone, se non con se stesso due anni or sono, sempre in Rigoletto, nella sala del Costanzi. L’orchestra nonostante gli obblighi di posizionamento e un’amplificazione tutt’altro che impeccabile, ha dato ottima prova seguendo con compatezza tempi singolari, insolitamente pacati nella prima parte, poi accelerati sino a schiacciare respiri ed espressioni. Tutt’altro risultato, pur sempre di alto pregio, che l’interpretazione che diede lo stesso Gatti, lucida e coerente, della precedente lettura all’Opera; certamente, in un teatro, al “chiuso”, con maggiore concentrazione. Al Circo Massimo la tanto osannata edizione critica di Rigoletto della University of Chicago a cui il direttore si è riferito con rigore, punto di partenza essenziale per una lettura più consona del capolavoro verdiano, è sembrata limitarne la personalità, quasi a costrizione di un respiro che, quanto mai in Verdi, deve imporsi quale teatrale. La citata amplificazione non ha giovato neanche ai solisti, al pur eccellente Roberto Frontali la cui resa del personaggio è apparsa meno convincente, in una linea di canto di cui si stentava a definirne le qualità; apprezzata la Gilda di Rosa Feola, dal canto espressivo, almeno nelle intenzioni, purtroppo vanificate dal piattume dovuto a microfoni e altoparlanti, per cui la voce poteva giungere da qualsiasi parte e luogo senza farne la differenza, apparentemente monotona, come a esempio nel delicato, sognante e rivelatore: Gualtier MaldèCaro nome, seduta sulla grande giostra posizionata sulla destra del palcoscenico che girando in tondo, faceva perdere la visuale dell’interprete, lasciando intatta la fonte sonora che risultava artificiale. Gilda, durante l’esecuzione della celebre Aria, spariva, nel ruotare del marchingegno e si ritrovava soltanto alzando lo sguardo sullo schermo in un’immagine, per scelta o per difetto, spesso, anzi sempre, fastidiosamente fuori sincrono. Tra i solisti il giovane tenore Iván Ayón Rivas, sempre partecipe, compenetrato e quanto mai convinto del ruolo assegnato, ma per estensione e vocalità andrebbe ascoltato in diversa situazione. Nell’insieme la compagnia è di ottimo livello, peccato che qualsivoglia personalità sia andata perduta nel calderone dell’indefinito, così come per l’efficace Sparafucile di Riccardo Zanellato e la seducente Maddalena di Martina Belli. Giovanna è Irida Dragoti diplomata al progetto Fabbrica; Il conte di Monterone il poco autorevole Gabriele Sagona. Completano: Marullo di Alessio Verna; Borsa è Pietro Picone; Il conte di Ceprano: Matteo Ferrara; La Contessa: Angela Nicoli; il Paggio: Marika Spadafino; l’Usciere: Leo Paul Chiarot. Nutrita la squadra registica, con scenografo Paolo Fantin, costumista Carla Teti. Il coro è posto immobile ai lati su pedane, probabilmente su indicazioni sanitarie, ma la scena è egualmente popolata in un andirivieni di mimi con movimenti coreografici di Chiara Vecchi; luci o meglio penombre di Alessandro Carletti; regia camere live con immagini protagoniste di Filippo Rossi. Una nuova produzione del Teatro dell’Opera di Roma in collaborazione con Indigo Film. Intervalli brevi, con richiesta al pubblico di restare ai propri posti per evitare assembramenti e nelle pause, come per tutta la stagione, è proiettato un filmato molto ben realizzato di una Roma deserta, vista dall’alto nell’insieme e nei particolari. Senza vita, probabilmente con un girato nel periodo della pandemia, quando i tesori urbanistici, architettonici della Capitale, erano negati e solitari, quanto incantevoli; un cortometraggio realizzato con professionalità e alta definizione delle immagini.

Da qui, nel proseguo della stagione, il contrasto più evidente, ovvero quello dei due titoli a seguire, annunciati in concerto e realizzati in una piacevolissima e godibile forma semi-scenica. Il Barbiere rossiniano e La vedova allegra, erano previsti per la stagione di Caracalla, mantenuti dalla Direzione dell’Opera di Roma al Circo Massimo, sia pure senza scene e costumi. S’inizia con Il barbiere di Siviglia in edizione pressoché integrale (qualche eccezione, più che giustificata per Berta e Ambrogio). Sul podio Stefano Montanari che con padronanza dirige un’orchestra di rara duttilità, impareggiabile dal podio, suonando su una tastiera camuffata da clavicembalo, dove si diletta con pertinenza e cultura su diverse sonorità, passando dagli accenti del clavicembalo a quelli del fortepiano e avvalendosi di qualsiasi altra risorsa, intervenendo nei brani orchestrali e imperante nei recitativi, solo all’apparenza creativamente in libertà a sostegno degli ottimi solisti. La lettura di Montanari si è rivelata dinamica, stilisticamente appropriata e pur senza artifici, disponibile per il miglior rendimento dei cantanti, per restituirne, di ognuno, le migliori qualità. Una compagnia d’eccellenza tutta italiana, con protagonista del titolo il baritono Davide Luciano, che avrebbe dovuto essere a Salisburgo, se il Festival quest’anno non si fosse svolto in forma ridotta, che ha donato un Figaro esuberante, motivato nella gioia dell’espressione e nell’incanto della voce, così come la Rosina di Chiara Amarù di carattere fermo e determinato, d’impostazione solida e colore affascinante di vero mezzo-soprano rossiniano; insieme non hanno mancato occasione per coinvolgersi in tutt’uno con l’orchestrazione, se vogliamo in un risultato originale, in quanto alla ricerca di sonorità non sempre evidenti; esemplare il duetto Dunque io son… ! Una lettura attenta per il direttore e gl’interpreti tutti, minuziosa e soprattutto vivace, per un Rossini che si potrebbe definire assimilato da una propria sensibilità d’approccio musicale. Montanari rispetta la partitura in ogni sua parte, se non autorizzato da quelle digressioni specificamente legate alla generosa inventiva del pesarese, per quella vitalità musicale per cui l’opera deve vivere il tempo in cui è eseguita, nel massimo rispetto di quanto ci è tramandato dallo scritto, dalla genesi, dagli sviluppi compositivi, così sempre attuale nell’esecuzione e mai oggetto museale. Questo andamento si è avvertito sin dalla trascinante Sinfonia, che a tratti sembrava riportare ad accenti mozartiani, per poi esplodere nella piena, dialogante eloquenza rossiniana. Il pubblico ha potuto godere di ogni momento di un titolo che vide la luce a Roma nel 1816, nel non lontano Teatro Argentina. Tutta la compagnia è appropriata e ognuno dei solisti si muove con pertinenza nel vasto proscenio, risolvendo con intelligenza teatrale ogni situazione, nella dinamica vocale congiunta al movimento, superando con ingegno i limiti precauzionali. Il Conte d’Almaviva di Giorgio Misseri è apparso un poco in impaccio nella sortita di Ecco ridente in cielo, poi in crescendo, padrone del ruolo sino all’esecuzione, impeccabile e non compiaciuta di virtuosismi, della così detta terza aria: Cessa di più resistere. Una citazione particolare per il basso-baritono o basso comico (senza confusione nella terminologia) Marco Filippo Romano, a dimostrazione che Don Bartolo può essere divertente, senza mai uscire dallo scritto e dal buon gusto, ottimo nel sillabato. Ancora, il basso Nicola Ulivieri un eccellente Don Basilio; Francesca Benitez ancor giovane e meno esperta della vita di privazione di Berta, per restare con Beaumarchais, con radici nella Marcellina di Mozart (l’accostamento è di fantasia) e per terminare Fiorello: Alessandro Della Morte del progetto Fabbrica, non nella forma migliore, tra il basso e il baritono o l’infreddato, peccato per il pur breve, ma piacevole recitativo posto tra la prima e la seconda parte dell’atto primo, raramente eseguito. Interessante il progetto visivo di Gianluigi Toccafondo, semplice quanto aggraziato, con proiezioni sullo schermo delle immagini a didascalia con i titoli dei principali brani, riportati su un fondo acquerellato, caratterizzante della grafica del Teatro dell’Opera, con cambi di tonalità discreti, sempre appropriati all’armonia dell’insieme. La serata è stata dedicata agli operatori sanitari, medici e infermieri, in segno di riconoscenza per il loro prezioso operato nella lotta al Codid-19. A seguire Le quattro stagioni, musica di Vivaldi, con il Corpo di ballo del Teatro dell’Opera, nuova creazione del coreografo e regista Giuliano Peparini. Quindi La vedova allegra in lingua originale (Die lustige Witwe), anche in questo caso annunciata in forma di concerto, ma realizzata in forma semi-scenica. Direttore sempre Stefano Montanari che con Franz Lehár si trova fuori dal proprio repertorio, almeno di quello più frequentato, essendo di cultura barocca e classica, soprattutto Rossini. Qui mancava di uno degli strumenti essenziali, come d’abitudine del maestro, ovvero la tastiera sulla quale Montanari, nel suo abbigliamento originale, dopo aver riposto la bacchetta a mo’ di freccia nella faretra, ovvero nel retro della camicia, fa scivolare le dita con la capacità d’immersione totale, trasbordando musica. Egualmente, l’orchestra, come per il Barbiere posizionata sul palcoscenico con alle spalle il coro, ha recepito il segnale di simulata spontaneità dello sgorgare del suono, ovvero di attento controllo e rigore, senza complesso di limitazioni oppressive, approccio fondamentale in questo lavoro che più che operetta, si potrebbe definire opera austro-danubiana, non per nulla presente nel repertorio delle maggiori Fondazioni liriche. L’Introduzione è spumeggiante, come si addice alla cultura viennese, ma subito dopo è penalizzata dall’intervento del barone Mirko Zeta di Andrea Concetti, ambasciatore del Pontevedro, che pur affermato artista, si presenta con in mano lo spartito, facendo evaporare sul nascere la spontaneità del racconto, successivamente impeccabile in ogni suo intervento; peccato veniale in paragone all’indifferente partecipazione del soprano Hasmik Torosyan quale Valencienne, incollata allo spartito per canto e dialoghi, dando la colpevole impressione di non essere padrona della parte, sicuramente privandola di ogni comunicazione, se non nel Can-can del terzo atto, vivacizzato da irrefrenabili, simpatiche grisettes. Non avendo una Valencienne da corteggiare e desiderare il tenore Juan Francisco Gatell in tutta la prima parte, nei duetti, appare penalizzato, ma il suo Camille de Rossillon prende quota, sino a primeggiare nella romanza di Come di rose un cespo, eseguita con elegante, comunicativa poeticità. Entrano in scena i due mattatori e lo spettacolo si scatena, perché Nadja Mchantaf e Markus Werba sono Hanna Glawari e il conte Danilo Danilowitsch per eccellenza. Cosa dire, impeccabili nel canto quanto nell’espressione, partecipi nella recitazione, non si risparmiano in nulla. Nella Romanza della Vilja la ricca e corteggiata vedova appare in un abito verde smeraldo, forse per riecheggiare le tinte lacustri della leggenda e si atteggia, danza, si muove con disinvoltura, si raccoglie dando a ogni passaggio il giusto colore. Non da meno il conte Danilo, spavaldo: Vo’ da Maxim allor, indisponente, innamorato, protagonista! Così delicati nello sfiorarsi mimando il valzer in: Tace il labbro.

Bene tutta la numerosa la compagnia, comprensibilmente sacrificati alcuni dialoghi, che sarebbero risultati prolissi in lingua tedesca. Nei diversi ruoli, per il visconte Cascada: Simon Schnorr; Raoul de St-Brioche: Marcello Nardis; Bogdanowitsch: Roberto Accurso; Kromow: Roberto Maietta; Pritschitsch: Alessio Verna. Dal progetto Fabbrica: Marianna Mappa (Sylviane), Angela Schisano (Olga) e infine diplomata al progetto Fabbrica: Sara Rocchi (Praskowia). Un commento per lo schermo, qui utilizzato con proiezioni da Giulia Randazzo e Giulia Bellè, entrambi del progetto Fabbrica del Teatro dell’Opera, per lo più realizzate con assemblaggi da pellicole appartenenti allo sfarzo hollywoodiano il più spettacolare e non mancano Charlie Chaplin e Fred Astaire; montaggi con immagini d’epoca, ricostruzioni d’ambienti parigini, sempre gradevoli e ben costruiti, filmati intervallati di quando in quando da didascalie nello stile del cinema muto, volutamente ingenue, tanto da far sorridere il numeroso pubblico.

A chiudere la stagione estiva un Omaggio a Roma del soprano Anna Netrebko e del tenore Yusif Eyvazov che si conobbero proprio a Roma nel 2014 al Teatro dell’Opera, in una produzione di Manon Lescaut diretta da Riccardo Muti. Sul podio Jader Bignamini, più conosciuto all’estero, a cui il merito di aver dato alla serata il suo tocco di stile, accompagnando i celebri solisti con attenzione, non assecondandoli, ma armonizzandosi con attenzione! Efficace la scelta dei brani per sola orchestra, la Sinfonia dal Nabucco di Verdi, l’Ouverture da Ruslan e Ljudmila di Glinka e di Puccini, dalle giovanili Villi, l’Intermezzo: La Tregenda. Sempre di Puccini l’esecuzione dell’Intermezzo dalla Manon Lescaut, quanto mai introiettato e vibrante, con un avvio dove il tempo sembra infinito, velocizzato nella conclusione nell’affanno di un tragico destino. Lo schermo alle spalle dei protagonisti e dell’orchestra, resta incombente e non potrebbe essere altrimenti, qui utilizzato con riprese in diretta per evidenziare il podio e il proscenio, con diverse inquadrature del direttore Jader Bignamini, di cui si apprezzava il gesto pulito ed efficace; per i solisti ripresi dalla platea, dal fondo e dai lati, nella massima libertà di movimento, perché sempre protagonisti d’eccezione, in tutto  e per tutto. La Netrebko è oggi uno dei soprani con ragione più celebrati, anche se in produzioni recenti si sono avvertiti dei cedimenti, in un repertorio tra i più vasti, alla ricerca di appoggi e posizioni non sempre pertinenti. A Yusif Eyvazov, sicuramente, la vicinanza della Netrebko ha giovato nella padronanza della tecnica, anche se in alcune scelte si spinge al  limite consentito del repertorio. Qui a Roma, entrambi, hanno donato il meglio della propria arte; sono entrati a braccetto, affettuosamente, come si addice a marito e moglie e per loro non vi sono limitazioni e distanziamenti, si sono amati, baciati, sfuggiti, ritrovati. Un vero piacere per l’udito e per la vista. Nell’Omaggio a Roma, nel ricco programma, non poteva mancare Tosca: Floria e Cavaradossi da: Mario! Mario!Vissi d’arteE lucevan le stelle e nei bis, insieme per il gran finale la canzone: Chitarra romana, appassionante, come non l’avevamo mai sentita. Un regalo per questa inaspettata estate romana e un saluto affettuoso per un pubblico entusiasta.

Si guarda ora alla stagione d’autunno al Costanzi. Dopo il concerto di fine agosto con Orchestra, Coro e i cantanti del progetto Fabbrica e a inizio settembre Tutto Verdi dedicato alle pagine più popolari del compositore di Busseto con direttore Paolo Arrivabeni, è prevista in programma la ripresa del balletto Le quattro stagioni. Il primo ottobre la Petite messe solennelle di Rossini. Di particolare interesse dal 18 ottobre un nuovo allestimento di Zaide, Singspiel incompiuto di Wolfgang Amadeus Mozart, rappresentato postumo a Francoforte nel 1866, su testo di Johann Andreas Schachtner andato perduto, nella ricostruzione del libretto proposto nel 1981  da Italo Calvino per il  Festival Musica nel Chiostro di Batignano (Grosseto). Direttore Daniele Gatti; regia di Graham Vick. Dal 4 novembre, torna La Traviata di Verdi, nell’allestimento Sofia Coppola/Valentino, con la regia riadattata alle norme anti-Covid; direttore Paolo Arrivabeni. Per il pubblico, si prevede una capienza nella sala del Costanzi tra i 500 e gli 800 spettatori.

Vincenzo Grisostomi Travaglini

Rigoletto – 18 luglio 2020

Il barbiere di Siviglia – 22 luglio 2020

La vedova allegra – 7 agosto 2020 Omaggio a Roma – 9 agosto 2020

“La missione di un artista-creatore”, articolo del Maestro Vincenzo Grisostomi Travaglini nella rivista mensile “L’Opera International Magazine”, Settembre 2020.Conversazione con Sir Antonio Pappano sulla sua esperienza all’Accademia di Santa Cecilia e al suo “Otello” verdiano.

Nato in Inghilterra, Antonio Pappano è oggi tra i direttori d’orchestra più stimati al mondo. I suoi genitori sono originari di Castelfranco in Miscano, un borgo dell’Appennino campano e sarà suo padre a trasmettergli l’amore per la musica, appassionato del repertorio operistico italiano e in particolare di Giacomo Puccini. Le esperienze nel mondo della musica del maestro Pappano sono molteplici, ma qui basterà ricordare la nomina nel 1999, effettivo da 2002, a Direttore musicale della Royal Opera House (Covent Garden), orchestra che aveva diretto sin da giovanissimo e dal 2005 la nomina a Direttore musicale dell’Accademia Nazionale Santa Cecilia di Roma. Nel 2012 ricevette della regina Elisabetta II l’onorificenza di cavaliere (Knight Bachelor), che gli conferisce il titolo di “Sir”.

Venendo all’attualità, in questo particolare periodo, relegati dalla pandemia a vita claustrale, spesso abbiamo trovato consolazione tramite televisione e mezzi-audiovisivi dove, tra i grandi protagonisti dello schermo, il maestro Pappano si è imposto sul podio di produzioni operistiche di grande rilievo. Sono tutti argomenti che approfondiremo nel corso di questo nostro incontro, ma insostituibili, come confermerà lo stesso Pappano, restano pur sempre l’esperienza e il ricordo legati a quelle esecuzioni a cui si è avuto la fortuna di assistere, in campo sinfonico e operistico. Del rapporto tra il direttore e le “sue” orchestre, l’emozione che resta impressa nello spettatore da una comunicazione istantanea, perché in Pappano tutto è musica, dal gesto, la postura, lo sguardo. Basta un minimo cenno e il corpo si fa tramite del pensiero ed è questo risultato che fa la differenza! I repertori affrontati da Pappano sono tra i più vasti e basterà riferire di esperienze quali le registrazioni riproposte de il Macbeth e de La Bohème dal Covent Garden, produzioni dove la parola teatrale assume un suo specifico significato, come ci dirà lo stesso maestro. Sir Antonio Pappano ci parlerà, inoltre, di quello che deve essere il rapporto in teatro tra orchestra e palcoscenico, rispondendo che per lui sono importanti le relazioni tra i personaggi e che se il direttore d’orchestra crea un’unità tra palco e buca, questa è una produzione riuscita. Eppure, questa filosofia intrinseca è valida nel repertorio sinfonico, nel dialogo tra gli strumenti. Nella memoria più recente, inoltre, l’esperienza di titoli operistici in concerto, dove Pappano riesce a ricreare complessivamente questo rapporto, senza nulla togliere alla dinamica insita nello svolgimento drammaturgico, anche nella forma semi-scenica, così come abbiamo assistito in questi anni nella sala di Santa Cecilia a Roma, con l’orchestra e coro sul palco e i cantanti in proscenio. Tra gli esempi, il più recente, nel 2018: West Side Story di Bernstein, dove il direttore Pappano è entrato, come dire, nell’azione scenica, con semplici gesti, partecipando dal podio con il fischietto della polizia a redimere la rissa fra fazioni rivali, sempre interagendo con discrezione ed efficacia.

Maestro Pappano, come gestisce i due diversi incarichi di Direttore musicale alla Royal Opera House e all’Accademia Nazionale di Santa Cecilia e in qual modo l’uno è di compendio all’altro?

«Per me, queste due esperienze, insieme, sono molto importanti, perché dopo tanti anni in teatro con la lirica, mi resi conto che per sviluppare, per fare il passo successivo, anche se di tanto in tanto dirigevo complessi orchestrali, senza un vero investimento nel dominio sinfonico, io rimanevo come fermo. Sto parlando di una quindicina di anni fa e compresi che stavo cercando un equilibrio fra le due espressioni musicali, dove in un certo senso una informa l’altra. Certamente, i repertori sono molto vasti e richiedono contatti diversi, ad esempio ci sono delle opere che potremmo definire più o meno sinfoniche. C’è la musica classica, sinfonica, c’è Malher, c’è Schönberg e in ogni caso è richiesto un diverso approccio. Però, essere da solo avanti a un’orchestra è come guardarsi allo specchio, è una cosa molto intima. Nella lirica ci sono i cantanti, c’è l’allestimento, le luci, il buio, il dramma, più elementi; per carità l’opera è la mia vita e l’adoro, però trovarsi di fronte a un’orchestra sinfonica come a Santa Cecilia, serve veramente per capire, per stimolare un altro tipo di emozione, altri sentimenti. Da subito mi resi conto che essere in mezzo a una sinfonia, mi faceva provare sensazioni diverse».

Quindi essere Direttore musicale di un’orchestra prevalentemente sinfonica, ha richiesto un diverso approccio?

«Il mio rapporto con i musicisti è l’unica cosa che conta e non lo spettacolo. Questa dell’incontro con l’Orchestra e il Coro di Santa Cecilia è stata per me una bellissima lezione e ha fatto sì che abbia potuto indirizzare le mie energie, tutta la mia forza mentale e fisica, verso un nuovo orizzonte. Ciò mi ha arricchito enormemente. Allo stesso tempo io mi sono sviluppato insieme alla mia Orchestra, questo crescere comune è stato una bellissima occasione, una cosa di cui sono molto fiero e con la speranza che possa continuare».

Veniamo all’oggi e alla traumatica interruzione di qualsiasi attività a causa della pandemia. Quali sono le prospettive per il futuro?

«Come quasi tutti gli Enti in questo periodo stiamo ridimensionando la programmazione, prevedendo di formare dei complessi più ragionevoli. Cosa vuol dire questo? Che ad esempio se io domando se sarebbe ragionevole eseguire Die Meistersinger di Wagner, cinque ore e mezzo di spettacolo, con cui inaugurare la prossima stagione, questo sarebbe impossibile. Adesso non voglio dare il nostro programma per l’Accademia di Santa Cecilia, perché noi abbiamo diversi piani di lavoro, però, ogni settimana cambiano le notizie, allora prima di fare annunci vogliamo essere sicuri di quello che potremo fare. I progetti li abbiamo e siamo pronti ad adattarli a quelle che saranno le necessità richieste, prima dobbiamo capire meglio, ad esempio, come gestire il coro. Al momento, da alcuni studi il coro è molto penalizzato; abbiamo un bellissimo Coro a Santa Cecilia. Per me è fondamentale comprendere, dopo la stagione estiva che si è svolta all’aperto nella cavea del Parco della Musica con la Nona Sinfonia di Beethoven e due successivi concerti con la partecipazione Coro, come e quando potremo ricominciare con la loro l’attività. Per questo, dobbiamo tornare nella nostra casa, avere la possibilità di entrare nell’auditorium, per valutare il distanziamento. Forse noi, avendo una sala così capiente e un palco così grande, forse … stiamo esagerando nel pensare troppo in piccolo e dobbiamo avere l’esperienza per trovare le soluzioni più idonee. Di vedere se l’orchestra dovrà essere ridotta; oppure, sempre mantenendo il distanziamento e rispettando le regole, se potremo contare su un maggiore organico. Si potrebbe, anche, cercare di ampliare il palco facendolo venire più in avanti. Queste soluzioni verranno da una preparazione e senza quelle verifiche che potremo fare solo sul posto, non possiamo dare nulla per certo. Se qualcuno affermasse che le cose saranno così, o che faremo in questo o in quell’altro modo, sarebbero tutte fantasie! Dobbiamo vedere, controllare, come gestire la superficie e dominare lo spazio in questo momento di transizione, prima che si possa tornare alla normalità».

Queste verifiche e dovuta prudenza valgono per Santa Cecilia a Roma, quanto per il Covent Garden a Londra?

«Al Covent Garden, ovviamente come per tutti gli Enti lirici, il discorso è molto più complicato. Devo essere onesto, a Londra siamo un po’ in uno stato di caos e le regole per i teatri al chiuso sono molto rigide. Al momento, dobbiamo pensare come usare gli spazi, forse in un modo innovativo. Si potrebbe mettere l’orchestra in platea e il pubblico in alto. Sarà molto, molto difficile prevedere una programmazione e non capiamo bene come andrà a finire. In giugno avevamo organizzato un primo concerto, con tre cantanti, con me al pianoforte e la collaborazione di alcuni elementi del ballo. La sala vuota, trasmesso in streaming! L’atmosfera era strana, perché in questa bellissima sala, malgrado stessimo facendo musica, sembrava che fossimo in un ristorante deserto, che se anche è il posto più famoso del mondo diventa triste; l’atmosfera era pari allo zero. A Roma, ci si può permettere un’attività all’aperto, mi riferisco all’immediato di questa emergenza, noi per Santa Cecilia abbiamo realizzato questa estate un programma prevalentemente dedicato all’anniversario beethoveniamo nella cavea del Parco della Musica, ma a Londra, malgrado il clima gradevole degli scorsi mesi, una primavera storica, non abbiamo proprio i mezzi e non possiamo contare sul bel tempo. Importante è anche come gestire il pubblico. Nei luoghi al chiuso ci sono limitazioni al momento che rendono difficile l’attività. A Santa Cecilia abbiamo una sala da 2.800 posti, allora non è questione di avere una capienza ridotta al minimo. No, io penso che si abbiamo più possibilità e dobbiamo studiare come realizzarle».

Nel mese di luglio, grande successo ha avuto la stagione estiva dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia nella cavea, rinominata alla memoria di Ennio Morricone, segnando per ogni appuntamento il tutto esaurito. In programma l’integrale delle Sinfonie di Beethoven nel 250° anniversario della nascita. A questo programma si sono aggiunte le tournée: a Torre del Lago per il Festival Puccini, a Caserta e con particolare significato il concerto del 27 luglio nel capoluogo ligure, per l’inaugurazione del nuovo ponte Genova San Giorgio, svoltosi in un’atmosfera del tutto particolare, sotto una campata, in un cantiere. Una particolare emozione?

«E’ stato per me un vero debutto, lo devo ammettere. Sono stato orgoglioso di dirigere l’Orchestra dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia in questa occasione, sotto il nuovo ponte appena completato. Un concerto che si è svolto simbolicamente in un momento storico così importante. Un tempo in cui tutte le risorse migliori si sono messe all’opera per ricucire uno strappo doloroso e far rinascere una città, dando un esempio di ripresa all’intero Paese. Questo ponte non è solo una bella infrastruttura, ma è anche il simbolo di un lavoro orchestrale che è stato gestito da tutti coloro che vi hanno partecipato».

La stagione estiva dell’Accademia, come detto, è stata prevalentemente dedicata a Beethoven. In due occasioni, in presenza del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella a Roma e a Genova per l’inaugurazione del ponte, è stato scelto di eseguire la Sinfonia n.5. C’è una particolare ragione?

«Beethoven con Bach, è stato il più grande architetto della storia della musica, con la sua creatività, le sue doti di sperimentatore, come figura grintosa per quanto riguarda il lavoro, lo sforzo per arrivare a finire un progetto. Lui, il simbolo perfetto per l’inaugurazione del ponte San Giorgio di Genova e simbolicamente, lo è stato anche per la presenza del Capo dello Stato. Il bello della Quinta Sinfonia, malgrado il primo movimento così torturato da utilizzi inappropriati, con questo incipit così famoso, così conosciuto, è che comincia in conflitto per arrivare in gioia. Dal buio, alla luce! Però, per arrivare alla luce, per arrivare alla gioia, alla fratellanza, come nella Nona Sinfonia, si deve guadagnare il diritto di queste conquiste. Si deve lavorare, si deve creare un ponte e con queste parole non sto inventando una metafora … è vero, è proprio così ed è bellissimo! Questa Sinfonia, in questo particolare momento, è il giusto messaggio che abbiamo voluto trasmettere, facendo risuonare l’incipit più famoso, quello appunto della Quinta Sinfonia. Il celebre motivo ritmico di quattro note del destino che bussa alla porta. Che esprime in modo evocativo la lotta dell’uomo contro il fato, profilandosi come uno dei capolavori assoluti di ogni tempo».

L’esecuzione della Quinta Sinfonia a Genova è stata preceduta da un omaggio alle vittime del ponte Morandi, perché è stata scelta una composizione di Samuel Barber?

«Con le società costruttrici, insieme a me e a tutti i componenti dell’Orchestra di Santa Cecilia, si è voluto rendere un commosso omaggio alle vittime del Ponte Morandi con l’Adagio per Archi del compositore statunitense Samuel Barber perché è un brano molto comunicativo. E’ una musica dove in tre note si capisce tutto ed è veramente commovente, sono molto felice di aver eseguito questo programma».

E’ prematuro parlare della prossima stagione dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia, ma già per l’autunno sono previsti degli eventi?

«Tornerò sul podio dell’Accademia nella seconda metà di settembre, partiremo con l’Orchestra per una tournée a Budapest, Vienna con due concerti al Musikverein, Linz e Bratislava».

La sua opinione sulla situazione italiana, dove per tradizione sono presenti istituzioni liriche storicamente di rilievo, a differenza ad esempio del Regno Unito, dove a Londra è concentrata gran parte dell’attività culturale. Un patrimonio immenso quello italiano, ma anche un pericolo di frammentazione nella cultura musicale? In particolar modo nella realtà odierna, con limitate risorse economiche.

«Gli Enti musicali in questo difficile momento devono collaborare per arrivare a delle soluzioni comuni. La mia paura è che ogni Ente vada per la propria strada, questo è pericoloso. Non affermo che essere competitivi sia sbagliato, ma siamo in un momento particolare e stiamo parlando di cose molto, molto serie. Detto questo, ovviamente, senza l’aiuto del governo, delle regioni, avremo difficoltà ad affrontare la ripresa. Spero, almeno fino a Natale, che potremo contare su questi appoggi. Avremo veramente bisogno di un grande aiuto, perché la nostra attività è importante. Importante perché la cultura in Italia non è un lusso, è rilevante per il turismo e per tutto ciò che si muove intorno alla nostra attività, tutta la parte economica. Naturalmente io posso riaffermare quella che è l’importanza dell’arte per l’anima, della musica, della prosa, della cultura tutta; sull’argomento posso esprimermi in modo molto poetico, ma ci sono ragioni da tenere presenti puramente finanziarie, interessi economici. Non dimentichiamo che sostenere l’arte è un investimento in un settore che porta molto al proprio Paese».

In Italia abbiamo molti teatri lirici e meno attività nel sinfonico. Crede che questo sia motivato da un problema culturale. Una minore attenzione del pubblico o una mancanza educativa?

«Io non posso cambiare centinaia di anni di storia, la musica lirica è la gloria d’Italia, diciamo, però, che Enti come l’Orchestra e il Coro di Santa Cecilia, la Filarmonica della Scala, quali l’Orchestra della Regione Toscana, la Cherubini, l’Orchestra Mozart, sono degli esempi ammirevoli. Prima di tutto in queste orchestre c’è un’intensità verso la sinfonica e una qualità che si è molto sviluppata in questi ultimi anni. La storia, però, è la storia ed io non vedo questo come un torto, perché nel DNA di qualsiasi musicista italiano c’è il teatro, c’è la lirica, c’è la cantabilità, ci sono i colori, c’è l’atmosfera, c’è il raccontare. Tutto questo indirizzato verso il repertorio sinfonico è un grande valore aggiunto. Allora, se in Italia non ci sono, diciamo, dieci o venti orchestre sinfoniche di grande rilievo, allora non importa. La cosa si sta sviluppando da sé».

Lei avverte questo istinto teatrale nei musicisti italiani anche quando, sia pure in forma semi-scenica con l’Orchestra e il Coro dell’Accademia, ovvero di vocazione sinfonica, esegue un titolo del repertorio operistico?

«Nella storia di Santa Cecilia la concentrazione è sempre stata verso un repertorio lirico tendente al sinfonismo, cioè Wagner, Richard Strauss, avvolte Mozart. Allora, per me era importante far capire ai miei musicisti la loro provenienza, di far comprendere cos’è Verdi, cos’è Puccini. Abbiamo avuto la gran bella fortuna di avere avuto sin dall’inizio con i complessi di Santa Cecilia un bellissimo rapporto con Rossini, che è una musica per loro molto naturale, per la mia Orchestra, per il Coro. Inoltre, avere l’opportunità di registrare tanti dischi con cantanti quali Jonas Kaufmann, la Netrebko e d’incidere Aida, Guillaume Tell, adesso Otello, dischi dedicati al Verismo, di arie pucciniane e tanti altri; un disco che sta per uscire con Diana Damrau che interpreta musiche di Donizetti, dalle Tre Regine; tutto questo informa, educa la mia Orchestra a capire le proprie radici e questo per me è fondamentale. Sì, abbiamo eseguito anche Peter Grimes di Britten e Das Rheingold di Wagner, ma anche Dallapiccola e nel mio programma c’era di proporre a Roma un altro titolo di Wagner; io ho diretto pochissimo Wagner».

Quanto è importante nelle attività dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia l’esperienza nel repertorio lirico?

«Per me, importante è che loro conoscano Verdi o Puccini non solo come un nome della loro storia, ma che capiscano il perché questi compositori hanno spiccato e hanno dato un profilo alla lirica italiana, a tutta la patria».

La registrazione più recente con l’Orchestra e Coro di Santa Cecilia è quella di “Otello”, realizzata in due settimane di lavoro al Parco della Musica di Roma l’anno scorso e da poco in commercio. Sembra che lei abbia un rapporto privilegiato con questo titolo verdiano. Quale posto occupa “Otello” nell’arco della sua carriera di direttore d’orchestra?

«Ho un rapporto intenso con questa opera, ma ogni volta che la dirigo è un’esperienza diversa. La prima volta di Otello fu negli anni ’90, era in forma di concerto con Giuseppe Giacomini e Barbara Frittoli che debuttava in Desdemona. Giacomini fu molto carino con lei aiutandola e dando consigli per affrontare il personaggio. Era molto importante ascoltare un artista così compenetrato nel ruolo, con questa voce potente e molto maschile. Durante le prove se si andava fuori tempo per una qualsiasi ragione, bastava capire che lui procedeva al ritmo della parola, allora si sviluppava tra noi una fluidità molto naturale, ho imparato molto da questo. Ho diretto Otello diverse volte e con importanti tenori, anche con Placido Domingo in una serata di gala, ma solo il quarto atto. Ancora nel 2017 al Covent Garden, con il debutto nel ruolo di Jonas Kaufmann, lo stesso tenore con cui abbiamo registrato Otello con i complessi di Santa Cecilia».

L’”Otello” è stato registrato senza pubblico in sala. Come restituire la teatralità insita nella partitura senza la reazione di una platea e l’obbligo di seguire il susseguirsi degli atti, così come da libretto?

«La cosa più difficile per la realizzazione di un disco è che i brani non si registrano in ordine, per esempio abbiamo cominciato la prima sessione di registrazione con Fuoco di gioia, per cercare di trovare l’equilibrio tra orchestra e coro e dopo si saltava altrove, poi si ritornava alla tempesta, si eseguiva parte del terzo atto, per poi riprendere dal secondo; dipende dal piano di produzione, dalla disponibilità della compagnia. Bisogna avere un’esperienza ben sviluppata per mantenere quel filo conduttore del racconto, affinché al termine, quando tutti gli spezzoni sono montati in sequenza, si sia conservata la logica, la coerenza della narrazione; che si capisca quello che si è fatto, che nell’ascoltatore, attraverso la coerenza del messaggio musicale, si crei quella giusta tensione e attesa per quei momenti, diciamo, simbolo di questa partitura».

Il lavoro di preparazione per una produzione operistica è quanto mai complessa. La scelta della compagnia di canto è fondamentale per la buona riuscita del progetto?

«Per prima cosa si deve pensare all’equilibrio della compagnia e per questo si deve seguire una logica. Il dovere fondamentale è quello di trovare degli artisti adeguati che possano esprimere tutto quello che c’è dentro quella partitura. Avere i cantanti giusti è anche di grande aiuto per comunicare con l’orchestra. Nel coro cantano, quindi capiscono subito quest’arte che nasce dall’anima, si poggia nel diaframma e passa per la gola, ma l’orchestra per entrare nella drammaturgia, per comprendere l’importanza della vocalità, che talvolta può apparire strana e difficile, ha bisogno di ascoltare. Questo arricchisce la cultura di un’orchestra, il partecipare al processo per realizzare un’opera e di essere convincenti a ogni “centimetro” della partitura, di vedere come si arriva a quel determinato risultato. E’ un’esperienza veramente fantastica, che può solo farli crescere mentalmente, in quella che potremmo definire un’intelligenza-emozionale. Perché i cantanti hanno veramente, a un livello pazzesco, questa emotional intelligence e quando si vedono al lavoro si capisce come alcuni artisti usino questo ingegno per capire al volo una situazione e risolverla. E’ veramente un dono prezioso e tale opportunità l’abbiamo avuta in pieno con questa compagnia, equilibrata nella vocalità e interpretazione dei rispettivi ruoli, nei rapporti gli uni con gli altri, sentita nei loro cuori. Veri artisti, primo fra tutti il tenore Jonas Kaufmann, con lui il soprano Federica Lombardi e il baritono Carlos Alvarez».

Nel suo repertorio operistico la musica verdiana è protagonista, vorrei ricordare la riproposta del “Don Carlos” (quindi la versione francese) nel 1996 al Théâtre du Châtelet di Parigi e dello stesso titolo l’edizione in italiano al Festival di Salisburgo nel 2013 con Kaufmann, solo per fare un esempio e l’elenco potrebbe essere lungo. “Otello”, nella maturità verdiana, presenta degli aspetti del tutto inediti. Questo richiede un diverso lavoro con orchestra, coro e solisti?

«I cantanti mi aiutano molto nel lavoro che devo affrontare, il loro apporto è veramente importante soprattutto in quei passaggi così dolci, del piano e pianissimo che sono indicati da Verdi in partitura. Questo tipo di approccio si può averlo solo con dei grandi interpreti. Se si dovesse controllare partitura alla mano che cosa i cantanti stanno facendo realmente, allora io credo che si debba loro il massimo rispetto. Stiamo parlando delle dinamiche, questa è una cosa molto difficile da conseguire, per un problema vocale, avvolte per il fiato o non saprei. C’è, poi, il problema delle tradizioni e questo crea delle aspettative nel pubblico e delle tensioni inimmaginabili. Quante volte ho sentito un commento sul perché quel cantante esegue quella nota in quel modo invece che in quell’altro, oppure se realizziamo quella scena in modo diverso da come si è sempre fatto. Questo è un altro argomento, perché dobbiamo cercare di pulire, di togliere la vernice del tempo per vedere, individuare veramente il significato di una scrittura musicale. Non dico che noi siamo perfetti, che facciamo quest’approfondimento per ogni riga della partitura, no! Siamo degli essere umani, ma sempre alla ricerca di un nostro linguaggio. Per l’orchestra, sentire un solista cantare piano è una cosa speciale, perché molti cantanti dicono che quando c’è da affrontare l’orchestra devono dare di più, perché hanno timore che l’orchestra copra la loro voce, è il contrario! Se si canta piano, in quel momento i professori si adeguano, perché loro ascoltano, vogliono capire e quando sentono un’atmosfera particolare, sono molto sensibili nell’accompagnarla. Però, avvolte, si deve combattere con queste difficoltà. Si dice che Otello sia un titolo iconico, certamente, ma lo è anche Aida e tante altre opere. La nostra vita, quella mia, di Jonas, di Federica, di Carlo Alvarez è di doverci confrontare con una partitura, con un capolavoro, che si chiami Otello, oppure Aida, Rigoletto o Tristan und Isolde! Certo, sono pezzi difficili, ma sono da conoscere e onorare. Inoltre, il nostro rispetto va a tutti i cantanti del passato, ma noi dobbiamo creare la nostra realtà e questa la possiamo ottenere solo lottando con il materiale, non avendo paura di entrare in una sorta di discussione personale con i capolavori, allora sì, questi prendono vita».

Un altro elemento in “Otello”  è il Coro di voci bianche. Una pagina impegnativa l’ingresso di Desdemona nel secondo atto?

«Quella scena mi ha creato trent’anni di mal di stomaco, devo ammetterlo. Perché per l’insieme, l’arpa, le chitarre, i mandolini, i bambini, il coro ridotto, è veramente difficile, ma l’inserimento di questo episodio è molto shakespeariano. Dopo tutta la drammaticità e l’energia del primo atto, malgrado il fatto che ci sia un duetto d’amore e dopo il Credo di Jago, abbiamo bisogno di un momento di riposo, di grande calma e innocenza, per celebrare la purezza, la bellezza di Desdemona. Questa situazione si pone in massimo contrasto con quello che precede e che seguirà e ci riporta direttamente a Shakespeare, dove ai momenti più tragici, più complessi e conflittuali, si frappone una scena da commedia, come due vagabondi, oppure due ubbriachi o i becchini in Amleto, entrano in scena e da quell’interruzione parte il dramma ed è questa una situazione molto teatrale».

Sino a che punto l’interpretazione di una partitura è influenzata dal momento stesso in cui questa è eseguita, ovvero il tempo presente; dalla reazione del pubblico, da un diverso approccio socio-culturale dell’epoca attuale. Sono condizionamenti, oppure opportunità?

«Ogni concerto, ogni allestimento è un’opportunità, per comunicare delle verità del nostro mondo. Io credo che l’essere umano non sia così cambiato rispetto al passato, che si provino delle emozioni che non hanno tempo, perché sono universali. Sono emozioni che abbiamo in comune con tutto il mondo, perché le condividiamo con la storia».

Una domanda di carattere personale, durante la sua esecuzione della “Messa da Requiem” di Giuseppe Verdi in Accademia, rimasi impressionato dall’interiorità del dialogo tra voci e orchestra, dall’esigenza di esprimere quell’interrogativo alla soglia della vita terrena. Verdi sembra porsi alla ricerca dell’espressione di una spiritualità altrimenti negata. Come, secondo lei, questa esigenza è risolta nella produzione verdiana di musica sacra e anche operistica e condivide questa mia riflessione?

«Dipende da cosa s’intende per spiritualità! La spiritualità per Verdi non era la chiesa, era la famiglia, è un rapporto personale con Dio. Il Requiem è una composizione della maturità e naturalmente con la sua sviluppata bravura acquisita negli anni, assume un linguaggio più sofisticato, anche maggiormente personale. Verdi è stato capace d’entrare in un mondo molto più misterioso e credo che nel linguaggio del suo passato, non trovo adesso la parola giusta, diciamo… più ruvido, arrivare a quegli apici di spiritualità del Requiem sarebbe stato meno facile, mentre è stato possibile nella pienezza del dominio del linguaggio musicale, non solo nella musica sacra, ma per esempio componendo Aida con una fluidità armonica che sembra così semplice, ma che non lo è! Verdi nella maturità è stato capace d’attingere ad atmosfere che neanche lui, forse, avrebbe potuto sognare di avere. Pensiamo a come avrà la capacità di attingere alla tradizione nell’uso della fuga, al riferimento di tutta la musica liturgica della storia d’Italia; era consapevole di avere tutto questo patrimonio alle spalle e lo maturò nelle sue composizioni, quanto nella propria umanità. Interessante che lui con il Requiem, con i Quattro Pezzi Sacri, c’è anche una piccola Ave Maria che è molto bella, l’abbiamo registrata, arrivò a livelli altissimi. Stiamo parlando di un Verdi che non è solo quello del mondo del palcoscenico, della lirica, ma che va ben oltre».

Esiste, per il direttore d’orchestra, un margine d’azione per esprimere nell’esecuzione di una partitura la propria personalità e sino a che punto?

«Sentendo questa domanda mi viene da sorridere, perché qualsiasi direttore che affermi di rispettare la partitura e di fare solo quello che c’è scritto, non è così! Perché con ogni direttore, pur guardando la stessa scrittura, il suono, i tempi, saranno leggermente diversi. Siamo tutti diversi l’uno dall’altro. Questo vuol dire che quando si è se stessi, pur nel rispetto dalla partitura e di tutti i segni in essa contenuti, ognuno arriva a eseguire un qualcosa di personale. Questo, ovviamente, si deve riferire a un fondamento di preparazione, di aver digerito il materiale, di aver comunicato all’orchestra con precisione quale sia il racconto, la sintassi di questa musica e che loro lo capiscano così bene, tanto da poterlo trasmettere al pubblico».

Quindi, la partitura deve essere, come disse il maestro Alberto Zedda, solo un punto di partenza per la creatività dell’artista-esecutore?

«Esatto! Diciamo, per me la cosa fondamentale è che la musica è morta fino a che è viva. Cioè è un pezzo di carta e il direttore deve farla uscire dalla pagina in cui è scritta, questo è il mio punto di partenza, cioè dimostrare un entusiasmo per qualsiasi cosa che possa essere interpretato come un’idea da parte del compositore, come una spunta verso una direzione inaspettata. Di cercare, sempre, di trasmettere il senso di gioia che c’è nella musica agli esecutori, o almeno di convinzione della propria missione».

Tra i diversi incarichi, come detto, lei è anche Direttore musicale della Royal Opera House Covent Garden e nelle produzioni da lei dirette, più che in altri allestimenti oggi di successo, sembra essersi creato un diverso equilibrio tra podio e palcoscenico perché, pur nell’innovazione della proposta, la parte visiva non cerca mai il sopravvento sulla scrittura musicale. E’ possibile affermare che oggi, considerati vetusti gli allestimenti tradizionali che pur avevano il loro fascino e spettacolarità, possa considerarsi superata la così detta fase sperimentale della ricerca di diverse espressioni e stia maturando un più efficace equilibrio, che pur tenendo conto delle diverse esigenze estetiche del pubblico contemporaneo, riconduce ai significati autentici della tradizione del melodramma?

«Io cerco di lavorare con registi che siano musicali, non ho bisogno che loro siano professori di musica, ma che abbiano una grandissima sensibilità alla musica e alla parola scenica, questo per me è fondamentale. Non guardo alla bellezza o all’indirizzo della messa in scena, io sono molto più libero, nel senso di trovare una soluzione poeticamente valida. Per rispondere più direttamente alla domanda, ci sono degli spettacoli che riescono a essere innovativi pur rispettando il contenuto dell’opera proposta. Non è facile, in particolare con Verdi. In qualche modo Verdi è molto legato alla sua epoca. Però, non è impossibile».

Una conciliazione tra proposta e ricezione del pubblico?

«Il fatto è che una gran parte del pubblico, se il racconto, se la trama dice che c’è quella cosa, vuole vedere quella cosa. Il problema, avvolte, non è solo il regista, oppure lo scenografo o le idee che regista e scenografo hanno concepito insieme. Io personalmente non sono così, diciamo, talebano, per me importanti sono i rapporti tra i personaggi e se uno spettacolo fa capire che gli interpreti si stanno ascoltando, stanno comunicando, stanno collaborando e che il direttore d’orchestra crea un’unità tra palco e buca, questa per me è una produzione riuscita».

Il pubblico, avvolte, si divide nella reazione a una proposta; cosa pensa dei così detti tradizionalisti?

«Che c’è una gran parte del pubblico che sul palco ha una necessità viscerale di realismo. Se si dice che c’è una tavola, una sedia, allora devono essere una tavola e una sedia. Se c’è scritto che deve apparire un castello allora deve essere un castello, se c’è una montagna deve essere una montagna. Io penso che quando si entra in un teatro si debba avere la mente aperta, non dico che non si possa criticare, nella nostra società c’è la libertà di espressione, però a priori venire a teatro e dire che se quella Carmen o quella Traviata non sono così come è sempre stato, altrimenti do i numeri, questo no! Certamente, non sono d’accordo nell’andare a cercare da parte di alcuni registi forzatamente la bruttezza o la scurrilità, perché va contro il senso di ogni partitura e in questi casi, io personalmente, ho dei problemi… Ma vorrei aggiungere che non va bene, neanche, se il direttore non è sensibile alla musica e dirige solo le parole; l’argomento è molto complesso».

Sale da concerto, teatri, sono i luoghi ideali per ogni esecuzione. A questi, si aggiungono le riprese televisive e gli altri mezzi di diffusione, che ancor più in questo periodo di confinamento, hanno supplito all’esigenza di essere accompagnati dalla musica.  In questi mesi siamo stati più volte confortati dalle registrazioni di concerti da lei diretti con l’Orchestra dell’Accademia e dalla diffusione di produzioni dal Covent Garden, così come in precedenza molto interesse aveva suscitato il progetto di dirette di eventi musicali diffusi in sale cinematografiche.  Qual è l’importanza di queste iniziative e quanto resta importante il richiamo del pubblico, quello affezionato e anche di una rinnovata e più vasta platea, nei luoghi deputati per l’ascolto e la visione di concerti e di opere?

«La tecnologia, oggi, è fondamentale per avere un rapporto con la realtà e credo che tutti noi, in questo periodo di lockdown, ci siamo avvicinati ancora di più a questo mondo. Se una persona non può arrivare al concerto, non può essere lì, a partecipare dal vivo e usa la tecnologia per avere l’esperienza di quello che noi stiamo facendo, io trovo che questa sia una cosa bella; è importante che adesso una parte del nostro mondo si avvicini all’arte tramite la comunicazione digitale! Rimarrà così, ma sempre con l’incoraggiamento da parte di tutto il nostro settore e mio personale per affermare che niente può rimpiazzare la musica dal vivo. Dobbiamo fare qualsiasi sforzo per non dimenticarlo, che la musica dal vivo è una cosa speciale, è una comunità che creiamo e di cui abbiamo necessità. Questa è la nostra storia e allora dobbiamo cercare di salvaguardare questo concetto così importante, così umano, umanistico anche, così caloroso e bello. Abbiamo la possibilità di comunicare la nostra musica dal vivo e le nostre sale sono capienti e le opportunità torneranno a presentarsi numerose. Detto questo, certamente, in questo periodo è stato molto interessante per dimostrare che siamo capaci ed è stato anche necessario, di trasmettere la nostra musica tramite mezzi virtuali …E che gioia avere questa possibilità, di poter usare la tecnologia per diffondere il messaggio musicale. Il digitale, secondo me è una grande opportunità; la speranza è che la nostra società sia sempre in sviluppo e disponibile a offrire un qualcosa di migliore. Comunque, dobbiamo essere pronti a tornare, appena ci sarà reso possibile, a offrire un messaggio umano e non solo meccanico, così come è avvenuto per la stagione estiva all’aperto dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia. Con questo momento di arresto di tutte le attività è difficile rendersi conto di quello che sta avvenendo, perché le orchestre sono restate a lungo in silenzio, i teatri sono vuoti. Roma, come altri luoghi in Italia, ha la fortuna di avere delle stagioni musicali estive all’aperto, in spazi che permettono di avere un pubblico non troppo esiguo anche con l’attuale normativa. Adesso dobbiamo affrontare le stagioni al chiuso, in autunno e in inverno e stiamo riscaldando in qualche maniera le nostre anime, le nostre dita, il nostro respiro, le nostre voci, per continuare a passare questo messaggio così com’era sempre stato pensato, cioè in comunità, con delle altre persone. Chiedo scusa, adesso divento troppo poetico, forse… Ma io credo in questo, ci credo molto».

Preoccupazioni per il futuro, in una realtà nella quale alla cultura non sempre sembra sia riconosciuto un valore sociale ed evolutivo?

«Devo dire che in questo momento siamo in uno stato di preoccupazione dappertutto e che anche le questioni economiche hanno il potenziale per essere fatali. Questo non lo possiamo nascondere! Io spero che qualsiasi governo, in qualsiasi paese, si renda conto che siamo un punto di riferimento e questo in particolare in Italia; che siamo definiti per la nostra cultura. La specificità comprende anche la tradizione del cibo, del vino, ma soprattutto la cultura della nostra storia, dei musei, dell’arte, della cinematografia e ovviamente della musica sia sinfonica che lirica, ma anche pop e qualsiasi altra forma espressiva. I governi non devono dare mai per scontato che noi si possa sopravvivere come in una bolla, devono rendersi conto che facciamo parte dell’essenza stessa del Paese. Non dico, ovviamente, che la gente possa non aver da mangiare, negare che ci siano tanti altri problemi e che l’arte sia più importante, questo mai; non direi mai una cosa simile, però chiedo di non essere dimenticati».

Si dice frequentemente che nella ripresa, dopo la pandemia, nulla sarà più come prima.  Servendomi di un ironico “gergo colloquiale“, per la cultura musicale sarebbe una minaccia oppure una promessa”?

«Noi stiamo vivendo questa esperienza in comune con tutto il mondo, con altri musicisti, con i popoli e i governi di tutto il mondo. Allora, io credo che questa esperienza meriti rispetto. Il ricordo di questo momento nella nostra storia rimarrà per sempre e sottilmente cambierà, io spero, il nostro approccio con il prossimo. Forse questo concetto è …no… non è solo cristiano, è un sentimento dell’essere umano e spero che insieme, con l’esperienza del ritrovarci per un concerto o un’opera, ci si renda conto ancor più di prima che la condivisione, questa comunità creata per sentire insieme qualcosa di bello, per vedere insieme qualcosa di bello, sia una consapevolezza quanto mai preziosa. Questa è la mia speranza».

Quindi la musica è bellezza?

«La musica è tantissime cose: è bellezza, poesia, conflitto, caos, passione, spiritualità. Tantissime cose».

Vincenzo Grisostomi Travaglini

“La forza della musica: Conversazione con il Sovrintendente Michele Dall’Ongaro”, un’articolo del Maestro Vincenzo Grisostomi Travaglini nella rivista “L’Opera International Magazine” del mese di Giugno 2020

L’Accademia Nazionale di Santa Cecilia a Roma è un’istituzione musicale tra le più antiche al mondo. L’atto di costituzione dell’allora Congregazione dei Musicisti venne posta sotto l’invocazione della Beata Vergine e dei Santi Gregorio e Cecilia in data maggio 1585 a firma di Papa Sisto V; dal 1838 è denominata Congregazione e Accademia e poi Accademia Pontificia. Oggi è una delle quattordici Fondazioni lirico-sinfoniche italiane, tra le più prestigiose a livello internazionale. Nel febbraio 2015 è nominato Presidente-Sovrintendente il maestro Michele Dall’Ongaro, il cui mandato è stato rinnovato nel 2019.

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Il nostro incontro non può che avere quale tema iniziale, purtroppo, l’attuale situazione dei teatri, sale da concerti e spettacolo in generale. Maestro, com’è stata affrontata l’emergenza Coronavirus all’Accademia Nazionale di Santa Cecilia, con la chiusura delle sale e la sospensione di ogni attività con pubblico?

«L’impatto con questa situazione d’emergenza è stato oggettivamente drammatico, nel senso che tutti ci siamo resi conto di trovarci di fronte a un evento di proporzioni globali, potenzialmente gravissimo, la consapevolezza di essere di fronte a un fatto inedito e drammatico. Vi è stata da subito una forte condivisione, perché a Santa Cecilia abbiamo veramente un’idea di comunità molto forte, sia tra di noi, sia con il nostro pubblico, che ha dimostrato la sua vicinanza rinunciando ai rimborsi dovuti per la cancellazione delle attività. La nostra reazione è stata quella di non farci trovare impreparati per la ripartenza, perché il primo decreto prevedeva una riapertura il 4 aprile, quindi nel pieno svolgimento della nostra stagione, con concerti, incisioni discografiche e molte iniziative. Con il maestro Pappano abbiamo tenuto tutto in piedi perché sapevamo, speravamo che le cose avrebbero potuto andare avanti. La nostra politica è sempre stata quella, un po’come dei boy-scout, di essere pronti in qualunque momento a ripartire, con l’Orchestra, il Coro preparati da dove la nostra organizzazione si era interrotta, addirittura programmando il recupero dei turni di abbonamento che avevamo perso; chiedendo agli artisti ospiti una rinnovata disponibilità. Un grande lavoro organizzativo condiviso con i sindacati, Coro, Orchestra, il Direttore musicale Antonio Pappano, il Maestro del coro Piero Monti, con la Commissione artistica, tutti insieme per lavorare e per essere sempre organizzati a riprendere il nostro lavoro. Le cose sono andate come sono andate, anzi a un certo punto si pensava di poter riaprire addirittura a dicembre, si parlava di tempi molto lunghi. Poi c’è stata questa improvvisa accelerazione, in parte inaspettata, in parte condivisa, perché il Ministero ha reagito tempestivamente con strumenti abbastanza efficaci, anche per sostenerci da un punto di vista economico. Nei cinquecento anni di storia di Santa Cecilia non era mai successo di trovarsi ad affrontare un avvenimento di tali proporzioni, quindi nessuno era preparto a gestire la situazione, ma nonostante questo abbiamo lavorato con grande impegno. Insieme alla Scala, l’Accademia Nazionale di Santa Cecilia ha potuto anche contare sul sostegno dall’AGIS (Associazione Italiana dello Spettacolo ndr), organismo rivelatosi strumento essenziale, dove per fortuna quale presidente c’è Carlo Fontana, che grazie alla sua storia professionale è ben consapevole di quelli che sono i nostri problemi. Nella difficoltà del momento è scaturito un importante dibattito interno e un competente lavoro comune da parte di tutta la comunità musicale con il risultato di validi progetti, con l’ausilio e il potenziamento dei mezzi d’informazione, tutto questo è stato fondamentale. Dopo un primo momento di smarrimento, il comparto di Santa Cecilia ha reagito molto bene, perché ci siamo resi conto che stavamo tutti dalla stessa parte, da quella del lavoro, perché la musica è lavoro; l’ambiente tutto era consapevole degli impegni presi con il nostro pubblico. Adesso siamo pronti a ripartire! Per quanto riguarda l’autunno abbiamo elaborato insieme al maestro Pappano e il comparto artistico tre progetti, perché non sappiamo con certezza cosa ci aspetta. Abbiamo previsto una stagione di musica da camera con i nostri musicisti, il nostro Coro, la nostra Orchestra; parallelamente abbiamo disegnato una stagione per dei complessi allargati, sino a quaranta/cinquanta elementi; inoltre siamo pronti con la stagione sinfonica che in parte è quella che avevamo già preparato, perché noi programmiamo con tre anni di anticipo; immaginando inevitabilmente delle modifiche, perché nessuno può avere la certezza, ad esempio, su quale sarà la situazione degli spostamenti internazionali; una grande istituzione quale Santa Cecilia ospita interpreti italiani, ma anche una grande varietà di musicisti che provengono da tutto il mondo. C’è poi la norma contenuta in questo decreto che attualmente prevede al chiuso di avere al massimo 200 spettatori. Il che significa rendere impossibile lo svolgimento di attività di un’istituzione come la nostra, che si avvale di uno degli auditorium più grandi d’Europa capace di 2.700 posti, dove ci sarebbe la possibilità di configurare una situazione che, sempre garantendo la sicurezza per tutti, potrebbe prevedere una maggiore capienza. Il limite di 200 posti per i concerti, così come per le attività liriche, è una costante nel decreto, indipendentemente dalla capienza della sala, mentre anche nei luoghi di culto è previsto che il limite sia dimensionato alle cubature. Sarebbe augurabile che questa norma sia ripensata e prevedo che il comitato tecnico prenderà in esame le diverse esigenze, stimolato dalle sollecitazioni dalle associazioni di categoria e dai vari attori coinvolti, perché noi con 200 persone non siamo nella condizione di svolgere attività con pubblico. Io non posso parlare a nome di tutti, ma ribadisco che è un limite che va superato, perché diversamente nessuno di noi potrà fare niente. Tutto il discorso sulla stagione tradizionale che riguarda turni d’abbonamento, posizione dei posti occupati da parte di un pubblico così legato all’Istituzione, c’è gente che da 50 anni ha la stessa poltrona, tutto questo andrà rimodulato e dobbiamo ragionare su queste varianti Intanto abbiamo dei progetti e sono pronti per essere attuati, si tratta di capire quale dei tre progetti potrà essere realizzato e in che modo, nel tempo e nello spazio, integrarli, differirli, sovrapporli. Per la stagione di musica da camera, ad esempio, il 23 settembre abbiamo previsto in cartellone il concerto di Maurizio Pollini che doveva venire lo scorso 8 aprile, che è stato spostato al 23 settembre, è uno dei turni che recuperiamo prima dell’inizio della nuova stagione».

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Il 27 luglio è previsto un concerto straordinario in Liguria, per celebrare il nuovo ponte di Genova!

«Il concerto era previsto per il 24 maggio e adesso è fissato al 27 luglio, con l’Orchestra dell’Accademia diretta da Antonio Pappano. E’ l’omaggio alla Liguria e all’Italia. Non sappiamo ancora se sarà consentita la presenza di pubblico, a causa delle restrizioni sanitarie, l’evento sarà trasmesso in diretta su Rai 3. Il programma avrà inizio con un omaggio alle vittime del Ponte Morandi con l’esecuzione dell’Adagio dal Quartetto per archi op.11 di Samuel Barber, a cui seguirà l’esecuzione della Quinta di Ludwig van Beethoven di cui quest’anno ricorrono i 250anni dalla nascita. Siamo particolarmente fieri di essere presenti a questo evento. Mi piace rilevare che il progetto per il nuovo ponte PerGenova è di Renzo Piano, lo stesso architetto dell’Auditorium Parco della Musica a Roma».

Ci sono progetti per l’estate nella sede dell’Accademia, al Parco della Musica?

«Per l’attività estiva abbiamo una fortuna, perché l’Auditorium di Renzo Piano, ci offre uno spazio all’aperto, bello, prestigioso, comodo, ampio e accogliente che condividiamo con Musica per Roma, una specie di condominio molto divertente che è la Cavea del Parco della Musica e vi stiamo immaginando una stagione estiva che preveda un’inaugurazione, magari in collaborazione proprio con Musica per Roma, per segnalare ai romani che l’Auditorium è aperto e quella comunità è pronta al confronto e al dialogo. E’ la forza della musica, che non va mai sottovalutata! In questo luogo noi proporremo l’integrale delle Sinfonie di Beethoven con il maestro Pappano, partiture che raffigurano il simbolo per eccellenza di rinascita, del valore etico della musica ed anche di forza e di positività, quindi dalla nostra parte vuole essere un forte segnale. Il programma sarà preceduto dall’esecuzione de Le quattro stagioni di Vivaldi, che nel nostro messaggio vuol essere un saluto gentile, un segno di accoglienza al pubblico dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia».

La Sinfonia n.9 è soprannominata Corale e veniamo al nodo delle regole da seguire per tutte le esecuzioni, dalle voci: solisti e coro, al distanziamento tra i professori d’orchestra.

«La questione delle voci è la più delicata. In realtà nessuno ha dato una vera risposta al tema dal punto vista dei protocolli, delle norme e delle raccomandazioni, perché l’attuale decreto ha un’appendice dedicata allo spettacolo e alla musica dal vivo, ma dà solo delle indicazioni. Uno studio accurato su questo argomento, che io sappia, non c’è, o meglio ce ne sono alcuni, che vanno considerati. Uno è la relazione tecnica che i Berliner Philharmoniker e altre importanti istituzioni tedesche hanno commissionato alla berlinese Charité, che è uno dei maggiori policlinici in Europa e centro di ricerca in medicina. Sono 13 pagine che ho avuto, fatto tradurre e che sto diffondendo. Noi lo stiamo confrontando con i nostri parametri, siamo molto allineati con quei principi che pensiamo di proporre all’AGIS, per cercare di capire se questi sono uno strumento valido da portare, eventualmente, al tavolo tecnico e anche a conoscenza dei responsabili delle regioni, alle quali le deleghe di competenza».

Cosa prevede questo studio che sembra sia stato accolto favorevolmente, soprattutto in Germania?

«In sintesi, questo studio prevede una serie di regole di sicurezza che andrebbero applicate, ad esempio indica in un metro e mezzo la distanza tra gli archi, se ci sono gli ottoni del plexiglass come divisorio e tante altre norme. Sempre ad esempio, è indicato il silenzio assoluto durante le prove, perché il parlare in orchestra richiede più attenzione che suonare il proprio strumento. Ci sono altre precauzioni per garantire la sicurezza, come hanno dimostrato i Wiener Philharmoniker in alcuni studi visivi con dello spray, questi hanno dato prova che la gittata non è così potente, ma il liquido di condensa va raccolto con microfibra, con panni disinfettati, smaltiti poi in appositi contenitori e tutto questo, diciamo, ha un senso… poi ci sono molte altre cautele, dovremo stampare le parti d’orchestra separatamente, ognuno dovrà avere la sua, questo vale per tutti gli strumenti, le percussioni non si devono scambiare tra di loro le bacchette, la questione è molto complicata, ma questo studio ti dice anche che i cantanti devono stare lontani sei metri l’uno dall’altro».

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Quindi all’estero e in primo luogo in Germania l’incognita è stata trattata con scrupolo. Il problema specifico, in Italia non è stato ancora affrontato?

«Dovremo arrivare per forza a un passaggio, io spero il più condiviso possibile, che sia una sorta di protocollo al quale adattarsi. Presumo sia interessante che le stesse istituzioni si facciano carico di un approfondimento, perché non ci si può sempre aspettare di essere imboccati»!

Questo principalmente per le orchestre, torniamo al problema del canto…

«Lascerei al momento aperta la questione del canto, essenziale soprattutto nei teatri d’opera. Noi prevediamo senz’altro l’intervento di solisti e del coro per la Nona Sinfonia e vorremmo realizzare sempre nella Cavea del Parco della Musica un concerto interamente dedicato al coro, che è una risorsa importante dell’Accademia di Santa Cecilia, ancor più adesso con Piero Monti che è stato recentemente nominato Maestro del coro, quindi stiamo elaborando un programma specifico, che sia allegro, movimentato, che trasmetta del buon umore. C’è il progetto di un omaggio alle vittime del Covid e tutto questo deve essere un segno della ripartenza».

La stagione vera e propria è stata definita?!

«Come ho detto, noi abbiamo una programmazione triennale, quindi molti appuntamenti erano già fissati, ma rispetto all’autunno, onestamente, adesso non posso fare anticipazioni, perché le incognite sono talmente tante che più che avere tre, anzi sono quattro, piani nel cassetto, che è quello che stiamo facendo, preferisco non spingermi oltre. Dobbiamo capire rapidamente cosa potremo realizzare, abbiamo la necessità di conoscere quali saranno le forze che potremo mettere in campo per poter comunicare al nostro pubblico un programma».

Altro argomento importante per l’Accademia è quello delle tournée.

«Già in settembre sarebbero previste delle tournée, ma stiamo cercando di sapere se saranno confermate o meno, perché sono in Svizzera, in Germania e anche in Italia. Sarebbe programmato un concerto a Verona per la Filarmonica, ma dobbiamo avere maggiori informazioni per conoscere se ci sarà la possibilità di realizzarla. Santa Cecilia fa molte tournée, ogni anno tocca circa venticinque città nel mondo, questo è un segmento essenziale perché consente un confronto internazionale, per la promozione dell’eccellenza italiana nel mondo… non sono io ad affermarlo, lo dicono gli altri… con Tony Pappano che ha assunto il ruolo internazionale di una sorta di tricolore vivente».

Dedicarsi al servizio della musica in un’istituzione quale l’Accademia di Santa Cecilia, oltre ad essere un grande impegno, è anche gratificante?

«Io sono talmente contento di stare dove sto, mi pagano pure… in questa emergenza mi sono tagliato lo stipendio del 30%, ma il maestro Pappano del 100%. Come si sa i direttori musicali hanno il loro compenso per ogni concerto, più hanno una cifra per l’incarico e il lavoro che svolgono. Perché il direttore musicale non è soltanto il tipo che sale sul podio e dirige, ma è un protagonista della costruzione dell’identità musicale dell’istituzione. Ecco, ci tengo a farlo sapere, perché non si possono chiedere sacrifici ai tuoi compagni di lavoro se non sei pronto a farli anche tu».

Le stagioni sinfoniche e da camera sono il fulcro delle attività dell’Accademia, ma vi sono altri importanti aspetti che non sono stati trascurati e tra questi la comunicazione tramite web. In questo periodo queste attività sono state incrementate?

«Ti comunico una notizia che a me ha colpito, da quando è cominciata questa storia abbiamo intensificato enormemente la nostra attività e il dato di ieri (20 maggio ndr) è che i contatti e le visualizzazioni in questo periodo sono aumentate del 980%. Vuole dire che c’è una grande quantità di persone che ha cercato nella musica conforto, compagnia, speranza, unità di futuro e ritorno alla normalità attraverso questa esperienza, che certamente non sostituisce le normali attività, ma le integra».

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Questa è stata un’occasione per sperimentare nuovi linguaggi?

«Io ho i vecchi ricordi di quando collaboravo con Radio-Rai e anche per la televisione, ho voluto riproporre la formula delle “Interviste impossibili” e abbiamo commissionato al maestro Federico Maria Sardelli un’intervista esclusiva ad Antonio Vivaldi e l’abbiamo da poco pubblicata. Penso che se oggi Vivaldi fosse vivo sarebbe Sardelli, lui si è compenetrato nel celebre compositore e lo conosce più di chiunque altro. Abbiamo fatto tante altre cose, le parole crociate musicali e ottima risposta sta avendo un’altra iniziativa, sempre diffusa via web, quella del grande cinema con una nuova colonna sonora eseguita dai nostri professori d’orchestra. Abbiamo iniziato con La grande bellezza, chiedendo al Premio Oscar Paolo Sorrentino e alla Indigo-film di regalarci due minuti e mezzo inediti del film. In questo periodo in molti hanno realizzato questo tipo di esecuzioni musicali con frammenti ripresi da casa e montati con i quadratini, abbiamo visto di tutto! Noi abbiamo pensato di fare una cosa un po’ diversa. Avuto lo spezzone cinematografico, il maestro Pappano ha scelto quale commento musicale alle immagini il finale de I pini di Roma. I nostri musicisti hanno suonato da casa, il tutto è stato montato ed è venuto fuori questo strano video di circa tre minuti de La grande bellezza musicata da Respighi con questa idea di una Roma stralunata al cubo. Scordati, però, quel clima musicale che faceva da commento originale al film, perché questa ennesima carambola di quella storia diventa nel video realizzato da noi una specie di grande inno alla bellezza di Roma e simbolicamente alla possibilità di un ritorno alla normalità dei rapporti della vita. Il video si trova nel nostro sito, su Facebook, per il momento ha già ottenuto cinquantamila visualizzazioni ed è veramente impressionante. Adesso stiamo studiando iniziative analoghe con altri premi Oscar italiani, proprio per approfittare del fatto che il web non è lo specchio di una cosa che fai dall’altra parte, ma ti dà l’occasione di sperimentare linguaggi nuovi e questo per mantenere alto il principio dell’eccellenza italiana».

La musica è un linguaggio universale e l’Italia dovrebbe essere un punto di riferimento per questa cultura. Non per fare polemica, tutt’altro, anzi riportando il fatto simpaticamente, ha avuto l’onore della cronaca e anche fatto discutere una frase pronunciata durante una recente conferenza stampa del Presidente del Consiglio: “I nostri artisti che ci fanno tanto divertire”, è stato un momento di stanchezza! Bene, la musica non fa solo divertire?

«La musica fa tante cose, ti tiene compagnia sotto la doccia, ti fa pensare, la musica è un pensiero che segue un discordo diverso, arriva alla pancia, scalda il cuore, poi sale al cervello e lì si deposita e lavora anche se tu non lo sai».

In psicologia sono stati fatti molti studi sulle facoltà del linguaggio musicale. Condannato nella letteratura russa dal romanzo “Sonata a Kreutzer” di Tolstòj per la sua natura sospetta, dalle testimonianze tramandate sembrerebbe non essere sempre stata gradita da Freud, per la capacità del tutto specifica di eludere i filtri della coscienza e penetrare direttamente nel nostro profondo…

«…Ecco perché anche la musica passiva è così pervasiva, nel bene e nel male, dalla musica d’ambiente degli aereoporti, alla raffinata playlist di un ristorante a Parigi; tu non te ne accorgi, ma lei lavora, eccome! Ancor di più la musica dal vivo, è un’esperienza uditiva, ad esempio quel colpo di cannone, il forte di Čajkovskij che lo senti nella pancia, poi lo schiaffo del suono che ti prende e ti da una sberla; l’essere massaggiati, toccati dalla musica. Questa esperienza che è singola, ma è collettiva, è anche fisica, reazione che non sempre il teatro di prosa ti può dare, ma il teatro musicale sì! La musica ti dà questa risposta, crea una comunione che lega, chi è lì per sempre e per tutta la vita. Figurati i musicisti, quelli che suonano insieme quanto si possono sentire in confidenza mentre eseguono questa cosa magica, che tu hai dentro e devi tirare fuori, tu l’hai in testa e poi la senti realizzata, la suoni e la fai tu, c’è telepatia, un qualche cosa di diretto che ti pervade ed era questo il motivo, forse, per cui Freud non la capiva, perché il lapsus in musica non esiste».

Un argomento particolarmente sentito in Accademia è quello dell’educazione musicale, il rapporto con le nuove generazioni. Come realizzate l’obbiettivo?

«Questo per noi è fondamentale perché prima di tutti, lo dico senza tema di smentita, ci stiamo occupando dei bambini e lo facciamo anche in questo frangente, perché continuiamo a fare lezione online ai nostri milleduecento ragazzi, tantissime lezioni di musica per bambini, giochi musicali elaborati dai nostri maestri che si occupano del settore educativo. Sono iniziative che tengono compagnia a tutti questi ragazzini che per questo tempo sono rimasti a casa, ma le lezioni sono anche seguite dagli adulti che stanno imparando i principali elementi della musica, grazie a queste pillole, che secondo me sono realizzate molto bene. Inoltre vanno avanti i nostri corsi di perfezionamento, quelli storici di pianoforte e composizione e gli iscritti si possono collegare tramite password; fra poco terremo gli esami, forse quelli riusciremo a farli de visu».

La collaborazione con l’università Luiss va oltre il concetto di didattica?!

«Da due anni abbiamo un master con la Luiss dedicato a giovani manager, che vengono a imparare dai direttori d’orchestra come si conduce un’azienda attraverso l’esperienza di un direttore che gestisce l’orchestra. C’è questo dialogo molto fitto tra i tutor della Luiss e i nostri direttori d’orchestra, a cominciare da Pappano. In questo scambio d’informazioni loro assimilano tantissimo, ma anche noi impariamo dai loro tutor, perché in realtà i processi, molto spesso, sono simili, dalla gestione dell’emergenza, le differenze, il fare squadra, il cercare di ottenere il meglio possibile dal gruppo di lavoro. In fondo hai un piano industriale che può diventare la partitura, hai un manager, un amministratore delegato che può essere il direttore d’orchestra, hai il tuo gruppo di lavoro che può essere l’orchestra e il coro. Naturalmente i linguaggi sono diversi, ma i processi decisionali e di soluzione dei problemi sono spesso molto simili. Questo è stato illuminante per noi e per loro, tanto è vero che abbiamo deciso di continuare nonostante la pandemia, online, grazie a Paola Severino che è stata l’ideatrice di questa esperienza quando era Rettore alla Luiss. Abbiamo una sessantina d’iscritti e gli raccontiamo quanto sia utile la musica per imparare a pensare meglio, perché la musica ha questa divinità straordinaria, più dai e più ti restituisce».

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L’Orchestra e il Coro dell’Accademia eseguono principalmente repertorio sinfonico, al quale in stagione si affianca un titolo operistico in forma semi-scenica. Con quale criterio avere fatto questa scelta?

«Esiste una consuetudine a un repertorio, a me l’ha insegnato Pappano, mi ci ha fatto pensare lui non è una mia idea, mi ha fatto capire che per un’orchestra prevalentemente sinfonica non è solo utile, è vitale fare opera ogni tanto, perché la reattività che ha un’orchestra d’opera rispetto a quel tipo di scrittura fatta per la maggior parte dei casi di rubato, corona, pausa, l’attenzione alla parola, l’ascolto è continuo. Questo dialogo, questa forma di parlato musicale, quest’assurdità che hanno inventato gli italiani è talmente fatta da una flessibilità che va dalla massima accelerazione per poi risolversi in un tutt’altro, caratteristiche che non trovi in un repertorio sinfonico tradizionale, ad esempio una sinfonia di Beethoven, perché puoi andare avanti per un quarto d’ora con lo stesso “bit” senza avere questo problema da gestire, del rapporto appunto tra la voce e la parola. Il repertorio d’opera, uso un termine generico, se volessimo parlare di Verdi basta e avanza, ha questa strana forma di flusso di agogiche dinamiche estremamente movimentato, che pone problemi interpretativi e di ascolto reciproco totalmente diversi ed è per questo che esistono queste specificità, per la consuetudine con un repertorio. Com’è vero anche il contrario, cioè un’orchestra prevalentemente dedicata all’opera deve avere esperienze nel sinfonico e tutte quante devono fare tanta musica da camera. Quello che io ho capito è che una buona orchestra, una grande orchestra ha bisogno dei seguenti elementi: per primo, di un direttore principale di grande qualità e che la segua e se ne occupi, che ne abbia cura, non che venga a fare qualche settimana e poi vada in giro per il mondo; due, un flusso costante e continuo di direttori d’orchestra, i migliori possibili, che tornino negli anni, com’è sempre stato per Santa Cecilia, ad esempio nel passato con Prêtre, con Giulini; terzo punto, devi fare tanta musica da camera e poi l’opera e la sinfonica; quattro, un rigore estremo ai concorsi, concorsi e audizioni frequenti e infine: cinque, le tournée».

Le tournée sono quindi importanti per la formazione di un’identità comune?

«Le tournée sono fondamentali. Tony (Pappano ndr) ha sempre dato una grande importanza alle tournée e ai programmi da eseguire. Se vai a Berlino a fare Beethoven, Brukner a Vienna in quella sala dove è stata eseguita quella sinfonia per la prima volta e sei tu a eseguirla; Saint Saëns a Parigi o Elgar a Londra, allora lì non c’è trucco, non c’è inganno, non si scherza! Ero stato da poco nominato a Santa Cecilia quando andammo a eseguire l’Ottava di Brukner al Musikverein, stracolmo; io ero in apprensione, non perché non mi fidassi dei miei, ma perché a Vienna non potevo sapere cosa ne pensassero di cento italiani capitanati da uno che si chiama Pappano. Finisce l’Ottava con quel gran riverberone del Musikferein e ci sono stati 12 secondi di silenzio, all’undicesimo io ho cominciato a guardare con una certa apprensione l’uscita di sicurezza, dopodiché è scoppiato un applauso talmente liberatorio e straordinario che mi sono commosso, ero fiero di essere italiano, ero fiero di essere un musicista e ho pensato com’è magica la musica, tu puoi essere ovunque e crea questo rapporto di confidenza che ti lega per tutta la vita alle persone che hanno condiviso quella emozione».

Si dice che la musica non vada conosciuta, bensì riconosciuta. A iniziare da bambino, ma secondo alcuni studi ancor prima, ovvero dall’ ”educazione” all’ascolto del feto.

«Evelyn Glennie, la percussionista sorda, insegna ad ascoltare agli udenti perché li abitua a usare il corpo, ti spiega che l’udito è una componente del tatto, così come è evidente per i feti. Noi facciamo anche i concerti per le donne incinte; ogni volta che vengono piangono; la ragione è che hanno questo contato particolare con il suono perché nel liquido amniotico che si muove, l’udito è tatto. Il feto sente che tutto il corpo vibra ed è come una carezza».

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In Italia dovremmo essere fieri della nostra cultura e storia. All’istruzione musicale è riservata la giusta attenzione?

«No, non lo è, ma io sono un vecchio ottimista e anche un vecchio militante del buon senso e penso che prima o poi lo sarà, lo sarà sempre di più, sta anche a noi non gettare la spugna. Non lo è per un semplice motivo e non lo sarà finché la scuola non si occuperà di questa cosa in maniera ordinata e continuativa, in ogni ordine e grado. Tutti noi cerchiamo lo stesso di fare, di ripetere, di guardare con più attenzione perché c’è questa meraviglia, ma dobbiamo trasmetterla perché a sapere che esiste devono essere tutti, non possiamo tenercela per noi, bensì deve essere condivisa e ce n’è per tutti. Finché non ci sarà questa possibilità di offrire a chiunque la bellezza della musica, la consapevolezza sarà meno forte. Questo lo vediamo un po’ dappertutto, anche nella classe dirigente; anche per questa ragione il lavoro alla Luiss è rilevante, così come il lavoro nelle borgate, ovunque, ma fondamentale è nei luoghi dove si crea la classe dirigente del futuro. Quindi no! In Italia questa opportunità non è abbastanza condivisa, ma io sono sicuro che è solo una questione di opportunità».

Questo periodo di condizionamento, che ci sembra interminabile, potrà fornirci una qualche opportunità di maturare una diversa coscienza e consapevolezza di quelli che sono gli ideali di condivisione, del concetto di valori riconosciuti?

«Forse… ci aiuterà a riportare alcune cose realmente importanti alla loro cruda essenza e alla loro necessità, alla loro funzione essenziale. Lo scopo della musica non è solo quella di far pensare o di muovere l’aria, stiamo parlando del bene più immateriale che ci sia, la musica non esiste, non la tocchi. Eppure la sua funzione è quella di creare questa identità forte, forgiando personalità, idee, visione del mondo. Non necessariamente per essere migliori, perché Beethoven piaceva pure ai nazisti; quindi la musica non salverà il mondo, ma avere un rapporto diretto con la musica vuol dire avere l’opportunità di fare un viaggio dentro se stessi alla scoperta di cose inimmaginabili, attraverso porte che nessuno può aprire. Cosa potrebbe cambiare dopo l’esperienza pandemica, che questa potenza magica della musica nell’immediato futuro debba essere spogliata di orpelli, di sovrastrutture, di tutti quegli stracci che avvolte la coprono. Applaudire tra un tempo e l’altro non è un crimine, io applaudo, non mi puoi zittire, perché la musica fa piacere, non esiste al mondo che dopo il terzo movimento della Patetica di Čajkovskij il pubblico non esploda in un tripudio, perché fa parte della musica. Se riuscissimo, tutti quanti noi, a supere i capricci, la puzza sotto il naso, l’idea che la musica sia solo per pochi eletti… tutto questo deve sparire».

Cosa ci insegna questa pandemia?!

«L’idea di ritrovarci, come se una specie di virus facesse cadere i vestiti a tutti. Allora ci ritroveremmo davanti alle cose essenziali. Se riuscissimo a usarlo per togliere il superfluo. Diceva Berio che Beethoven era sordo solo al superfluo. Allora questa pandemia ci potrebbe rendere sordi al superfluo e conosco poche cose così capaci di andare dritte allo scopo come la musica, che è un linguaggio esatto e non è vago come quello delle parole. Giustamente Mendelssohn diceva che le parole sono approssimative e possono nascondere di tutto, mentre la musica è totalmente precisa; come diceva Picasso la musica è una meravigliosa bugia che dice la verità… Questa mia, però, è una fantasticheria, perché questo virus non ha niente di buono, non c’è alcun lato positivo che io riesca a trovare in questa disgrazia, però l’occasione di andare all’essenza profonda delle cose, questa potremmo, forse, coglierla».

A Roma sono presenti due fondazioni, il Teatro dell’Opera e l’Accademia Nazionale di Santa Cecilia e nel passato, con un riverbero nel presente, si sono espresse delle riserve per una doppia attività, sia pure con repertori diversi. Eppure a Berlino, Parigi, Vienna l’offerta culturale-musicale è molto più vasta, ad esempio Berlino è sede d’importanti istituzioni sinfoniche e di ben tre teatri d’opera. Perché Roma non può vantare un’offerta degna di una capitale europea?

«Che ci sia un grande impegno di denaro pubblico a sostegno delle fondazioni non c’è ombra di dubbio, che poi l’investimento in cultura, sia sempre poco è un discorso complesso. Adesso, comunque, l’impegno è migliorato per cui io vedo un bicchiere mezzo pieno, soprattutto con questa sciagura della pandemia sull’economia italiana non mi permetto di fare paragoni con situazioni drammaticissime. Noi siamo stati anche fortunati a essere stati sostenuti in un momento così difficile. Però, se possiamo fare un ragionamento, rapidamente, senza il virus tra i piedi, possiamo dirci che il cittadino italiano che sostiene in parte con le sue tasse le fondazioni lirico-sinfoniche e altre attività dello spettacolo, sarebbe bene fosse più consapevole e coinvolto da queste iniziative. Quindi, torniamo sempre a quella che è l’offerta ed io sono convinto che questa non sia sufficiente, perché penso che l’offerta faccia anche la domanda. Credo, anche, che chi fa musica debba cominciare a girare il quesito e a domandarsi non quello che può fare lo stato per noi, il governo, la regione, il comune, ma quello che facciamo noi per la cittadinanza. Allora, cosa stiamo facendo? Come restituisco in parte con il mio lavoro quello che la comunità s’impegna per sostenerlo? Dobbiamo noi a essere sempre noi rivolti verso quella che si potrebbe chiamare l’utenza, di andare a fare musica là dove non è possibile farla. Questo rapporto dovrebbe essere molto proattivo e non sempre lo è stato. Metà del nostro bilancio è pubblico, questo m’impegna non solo nei confronti della gestione di questo denaro che deve essere la migliore possibile, ma anche nei confronti della comunità. Avevamo due cori al carcere di Rebibbia, un’esperienza che al momento si è arenata ed è stata di grande importanza; abbiamo un’orchestra e un coro amatoriali che funzionano benissimo, che sono pieni di persone desiderose di fare musica, non perché vogliano intraprendere la professione, ma perché si rendono conto che la musica è una compagna ideale di vita, poi alcuni proseguiranno in questa esperienza sino a divenire professionisti. Allora, se diffondi l’educazione musicale a livello amatoriale, come hanno fatto in Gran Bretagna, ottieni il risultato di una civiltà musicale dove le orchestre non si contano ed è pur sempre un investimento sul lavoro. Sono posti di lavoro; le nostre orchestre, sono come le fabbriche, quindi deprimere questo mercato vuol dire deprimere posti di lavoro che i nostri giovani devono andare a cercarsi all’estero. Oggi per fortuna i ragazzi tra internet e low cost, pandemia a parte, sentono il mondo a casa loro, poi tornano. Non sono cervelli in fuga, sono cervelli in movimento ed è tutto un altro discorso. In Italia si deve capire che bisogna investire in educazione. Il punto focale su cui si giocherà il futuro, soprattutto post-virus, sarà la formazione delle future classi, non solo dirigenti; la questione della formazione è fondamentale».

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Il far musica è quindi anche un’opportunità di lavoro, ma in certi casi è anche una necessità dagli sviluppi imprevedibili. Quali possibilità può offrire il far parte di un’orchestra, ad esempio nei paesi emergenti o dove si vivono delle emergenze?

«Prendo un esempio lontano, dal Venezuela. L’orchestra Simón Bolivar formata da giovani nacque con lo scopo di strappare dalla strada bambini e giovani, per dar loro una possibilità e vi hanno collaborato i più celebri direttori d’orchestra. La mia percezione di quanto avvenuto con questa iniziativa t’inchioda, non solo perché conosci la storia e ti commuovi, ma perché tu vedi da come suonano, dai loro visi, da come s’impegnano, che il semplice fatto di suonare è per loro una questione vitale. Quello che voglio dire è che un’emergenza, una necessità, in questo caso di formare un’orchestra di giovani altrimenti senza uno scopo e per loro di fare musica, è stata per quei ragazzi una ragione di vita o di morte e il risultato strabiliante. Per alcuni di loro l’alternativa era di finire in un bordello, in galera, in una gang e quella scelta, a molti, ha salvato la vita. Quindi, da un’emergenza, può scaturire una grande opportunità. Vorrei ricordare che il primo direttore a portare l’orchestra Simón Bolivar a esibirsi sul nostro palco è stato Giuseppe Sinopoli».

C’è a Roma una collaborazione tra l’Accademia Nazionale di Santa Cecilia e il Teatro dell’Opera?

«Un paio di anni fa pensammo con il Sovrintendente del Teatro dell’Opera Carlo Fuortes di proporre una tessera che avesse un forte valore che potremo definire simbolico, una specie di abbonamento incrociato che comprendeva due opere e tre concerti. Due opere da loro e tre concerti da noi, con lo stesso biglietto che costava cento euro per gli under-trenta. Si è pensato di ripetere questa esperienza, inoltre con l’Opera abbiamo realizzato una coproduzione e ancora, ci scambiamo la pubblicità. Cioè pensiamo che il pubblico aumenti se ci si rende conto di un’offerta varia, articolata e di qualità».

C’è un’altra iniziativa, tra le tante, che durante la pandemia ha assunto uno speciale significato, quello dell’assistenza ai malati attraverso la musica.

«Tutte le occasioni per fare musica, per piantare questo seme, tutte, nessuna esclusa, devono essere perseguite. Intanto sono tutte nobili, la piccola scuola, i bambini! L’iniziativa del porta a porta ha assunto un significato emozionante. Ci sono professionisti che hanno offerto un servizio del tutto rilevante, quali i Donatori di musica: musicisti, medici, volontari che organizzano concerti negli ospedali. Il pianista Roberto Proseda offre dei concerti che si chiamano solo per te, raggiungendo un malato che accetta tramite il suo medico di essere contatto al telefono in ospedale, una persona tra quelle sofferenti a cui è offerto un concerto al telefono, solo per lui. Questa cosa qua riguarda due persone, l’esecutore e l’uditore, ma a mio avviso ha una valenza universale. Mi ha commosso questa storia. Io ho l’impressione che non si faccia mai abbastanza per aprire questa specie di vaso di Pandora al contrario, questa caverna di Ali Babà, di scrigno del tesoro».

Concludiamo parlando di esecuzioni operistiche. Nel cartellone dell’Accademia di Santa Cecilia sono presenti titoli del repertorio operistico, ricordiamo ad esempio “Don Giovanni”, “Un ballo in maschera”, “Aida”, recentemente “West Side Story”, diretti da Sir AntonioPappano; “Der fliegende Holländer” diretto da Mikko Franck. Nella sala che porta il nome di Santa Cecilia non vi è un palcoscenico attrezzato per esecuzioni in forma scenica e i titoli sono rappresentati con un artificio che potremmo definire semi-scenico. I movimenti in una rappresentazione sono essenziali, eppure con questa formula, quell’azione non manca e la trama si dipana senza che venga a mancare un rapporto dinamico che è pur essenziale per il teatro in musica. Queste iniziative avranno un seguito?

«Certo che vogliamo andare avanti, anche perché molte di queste produzioni diventano discografiche e ne rimarrà testimonianza, come il recente Otello di Verdi con protagonista Jonas Kaufmann e direttore Pappano…la nostra Orchestra e il nostro Coro…sublime! Insomma, mi piace tanto! A parte questo titolo, anche Aida e molto altro repertorio, perché c’è musica bellissima che merita di essere ascoltata in modo diverso. Io, per esempio, fatico a sentire l’orchestra in buca. Dipende dai teatri, personalmente da compositore penso che l’orchestra sia un personaggio dell’opera e che avvolte questa personalità sia nascosta, che sia occultata.  Là sotto, mentre avvolte la regia prevale, anche se amo moltissimo alcuni allestimenti. La regia quale argomento di polemica non m’interessa per nulla! Ancora, qualche volta si pensa che le voci debbano prevalere in modo esclusivo. Io credo, invece, che ci debba essere un rapporto dialettico. Compositori quali Mozart o come Puccini mettono le voci in dialogo con gli strumenti in orchestra, che sono altre voci. Non tutti studiano quelle che Schönberg chiama in Verdi le figure di accompagnamento, cioè quelle figure che sembrano semplicemente una farcitura o una decorazione di una parte cantata, ma che in realtà sono uno specchio attivo, dinamico, occulto, però anche subliminale del pensiero e del testo. Quindi, sono moltiplicatori di significato. Queste cose, con interpreti intelligenti e sensibili, in un’esecuzione in forma di concerto, si riesce a metterle in risalto. Quindi la nostra proposta non è un’opera senza scene e regia, ma è un’opera vista con un commento diverso, un tipo di regia diversa che è prevalentemente fonica, sonora; soprattutto in certi testi che contengono una tale carica drammaturgica per cui basta un gesto, perché quel gesto, quella mano alzata è il risultato di quel tipo di dialettica che ti porta ad alzare la mano. Quindi, tu non vedi una mano che si alza, perché se tu osservi me che alzo la mano, questo gesto non è teatro e men che meno opera, ma se quella mano è dentro un contesto sonoro che porta a quel movimento, ecco che improvvisamente si realizza l’idea di teatro musicale, che la musica esprime e contiene. Certo, ci vogliono partiture che siano adatte a questa forma di lettura e interpreti che siano capaci di renderla, ma io la vedo esattamente così».

Vincenzo Grisostomi Travaglini

 

(21 maggio 2020)

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“L’olandese volante” di Richard Wagner all’Academia di Santa Cecilia : “Vortice tumultuoso di passioni”

 

 

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“Vortice tumultuoso di passioni”, articolo del Maestro Vincenzo Grisostomi Travaglini nella rivista “L’opera international magazine”, Aprile 2018

 

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Opera di Roma: il parere del Maestro Vincenzo Grisostomi Travaglini

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“Ribalta spenta, sipario abbassato, ma al Teatro dell’Opera di Roma la farsa continua ed è tragedia. In sintesi, pur riconoscendo che Orchestra e Coro del Teatro dell’Opera di Roma negli anni avevano accumulato tutta una serie di agevolazioni contrattuali oggi insostenibili, quali la turnazione (Orchestra), oggi non più giustificabili, che i sindacati dell’Opera hanno agito (spesso) in modo sconsiderato, sono convinto che tutto quello che è avvenuto è stato usato non per colpa di maestranze, masse artistiche e tecniche, ma da una dirigenza da troppi anni inadeguata. Le Fondazioni sono da riformare, signor Ministro, tutti noi ne siamo convinti, ma non con atti sconsiderati e plateali a cui sono seguite dichiarazioni, ahimè supportate da organi d’informazione a dir poco in cattiva fede e disinformati (incompetenti). Taciamo sugli “starnazzamenti” televisivi in formato “massaia tronista”, con tutto il rispetto per vere massaie. Ad esempio sull’indennità di Caracalla, giustificata per gli orchestrali e per il degrado degli strumenti (con l’umidità gli “archi” -violini, viole, violoncelli e contrabbassi- possono subire danni e le spese sono a carico del singolo professore che dello strumento è proprietario e anche per le altre sezioni), ma ingiustificata ad esempio per gli amministrativi, in soprannumero che certo non ne avrebbero diritto e a cui da decenni viene riconosciuta. Sono problematiche in piedi, lo ripeto, da decenni e decenni e solo oggi e quindi strumentalmente ce se ne accorge e le si denuncia con pubblico scandalo. Anche riguardo l’ osannato maestro Muti, mi si lasci dissentire sulle tante lacrime versate, non credo che sia stata la sua fuga a provocare la caduta della mannaia su Orchestra e Coro, ma al contrario che il Maestro, come ho già avuto modo di notare, con la propria “ritirata” abbia fornito ai politici un alibi mediatico per quanto era stato già deciso di fare. Muti scrive la sua lettera d’addio su carta intestata della Chicago Symphony Orchestra, una scelta di dubbio gusto e non casuale, ma bensi un messaggio di chi, dall’alto del podio di una delle più prestigiose orchestre sinfoniche del mondo, afferma la sua superiorità! Licenziamenti? Sicuramente necessari, ma non quelli di Orchestra e Coro, ma responsabilità del sovraintendente e della dirigenza tutta, signor Ministro e responsabilità del Sindaco di Roma che del Consiglio d’amministrazione è presidente, le cui dichiarazioni senza senso che mi rifiuto anche di commentare, proclamate dall’alto del Campidoglio, se non assurde e tragiche, sarebbero comiche.”

Riccardo Muti lascia l’Opera di Roma: il parere del Maestro Vincenzo Grisostomi Travaglini

Riccardo Muti

“Il piatto d’avanzi raffermi dell’Opera di Roma non sazia più gli appetiti della famiglia Muti. L’augurio è che nella prossima stagione potremo, forse, ascoltare le “Nozze di Figaro” di Mozart in un’orchestrazione meno “imbalsamata” e legata ad ideologismi pseudo critici revisionisti che poco si addicono al genio di Mozart. Resta l’amarezza che difficilmente il Teatro dell’Opera, pur un tempo prestigioso, potrà vantare in una direzione artistica/musicale all’ altezza di quella che dovrebbe esigere per tradizione e cultura. “Roma Capitale”, più di nome che di fatto dove l’Amministrazione capitolina sembra solo volersi interessare a rendere impossibile la vita dei cittadini, con aumenti di tariffe scriteriati a fronte di servizi sempre più scadenti. Per fortuna la Fondazione dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia, veramente “autonoma” nella gestione dei concerti, colma il vuoto di musica di Roma, ma il nostro augurio è che la sala del Costanzi, si spera scongiurato lo spettro della chiusura, torni a svolgere quel ruolo che gli spetterebbe. Roma capitale? Mi trovo spesso a farmi questa domanda senza trovare risposta!!!”

Vincenzo Grisostomi Travaglini, Roma, il 21 settembre 2014