“Scherzo lirico”, un articolo del Maestro Vincenzo Grisostomi Travaglini in “L’Opera International Magazine”, Marzo 2021

Uno scherzo lirico, assai vivace, briosamente soprannominato Il pasteggiar cantando, che vede alla ribalta ricette ideate o dedicate ai più celebri personaggi del melodramma, in prevalenza italiano e francese.

Nell’Ottocento grandi cuochi vollero cimentarsi in piatti che prendessero il nome dei beniamini del pubblico del melodramma, dal celebre compositore parigino Giacomo Meyerbeer, a Bizet e Berlioz. Il più noto protagonista, però, resta l’inappagabile Gioachino Rossini, raffinato gourmet e complice dei più noti chef della Parigi dell’epoca, da Marie-Antoine Carême detto il cuoco dei re e il re dei cuochi al celebrato Auguste Escoffier la cui cucina entusiasmò a tal punto Guglielmo II da fargli affermare: «Io sono l’imperatore di Germania, ma tu sei l’imperatore degli chef». Se Rossini è ben conosciuto nel mondo della gastronomia, meno consueto è l’imbattersi con altri buongustai, quali furono Giuseppe Verdi e Giacomo Puccini. Verdi prima d’intraprendere un viaggio inviava agli amici e ospiti ricette scritte di suo pugno, affinché al suo arrivo potesse deliziarsi dei suoi piatti preferiti. Puccini si ritrovava con i suoi amici nel Club La bohème dove nello statuto erano previsti cibi prelibati, soprattutto cacciagione e vini senza parsimonia. Vietato, sempre nello statuto de La bohème, esimersi dai piaceri della tavola.

Un passo indietro, agli albori del XVII secolo, a Firenze e l’occasione sono le storiche alleanze matrimoniali; una di queste furono i grandiosi festeggiamenti in occasione del matrimonio di Cristina di Lorena con il granduca di Toscana Ferdinando de’ Medici. Tra banchetti favolosi, siamo all’alba della nascita del melodramma, protagonista è la progenitrice della figura della primadonna Vittoria Archillei, interprete del primo degli Intermedi eseguito nel Regio Salon di Palazzo. Nel 1608 saranno ancora una volta i cantanti ad avere la scena nel banchetto di nozze di Cosimo II de’ Medici con Maria Maddalena arciduchessa d’Austria: Vittoria Archilei, Francesca e Settimia Caccini, Melchiorre Palantrotti, il meglio che all’epoca si potesse chiedere alla scena canora. In quel lontano 1608 nel Salone dei Cinquecento, a Palazzo Vecchio a Firenze, vennero servite sei portate ed è ben precisato nelle cronache dell’epoca “abbondanti”: pavoni, capponi, tortore, fagiani, galli, mandorle, pistacchi, pan di spagna, bietole, prugne e mele; in tavola predominava sempre e comunque il sapore agrodolce. Così che tra banchetti, con timballi, fagiani, pernici e tanto vino, nacque il melodramma. All’epoca quella musica venne definita: “musica celestiale per chi ama il cibo degli dei”, con un buon condimento, aggiungerei, di piacere profano.

La felice unione tra musica e cibo è, in realtà, ben antica. L’uso d’accompagnare i banchetti con musiche risale fin dai tempi degli Egizi, per essere ripreso da Greci, Etruschi e Romani. Metà Odissea è cantata a un pranzo; la petroniana Cena di Trimalcione è interamente a ritmo di musica, perfino la liturgia missale è esaltazione cantata di un pasto rituale. La tradizione, che perdurò nel corso del Medioevo, si rinvigorì a partire dal ‘400. Per i conviti solenni, a cominciare dai pranzi di nozze, la presenza di cantori e musici era d’obbligo. Nei banchetti ufficiali delle corti, al liuto ed all’arpa era assegnato: “il compito di deliziare con delicate danze strumentali, le orecchie degli illustri commensali“. Nei pranzi domenicali e nelle occasioni speciali, si aggiungevano a questi “i trombetti, i corni e i piffari“. Nella cucina barocca i ricchi amavano lo sfarzo anche attraverso l’uso di spezie, che arrivavano direttamente dall’Oriente. Per un lungo periodo perfino il riso fu considerato una spezia, prima che se ne scoprisse l’utilità in cucina, dal dolce al salato. In questa fase storica il cibo diventava spettacolo, i banchetti erano una vera e propria messa in scena di piatti elaboratissimi, tagliati e serviti seguendo determinati movimenti, sempre volti a ricercare lo stupore dei commensali. Michel-Richard Delalande pubblica nel 1703 Les Symphonies pour les Soupers du Roy, composte come sottofondo musicale ai pasti di Luigi XIV. Georg Philip Telemann chiamò le sue grandiose suites Tafelmusik (Musica da tavola), forse per farci capire che la musica deve non solo essere ascoltata, ma anche degustata come se fosse cibo prelibato. L’espressione Musica da tavola, più nota nella versione tedesca e in quella francese Musique de table, designa il variegato repertorio di brani espressamente composti per essere eseguiti durante il banchetto. Di musiche da tavola ne scrive ad esempio Giovanni Battista Lulli (Jean-Baptiste Lully). Anche Beethoven compose musica da tavola, l‘Ottetto per fiati op. 103 del 1792, scritto per allietare la mensa dell’Elettore di Bonn e in tempi più recenti Paul Hindemith e molti altri. Cibo e musica vanno a braccetto da sempre e presentano anche similitudini lessicali; un piatto si compone e Leonard Bernstein ha ideato il ciclo delle “quattro ricette” per voce e pianoforte, basato su un testo che si chiama La bonne cuisine. Non dimentichiamoci dei direttori d’orchestra che amavano cucinare, quali ad esempio Karajan e Erich Kleiber, quest’ultimo affermò ed è quanto mai attuale: «Ascoltare solo musica registrata e non andare ai concerti è come mangiare solo cibi in scatola. E invece fa bene mangiare cibi freschi».

Da Firenze a Venezia, nel fulgore della gloria della Serenissima, con Antonio Vivaldi che come ci riportano le poche cronache concernenti la vita privata del musicista, non poteva rinunciare al risotto in tutte le sue più fini declinazioni, come pure del pesce; riso usato in circa 220 piatti durante l’epoca barocca. Ispirandosi all’opera di Vivaldi e seguitando la scia dei profumi musicali, si è voluto scherzare molto vivacemente con “interpretazioni” venete del riso sulla più celebre composizione del Prete Rosso: Le quattro stagioni. Senza voler forzare il paragone, per l’Inverno si è volto scegliere la ricetta del riso e cavolfiore; certamente il risotto risi e bisi ben si sposerebbe con la Primavera, questa portata era d’obbligo il 25 aprile, giorno di San Marco patrono della città; per l’Estate risotto alle seppie; infine  il risotto ai finferli (gallinacci)  e prosecco per quanto riguarda le nebbie lagunari evocate nell’Autunno. Il riso, che tanto amava Vivaldi, era arrivato nella Repubblica di Venezia dai paesi arabi, per poi essere coltivato nel veronese.

Eccoci nelle Marche con tre grandi compositori, in ordine cronologico: Giovan Battista Pergolesi, Gaspare Spontini e ovviamente il gastronomo per eccellenza che in questo incontro la farà da protagonista, Gioachino Rossini. A Giovan Battista Pergolesi, nato a Jesi nel 1710, è legato un piatto all’epoca caratteristico della sua città natale la Coratella d’agnello con cipolla alla Giovan Battista Pergolesi, una ricetta d’uso comune dei cordai jesini, che vivevano a pochi passi dalla casa natale del celebre compositore. Nell’intermezzo buffo La serva padrona di Pergolesi la cioccolata è quasi il fulcro della vicenda, così in Mozart l’astuta Despina del Così fan tutte prepara una cioccolata che poi servirà alle sue dame in preda a un attacco di malinconia d’amore. Mozart, lo incontreremo nuovamente al momento del dolce, era particolarmente bramoso di chocolate e a lui sono state dedicate molte ricette che fanno del cacao l’ingrediente principale. Molti grandi musicisti ne erano ghiotti, da Rossini a Verdi. Tornando alla Marche, un gran goloso di chocolate era Gaspare Spontini la cui moglie, Celeste Erard, ha lasciato una ricetta, Crème au chocolat râpé (Crema alla cioccolata grattugiata), tramandataci in un manoscritto ancor oggi conservato a Jesi. Andiamo per ordine, non abbiamo che accennato a Gioachino Rossini e riconducibili alla musica da tavola sono le brevi composizioni per pianoforte del pesarese intitolate ad antipasti e dessert, composte a Parigi in epoca matura, «le sole infrazioni» come lui stesso scherzosamente le aveva definite, alla decisione del compositore presa nel 1829 di non scrivere più musica. In realtà, fortunatamente, non sono le sole “infrazioni” raccolte nei 13 volumi che Rossini stesso chiamerà, con delizioso sarcasmo, i suoi Péchés de vieillesse (Peccati di vecchiaia), brevi composizioni alle quali Rossini darà titoli ironici e dissacranti, quali Quatre hors-d’oeuvres, nei quali c’è un’intera collezione di brani per pianoforte chiamati  Antipasti (ravanelli, acciughe, burro…) e quattro Desserts di frutta secca (fichi, uva, mandorle, noci).

Altro argomento è quello dei grandi cuochi dell’Ottocento, per non risalire a epoche più remote, che hanno dedicato le loro creazioni a compositori o cantanti. Nella sola cucina francese esistono quattro tipi di uova a tema: alla Daniel Auber, in camicia e poste su pomodori ripieni di pollo e tartufo tritati, poi coperti con salsa vellutata; alla Hector Berlioz, alla coque, accompagnate da croustades, patate duchesse, tartufo e funghi in salsa di Madeira; alla Georges Bizet, cotte in stampini foderati con lingua sott’aceto e servite su cuori di carciofo con salsa Périgueux e alla Giacomo Meyerbeer , in cocotte, guarnite con rognone d’agnello alla griglia. Il leggendario Auguste Escoffier s’innamorò a tal punto della Carmen di Bizet da volerle dedicare ben due ricette, le Costolette d’agnello e l’Insalata di pollo, ovviamente dette alla Carmen. A Bizet è anche dedicata la Torta che porta il suo nome, che unisce meringa e crema al burro. Di Georges Bizet da Le Docteur Miracle è doveroso citare Il brillante Quartetto de l’omelette. Tra le tante ricette dedicate a Giacomo Mayerber, il compositore per eccellenza del grand-opéra, è il Filet mignon à la Meyerbeer, ma in particolare queste ricette risulterebbero al palato odierno tra le più impegnative. In Francia nacquero, inoltre, i famosi Tournedos alla Rossini, detti la Suprema esagerazione per via del connubio fra filetto, burro, foie gras, pane, tartufo nero e salsa al Madeira, anche se non si sa con certezza il nome del primo chef a prepararli; forse il rinomato cuoco Marie-Antoine Carême o altrimenti l’altrettanto noto Casimir Moisson. Di sicuro la ricetta scaturì dalla fantasia inarrestabile del golosissimo genio pesarese. Gioachino Rossini, soprattutto nel suo secondo periodo parigino, si appassionò così tanto all’arte culinaria e alla mondanità da essere denominato il Principe della gastronomia. Elaborò anche diversi piatti, che andremo a indagare più avanti. A lui in epoca recente è stato anche dedicato il famosissimo Cocktail Rossini a base di fragole e prosecco, una variante del Bellini, che però non prende il nome da Vincenzo, il compositore catanese, come si potrebbe credere, bensì dal pittore Giovanni Bellini.

Altri compositori buongustai finirono per battezzare il loro piatto prediletto quali Niccolò Paganini per i ravioli al ragù; un prezioso manoscritto autografo conservato presso la Library of Congress di Washington ci racconta come il sommo Niccolò Paganini, oltre ai 24 Capricci per violino solo, compilò la sua personale ricetta del sugo di manzo per i Ravioli alla genovese. La descrizione che ne segue è gastronomicamente ineccepibile: «Per una libbra e mezza di farina due libbre di buon manzo magro per fare il suco. Nel tegame si mette del butirro, indi un poco di cipolla ben tritolata che soffrigga un poco. Si mette il manzo, e fare che prenda un po’ di colore. E per ottenere un suco consistente si prende poche prese di farina, ed adagio si semina in detto suco affinché prenda il colore. Poi si prende della conserva di pomodoro, si disfa nell’acqua, e di quest’acqua se ne versa entro alla farina che sta nel tegame e si mescola per scioglierla maggiormente, e per ultimo si pongono entro dei funghi secchi ben tritolati e pestati; ed ecco fatto il succo. Ora veniamo alla pasta per tirare le sfoglie senza ovi. Un poco di sale entro la pasta gioverà alla consistenza della medesima. Ora veniamo al pieno. Nello stesso tegame colla carne si fa in quel suco cuocere mezza libbra di vitella magra, poi si leva, si tritola e si pesta molto. Si prende un cervello di vitello, si cuoce nell’acqua, poi si cava la pelle che copre il cervello, si tritola e si pesta bene separatamente, si prende quattro soldi di salsiccia luganega, si cava la pelle, si tritola e si pesta separatamente. Si prende un pugno di borage chiamata in Nizza boraj, si fanno bollire, si premono molto, e si pestano come sopra. Si prendono tre ovi che bastano per una libbra e mezza di farina. Si sbattano, ed uniti e nuovamente pestati insieme tutti gli oggetti soprannominati, in detti ovi ponendovi un poco di formaggio parmigiano. (…)». Come si nota leggendo, tra gli ingredienti Paganini fu uno dei promotori e cultori dell’uso del pomodoro in cucina, in un’epoca in cui questo ortaggio iniziava ad imporsi quale alimento.

Nella letteratura epistolare di compositori e interpreti, spesso, più che parlare di musica ci si scambiano ricette o curiosità culinarie! E’ risaputo che nel mondo dell’opera i piaceri della tavola rappresentavano parte integrante della vita dei più importanti compositori. «Mangiare e amare, cantare e digerire: questi sono in verità i quattro atti di questa opera buffa che si chiama vita e che svanisce come la schiuma d’una bottiglia di champagne», questa frase suona lapidaria e la si potrebbe definire il “credo” di Gioachino Rossini. Durante tutta la sua vita, da Pesaro a Bologna, Firenze e infine Parigi, allora vera capitale della gastronomia, Gioachino Rossini non fu solo il musicista dalla sterminata bibliografia, bensì un uomo con tanti interessi culturali e politici. Si racconta che a sei anni facesse il chierichetto e che regolarmente fosse sgridato per aver bevuto dalle ampolle di vin santo nelle sacrestie delle chiese di Pesaro. Un altro episodio viene spesso citato: nel 1816, la prima rappresentazione de Il barbiere di Siviglia al Teatro Argentina di Roma fu un insuccesso. Comunicando l’accaduto al suo grande amore, la cantante Isabella Angela Colbran, Rossini tenne a precisare: «(…) ma ciò che mi interessa ben altrimenti che la musica, cara Angela, è la scoperta che ho fatto di una nuova insalata, della quale mi affretto ad inviarti la ricetta (…) prendete dell’olio di Provenza, mostarda inglese, aceto di Francia, un po’ di limone, pepe, sale, battete e mescolate il tutto; poi aggiungete qualche tartufo tagliato a fette sottili. I tartufi danno a questo condimento una sorta di aureola, fatta apposta per mandare in estasi un ghiottone. Il cardinale segretario di Stato, che ho conosciuto in questi ultimi giorni, mi ha impartito, per questa scoperta, la sua apostolica benedizione». Un’altra storia, forse leggenda, è quella di Rossini seduto in un ristorante di Venezia in attesa della cottura del suo risotto e qui compose l’aria di Tancredi con la cabaletta: Di tanti palpiti, che dopo la prima dell’opera il 6 febbraio 1813 al Gran Teatro la Fenice di Venezia divenne il brano più in voga in tutta Europa e fu soprannominata, date le particolari circostanze: ‘’l’aria del risotto di Rossini’’. Il palato del pesarese era non solo goloso, ma anche pronto agli abbinamenti più bizzarri, raffinato in fatto di vini ed insaziabile, i suoi piatti traboccano di tartufi, olive, fois gras, burro, carni, uova, stufati, zamponi e rognoni. Molte furono le ricette a lui dedicate, ma nei 39 anni di silenzio musicale riuscì a esprimere il suo talento e creatività con ricette proprie. Non aveva solo un grande appetito, ma era anche una fonte di sapienza in cucina; le sue ricette spaziano dai Tournedos, alla Torta Guglielmo Tell, un dolce servito in occasione della “prima” a Parigi nel 1829: naturalmente riferendosi al leggendario eroe svizzero, a base di mele, decorata con un pomo trafitto da una freccia di zucchero. Non è un caso che Rossini abbia confessato di aver pianto soltanto tre volte nel corso della sua vita, cioè dopo i fischi indirizzati alla sua prima opera, quando ascoltò il violino di Paganini e dopo la caduta di un tacchino farcito con i tartufi mentre era in barca per una gita. Il tacchino farcito doveva essere senza dubbio uno dei suoi piatti preferiti, a riguardo disse: «Per mangiare il tacchino bisogna assolutamente essere in due: io ed il tacchino». La pasta ripiena era un altro piatto a cui non poteva resistere, lui stesso ideò una ricetta: I maccheroni alla Rossini, per i quali utilizzava parmigiano reggiano, tartufi tritati, brodo, burro, spezie, prosciutto magro e panna. Sono molti i piatti ideati da Rossini o a lui dedicati che vale la pena ricordare; il più famoso sono i Tournedos, filetti di manzo con tartufo nero e fois gras. Non vanno dimenticati il Consommé di coda di bue al tartufo, gli Spaghetti alla Scala (sempre con una generosa spolverata di tartufo) e le Uova alla Rossini, ovvero dei tuorli d’uovo arricchiti con besciamella e fois gras, racchiusi all’interno di un guscio di pasta sfoglia. Apprezzava la cucina originaria delle sue native Marche, la cucina italiana, quella francese e quella internazionale. Da ciascuna traeva ciò che conveniva al suo gusto cosmopolita: si faceva portare dal suo amico Giovanni Vitali le olive da Ascoli Piceno, il panettone da Milano, vari tipi di stracchino dalla Lombardia, gli zamponi da Modena, la mortadella ed i tortellini da Bologna, il prosciutto da Siviglia, i formaggi piccanti o fermentati dall’Inghilterra, la crema di nocciole da Marsiglia ed infine le sardine royal, che gli ammiratori facevano a gara per mandargli. Pur apprezzando le finezze della cucina francese, non risparmiava lazzi all’indirizzo dei gusti del Paese che lo ospitava, come ben testimonia questa sua frase: «Gli amici gallici preferiscono la ricotta al formaggio, locchè equivale al preferire la romanza al pezzo concertato. Ah tempi! Ah miserie!». La sua vera passione erano i prodotti genuini e caserecci italiani, suoi compagni d’infanzia. Scrive al vecchio amico Marchese Antonio Busca: «(…) i due stracchini ricevuti … mi procurano la dolce reminiscenza della augusta madre sua che fu la prima a farmi gustare i nobili prodotti di Gorgonzola. Oh tempi felici! Oh gioventù!» La ricetta dei suoi maccheroni venne scritta sotto dettatura dello stesso Rossini il 26 dicembre 1866: «Per essere sicuri di poter fare dei buoni maccheroni, occorre innanzitutto avere dei tegami adeguati. I piatti di cui io mi servo vengono da Napoli e si vendono sotto il nome di terre del Vesuvio. La preparazione dei maccheroni si divide in quattro parti. La cottura è una delle operazioni più importanti e occorre riservarle la più grande cura. Si comincia col versare la pasta in un brodo in piena ebollizione precedentemente preparato; il brodo deve essere stato passato e filtrato; si fa allora cuocere la pasta su un fuoco basso dopo avervi aggiunto alcuni centilitri di panna e un pizzico di arancia amara. Quando i maccheroni hanno preso un colore trasparente per il grado di cottura, vengono tolti immediatamente dal fuoco e scolati sino a quando non contengano più acqua. Li si tiene da parte prima di essere sistemati a strati con parmigiano e tartufo». Negli anni venti dell’Ottocento a Parigi eccelleva il “divino” cuoco Marie-Antoine Carême che, dopo aver lavorato per i più importanti personaggi del suo tempo, gestiva le cucine dei Rothschild. Fu proprio in casa Rothschild che i due si conobbero e da quell’incontro nacque un’amicizia fatta di stima e d’affetto. Carême sosteneva che Rossini fosse il solo che lo aveva saputo comprendere; il Maestro rispose con una composizione musicale titolata: “Da Rossini a Caréme”. Caréme gli dedicò molti piatti, così come un altro celebre cuoco Auguste Escoffier autore del libro di ricette divenuto la bibbia della cucina moderna; nella sua Le Guide Culinaire ci sono talmente tante ricette dedicate a Rossini che si potrebbero compilare interi menu quali «leccorniose orchestrazioni» e non semplici liste di pietanze. Fu nel 1864 che il barone Rotschild mandò in dono al musicista alcuni grappoli provenienti dai suoi vigneti, che di tutta risposta in una missiva rispose come ringraziamento: «(…) la vostra uva è eccellente, ve ne ringrazio, ma il vino in pillole non mi piace affatto», sicché in cambio gli vennero recapitate alcune bottiglie del suo vino: il Chateau-Lafite. Questo aneddoto delinea in Rossini non solo la passione per la tavola, ma anche per il vino, di cui era esperto conoscitore e bevitore, tanto che discettava con produttori e cantinieri sui metodi di imbottigliamento e produzione, accrescendo così le sue conoscenze in campo enologico. Presso la Biblioteca Laurenziana Medicea di Firenze è custodito un menu, redatto dallo stesso compositore, particolarmente interessante per l’attento abbinamento dei vini ai piatti: il Madera ai salumi, il Bordeaux al fritto, il Reno al pasticcio freddo, lo Champagne all’arrosto, l’Alicante e la Lacrima a frutta e formaggio. La sua cantina conteneva di tutto, dal suo vino personale imbottigliato nelle isole Canarie alle bottiglie di Bordeaux, dal vino bianco di Johannesburg che Metternich gli inviò da Malaga, a bottiglie di raro Madeira, da bottiglie di Marsala al Porto della Riserva Reale che il Re del Portogallo, suo fanatico ammiratore, gli aveva donato.

I piaceri della tavola sono da sempre parte integrante della vita dei più importanti compositori d’opera. Si racconta di un Rossini apprensivo che durante la visita di Richard Wagner nella sua villa di Passy alle porte di Parigi si alzò più volte durante la conversazione per poi tornare a sedersi dopo pochi minuti, giusto per innaffiare la lombata di capriolo.  Rossini curava personalmente i suoi piatti, a volte abbandonando per qualche minuto i suoi ospiti, come accadde per Wagner su cui, a Parigi, girava una voce inquietante, ovvero si sospettava che fosse vegetariano. Peccato mortale!

Per Vincenzo Bellini ci viene subito in mente la Pasta alla Norma. Un piatto che, stando alla tradizione, adottò il nome del capolavoro di Bellini per ripagarlo del fiasco della prima scaligera del 1831. La prima della Norma fu accolta con freddezza alla Scala e Bellini dichiarò: «Fiasco, fiasco, solenne fiasco»e pare che abbia inoltre commentato:«I milanesi non hanno ancora digerito il risotto di ieri». In realtà la nascita della pasta alla Norma è molto più recente ed ha una data ben precisa, quella dell’ autunno del 1920. Occorre, però, far una breve premessa: “Pari ‘na Norma” ovvero “sembra una Norma”, era il paragone corrente, il massimo complimento per i catanesi, Catania città natale di Vincenzo Bellini, per magnificare oltre ogni dire tutto ciò che amavano, ammiravano e gustavano. Dunque il luogo è Catania, precisamente la via Etnea e fu lo scrittore e poeta Nino Martoglio che di fronte ad un piatto di pasta con pomodoro, basilico, melanzane fritte e ricotta salata battezzò “alla Norma”, ovvero sublime, questa ricetta. A Bellini piaceva frequentare i salotti del bel mondo, a Napoli e soprattutto a Milano, di palato raffinato, ma delicato. A lui, soprannominato il Cigno di Catania, sono stati dedicati recentemente nella città natale I cigni, praline di purissimo cioccolato di Modica che si ispirano alle dieci opere del celebre compositore.

Nel Gianni da Parigi di Donizetti vi è una gustosa pagina musicale che è paragonabile ad un menu, la scena così detta dei perniciotti: “Eccellenza… se vedesse… perde un pranzo da sovrano /  È squisito… sorprendente. Che portate! Che apparecchi! Quanti vini, e tutti vecchi! / Passerotti, starne, tordi, perniciotti… /  Un storione.  / Pasticcini, pasticcetti, salse, intingoli, guazzetti, e per colmo in un gran piatto un superbo vol au vent. / Poi faggiani… / Squisitissime omelettes, ma soufflées. / In qual bivio, (oh Dio! Mi-mal lo mette) Il decoro e l’omelette! Qual contrasto nel mio/suo core / fra l’onore e il vol au vent! / (…)  E quel fagiano!… (…) il mio-suo cervello girar farà. / (…) Dunque io vado. / L’ova e il pane a preparar”. …Cosa dire, poi, di Johann Strauss che compose una cotolekt-polka per esaltare la famosa cotoletta impanata, sulla cui paternità ancora oggi si contendono milanesi e viennesi!

Giuseppe Verdi fu uomo di mondo, ma egli stesso amava definirsi  pur sempre un contadino della Bassa. E’ la festa di san Donnino, il 10 ottobre del 1813, per le vie di Le Roncole, piccola frazione di Busseto in provincia di Parma, si aggira un gruppo di suonatori girovaghi. In una modesta casa colonica adibita a posteria, Carlo Verdi gestisce un’osteria in cui si preparano pasti per i viandanti e i passeggeri delle diligenze. Alle otto di sera nasce suo figlio Giuseppe. Giuseppe Verdi rimase sempre legato alla sua origine e amò i frutti della sua terra tanto da portarli con sé nei suoi viaggi o farseli spedire a destinazione. Grande è l’attenzione che il compositore dimostra nei confronti della terra e dei suoi prodotti. Come si può pensare a Sir John Falstaff senza l’Osteria della Giarrettiera? A Verdi furono dedicate da cuochi famosi molte ricette, una delle più conosciute è il Risotto Giuseppe Verdi, ideato e dedicato al Maestro dallo chef francese Henri-Paul Pellaprat. Pellaprat scrisse diversi manuali di gastronomia francese tra cui L’arte della cucina moderna e diresse la scuola di alta specializzazione Le Cordon Bleu fondata a Parigi nel 1895. Nella ricetta dedicata al bussetano: riso carnaroli, burro, funghi coltivati, punte di asparagi, prosciutto crudo, pomodori pelati, panna da cucina, brodo di carne, cipolla e non poteva mancare il Parmigiano Reggiano. In realtà, la preparazione di questo risotto non è del tutto frutto dell’ingegno di Pellaprat, bensì della moglie di Verdi, Giuseppina Strepponi, che in una lettera svela a Camille Du Locle, direttore de l’Opéra-Comique di Parigi, la ricetta del «maître pour le risotto», un piatto che a Giuseppe riesce particolarmente bene e che è per molti versi simile, se non uguale, a quella firmata dallo “chef” parigino. Vi era, però, una ricetta che Giuseppe Verdi gradiva particolarmente, quella de La spalla cotta. La spalla cotta è un prodotto tipico della Bassa (pianura Padana) e spesso Verdi la inviava agli amici, accompagnandola con affettuose istruzioni per l’uso: «Prima di cuocere la spalla – secondo le indicazioni del Maestro, occorre – (…) levarla di sale (…) lasciandola per due ore in acqua tiepida. Si pone quindi la spalla in una pentola che la contenga e si riempie di acqua; si lascia cuocere a fuoco dolce per almeno sei ore. Si lascerà raffreddare nel brodo di cottura, quindi si asciugherà e sarà pronta da gustare». Un ritratto sulle abitudini gastronomie di Giuseppe Verdi è tratteggiato dal poeta e musicista Arrigo Boito: «Il Maestro ama i pranzi prolissi e le opere concise. Cucina poderosa dei vecchi tempi. Gli piace anche la moderna quando è all’Hotel ed è finissimo assaporitore. Ma a casa sua… vuole le grandi fette di bue condite con la mostarda di Cremona, i funghi in aceto, la salsa verde. Quasi tutta la sua vita mangia, a desinare, un mezzo ovo sodo dopo l’arrosto. Il suo desinare in casa è composto di antipasti, d’una minestra, per solito sostanziosa (risotto, pasta asciutta, ravioli in brodo), d’un piatto di carne lessa, d’una frittura abbondante, d’un arrosto, d’un dolce formaggio, desert varii. Un’ora dopo il desinar fabbrica lui stesso il caffè».

Spaziando nel mondo dei compositori potremo fare molti altri esempi; viene narrato a tale proposito un episodio ambientato durante una cena avvenuta a Milano tra Pietro Mascagni e l’amico Giacomo Puccini, mentre i due ricordavano gli anni di studi e sacrifici condivisi nella stessa stanzetta a Milano, fra loro sarebbe esplosa una goliardica discussione sul se era più succulento un piatto di cacciucco livornese o una folaga rosolata lucchese. Per Mascagni non vi erano dubbi, migliore è il caciucco poi denominato alla Mascagni, che il compositore amava aromatizzare con salvia e zenzero. Nel 1901 il rinomato pasticciere Antonio Lo Verso, in occasione del debutto a Palermo di Iris di Mascagni, creò un dolce fritto da servire per la prima colazione, ripieno di crema alla ricotta. Nel 1930 Pietro Mascagni compose La danza dei gianduiotti per il Teatro Regio di Torino, in onore dei principi Umberto di Savoia e Maria José.

Il tema dell’amicizia che torna a tavola è quanto mai presente con Puccini. Egli coltivò sempre il piacere nell’arte del cucinare, ad esempio assieme all’amico Mascagni durante gli studi milanesi preparando piatti poveri, ma gustosi. Negli anni giovanili Puccini si dimostrò, quando poté, molto attento ai piaceri della tavola, concludendo le giornate lavorative di fronte a una sostanziosa cena. Se i soldi mancavano, da buona forchetta, si divertiva a creare personalmente ricette come la Pasta con le anguille o le Aringhe coi ravanelli. Così scriveva negli anni di studio, caratterizzati da ristrettezze economiche: «(…) La sera, quando ho quattrini vado al caffé, ma passano moltissime sere che non ci vado, perchè un ponce costa 40 centesimi… Mangio maletto, ma mi riempio di minestroni…e la pancia è soddisfatta». Si narra che Puccini andasse a far visita a sua sorella Iginia, monaca col nome di suor Giulia Enrichetta al Monastero della Visitazione della nativa Lucca, spinto dalla passione per i fagioli cotti al fiasco, che mangiava al refettorio. Automobili, donne e cucina erano le sue grandi passioni. A Torre del Lago Puccini, accanito cacciatore, si riuniva sulle rive del lago di Massaciucoli con un gruppo di artisti e scrittori presso una bettola chiamata La capanna di Giovanni dalle bande nere, da subito ribattezzata Club La bohème. Qui con gli amici passava molto tempo, festeggiando allegramente, bevendo vino e giocando a carte. Questi buontemponi redigettero anche una specie di scherzoso statuto:

Art 1 I soci del Club “La Bohème”, fedeli interpreti dello spirito onde il club è stato fondato, giurano di bere e mangiar meglio.

Art. 2 Ammusoniti, pedanti, stomachi deboli, poveri di spirito, schizzinosi e altri disgraziati del genere non sono ammessi o vengono cacciati a furore di soci.

Art. 3 Il presidente funge da conciliatore, ma s’incarica d’ostacolare il cassiere nella riscossione delle quote sociali.

Art. 4 Il cassiere ha la facoltà di fuggire con la cassa.

Art. 5 L’illuminazione del locale è fatta con lampada a petrolio. Mancando il combustibile, servono i “moccoli” dei soci.

Art. 6 Sono severamente proibiti tutti i giochi leciti.

Art. 7 È vietato il silenzio.

Art. 8 La saggezza non è ammessa neppure in via eccezionale”.

Ancora, la lista dei piatti legati alla musica operistica prosegue con tutta una serie di ricette dedicate ai grandi cantanti: La poularde Adelina Patti, Il chicken Tetrazzini e Le pesche Melba; più recente, golosissimo, è il dolce in omaggio a Renée Fleming rinominato La Diva Renée, un’esplosione di cioccolato. Non manca Maria Callas, con la torta che porta il suo nome e vi è anche  la ricetta di uno dei suoi piatti preferiti, i Bigoli con ragù d’anatra alla veneta, nella ricetta di Pia Meneghini, sorella di colui che fu marito e mentore del celebre soprano, Giovanni Battista Meneghini.

Diversa è la storia che lega il tenore Enrico Caruso alla sua Napoli. Secondo il racconto, nel 1901 Caruso dopo una lunga serie di trionfi italiani e internazionali tornò a Napoli per interpretare Nemorino ne L’elisir d’amore di Gaetano Donizetti al Teatro San Carlo, ma proprio nella sua città venne accolto con freddezza. La sua delusione fu tale che egli promise a se stesso di non cantare più a Napoli e di tornarvi solo per mangiare i suoi adorati spaghetti, mai più quale protagonista canoro e questo solenne giuramento, passato alla storia come “Il giuramento dei vermicelli”, avvenne proprio avanti al suo piatto preferito, ovvero gli spaghetti con un semplice condimento a base di aglio schiacciato, olio, peperoncino e prezzemolo tritato. Vi è un piatto che porta il nome del celebre tenore, i Bucatini alla Caruso e si vuole che sia un omaggio dell’artista alla sua amata Napoli. Una ricetta semplice e buonissima che arriva da Napoli e fa sentire ancora nell’aria il profumo della bella stagione. Per preparare i Bucatini alla Caruso, infatti, bisogna approfittare delle ultime settimane d’estate, quando al mercato si trovano ancora carnosi peperoni e zucchine piccole e tenere, protagonisti di questo piatto che secondo la tradizione fu ideato proprio dal grande tenore partenopeo. I Bucatini alla Caruso e si raccomanda nella ricetta «(…) non gli spaghetti, che non darebbero il giusto spessore alla pietanza», sono una specialità che racchiude i sapori e i colori della terra campana: pomodori San Marzano, freschi o pelati, una pregiata varietà coltivata dalla fine del Settecento nell’Agro sarnese-nocerino, peperoni gialli e rossi, il basilico e il peperoncino piccante, per un tocco di “carattere” in più. Caruso suggerì questa ricetta agli chef dei due hotel in cui soggiornava abitualmente, il Vittoria di Sorrento e il Vesuvio di Napoli. A Caruso venne dedicato anche un famosissimo cocktail dal tipico color verde smeraldo, a base di vermouth secco, gin e crema di menta.

Siamo arrivati al dolce con protagonista Wolfgang Amadeus Mozart. Che Mozart amasse la buona cucina lo si apprende dal suo epistolario, nelle sue lettere, infatti, il compositore austriaco descrive più volte il suo amore per il cibo e in particolare per quello italiano e le cronache ci tramandano di quanto Wolfgang Amadeus Mozart fosse ghiotto di dolci e in particolare di cioccolato. A Vienna il suo nome è indissolubilmente legato nella gastronomia dolciaria, al souvenir gastro-musicale per eccellenza, le Mozartkugeln, in origine chiamate Mozart-Bonbon, create a Salisburgo nel 1890 dal pasticciere austriaco Paul Fürst in onore del compositore a circa un secolo dalla scomparsa. In Austria si possono anche acquistare i Marrons glacés di Mozart e questo particolare riaccende un’antica, forse presunta, rivalità, perché a prediligere i marrons glacés non era tanto Mozart, quanto Antonio Salieri, il compositore di Legnago che ne era un grande appassionato. Veniamo ora alla predilezione di Mozart per quella bevanda che ci giungeva dalla terre di conquista spagnola, dalle Indie occidentali, poi Americhe: il chocolate. In passato il legame tra musica e cacao era esaltato dal fatto che i concerti, eseguiti nelle stanze dei palazzi nobiliari, venivano ascoltati sorbendo chicchere di cioccolata. Con il melodramma e le opere liriche, che descrivevano i costumi della società, il chocolate calcò il palcoscenico, come nel già citato dramma giocoso Così fan tutte, in cui la servetta Despina si lamenta del fatto che è costretta a servire la stuzzicante bevanda, senza mai gustarla: “È mezz’ora che sbatto; / Il cioccolatte è fatto, ed a me tocca / Restar ad odorarlo a secca bocca?”. È sempre Mozart, nel Don Giovanni, a mettere in scena il noto seduttore mentre ordina al fido servo Leporello di accompagnare i suoi ospiti e di ordinare: “ch’abbiano cioccolata, caffè, vini, prosciutti”.

Anche Georg Friedrich Händel ebbe la propria torta, sia pur sotto forma di preparato. Richard Strauss scrisse nel 1922 il balletto Schlagobers, i cui giovani protagonisti entrano in pasticceria per ordinare cioccolata e panna montata. Nel cammino nell’arte dolciaria dobbiamo ancora una volta riferirci all’acclamato chef francese Georges-Auguste Escoffier al quale si deve, oltretutto, l’invenzione di due famosi dessert: le Poires Belle Hélène (pere cotte nello sciroppo di zucchero e servite con gelato alla vaniglia e cioccolato fuso, in omaggio all’operetta di Jacques Offenbach La béllè Helene, 1864) e la Pesca Melba, in onore della cantante australiana Nellie Melba (Helen Porter Mitchell), alla quale, nel 1892, Escoffier servì un cigno di ghiaccio contenente gelato alla vaniglia, pesche, salsa di lamponi e un fiocco di zucchero filato per coronarne il trionfo al Covent Garden. Secondo la tradizione Escoffier aveva particolarmente apprezzato Nellie in una sua interpretazione del Lohengrin di Wagner e per omaggiarla, le fece trovare il giorno dopo a cena il dolce inventato in suo onore. Leggiamo da Ricordi inediti dello stesso Georges-Auguste Escoffier: «Ripensando al maestoso cigno mitico che apparve nel primo atto del Lohengrin, le feci servire, al momento opportuno, delle pesche disposte su di un letto di gelato alla vaniglia, all’interno di una coppa d’argento incastrata tra le ali di un superbo cigno scolpito in un blocco di ghiaccio e ricoperto da un velo di zucchero filato. L’effetto prodotto fu sorprendente e la signora Melba si mostrò estremamente colpita dalla mia attenzione. La grande artista, che di recente mi è capitato di rivedere all’Hôtel Ritz di Parigi, mi ha ricordato la serata delle famose pesche al cigno». Successo e risonanza furono grandissimi e il dolce divenne ben presto molto popolare e imitato, anche liberamente. Originariamente chiamato Pesche al cigno, secondo alcune fonti solo all’inaugurazione successiva dell’ Hotel Carlton fu ribattezzato Pêche Melba.

Il più celebre di tutti i dolci è il Gâteau Opéra definito: “il più amato omaggio al mondo del melodramma”, che è un dessert che non poteva mancare dopo ogni grande serata operistica. La ricetta originaria è andata perduta e la prima variante di questa torta (a base di Joconde, crema al burro al caffè e ganache al cioccolato) risale al 1890, quando lo chef Louis Clichy decise di preparare il dolce ideale per accompagnare il caffè che gli spettatori dell’Opéra Garnier prendevano sempre fra un atto e l’altro. La Torta Clichy divenne ufficialmente Opéra a metà del Novecento e, anche se la paternità della sua forma attuale (che prevede gli strati ben esposti, a simbolo dei vari atti dell’opera) se la contendono Cyriaque Gavillon e Gaston Lenôtre, chiunque ne sia l’ autore, non ci sono dubbi sul fatto che questo dolce sia davvero come una rappresentazione d’opera, ovvero: del tutto speciale. Chiudiamo l’offerta del nostro carrello con la Torta Donizetti. Secondo la leggenda, fu Gioachino Rossini a chiedere al suo cuoco un dolce per alleviare il mal d’amore dell’amico Gaetano Donizetti, suggerendo al cuoco di preparare una torta semplice, ma molto dolce con canditi e zucchero a velo, per dispensarlo almeno per un momento dai tormenti del cuore ed ecco la Torta del Dunizet, una delicata ciambella margherita con albicocca e ananas. In realtà, questo dolce venne ideato solo nel 1948 da Alessandro Balzer, per celebrare il centenario della morte del compositore bergamasco.

Siamo al caffè e Johann Sebastian Bach si divertì a glorificare la sua bevanda favorita nella graziosissima e deliziosa Kaffeekantate (La Cantata del caffè) scritta tra il 1732 e il 1734, per essere eseguita allo Zimmermannsche Kaffeehaus di Lipsia. Accanito fumatore e bevitore di caffè Bach compone con questo ironico e raffinato pezzo una lode al caffè come simpatico alleggerimento delle tribolazione quotidiane e ci dimostra che i grandi uomini, se veramente grandi, sono in grado di apprezzare le gioie quotidiane, di sorridere e di ironizzare su se stessi. Caffè, cacao amaro, zucchero e panna montata sono gli ingredienti della Barbajada, che prende il nome da Domenico Barbaja. Garzone e cameriere, grazie alle sue geniali invenzioni e abilità imprenditoriale si eleverà a titolare del rinomato Caffè dei Virtuosi, locale di moda aperto a pochi metri dalla Scala. Grazie al suo acume diventerà, in seguito, uno degli impresari più influenti d’Europa, da cui dipesero le sorti dei più celebri compositori dell’epoca, per citarne alcuni: Rossini, Donizetti e Bellini. Fu a capo di numerose imprese, tra cui quella della Scala e del San Carlo, tanto da essere soprannominato il principe degli impresari e il viceré di Napoli.

Vincenzo Grisostomi Travaglini

Vincenzo Grisostomi Travaglini

“La missione di un artista-creatore”, articolo del Maestro Vincenzo Grisostomi Travaglini nella rivista mensile “L’Opera International Magazine”, Settembre 2020.Conversazione con Sir Antonio Pappano sulla sua esperienza all’Accademia di Santa Cecilia e al suo “Otello” verdiano.

Nato in Inghilterra, Antonio Pappano è oggi tra i direttori d’orchestra più stimati al mondo. I suoi genitori sono originari di Castelfranco in Miscano, un borgo dell’Appennino campano e sarà suo padre a trasmettergli l’amore per la musica, appassionato del repertorio operistico italiano e in particolare di Giacomo Puccini. Le esperienze nel mondo della musica del maestro Pappano sono molteplici, ma qui basterà ricordare la nomina nel 1999, effettivo da 2002, a Direttore musicale della Royal Opera House (Covent Garden), orchestra che aveva diretto sin da giovanissimo e dal 2005 la nomina a Direttore musicale dell’Accademia Nazionale Santa Cecilia di Roma. Nel 2012 ricevette della regina Elisabetta II l’onorificenza di cavaliere (Knight Bachelor), che gli conferisce il titolo di “Sir”.

Venendo all’attualità, in questo particolare periodo, relegati dalla pandemia a vita claustrale, spesso abbiamo trovato consolazione tramite televisione e mezzi-audiovisivi dove, tra i grandi protagonisti dello schermo, il maestro Pappano si è imposto sul podio di produzioni operistiche di grande rilievo. Sono tutti argomenti che approfondiremo nel corso di questo nostro incontro, ma insostituibili, come confermerà lo stesso Pappano, restano pur sempre l’esperienza e il ricordo legati a quelle esecuzioni a cui si è avuto la fortuna di assistere, in campo sinfonico e operistico. Del rapporto tra il direttore e le “sue” orchestre, l’emozione che resta impressa nello spettatore da una comunicazione istantanea, perché in Pappano tutto è musica, dal gesto, la postura, lo sguardo. Basta un minimo cenno e il corpo si fa tramite del pensiero ed è questo risultato che fa la differenza! I repertori affrontati da Pappano sono tra i più vasti e basterà riferire di esperienze quali le registrazioni riproposte de il Macbeth e de La Bohème dal Covent Garden, produzioni dove la parola teatrale assume un suo specifico significato, come ci dirà lo stesso maestro. Sir Antonio Pappano ci parlerà, inoltre, di quello che deve essere il rapporto in teatro tra orchestra e palcoscenico, rispondendo che per lui sono importanti le relazioni tra i personaggi e che se il direttore d’orchestra crea un’unità tra palco e buca, questa è una produzione riuscita. Eppure, questa filosofia intrinseca è valida nel repertorio sinfonico, nel dialogo tra gli strumenti. Nella memoria più recente, inoltre, l’esperienza di titoli operistici in concerto, dove Pappano riesce a ricreare complessivamente questo rapporto, senza nulla togliere alla dinamica insita nello svolgimento drammaturgico, anche nella forma semi-scenica, così come abbiamo assistito in questi anni nella sala di Santa Cecilia a Roma, con l’orchestra e coro sul palco e i cantanti in proscenio. Tra gli esempi, il più recente, nel 2018: West Side Story di Bernstein, dove il direttore Pappano è entrato, come dire, nell’azione scenica, con semplici gesti, partecipando dal podio con il fischietto della polizia a redimere la rissa fra fazioni rivali, sempre interagendo con discrezione ed efficacia.

Maestro Pappano, come gestisce i due diversi incarichi di Direttore musicale alla Royal Opera House e all’Accademia Nazionale di Santa Cecilia e in qual modo l’uno è di compendio all’altro?

«Per me, queste due esperienze, insieme, sono molto importanti, perché dopo tanti anni in teatro con la lirica, mi resi conto che per sviluppare, per fare il passo successivo, anche se di tanto in tanto dirigevo complessi orchestrali, senza un vero investimento nel dominio sinfonico, io rimanevo come fermo. Sto parlando di una quindicina di anni fa e compresi che stavo cercando un equilibrio fra le due espressioni musicali, dove in un certo senso una informa l’altra. Certamente, i repertori sono molto vasti e richiedono contatti diversi, ad esempio ci sono delle opere che potremmo definire più o meno sinfoniche. C’è la musica classica, sinfonica, c’è Malher, c’è Schönberg e in ogni caso è richiesto un diverso approccio. Però, essere da solo avanti a un’orchestra è come guardarsi allo specchio, è una cosa molto intima. Nella lirica ci sono i cantanti, c’è l’allestimento, le luci, il buio, il dramma, più elementi; per carità l’opera è la mia vita e l’adoro, però trovarsi di fronte a un’orchestra sinfonica come a Santa Cecilia, serve veramente per capire, per stimolare un altro tipo di emozione, altri sentimenti. Da subito mi resi conto che essere in mezzo a una sinfonia, mi faceva provare sensazioni diverse».

Quindi essere Direttore musicale di un’orchestra prevalentemente sinfonica, ha richiesto un diverso approccio?

«Il mio rapporto con i musicisti è l’unica cosa che conta e non lo spettacolo. Questa dell’incontro con l’Orchestra e il Coro di Santa Cecilia è stata per me una bellissima lezione e ha fatto sì che abbia potuto indirizzare le mie energie, tutta la mia forza mentale e fisica, verso un nuovo orizzonte. Ciò mi ha arricchito enormemente. Allo stesso tempo io mi sono sviluppato insieme alla mia Orchestra, questo crescere comune è stato una bellissima occasione, una cosa di cui sono molto fiero e con la speranza che possa continuare».

Veniamo all’oggi e alla traumatica interruzione di qualsiasi attività a causa della pandemia. Quali sono le prospettive per il futuro?

«Come quasi tutti gli Enti in questo periodo stiamo ridimensionando la programmazione, prevedendo di formare dei complessi più ragionevoli. Cosa vuol dire questo? Che ad esempio se io domando se sarebbe ragionevole eseguire Die Meistersinger di Wagner, cinque ore e mezzo di spettacolo, con cui inaugurare la prossima stagione, questo sarebbe impossibile. Adesso non voglio dare il nostro programma per l’Accademia di Santa Cecilia, perché noi abbiamo diversi piani di lavoro, però, ogni settimana cambiano le notizie, allora prima di fare annunci vogliamo essere sicuri di quello che potremo fare. I progetti li abbiamo e siamo pronti ad adattarli a quelle che saranno le necessità richieste, prima dobbiamo capire meglio, ad esempio, come gestire il coro. Al momento, da alcuni studi il coro è molto penalizzato; abbiamo un bellissimo Coro a Santa Cecilia. Per me è fondamentale comprendere, dopo la stagione estiva che si è svolta all’aperto nella cavea del Parco della Musica con la Nona Sinfonia di Beethoven e due successivi concerti con la partecipazione Coro, come e quando potremo ricominciare con la loro l’attività. Per questo, dobbiamo tornare nella nostra casa, avere la possibilità di entrare nell’auditorium, per valutare il distanziamento. Forse noi, avendo una sala così capiente e un palco così grande, forse … stiamo esagerando nel pensare troppo in piccolo e dobbiamo avere l’esperienza per trovare le soluzioni più idonee. Di vedere se l’orchestra dovrà essere ridotta; oppure, sempre mantenendo il distanziamento e rispettando le regole, se potremo contare su un maggiore organico. Si potrebbe, anche, cercare di ampliare il palco facendolo venire più in avanti. Queste soluzioni verranno da una preparazione e senza quelle verifiche che potremo fare solo sul posto, non possiamo dare nulla per certo. Se qualcuno affermasse che le cose saranno così, o che faremo in questo o in quell’altro modo, sarebbero tutte fantasie! Dobbiamo vedere, controllare, come gestire la superficie e dominare lo spazio in questo momento di transizione, prima che si possa tornare alla normalità».

Queste verifiche e dovuta prudenza valgono per Santa Cecilia a Roma, quanto per il Covent Garden a Londra?

«Al Covent Garden, ovviamente come per tutti gli Enti lirici, il discorso è molto più complicato. Devo essere onesto, a Londra siamo un po’ in uno stato di caos e le regole per i teatri al chiuso sono molto rigide. Al momento, dobbiamo pensare come usare gli spazi, forse in un modo innovativo. Si potrebbe mettere l’orchestra in platea e il pubblico in alto. Sarà molto, molto difficile prevedere una programmazione e non capiamo bene come andrà a finire. In giugno avevamo organizzato un primo concerto, con tre cantanti, con me al pianoforte e la collaborazione di alcuni elementi del ballo. La sala vuota, trasmesso in streaming! L’atmosfera era strana, perché in questa bellissima sala, malgrado stessimo facendo musica, sembrava che fossimo in un ristorante deserto, che se anche è il posto più famoso del mondo diventa triste; l’atmosfera era pari allo zero. A Roma, ci si può permettere un’attività all’aperto, mi riferisco all’immediato di questa emergenza, noi per Santa Cecilia abbiamo realizzato questa estate un programma prevalentemente dedicato all’anniversario beethoveniamo nella cavea del Parco della Musica, ma a Londra, malgrado il clima gradevole degli scorsi mesi, una primavera storica, non abbiamo proprio i mezzi e non possiamo contare sul bel tempo. Importante è anche come gestire il pubblico. Nei luoghi al chiuso ci sono limitazioni al momento che rendono difficile l’attività. A Santa Cecilia abbiamo una sala da 2.800 posti, allora non è questione di avere una capienza ridotta al minimo. No, io penso che si abbiamo più possibilità e dobbiamo studiare come realizzarle».

Nel mese di luglio, grande successo ha avuto la stagione estiva dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia nella cavea, rinominata alla memoria di Ennio Morricone, segnando per ogni appuntamento il tutto esaurito. In programma l’integrale delle Sinfonie di Beethoven nel 250° anniversario della nascita. A questo programma si sono aggiunte le tournée: a Torre del Lago per il Festival Puccini, a Caserta e con particolare significato il concerto del 27 luglio nel capoluogo ligure, per l’inaugurazione del nuovo ponte Genova San Giorgio, svoltosi in un’atmosfera del tutto particolare, sotto una campata, in un cantiere. Una particolare emozione?

«E’ stato per me un vero debutto, lo devo ammettere. Sono stato orgoglioso di dirigere l’Orchestra dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia in questa occasione, sotto il nuovo ponte appena completato. Un concerto che si è svolto simbolicamente in un momento storico così importante. Un tempo in cui tutte le risorse migliori si sono messe all’opera per ricucire uno strappo doloroso e far rinascere una città, dando un esempio di ripresa all’intero Paese. Questo ponte non è solo una bella infrastruttura, ma è anche il simbolo di un lavoro orchestrale che è stato gestito da tutti coloro che vi hanno partecipato».

La stagione estiva dell’Accademia, come detto, è stata prevalentemente dedicata a Beethoven. In due occasioni, in presenza del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella a Roma e a Genova per l’inaugurazione del ponte, è stato scelto di eseguire la Sinfonia n.5. C’è una particolare ragione?

«Beethoven con Bach, è stato il più grande architetto della storia della musica, con la sua creatività, le sue doti di sperimentatore, come figura grintosa per quanto riguarda il lavoro, lo sforzo per arrivare a finire un progetto. Lui, il simbolo perfetto per l’inaugurazione del ponte San Giorgio di Genova e simbolicamente, lo è stato anche per la presenza del Capo dello Stato. Il bello della Quinta Sinfonia, malgrado il primo movimento così torturato da utilizzi inappropriati, con questo incipit così famoso, così conosciuto, è che comincia in conflitto per arrivare in gioia. Dal buio, alla luce! Però, per arrivare alla luce, per arrivare alla gioia, alla fratellanza, come nella Nona Sinfonia, si deve guadagnare il diritto di queste conquiste. Si deve lavorare, si deve creare un ponte e con queste parole non sto inventando una metafora … è vero, è proprio così ed è bellissimo! Questa Sinfonia, in questo particolare momento, è il giusto messaggio che abbiamo voluto trasmettere, facendo risuonare l’incipit più famoso, quello appunto della Quinta Sinfonia. Il celebre motivo ritmico di quattro note del destino che bussa alla porta. Che esprime in modo evocativo la lotta dell’uomo contro il fato, profilandosi come uno dei capolavori assoluti di ogni tempo».

L’esecuzione della Quinta Sinfonia a Genova è stata preceduta da un omaggio alle vittime del ponte Morandi, perché è stata scelta una composizione di Samuel Barber?

«Con le società costruttrici, insieme a me e a tutti i componenti dell’Orchestra di Santa Cecilia, si è voluto rendere un commosso omaggio alle vittime del Ponte Morandi con l’Adagio per Archi del compositore statunitense Samuel Barber perché è un brano molto comunicativo. E’ una musica dove in tre note si capisce tutto ed è veramente commovente, sono molto felice di aver eseguito questo programma».

E’ prematuro parlare della prossima stagione dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia, ma già per l’autunno sono previsti degli eventi?

«Tornerò sul podio dell’Accademia nella seconda metà di settembre, partiremo con l’Orchestra per una tournée a Budapest, Vienna con due concerti al Musikverein, Linz e Bratislava».

La sua opinione sulla situazione italiana, dove per tradizione sono presenti istituzioni liriche storicamente di rilievo, a differenza ad esempio del Regno Unito, dove a Londra è concentrata gran parte dell’attività culturale. Un patrimonio immenso quello italiano, ma anche un pericolo di frammentazione nella cultura musicale? In particolar modo nella realtà odierna, con limitate risorse economiche.

«Gli Enti musicali in questo difficile momento devono collaborare per arrivare a delle soluzioni comuni. La mia paura è che ogni Ente vada per la propria strada, questo è pericoloso. Non affermo che essere competitivi sia sbagliato, ma siamo in un momento particolare e stiamo parlando di cose molto, molto serie. Detto questo, ovviamente, senza l’aiuto del governo, delle regioni, avremo difficoltà ad affrontare la ripresa. Spero, almeno fino a Natale, che potremo contare su questi appoggi. Avremo veramente bisogno di un grande aiuto, perché la nostra attività è importante. Importante perché la cultura in Italia non è un lusso, è rilevante per il turismo e per tutto ciò che si muove intorno alla nostra attività, tutta la parte economica. Naturalmente io posso riaffermare quella che è l’importanza dell’arte per l’anima, della musica, della prosa, della cultura tutta; sull’argomento posso esprimermi in modo molto poetico, ma ci sono ragioni da tenere presenti puramente finanziarie, interessi economici. Non dimentichiamo che sostenere l’arte è un investimento in un settore che porta molto al proprio Paese».

In Italia abbiamo molti teatri lirici e meno attività nel sinfonico. Crede che questo sia motivato da un problema culturale. Una minore attenzione del pubblico o una mancanza educativa?

«Io non posso cambiare centinaia di anni di storia, la musica lirica è la gloria d’Italia, diciamo, però, che Enti come l’Orchestra e il Coro di Santa Cecilia, la Filarmonica della Scala, quali l’Orchestra della Regione Toscana, la Cherubini, l’Orchestra Mozart, sono degli esempi ammirevoli. Prima di tutto in queste orchestre c’è un’intensità verso la sinfonica e una qualità che si è molto sviluppata in questi ultimi anni. La storia, però, è la storia ed io non vedo questo come un torto, perché nel DNA di qualsiasi musicista italiano c’è il teatro, c’è la lirica, c’è la cantabilità, ci sono i colori, c’è l’atmosfera, c’è il raccontare. Tutto questo indirizzato verso il repertorio sinfonico è un grande valore aggiunto. Allora, se in Italia non ci sono, diciamo, dieci o venti orchestre sinfoniche di grande rilievo, allora non importa. La cosa si sta sviluppando da sé».

Lei avverte questo istinto teatrale nei musicisti italiani anche quando, sia pure in forma semi-scenica con l’Orchestra e il Coro dell’Accademia, ovvero di vocazione sinfonica, esegue un titolo del repertorio operistico?

«Nella storia di Santa Cecilia la concentrazione è sempre stata verso un repertorio lirico tendente al sinfonismo, cioè Wagner, Richard Strauss, avvolte Mozart. Allora, per me era importante far capire ai miei musicisti la loro provenienza, di far comprendere cos’è Verdi, cos’è Puccini. Abbiamo avuto la gran bella fortuna di avere avuto sin dall’inizio con i complessi di Santa Cecilia un bellissimo rapporto con Rossini, che è una musica per loro molto naturale, per la mia Orchestra, per il Coro. Inoltre, avere l’opportunità di registrare tanti dischi con cantanti quali Jonas Kaufmann, la Netrebko e d’incidere Aida, Guillaume Tell, adesso Otello, dischi dedicati al Verismo, di arie pucciniane e tanti altri; un disco che sta per uscire con Diana Damrau che interpreta musiche di Donizetti, dalle Tre Regine; tutto questo informa, educa la mia Orchestra a capire le proprie radici e questo per me è fondamentale. Sì, abbiamo eseguito anche Peter Grimes di Britten e Das Rheingold di Wagner, ma anche Dallapiccola e nel mio programma c’era di proporre a Roma un altro titolo di Wagner; io ho diretto pochissimo Wagner».

Quanto è importante nelle attività dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia l’esperienza nel repertorio lirico?

«Per me, importante è che loro conoscano Verdi o Puccini non solo come un nome della loro storia, ma che capiscano il perché questi compositori hanno spiccato e hanno dato un profilo alla lirica italiana, a tutta la patria».

La registrazione più recente con l’Orchestra e Coro di Santa Cecilia è quella di “Otello”, realizzata in due settimane di lavoro al Parco della Musica di Roma l’anno scorso e da poco in commercio. Sembra che lei abbia un rapporto privilegiato con questo titolo verdiano. Quale posto occupa “Otello” nell’arco della sua carriera di direttore d’orchestra?

«Ho un rapporto intenso con questa opera, ma ogni volta che la dirigo è un’esperienza diversa. La prima volta di Otello fu negli anni ’90, era in forma di concerto con Giuseppe Giacomini e Barbara Frittoli che debuttava in Desdemona. Giacomini fu molto carino con lei aiutandola e dando consigli per affrontare il personaggio. Era molto importante ascoltare un artista così compenetrato nel ruolo, con questa voce potente e molto maschile. Durante le prove se si andava fuori tempo per una qualsiasi ragione, bastava capire che lui procedeva al ritmo della parola, allora si sviluppava tra noi una fluidità molto naturale, ho imparato molto da questo. Ho diretto Otello diverse volte e con importanti tenori, anche con Placido Domingo in una serata di gala, ma solo il quarto atto. Ancora nel 2017 al Covent Garden, con il debutto nel ruolo di Jonas Kaufmann, lo stesso tenore con cui abbiamo registrato Otello con i complessi di Santa Cecilia».

L’”Otello” è stato registrato senza pubblico in sala. Come restituire la teatralità insita nella partitura senza la reazione di una platea e l’obbligo di seguire il susseguirsi degli atti, così come da libretto?

«La cosa più difficile per la realizzazione di un disco è che i brani non si registrano in ordine, per esempio abbiamo cominciato la prima sessione di registrazione con Fuoco di gioia, per cercare di trovare l’equilibrio tra orchestra e coro e dopo si saltava altrove, poi si ritornava alla tempesta, si eseguiva parte del terzo atto, per poi riprendere dal secondo; dipende dal piano di produzione, dalla disponibilità della compagnia. Bisogna avere un’esperienza ben sviluppata per mantenere quel filo conduttore del racconto, affinché al termine, quando tutti gli spezzoni sono montati in sequenza, si sia conservata la logica, la coerenza della narrazione; che si capisca quello che si è fatto, che nell’ascoltatore, attraverso la coerenza del messaggio musicale, si crei quella giusta tensione e attesa per quei momenti, diciamo, simbolo di questa partitura».

Il lavoro di preparazione per una produzione operistica è quanto mai complessa. La scelta della compagnia di canto è fondamentale per la buona riuscita del progetto?

«Per prima cosa si deve pensare all’equilibrio della compagnia e per questo si deve seguire una logica. Il dovere fondamentale è quello di trovare degli artisti adeguati che possano esprimere tutto quello che c’è dentro quella partitura. Avere i cantanti giusti è anche di grande aiuto per comunicare con l’orchestra. Nel coro cantano, quindi capiscono subito quest’arte che nasce dall’anima, si poggia nel diaframma e passa per la gola, ma l’orchestra per entrare nella drammaturgia, per comprendere l’importanza della vocalità, che talvolta può apparire strana e difficile, ha bisogno di ascoltare. Questo arricchisce la cultura di un’orchestra, il partecipare al processo per realizzare un’opera e di essere convincenti a ogni “centimetro” della partitura, di vedere come si arriva a quel determinato risultato. E’ un’esperienza veramente fantastica, che può solo farli crescere mentalmente, in quella che potremmo definire un’intelligenza-emozionale. Perché i cantanti hanno veramente, a un livello pazzesco, questa emotional intelligence e quando si vedono al lavoro si capisce come alcuni artisti usino questo ingegno per capire al volo una situazione e risolverla. E’ veramente un dono prezioso e tale opportunità l’abbiamo avuta in pieno con questa compagnia, equilibrata nella vocalità e interpretazione dei rispettivi ruoli, nei rapporti gli uni con gli altri, sentita nei loro cuori. Veri artisti, primo fra tutti il tenore Jonas Kaufmann, con lui il soprano Federica Lombardi e il baritono Carlos Alvarez».

Nel suo repertorio operistico la musica verdiana è protagonista, vorrei ricordare la riproposta del “Don Carlos” (quindi la versione francese) nel 1996 al Théâtre du Châtelet di Parigi e dello stesso titolo l’edizione in italiano al Festival di Salisburgo nel 2013 con Kaufmann, solo per fare un esempio e l’elenco potrebbe essere lungo. “Otello”, nella maturità verdiana, presenta degli aspetti del tutto inediti. Questo richiede un diverso lavoro con orchestra, coro e solisti?

«I cantanti mi aiutano molto nel lavoro che devo affrontare, il loro apporto è veramente importante soprattutto in quei passaggi così dolci, del piano e pianissimo che sono indicati da Verdi in partitura. Questo tipo di approccio si può averlo solo con dei grandi interpreti. Se si dovesse controllare partitura alla mano che cosa i cantanti stanno facendo realmente, allora io credo che si debba loro il massimo rispetto. Stiamo parlando delle dinamiche, questa è una cosa molto difficile da conseguire, per un problema vocale, avvolte per il fiato o non saprei. C’è, poi, il problema delle tradizioni e questo crea delle aspettative nel pubblico e delle tensioni inimmaginabili. Quante volte ho sentito un commento sul perché quel cantante esegue quella nota in quel modo invece che in quell’altro, oppure se realizziamo quella scena in modo diverso da come si è sempre fatto. Questo è un altro argomento, perché dobbiamo cercare di pulire, di togliere la vernice del tempo per vedere, individuare veramente il significato di una scrittura musicale. Non dico che noi siamo perfetti, che facciamo quest’approfondimento per ogni riga della partitura, no! Siamo degli essere umani, ma sempre alla ricerca di un nostro linguaggio. Per l’orchestra, sentire un solista cantare piano è una cosa speciale, perché molti cantanti dicono che quando c’è da affrontare l’orchestra devono dare di più, perché hanno timore che l’orchestra copra la loro voce, è il contrario! Se si canta piano, in quel momento i professori si adeguano, perché loro ascoltano, vogliono capire e quando sentono un’atmosfera particolare, sono molto sensibili nell’accompagnarla. Però, avvolte, si deve combattere con queste difficoltà. Si dice che Otello sia un titolo iconico, certamente, ma lo è anche Aida e tante altre opere. La nostra vita, quella mia, di Jonas, di Federica, di Carlo Alvarez è di doverci confrontare con una partitura, con un capolavoro, che si chiami Otello, oppure Aida, Rigoletto o Tristan und Isolde! Certo, sono pezzi difficili, ma sono da conoscere e onorare. Inoltre, il nostro rispetto va a tutti i cantanti del passato, ma noi dobbiamo creare la nostra realtà e questa la possiamo ottenere solo lottando con il materiale, non avendo paura di entrare in una sorta di discussione personale con i capolavori, allora sì, questi prendono vita».

Un altro elemento in “Otello”  è il Coro di voci bianche. Una pagina impegnativa l’ingresso di Desdemona nel secondo atto?

«Quella scena mi ha creato trent’anni di mal di stomaco, devo ammetterlo. Perché per l’insieme, l’arpa, le chitarre, i mandolini, i bambini, il coro ridotto, è veramente difficile, ma l’inserimento di questo episodio è molto shakespeariano. Dopo tutta la drammaticità e l’energia del primo atto, malgrado il fatto che ci sia un duetto d’amore e dopo il Credo di Jago, abbiamo bisogno di un momento di riposo, di grande calma e innocenza, per celebrare la purezza, la bellezza di Desdemona. Questa situazione si pone in massimo contrasto con quello che precede e che seguirà e ci riporta direttamente a Shakespeare, dove ai momenti più tragici, più complessi e conflittuali, si frappone una scena da commedia, come due vagabondi, oppure due ubbriachi o i becchini in Amleto, entrano in scena e da quell’interruzione parte il dramma ed è questa una situazione molto teatrale».

Sino a che punto l’interpretazione di una partitura è influenzata dal momento stesso in cui questa è eseguita, ovvero il tempo presente; dalla reazione del pubblico, da un diverso approccio socio-culturale dell’epoca attuale. Sono condizionamenti, oppure opportunità?

«Ogni concerto, ogni allestimento è un’opportunità, per comunicare delle verità del nostro mondo. Io credo che l’essere umano non sia così cambiato rispetto al passato, che si provino delle emozioni che non hanno tempo, perché sono universali. Sono emozioni che abbiamo in comune con tutto il mondo, perché le condividiamo con la storia».

Una domanda di carattere personale, durante la sua esecuzione della “Messa da Requiem” di Giuseppe Verdi in Accademia, rimasi impressionato dall’interiorità del dialogo tra voci e orchestra, dall’esigenza di esprimere quell’interrogativo alla soglia della vita terrena. Verdi sembra porsi alla ricerca dell’espressione di una spiritualità altrimenti negata. Come, secondo lei, questa esigenza è risolta nella produzione verdiana di musica sacra e anche operistica e condivide questa mia riflessione?

«Dipende da cosa s’intende per spiritualità! La spiritualità per Verdi non era la chiesa, era la famiglia, è un rapporto personale con Dio. Il Requiem è una composizione della maturità e naturalmente con la sua sviluppata bravura acquisita negli anni, assume un linguaggio più sofisticato, anche maggiormente personale. Verdi è stato capace d’entrare in un mondo molto più misterioso e credo che nel linguaggio del suo passato, non trovo adesso la parola giusta, diciamo… più ruvido, arrivare a quegli apici di spiritualità del Requiem sarebbe stato meno facile, mentre è stato possibile nella pienezza del dominio del linguaggio musicale, non solo nella musica sacra, ma per esempio componendo Aida con una fluidità armonica che sembra così semplice, ma che non lo è! Verdi nella maturità è stato capace d’attingere ad atmosfere che neanche lui, forse, avrebbe potuto sognare di avere. Pensiamo a come avrà la capacità di attingere alla tradizione nell’uso della fuga, al riferimento di tutta la musica liturgica della storia d’Italia; era consapevole di avere tutto questo patrimonio alle spalle e lo maturò nelle sue composizioni, quanto nella propria umanità. Interessante che lui con il Requiem, con i Quattro Pezzi Sacri, c’è anche una piccola Ave Maria che è molto bella, l’abbiamo registrata, arrivò a livelli altissimi. Stiamo parlando di un Verdi che non è solo quello del mondo del palcoscenico, della lirica, ma che va ben oltre».

Esiste, per il direttore d’orchestra, un margine d’azione per esprimere nell’esecuzione di una partitura la propria personalità e sino a che punto?

«Sentendo questa domanda mi viene da sorridere, perché qualsiasi direttore che affermi di rispettare la partitura e di fare solo quello che c’è scritto, non è così! Perché con ogni direttore, pur guardando la stessa scrittura, il suono, i tempi, saranno leggermente diversi. Siamo tutti diversi l’uno dall’altro. Questo vuol dire che quando si è se stessi, pur nel rispetto dalla partitura e di tutti i segni in essa contenuti, ognuno arriva a eseguire un qualcosa di personale. Questo, ovviamente, si deve riferire a un fondamento di preparazione, di aver digerito il materiale, di aver comunicato all’orchestra con precisione quale sia il racconto, la sintassi di questa musica e che loro lo capiscano così bene, tanto da poterlo trasmettere al pubblico».

Quindi, la partitura deve essere, come disse il maestro Alberto Zedda, solo un punto di partenza per la creatività dell’artista-esecutore?

«Esatto! Diciamo, per me la cosa fondamentale è che la musica è morta fino a che è viva. Cioè è un pezzo di carta e il direttore deve farla uscire dalla pagina in cui è scritta, questo è il mio punto di partenza, cioè dimostrare un entusiasmo per qualsiasi cosa che possa essere interpretato come un’idea da parte del compositore, come una spunta verso una direzione inaspettata. Di cercare, sempre, di trasmettere il senso di gioia che c’è nella musica agli esecutori, o almeno di convinzione della propria missione».

Tra i diversi incarichi, come detto, lei è anche Direttore musicale della Royal Opera House Covent Garden e nelle produzioni da lei dirette, più che in altri allestimenti oggi di successo, sembra essersi creato un diverso equilibrio tra podio e palcoscenico perché, pur nell’innovazione della proposta, la parte visiva non cerca mai il sopravvento sulla scrittura musicale. E’ possibile affermare che oggi, considerati vetusti gli allestimenti tradizionali che pur avevano il loro fascino e spettacolarità, possa considerarsi superata la così detta fase sperimentale della ricerca di diverse espressioni e stia maturando un più efficace equilibrio, che pur tenendo conto delle diverse esigenze estetiche del pubblico contemporaneo, riconduce ai significati autentici della tradizione del melodramma?

«Io cerco di lavorare con registi che siano musicali, non ho bisogno che loro siano professori di musica, ma che abbiano una grandissima sensibilità alla musica e alla parola scenica, questo per me è fondamentale. Non guardo alla bellezza o all’indirizzo della messa in scena, io sono molto più libero, nel senso di trovare una soluzione poeticamente valida. Per rispondere più direttamente alla domanda, ci sono degli spettacoli che riescono a essere innovativi pur rispettando il contenuto dell’opera proposta. Non è facile, in particolare con Verdi. In qualche modo Verdi è molto legato alla sua epoca. Però, non è impossibile».

Una conciliazione tra proposta e ricezione del pubblico?

«Il fatto è che una gran parte del pubblico, se il racconto, se la trama dice che c’è quella cosa, vuole vedere quella cosa. Il problema, avvolte, non è solo il regista, oppure lo scenografo o le idee che regista e scenografo hanno concepito insieme. Io personalmente non sono così, diciamo, talebano, per me importanti sono i rapporti tra i personaggi e se uno spettacolo fa capire che gli interpreti si stanno ascoltando, stanno comunicando, stanno collaborando e che il direttore d’orchestra crea un’unità tra palco e buca, questa per me è una produzione riuscita».

Il pubblico, avvolte, si divide nella reazione a una proposta; cosa pensa dei così detti tradizionalisti?

«Che c’è una gran parte del pubblico che sul palco ha una necessità viscerale di realismo. Se si dice che c’è una tavola, una sedia, allora devono essere una tavola e una sedia. Se c’è scritto che deve apparire un castello allora deve essere un castello, se c’è una montagna deve essere una montagna. Io penso che quando si entra in un teatro si debba avere la mente aperta, non dico che non si possa criticare, nella nostra società c’è la libertà di espressione, però a priori venire a teatro e dire che se quella Carmen o quella Traviata non sono così come è sempre stato, altrimenti do i numeri, questo no! Certamente, non sono d’accordo nell’andare a cercare da parte di alcuni registi forzatamente la bruttezza o la scurrilità, perché va contro il senso di ogni partitura e in questi casi, io personalmente, ho dei problemi… Ma vorrei aggiungere che non va bene, neanche, se il direttore non è sensibile alla musica e dirige solo le parole; l’argomento è molto complesso».

Sale da concerto, teatri, sono i luoghi ideali per ogni esecuzione. A questi, si aggiungono le riprese televisive e gli altri mezzi di diffusione, che ancor più in questo periodo di confinamento, hanno supplito all’esigenza di essere accompagnati dalla musica.  In questi mesi siamo stati più volte confortati dalle registrazioni di concerti da lei diretti con l’Orchestra dell’Accademia e dalla diffusione di produzioni dal Covent Garden, così come in precedenza molto interesse aveva suscitato il progetto di dirette di eventi musicali diffusi in sale cinematografiche.  Qual è l’importanza di queste iniziative e quanto resta importante il richiamo del pubblico, quello affezionato e anche di una rinnovata e più vasta platea, nei luoghi deputati per l’ascolto e la visione di concerti e di opere?

«La tecnologia, oggi, è fondamentale per avere un rapporto con la realtà e credo che tutti noi, in questo periodo di lockdown, ci siamo avvicinati ancora di più a questo mondo. Se una persona non può arrivare al concerto, non può essere lì, a partecipare dal vivo e usa la tecnologia per avere l’esperienza di quello che noi stiamo facendo, io trovo che questa sia una cosa bella; è importante che adesso una parte del nostro mondo si avvicini all’arte tramite la comunicazione digitale! Rimarrà così, ma sempre con l’incoraggiamento da parte di tutto il nostro settore e mio personale per affermare che niente può rimpiazzare la musica dal vivo. Dobbiamo fare qualsiasi sforzo per non dimenticarlo, che la musica dal vivo è una cosa speciale, è una comunità che creiamo e di cui abbiamo necessità. Questa è la nostra storia e allora dobbiamo cercare di salvaguardare questo concetto così importante, così umano, umanistico anche, così caloroso e bello. Abbiamo la possibilità di comunicare la nostra musica dal vivo e le nostre sale sono capienti e le opportunità torneranno a presentarsi numerose. Detto questo, certamente, in questo periodo è stato molto interessante per dimostrare che siamo capaci ed è stato anche necessario, di trasmettere la nostra musica tramite mezzi virtuali …E che gioia avere questa possibilità, di poter usare la tecnologia per diffondere il messaggio musicale. Il digitale, secondo me è una grande opportunità; la speranza è che la nostra società sia sempre in sviluppo e disponibile a offrire un qualcosa di migliore. Comunque, dobbiamo essere pronti a tornare, appena ci sarà reso possibile, a offrire un messaggio umano e non solo meccanico, così come è avvenuto per la stagione estiva all’aperto dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia. Con questo momento di arresto di tutte le attività è difficile rendersi conto di quello che sta avvenendo, perché le orchestre sono restate a lungo in silenzio, i teatri sono vuoti. Roma, come altri luoghi in Italia, ha la fortuna di avere delle stagioni musicali estive all’aperto, in spazi che permettono di avere un pubblico non troppo esiguo anche con l’attuale normativa. Adesso dobbiamo affrontare le stagioni al chiuso, in autunno e in inverno e stiamo riscaldando in qualche maniera le nostre anime, le nostre dita, il nostro respiro, le nostre voci, per continuare a passare questo messaggio così com’era sempre stato pensato, cioè in comunità, con delle altre persone. Chiedo scusa, adesso divento troppo poetico, forse… Ma io credo in questo, ci credo molto».

Preoccupazioni per il futuro, in una realtà nella quale alla cultura non sempre sembra sia riconosciuto un valore sociale ed evolutivo?

«Devo dire che in questo momento siamo in uno stato di preoccupazione dappertutto e che anche le questioni economiche hanno il potenziale per essere fatali. Questo non lo possiamo nascondere! Io spero che qualsiasi governo, in qualsiasi paese, si renda conto che siamo un punto di riferimento e questo in particolare in Italia; che siamo definiti per la nostra cultura. La specificità comprende anche la tradizione del cibo, del vino, ma soprattutto la cultura della nostra storia, dei musei, dell’arte, della cinematografia e ovviamente della musica sia sinfonica che lirica, ma anche pop e qualsiasi altra forma espressiva. I governi non devono dare mai per scontato che noi si possa sopravvivere come in una bolla, devono rendersi conto che facciamo parte dell’essenza stessa del Paese. Non dico, ovviamente, che la gente possa non aver da mangiare, negare che ci siano tanti altri problemi e che l’arte sia più importante, questo mai; non direi mai una cosa simile, però chiedo di non essere dimenticati».

Si dice frequentemente che nella ripresa, dopo la pandemia, nulla sarà più come prima.  Servendomi di un ironico “gergo colloquiale“, per la cultura musicale sarebbe una minaccia oppure una promessa”?

«Noi stiamo vivendo questa esperienza in comune con tutto il mondo, con altri musicisti, con i popoli e i governi di tutto il mondo. Allora, io credo che questa esperienza meriti rispetto. Il ricordo di questo momento nella nostra storia rimarrà per sempre e sottilmente cambierà, io spero, il nostro approccio con il prossimo. Forse questo concetto è …no… non è solo cristiano, è un sentimento dell’essere umano e spero che insieme, con l’esperienza del ritrovarci per un concerto o un’opera, ci si renda conto ancor più di prima che la condivisione, questa comunità creata per sentire insieme qualcosa di bello, per vedere insieme qualcosa di bello, sia una consapevolezza quanto mai preziosa. Questa è la mia speranza».

Quindi la musica è bellezza?

«La musica è tantissime cose: è bellezza, poesia, conflitto, caos, passione, spiritualità. Tantissime cose».

Vincenzo Grisostomi Travaglini