“Tra successi e flop, si riparte” articolo del Maestro Vincenzo Grisostomi Travaglini nella rivista mensile “L’Opera International Magazine”, Settembre 2020Roma: trionfa Pappano all’Accademia di Santa Cecilia. Delude Rigoletto, firmato da Damiano Michieletto. Successo per Barbiere e Vedova. Anna Netrebko e Yusif Eyvazov rendono omaggio alla Capitale.

Potrebbe sembrare un semplice slogan: Roma riparte, eppure la semplice locuzione è ricca di significati. Sono passati solo pochi mesi, un tempo che ci è sembrato interminabile, da quando come sotto un incantesimo malefico i nostri teatri, sale da concerto e ogni luogo, uno dopo l’altro, cadevano sconfitti dal dilagare dell’epidemia, costretti a chiudere annullando ogni attività. Lunghi, ottenebranti silenzi, interrotti da iniziative sporadiche, da eventi a porte chiuse, che pur nella forza intrinseca della proposta, ne rendevano spettrale il risultato. Un artista qualsivoglia: solista, professore d’orchestra, cantante o altra disciplina … lì sul palco! Da solo, avanti a una spettrale platea vuota, a palchi deserti che colmavano d’angoscia. Eventi ripresi da una telecamera che ne diffondeva il messaggio, ma che mai potrà sostituire la presenza di un pubblico, di un respiro! La notizia, dunque, è principalmente questa, da Roma, dall’Italia tutta … Ci siamo ritrovati ad assistere a un’opera, in forma scenica o semi-scenica, a concerti sinfonici e strumentali. Il sentimento è indescrivibile! Il direttore, prima di salire sul podio, non stringe più la mano al primo violino, basta un cenno; in palcoscenico come in platea ci sono nuove regole da rispettare, ma anche questo cerimoniale, di prevenzione sanitaria, entra a far parte di una ritualità mutevole perché vitale e l’importante è tornare a parteciparvi! Dopo di ciò, il dovere della critica, l’analisi delle proposte e della loro validità, s’impone nel rituale del mondo dello spettacolo e del sempre costruttivo scambio di opinioni. Anche questo fa parte del “gioco” e la notizia, come ripete Tosca: tornalo a dire, è che quel silenzio assordante è stato colmato di musica, di suoni, di canto, nel pieno rispetto delle norme anti-Covid, garantendo il distanziamento interpersonale e la massima sicurezza di spettatori, musicisti e tecnici.

A Roma, l’Amministrazione capitolina è stata particolarmente sensibile al rilancio delle attività in campo operistico e sinfonico con un risultato eccellente e una risposta di pubblico, sia per la stagione estiva del Teatro dell’Opera che dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia, che ha distinto il tutto esaurito per ogni evento. I cartelloni presentati non si sono piegati alle ristrettezze di una crisi incombente, bensì a dimostrazione della creatività tutta italica, sia pure nel rispetto delle norme vigenti, hanno offerto il meglio in ogni situazione. Troppo spesso nella politica, soprattutto in questo particolare momento, si è parlato dell’importanza della cultura musicale per l’immagine del Paese, perché l’Italia è certamente simbolo nel mondo dell’arte, ma si era fatto ben poco, almeno questa l’impressione. La notizia recente è l’impegno di Dario Franceschini, Ministro per i Beni e le Attività Culturali, per un aiuto tangibile ai lavoratori dello spettacolo, che ci auguriamo possa svilupparsi con l’erogazione di fondi adeguati in un rilancio qualitativo ed anche, preso atto della richiesta, quantitativo, delle proposte. Prima Fondazione romana ad accogliere il pubblico è stata l’Accademia Nazionale di Santa Cecilia, con un ricco programma, proposto nell’area all’aperto del Parco della Musica, la cavea, rinominata emotivamente a Ennio Morricone, in memoria della sua recente scomparsa. In programma l’integrale delle Sinfonie di Beethoven nel duecentocinquantenario della nascita, con sul podio Antonio Pappano, totalmente disponibile per l’Orchestra di cui è Direttore musicale, a causa della sospensione dell’attività del Covent Garden, dove Pappano sarebbe stato impegnato per tutto il mese di luglio. Un successo di pubblico ragguardevole e una particolare attenzione all’esecuzione della Quinta, alla presenza del Presidente Sergio Mattarella. Stessa Sinfonia riproposta in tournée nel capoluogo ligure per l’inaugurazione del viadotto Genova San Giorgio, progettato da Renzo Piano, il medesimo architetto del Parco della Musica di Roma. Sempre nella cavea, per il gran finale della stagione, l’esecuzione della Nona con il coinvolgimento del Coro, maestro Piero Monti, di recente nomina. Orchestra e Coro di cui si è apprezzato il particolare impegno e attenzione con una resa eccellente, nonostante le condizioni acustiche non ottimali.

Problemi di acustica anche per l’immensa struttura al Circo Massimo, realizzata in tempi da primato dalle maestranze della Fondazione operistica capitolina. Anche in questo caso, prima che ogni altra considerazione, s’impone il coinvolgimento delle masse artistiche e tecniche del Teatro. Un programma articolato e ricco per questa inaspettata e tempestiva iniziativa; lodevole la puntualità di un’organizzazione ineccepibile. Il programma ha fatto parte del nuovo palinsesto di Roma Capitale Romarama. Nel corso degli eventi, si apre ora il secondo capitolo, quello dedicato alle proposte del cartellone della stagione estiva dell’Opera, che si è svolta eccezionalmente al Circo Massimo e non, come da tradizione, ospitata tra gl’imponenti ruderi delle Terme di Caracalla, luogo che non offriva, in tempi di pandemia, quelle condizioni indispensabili per accogliere spettacoli, soprattutto Rigoletto voluto in forma scenica quale titolo inaugurale; il 16 luglio alla presenza del Capo dello Stato, in diretta RAI. A Roma, la magia è vivere pur sempre al centro della storia plurimillenaria, a Caracalla oppure al Circo Massimo, tra i colli del Celio, il Palatino, l’Aventino e nessun’altra città al mondo può offrire una tale opportunità. Il palcoscenico allestito per l’occasione ha una estensione di millecinquecento metri quadri, tale da permettere la più temeraria messa in scena; la platea, con gli adeguati distanziamenti, è stata concessa per la capienza di millequattrocento spettatori, con speciale ordinanza della Regione Lazio, coadiuvata da una squadra di esperti. Gli ingredienti per la miglior riuscita della stagione ci sono tutti, dall’Orchestra, particolarmente motivata, al Coro maschile per Rigoletto e Il barbiere di Siviglia, senza esclusione di quello femminile impegnato in uno speciale concerto da loro eseguito e frizzanti Grisette ne La vedova allegra, maestro del coro Roberto Gabbiani. L’attenzione, per l’inaugurazione, si è voluta accentrare sulla parte scenica, comprensibilmente per l’eccezionale vastità del luogo e per le grandi possibilità offerte dall’apporto tecnico, con il palcoscenico delimitato nel fondo da un gigantesco schermo su cui si alternavano di volta in volta, con diversi concetti progettuali, proiezioni in una definizione d’ottima qualità. Il grande schermo resterà quale elemento essenziale della struttura per tutta la stagione, per le dimensioni, la sua funzione di scenografia e anche quale barriera acustica per delimitare lo spazio teatrale, nella vastità dell’antico Circo Massimo di 620 metri di lunghezza. Eppure, è stata proprio la regia di Rigoletto a lasciare perplessi, avanzata quale geniale invenzione per uno spettacolo degno di Hollywood e forse, nelle intenzioni e nella realizzazione di questa nuova produzione, ci si potrebbe realmente riferire a un kolossal, per sviluppo e mezzi impiegati, ma al contrario attenendosi al risultato, converrebbe definirlo una confusa rilettura scenica, appesantita dalla sovrapposizione di concetti per lo più avulsi dal contesto e dal più rilevante messaggio letterario-musicale, nonché sociale, del capolavoro verdiano. Certamente, delle così dette riletture di Rigoletto, tratto da Le roi s’amuse di Victor Hugo (con libretto di Francesco Maria Piave), negli ultimi decenni ne abbiamo viste in abbondanza. L’andamento visivo di questa produzione potrebbe ricordare la trasgressività a oltranza del regista spagnolo Calixto Bieito e più propriamente per Rigoletto la produzione allo Sferisterio di Macerata con firma di Federico Grazzini, fra i tendoni di un luna park: istintivo e brutale.

Nell’impostazione di Michieletto la musica, testo e intenzioni del compositore, sono per lo più superflui. L’attenzione del regista si accentra su ulteriore disagio dei personaggi, in un ambiente di malavitosi e emarginati seconda metà del Novecento, più pertinente a una periferia alla West Side Story, ma ben lontana da rendere quell’implicita eleganza. Ampio, smisurato, alla fin fine incontrollato, l’uso di mezzi tecnologici e proiezioni che s’impongono sul grande schermo, sino a distogliere l’attenzione da un palcoscenico affollato da mimi (pur con il dovuto distanziamento), talmente disorganico da confondere lo spettatore, nel chiedersi quale sia il messaggio del regista oltre-opera, della funzione in questa ideazione della musica e del canto. L’uso di mezzi cinematografici è stato già largamente sperimentato sui palcoscenici e si potrebbero citare, per restare a Verdi e a Victor Hugo, il Rigoletto andato in scena al Massimo di Palermo nel 2018, firmato dall’attore e regista di origine statunitense John Turturro e proseguendo con i raffronti, che potrebbero essere numerosi, al meno recente Rigoletto espressionista della Semper Oper di Dresda, con la regia di Nikolaus Lehnhoff. Questo, a dimostrazione che un messaggio attualizzato può essere più o meno apprezzato, ma dovrebbe pur sempre essere di valida effettività. Della messa in scena di Michieletto resta nella memoria solo la presunzione di prolisse dichiarazioni d’intenzione, che non vale la pena riportare, perché effettivo è solo quello che lo spettatore recepisce, ovvero: un palcoscenico immenso, invidiabile per qualsiasi regista, caratterizzato dall’assembramento di vetture tipo sfascia carrozze, di marca automobilistica andante nel primo atto, lussuose nel secondo per gli appartamenti del Duca/gangster e da parcheggio, con roulotte al posto della casupola diroccata di Sparafucile e della sorella Maddalena, con Rigoletto che conduce una Mercedes e Gilda seduta nei sedili posteriori per distanziamento Covid; tante armi da fuoco per minacce, omicidi, esecuzioni. Poi, i filmati, alcuni sembrerebbero in diretta, con riprese da operatori onnipresenti in palcoscenico, finalizzate a evidenziare le espressioni dei personaggi, altrimenti confusi nel marasma dello spazio, immagini inframmezzate con abile montaggio a impressioni di carattere patologico, di una moglie e madre perduta nella mediocrità di un’estasi di ricordi; di falsa identità, come per Gilda presentata ingannevolmente innocente, che prima dell’incontro con il padre si sveste dagli abiti di donna di strada, che nel finale muore incamminandosi nelle acque marittime (quante volte lo abbiamo visto!) e tanto, troppo d’altro. Con tali mezzi nel terzo atto si sarebbe immaginato un turbinio di eventi naturali, dove d’eccellenza romantica, la natura fa eco al sentimento dell’umano tormento, ma niente! Forse, troppo banale, ma in realtà tutto lo spettacolo è risultato inutilmente convenzionale, semmai alla ricerca di un protagonismo registico smisurato. Per la parte musicale, sul podio il Direttore Musicale Daniele Gatti e per lui nessun altro paragone, se non con se stesso due anni or sono, sempre in Rigoletto, nella sala del Costanzi. L’orchestra nonostante gli obblighi di posizionamento e un’amplificazione tutt’altro che impeccabile, ha dato ottima prova seguendo con compatezza tempi singolari, insolitamente pacati nella prima parte, poi accelerati sino a schiacciare respiri ed espressioni. Tutt’altro risultato, pur sempre di alto pregio, che l’interpretazione che diede lo stesso Gatti, lucida e coerente, della precedente lettura all’Opera; certamente, in un teatro, al “chiuso”, con maggiore concentrazione. Al Circo Massimo la tanto osannata edizione critica di Rigoletto della University of Chicago a cui il direttore si è riferito con rigore, punto di partenza essenziale per una lettura più consona del capolavoro verdiano, è sembrata limitarne la personalità, quasi a costrizione di un respiro che, quanto mai in Verdi, deve imporsi quale teatrale. La citata amplificazione non ha giovato neanche ai solisti, al pur eccellente Roberto Frontali la cui resa del personaggio è apparsa meno convincente, in una linea di canto di cui si stentava a definirne le qualità; apprezzata la Gilda di Rosa Feola, dal canto espressivo, almeno nelle intenzioni, purtroppo vanificate dal piattume dovuto a microfoni e altoparlanti, per cui la voce poteva giungere da qualsiasi parte e luogo senza farne la differenza, apparentemente monotona, come a esempio nel delicato, sognante e rivelatore: Gualtier MaldèCaro nome, seduta sulla grande giostra posizionata sulla destra del palcoscenico che girando in tondo, faceva perdere la visuale dell’interprete, lasciando intatta la fonte sonora che risultava artificiale. Gilda, durante l’esecuzione della celebre Aria, spariva, nel ruotare del marchingegno e si ritrovava soltanto alzando lo sguardo sullo schermo in un’immagine, per scelta o per difetto, spesso, anzi sempre, fastidiosamente fuori sincrono. Tra i solisti il giovane tenore Iván Ayón Rivas, sempre partecipe, compenetrato e quanto mai convinto del ruolo assegnato, ma per estensione e vocalità andrebbe ascoltato in diversa situazione. Nell’insieme la compagnia è di ottimo livello, peccato che qualsivoglia personalità sia andata perduta nel calderone dell’indefinito, così come per l’efficace Sparafucile di Riccardo Zanellato e la seducente Maddalena di Martina Belli. Giovanna è Irida Dragoti diplomata al progetto Fabbrica; Il conte di Monterone il poco autorevole Gabriele Sagona. Completano: Marullo di Alessio Verna; Borsa è Pietro Picone; Il conte di Ceprano: Matteo Ferrara; La Contessa: Angela Nicoli; il Paggio: Marika Spadafino; l’Usciere: Leo Paul Chiarot. Nutrita la squadra registica, con scenografo Paolo Fantin, costumista Carla Teti. Il coro è posto immobile ai lati su pedane, probabilmente su indicazioni sanitarie, ma la scena è egualmente popolata in un andirivieni di mimi con movimenti coreografici di Chiara Vecchi; luci o meglio penombre di Alessandro Carletti; regia camere live con immagini protagoniste di Filippo Rossi. Una nuova produzione del Teatro dell’Opera di Roma in collaborazione con Indigo Film. Intervalli brevi, con richiesta al pubblico di restare ai propri posti per evitare assembramenti e nelle pause, come per tutta la stagione, è proiettato un filmato molto ben realizzato di una Roma deserta, vista dall’alto nell’insieme e nei particolari. Senza vita, probabilmente con un girato nel periodo della pandemia, quando i tesori urbanistici, architettonici della Capitale, erano negati e solitari, quanto incantevoli; un cortometraggio realizzato con professionalità e alta definizione delle immagini.

Da qui, nel proseguo della stagione, il contrasto più evidente, ovvero quello dei due titoli a seguire, annunciati in concerto e realizzati in una piacevolissima e godibile forma semi-scenica. Il Barbiere rossiniano e La vedova allegra, erano previsti per la stagione di Caracalla, mantenuti dalla Direzione dell’Opera di Roma al Circo Massimo, sia pure senza scene e costumi. S’inizia con Il barbiere di Siviglia in edizione pressoché integrale (qualche eccezione, più che giustificata per Berta e Ambrogio). Sul podio Stefano Montanari che con padronanza dirige un’orchestra di rara duttilità, impareggiabile dal podio, suonando su una tastiera camuffata da clavicembalo, dove si diletta con pertinenza e cultura su diverse sonorità, passando dagli accenti del clavicembalo a quelli del fortepiano e avvalendosi di qualsiasi altra risorsa, intervenendo nei brani orchestrali e imperante nei recitativi, solo all’apparenza creativamente in libertà a sostegno degli ottimi solisti. La lettura di Montanari si è rivelata dinamica, stilisticamente appropriata e pur senza artifici, disponibile per il miglior rendimento dei cantanti, per restituirne, di ognuno, le migliori qualità. Una compagnia d’eccellenza tutta italiana, con protagonista del titolo il baritono Davide Luciano, che avrebbe dovuto essere a Salisburgo, se il Festival quest’anno non si fosse svolto in forma ridotta, che ha donato un Figaro esuberante, motivato nella gioia dell’espressione e nell’incanto della voce, così come la Rosina di Chiara Amarù di carattere fermo e determinato, d’impostazione solida e colore affascinante di vero mezzo-soprano rossiniano; insieme non hanno mancato occasione per coinvolgersi in tutt’uno con l’orchestrazione, se vogliamo in un risultato originale, in quanto alla ricerca di sonorità non sempre evidenti; esemplare il duetto Dunque io son… ! Una lettura attenta per il direttore e gl’interpreti tutti, minuziosa e soprattutto vivace, per un Rossini che si potrebbe definire assimilato da una propria sensibilità d’approccio musicale. Montanari rispetta la partitura in ogni sua parte, se non autorizzato da quelle digressioni specificamente legate alla generosa inventiva del pesarese, per quella vitalità musicale per cui l’opera deve vivere il tempo in cui è eseguita, nel massimo rispetto di quanto ci è tramandato dallo scritto, dalla genesi, dagli sviluppi compositivi, così sempre attuale nell’esecuzione e mai oggetto museale. Questo andamento si è avvertito sin dalla trascinante Sinfonia, che a tratti sembrava riportare ad accenti mozartiani, per poi esplodere nella piena, dialogante eloquenza rossiniana. Il pubblico ha potuto godere di ogni momento di un titolo che vide la luce a Roma nel 1816, nel non lontano Teatro Argentina. Tutta la compagnia è appropriata e ognuno dei solisti si muove con pertinenza nel vasto proscenio, risolvendo con intelligenza teatrale ogni situazione, nella dinamica vocale congiunta al movimento, superando con ingegno i limiti precauzionali. Il Conte d’Almaviva di Giorgio Misseri è apparso un poco in impaccio nella sortita di Ecco ridente in cielo, poi in crescendo, padrone del ruolo sino all’esecuzione, impeccabile e non compiaciuta di virtuosismi, della così detta terza aria: Cessa di più resistere. Una citazione particolare per il basso-baritono o basso comico (senza confusione nella terminologia) Marco Filippo Romano, a dimostrazione che Don Bartolo può essere divertente, senza mai uscire dallo scritto e dal buon gusto, ottimo nel sillabato. Ancora, il basso Nicola Ulivieri un eccellente Don Basilio; Francesca Benitez ancor giovane e meno esperta della vita di privazione di Berta, per restare con Beaumarchais, con radici nella Marcellina di Mozart (l’accostamento è di fantasia) e per terminare Fiorello: Alessandro Della Morte del progetto Fabbrica, non nella forma migliore, tra il basso e il baritono o l’infreddato, peccato per il pur breve, ma piacevole recitativo posto tra la prima e la seconda parte dell’atto primo, raramente eseguito. Interessante il progetto visivo di Gianluigi Toccafondo, semplice quanto aggraziato, con proiezioni sullo schermo delle immagini a didascalia con i titoli dei principali brani, riportati su un fondo acquerellato, caratterizzante della grafica del Teatro dell’Opera, con cambi di tonalità discreti, sempre appropriati all’armonia dell’insieme. La serata è stata dedicata agli operatori sanitari, medici e infermieri, in segno di riconoscenza per il loro prezioso operato nella lotta al Codid-19. A seguire Le quattro stagioni, musica di Vivaldi, con il Corpo di ballo del Teatro dell’Opera, nuova creazione del coreografo e regista Giuliano Peparini. Quindi La vedova allegra in lingua originale (Die lustige Witwe), anche in questo caso annunciata in forma di concerto, ma realizzata in forma semi-scenica. Direttore sempre Stefano Montanari che con Franz Lehár si trova fuori dal proprio repertorio, almeno di quello più frequentato, essendo di cultura barocca e classica, soprattutto Rossini. Qui mancava di uno degli strumenti essenziali, come d’abitudine del maestro, ovvero la tastiera sulla quale Montanari, nel suo abbigliamento originale, dopo aver riposto la bacchetta a mo’ di freccia nella faretra, ovvero nel retro della camicia, fa scivolare le dita con la capacità d’immersione totale, trasbordando musica. Egualmente, l’orchestra, come per il Barbiere posizionata sul palcoscenico con alle spalle il coro, ha recepito il segnale di simulata spontaneità dello sgorgare del suono, ovvero di attento controllo e rigore, senza complesso di limitazioni oppressive, approccio fondamentale in questo lavoro che più che operetta, si potrebbe definire opera austro-danubiana, non per nulla presente nel repertorio delle maggiori Fondazioni liriche. L’Introduzione è spumeggiante, come si addice alla cultura viennese, ma subito dopo è penalizzata dall’intervento del barone Mirko Zeta di Andrea Concetti, ambasciatore del Pontevedro, che pur affermato artista, si presenta con in mano lo spartito, facendo evaporare sul nascere la spontaneità del racconto, successivamente impeccabile in ogni suo intervento; peccato veniale in paragone all’indifferente partecipazione del soprano Hasmik Torosyan quale Valencienne, incollata allo spartito per canto e dialoghi, dando la colpevole impressione di non essere padrona della parte, sicuramente privandola di ogni comunicazione, se non nel Can-can del terzo atto, vivacizzato da irrefrenabili, simpatiche grisettes. Non avendo una Valencienne da corteggiare e desiderare il tenore Juan Francisco Gatell in tutta la prima parte, nei duetti, appare penalizzato, ma il suo Camille de Rossillon prende quota, sino a primeggiare nella romanza di Come di rose un cespo, eseguita con elegante, comunicativa poeticità. Entrano in scena i due mattatori e lo spettacolo si scatena, perché Nadja Mchantaf e Markus Werba sono Hanna Glawari e il conte Danilo Danilowitsch per eccellenza. Cosa dire, impeccabili nel canto quanto nell’espressione, partecipi nella recitazione, non si risparmiano in nulla. Nella Romanza della Vilja la ricca e corteggiata vedova appare in un abito verde smeraldo, forse per riecheggiare le tinte lacustri della leggenda e si atteggia, danza, si muove con disinvoltura, si raccoglie dando a ogni passaggio il giusto colore. Non da meno il conte Danilo, spavaldo: Vo’ da Maxim allor, indisponente, innamorato, protagonista! Così delicati nello sfiorarsi mimando il valzer in: Tace il labbro.

Bene tutta la numerosa la compagnia, comprensibilmente sacrificati alcuni dialoghi, che sarebbero risultati prolissi in lingua tedesca. Nei diversi ruoli, per il visconte Cascada: Simon Schnorr; Raoul de St-Brioche: Marcello Nardis; Bogdanowitsch: Roberto Accurso; Kromow: Roberto Maietta; Pritschitsch: Alessio Verna. Dal progetto Fabbrica: Marianna Mappa (Sylviane), Angela Schisano (Olga) e infine diplomata al progetto Fabbrica: Sara Rocchi (Praskowia). Un commento per lo schermo, qui utilizzato con proiezioni da Giulia Randazzo e Giulia Bellè, entrambi del progetto Fabbrica del Teatro dell’Opera, per lo più realizzate con assemblaggi da pellicole appartenenti allo sfarzo hollywoodiano il più spettacolare e non mancano Charlie Chaplin e Fred Astaire; montaggi con immagini d’epoca, ricostruzioni d’ambienti parigini, sempre gradevoli e ben costruiti, filmati intervallati di quando in quando da didascalie nello stile del cinema muto, volutamente ingenue, tanto da far sorridere il numeroso pubblico.

A chiudere la stagione estiva un Omaggio a Roma del soprano Anna Netrebko e del tenore Yusif Eyvazov che si conobbero proprio a Roma nel 2014 al Teatro dell’Opera, in una produzione di Manon Lescaut diretta da Riccardo Muti. Sul podio Jader Bignamini, più conosciuto all’estero, a cui il merito di aver dato alla serata il suo tocco di stile, accompagnando i celebri solisti con attenzione, non assecondandoli, ma armonizzandosi con attenzione! Efficace la scelta dei brani per sola orchestra, la Sinfonia dal Nabucco di Verdi, l’Ouverture da Ruslan e Ljudmila di Glinka e di Puccini, dalle giovanili Villi, l’Intermezzo: La Tregenda. Sempre di Puccini l’esecuzione dell’Intermezzo dalla Manon Lescaut, quanto mai introiettato e vibrante, con un avvio dove il tempo sembra infinito, velocizzato nella conclusione nell’affanno di un tragico destino. Lo schermo alle spalle dei protagonisti e dell’orchestra, resta incombente e non potrebbe essere altrimenti, qui utilizzato con riprese in diretta per evidenziare il podio e il proscenio, con diverse inquadrature del direttore Jader Bignamini, di cui si apprezzava il gesto pulito ed efficace; per i solisti ripresi dalla platea, dal fondo e dai lati, nella massima libertà di movimento, perché sempre protagonisti d’eccezione, in tutto  e per tutto. La Netrebko è oggi uno dei soprani con ragione più celebrati, anche se in produzioni recenti si sono avvertiti dei cedimenti, in un repertorio tra i più vasti, alla ricerca di appoggi e posizioni non sempre pertinenti. A Yusif Eyvazov, sicuramente, la vicinanza della Netrebko ha giovato nella padronanza della tecnica, anche se in alcune scelte si spinge al  limite consentito del repertorio. Qui a Roma, entrambi, hanno donato il meglio della propria arte; sono entrati a braccetto, affettuosamente, come si addice a marito e moglie e per loro non vi sono limitazioni e distanziamenti, si sono amati, baciati, sfuggiti, ritrovati. Un vero piacere per l’udito e per la vista. Nell’Omaggio a Roma, nel ricco programma, non poteva mancare Tosca: Floria e Cavaradossi da: Mario! Mario!Vissi d’arteE lucevan le stelle e nei bis, insieme per il gran finale la canzone: Chitarra romana, appassionante, come non l’avevamo mai sentita. Un regalo per questa inaspettata estate romana e un saluto affettuoso per un pubblico entusiasta.

Si guarda ora alla stagione d’autunno al Costanzi. Dopo il concerto di fine agosto con Orchestra, Coro e i cantanti del progetto Fabbrica e a inizio settembre Tutto Verdi dedicato alle pagine più popolari del compositore di Busseto con direttore Paolo Arrivabeni, è prevista in programma la ripresa del balletto Le quattro stagioni. Il primo ottobre la Petite messe solennelle di Rossini. Di particolare interesse dal 18 ottobre un nuovo allestimento di Zaide, Singspiel incompiuto di Wolfgang Amadeus Mozart, rappresentato postumo a Francoforte nel 1866, su testo di Johann Andreas Schachtner andato perduto, nella ricostruzione del libretto proposto nel 1981  da Italo Calvino per il  Festival Musica nel Chiostro di Batignano (Grosseto). Direttore Daniele Gatti; regia di Graham Vick. Dal 4 novembre, torna La Traviata di Verdi, nell’allestimento Sofia Coppola/Valentino, con la regia riadattata alle norme anti-Covid; direttore Paolo Arrivabeni. Per il pubblico, si prevede una capienza nella sala del Costanzi tra i 500 e gli 800 spettatori.

Vincenzo Grisostomi Travaglini

Rigoletto – 18 luglio 2020

Il barbiere di Siviglia – 22 luglio 2020

La vedova allegra – 7 agosto 2020 Omaggio a Roma – 9 agosto 2020

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