“Marche: la Terra dei cento Teatri”, un articolo del Maestro Vincenzo Grisostomi Travaglini in “L’Opera International Magazine”, Aprile 2021


I teatri storici nelle Marche sono nel loro complesso il sistema teatrale più articolato d’Italia, con una gamma di spazi che vanno dai grandi edifici municipali, come quelli di Pesaro, Fano, Jesi, Fabriano, Macerata, Fermo, Ascoli Piceno ed Ancona, a teatri medio grandi di eccezionale valore artistico, fino alle piccole gemme disseminate nei centri minori. Una realtà complessa, di difficile gestione sia per il mantenimento delle strutture, sia per l’individuazione della ritrovata funzione all’interno della comunità, per un utilizzo conveniente di una struttura che è parte integrante del territorio; che deve vivere nel presente non quale reperto museale, ma nella sua funzione originale di unione, per una condivisione dinamica di una collettiva maturazione artistica. Il retaggio storico di tale fioritura va ricercato nel passato, nelle origini e diversità di una regione, la sola in Italia che abbia conservato una declinazione al plurale, nel nome e nella varietà dei suoi abitanti. Un plurale in qualche modo unificante è stato precisato, ufficializzato sin dal Protocollo finale del Congresso di Vienna nel 1815, per un territorio così ricco quanto frastagliato. Le Marche sono la regione dai dolci colli e dai tanti dialetti, terra di artisti, di Raffaello, Leopardi e di Federico II, di Pergolesi, Spontini, Rossini e delle fisarmoniche; la regione del Tronto e dell’Esino. Una diversità che non divide, bensì è ineguagliabile ricchezza.


Le Marche sono Terra dei cento Teatri, un termine che riflette la risorsa di molteplici edifici diffusi in tutto quel territorio compiuto che fu Marca di Urbino, di Ancona, di Camerino, di Fermo e Picena. Rievocando la storia, numerosi furono gli spazi per gli spettacoli già in epoca romana, edificati in quel territorio dove oggi s’identifica la regione Marche, dove erano presenti 35 municipi e ognuno dei quali era dotato di teatro o di anfiteatro. Molte di queste strutture sono andate perdute, provate dal tempo e dall’uomo, di altre restano tracce, come a Fermo, Villa Potenza, Jesi, Ostra, Acqualagna, Urbino. Ad Ascoli Piceno sono ben visibili i ruderi del teatro romano ed è stato individuato l’ampio perimetro di un anfiteatro sempre di epoca romana, a ulteriore testimonianza della vitalità del territorio. A meglio documentare le caratteristiche legate alla cultura d’epoca romana dello spettacolo e dei giochi circensi sono le strutture del teatro e anfiteatro di Falerone e di Urbisaglia, quest’ultimi all’interno del parco archeologico più esteso della regione. Lavori importanti sono tutt’ora in corso per riportare alla luce l’anfiteatro di Suasa, uno dei maggiori della regione, già utilizzato in anni recenti per ospitare spettacoli teatrali e musicali. La successiva fioritura di spazi destinati allo spettacolo, dal XVI secolo in poi, risulta dall’imporsi degli avvenimenti; la formazione dei territori si diversifica nell’identificazione del Libero comune di origine medievale e nell’orgoglio di proprie identità, che verranno mantenute anche in tempi successivi, remoti quanto recenti e in ogni comunità grande o piccola che sia, allo sviluppo di una propria specificità, di cui l’edificio teatrale sarà parte integrante.Per l’avvio di questa realtà, che con azzardo potremo definire d’epoca recente, si può indicare una data e un luogo: la corte d’Urbino nel 1513, nello storico ducato che fu dei Montefeltro, dove nasce il primo allestimento scenico dell’età moderna, quando nella Sala del trono di Palazzo Ducale in onore di Francesco Maria I Della Rovere, si allestisce un grandioso spettacolo con La Calandria del cardinale Bernardo Dovizi da Bibbiena e Prologo di Baldassarre Castiglione: «in prosa, non in versi; moderna, non antiqua; vulgare, non latina». E’ l’occasione per l’incontro di tre grandi ingegni quali Bernardo Dovizi detto il Bibbiena, l’architetto di corte Girolamo Genga che ne progetta la grandiosa scenografia e Baldassare Castiglione, uno dei più celebri intellettuali del Rinascimento, che compone i quattro Intermezzi della commedia e firma la prima regia di quella che definiremo l’ età moderna della messa in scena. La descrizione fatta dal Castiglione permette di avere un’idea del nuovo rapporto venutosi a creare tra teatro e città grazie alle scenografie realizzate per La Calandria da Girolamo Genga, dalle quali s’introduce la scenografia prospettica dipinta, codificata e divulgata in Europa attraverso il celebre trattato di Sebastiano Serlio. Questa nuova realtà culturale non si limita alla corte, a distanza di pochi anni in altre città marchigiane la Sala delle commedie viene allestita all’interno del Palazzo pubblico. Le regione vanta anche altri primati in campo teatrale, poiché l’architetto pesarese Nicola Sabbatini scrisse nel 1637 il primo trattato di scenografia Pratica di fabbricar schene e Machine ne’ Teatri, mentre l’architetto e scenografo Giacomo Torelli, nativo di Fano, si afferma come il più grande scenografo d’Europa, prima a Venezia, poi in Francia alla corte del Re Sole. La molteplicità dello spazio barocco trova espressione nelle Marche nelle realizzazioni di Nicola Sabbatini e del celebre Giacomo Torelli, la cui abilità scenotecnica porta alla realizzazione di scene mobili. Le strutture effimere, originali dei teatri, sono rapidamente soppiantate da arredi, apparati, palchi, in un’articolazione sempre più complessa dello spazio scenico ricavato all’interno della così detta Sala grande, fino a giungere a costruzioni di legno ben strutturate, spesso ricavate all’interno del Palazzo di città, comunale o residenza gentilizia che ben presto, però, si riveleranno a grosso rischio d’incendio.


La filosofia illuminista, penetrando nelle classi più colte, favoriva il gusto per lo spettacolo e la creazione di strutture stabili per il teatro. Dal XVIII secolo le regione è appassionata nella diffusione capillare di sale da spettacolo, che coinvolge non solo i maggiori, ma anche i piccoli centri. Nelle Marche in particolare, ma in diversi aspetti anche in altre regioni, i teatri sono inizialmente costruiti su iniziativa di associazioni di privati che assumono il nome di Società condominiali, che provvedono al finanziamento per la realizzazione del progetto, fissando delle quote associative che garantiscono a ogni famiglia la proprietà di un palco, assicurando anche la gestione e la manutenzione dell’edificio. Alternativo alla Sala dello spettacolo del palazzo era il giardino o roccolo della villa di campagna, dove venivano ricavate tramite una strutturazione artificiale del verde, dei veri e propri schemi vegetali. Nel parco di Villa Caprile nel pesarese, residenza estiva della famiglia dei marchesi Mosca, ancora oggi si conserva nello splendido giardino all’italiana il Teatro di Verzura, a testimonianza di questo gusto per l’Arcadia che tanto peso ebbe nella cultura settecentesca. Qui, tra gli altri, fu accolto Giacomo Casanova e nell’Ottocento vennero ospiti Stendhal, Gioachino Rossini, Giacomo Leopardi e il generale Napoleone Bonaparte. Nel 2001, nell’ex galoppatoio di Villa Caprile, venne allestita dal Rossini Opera Festival la Festa musicale Le nozze di Teti e di Peleo, un pastiche con composizioni del compositore pesarese. Altra testimonianza è quella di Villa Centofinestre, nel comune di Filotrano, dove è ancora visibile il semicerchio di cipressi dove all’epoca, con tutta probabilità, vi era una struttura di verde più articolata.


Le Marche dell’epoca non conoscevano ancora un’unità amministrativa, anche se questo non impedì la formazione di un senso di appartenenza comune. E’ così che in molte città si approfitta della favorevole congiuntura economica legata allo sviluppo agricolo per dare vita a una fioritura di edifici teatrali. Dalla seconda metà del ‘700 e per tutto il XIX secolo ogni comune, che avesse voluto svolgere un ruolo sul territorio circostante, cominciò a programmare la costruzione del proprio teatro, anche se con una capienza di soli 50 posti. Per la progettazione prende avvio una vera e propria gara tra le diverse realtà territoriali al fine di potersi aggiudicare l’architetto più in vista del momento e vantare nel proprio comune l’edificio il più sorprendente. Vengono interpellati rinomati architetti marchigiani quali Domenico Bianconi, Pietro Ciaffaroni, Giuseppe Lucatelli, Ireneo Aleandri, Pietro e Vincenzo Ghinelli, Giuseppe Sabbatini, Luigi Petrini e ancor più celebri Antonio Galli Bibiena, Giuseppe Piermarini, Domenico Morelli, Pietro Maggi e Luigi Poletti. Nel corso dell’Ottocento si diffonde la passione per il melodramma e per il teatro di prosa, praticato non solo da attori professionisti, ma anche da rampolli della nobiltà locale. Nel 1834 in una delle pubblicazioni del maceratese Amico Ricci, lo storico dell’arte ipotizza che i giovani delle nobili casate marchigiane, non essendo più coinvolti in fatti di guerra, si erano talmente appassionati alle lettere, poesia e testi teatrali, da incentivare nelle città di appartenenza la costruzione di sale, appositamente per potersi esibire nei loro componimenti. Il teatro così detto all’italiana diviene il simbolo di questa distinzione dei ceti sociali ed è proprio il luogo di spettacolo che rappresenta l’esigenza di testimonianza intellettuale della città. Si costruiscono e si rinnovano sale, si moltiplicano accademie, si ampliano le cappelle musicali. Sempre più, si avverte l’esigenza di dotare i centri urbani di un teatro pubblico, con lo scopo di creare uno spazio destinato a un “sano” divertimento, soprattutto per i giovani. Tra questi giovani, il poeta Giacomo Leopardi che recita nel piccolo teatro privato all’interno del palazzo Cassi a Pesaro, parenti della nonna Virginia Mosca, struttura, purtroppo, demolita nel 1950, così come a Palazzo Leopardi a Recanati, dove il padre, conte Monaldo, aveva fissato la sede di un’accademia e dove il divario nella”sala grande” compiuto da due scalini, oggi colmati da una struttura lignea, ne lascia intravedere la forma originale. Quasi tutti i teatri nei palazzi nobiliari nella regione, un tempo fiorenti, sono stati nel tempo smantellati, quali ad Ascoli nelle case Alvitreti e Ciucci, affittando le scene del Comune, oppure dai Passionei di Fossombrone, dove si realizzarono dei veri e propri palchettoni.
Nel 1868 si possono contare nelle Marche ben 113 teatri e tutti i comuni si facevano vanto di esserne dotati, rivaleggiando tra loro nell’abbellimento della sala e per artisti ospiti. Ogni centro urbano, in una sorta di campanilismo persistente, realizza questo spazio, coinvolgendo qualità di manodopera e di professionalità, favorendo altresì l’economia del luogo. Le città si rinnovano ed il teatro in muratura dall’inizio dell’Ottocento è spesso al centro delle nuove sistemazioni quale punto di riferimento connotativo al decoro urbano. Le scelte architettoniche seguono avvolte le mode, l’esigenze avvolte capricciose della committenza o la conformazione degli spazi dove la sala verrà compresa. Nella realizzazione si passa dall’arcadica conformazione a U, alla fantasiosa tipologia a campana introdotta dai celebri Galli Bibiena, alla neoclassica interpretazione della forma ellissoidale, per giungere alla più tipica pianta a ferro di cavallo con il bulbo più o meno accentuato, ma senza che queste diverse soluzioni abbiano avuto, nell’incalzante ambizione del primeggiare, una logica temporale. I condomini teatrali, nell’evolversi dei tempi, si trasformano per lo più da privati in pubblici, in quanto l’iniziativa della costruzione del nuovo edificio in muratura, spesso a sostituzione della vetusta struttura in legno, viene presa in carico dalla municipalità che ne mantiene la proprietà; in altri casi i condomini si riorganizzano nel sistema così detto “misto”, ovvero gestito con capitali sia della municipalità che di privati; quest’ultimi, vistosi successivamente negata la proprietà del palco, intenteranno causa all’amministrazione comunale, senza ottenere risultato. I palchi, avvolte, di stagione in stagione, vengono estratti a sorte, per evitare rivendicazioni delle famiglie più facoltose. Il teatro è definitivamente un bene pubblico.


Il melodramma è il dominatore incontrastato delle scene; dalla seconda metà del Settecento ai primi decenni del Novecento, fino alla prima guerra mondiale, si allestiscono importanti stagioni liriche con la partecipazione di famosi cantanti, a testimoniare la passione di un pubblico attento e partecipe. La crisi degli anni ’80 del XIX secolo influì pesantemente sull’industria dello spettacolo, segnando una battuta d’arresto alla sua evoluzione. Seguirono anni di silenzioso abbandono! Dei 131 teatri censiti nel 1868 nelle Marche, numerosi sono stati tramandati, tenendo conto delle mutazioni evolutive, pressoché intatti, sia pure dopo accurati restauri; altri ricostruiti in seguito ad incendi e bombardamenti delle due guerre, sono stati poi gradualmente scalzati dall’avvento del cinematografo, che stravolge l’uso di alcuni spazi, subendo un’alterazione radicale della sala con la semplice organizzazione in platea e galleria. Altri, saranno trasformati in magazzini, degradati e rimpiazzati per speculazione da edifici commerciali. Sono 73 i teatri storici presenti oggi nella regione, con diverso metodo di calcolo se ne potrebbero annoverare sino a 76, quando nel 1995, al momento dell’avvio dell’attività del nuovo governo regionale, il quadro della conservazione di molti degli edifici storici era di fatto preoccupante, anche se alcuni progetti di restauro erano stati già avviati. Solo una quindicina quelli in attività, i lavori di recupero di altri in molti casi fermi, avvolte nemmeno avviati. Non si può non riconoscere che a metà anni ‘90 con la nomina del professor Gino Troli ad Assessore alla cultura della Regione Marche avvenne una vera e propria svolta che ha condotto alla riapertura, alle porte del nuovo millennio, della quasi totalità dei teatri storici marchigiani, con lo stanziamento di fondi principalmente regionali, comunali e provenienti da sovvenzioni dell’Unione Europea. Nella realizzazione del progetto di recupero di questo patrimonio, fondamentale è stato il coinvolgimento di Eustacchio Montemurro Dirigente del Servizio Beni e Attività culturali e dell’architetto Tiziana Maffei, così come le iniziative congiunte del Fai-Marche e dell’Associazione Marche Segrete, presiedute dalla principessa Giulia Panichi Pignatelli di Castel di Lama, che con determinazione ed impegno ha promosso l’individuazione, recupero e rivalutazione di tanti spazi teatrali e beni storici in abbandono. Un lavoro certosino per un risultato considerevole dove, però, a un ritrovato splendore delle strutture, non sempre ha corrisposto il legittimo ritorno a una rinnovata vita culturale.


I devastanti terremoti del 2016 e 2017 hanno lesionato alcuni di questi edifici, soprattutto il Teatro Filippo Marchetti di Camerino, che è nella lista tra i primi monumenti su cui intervenire; solo piccoli lesioni per il Filippo Marchetti di Camerino e il Feronia di San Severino Marche. Sono tanti i teatri storici presenti nelle grandi e medie città, così come nei piccoli centri delle Marche e tutti meriterebbero di essere menzionati in questo grand-tour regionale, ma ci limiteremo ad alcuni esempi. Non si può che iniziare dalla provincia di Pesaro e Urbino, che vede raggruppati i due maggiori centri del territorio. Il Teatro Raffaello Sanzio di Urbino venne eretto sulla parte superiore della rampa elicoidale, denominata dell’Abbondanza. Sin dal 1829 la comunità gentilizia di Urbino si era espressa a favore della costruzione di un nuovo edificio teatrale «primo ed essenziale ornamento di ogni culta città», che andasse a rimpiazzare il Teatro dell’Accademia dei Nobili Pascolini, la cui collocazione all’interno di Palazzo Ducale ne rendeva limitata la fruizione. Nel 1840 venne indetto un concorso, vinto dall’architetto Vincenzo Ghinelli di Senigallia, che volle inserirlo in un più articolato piano urbanistico, non integralmente realizzato. L’inaugurazione è del 1853. La struttura è stata radicalmente modificata in epoca relativamente recente, tra il 1996 e ‘97, alterandone l’assetto originale. Si volle intitolato all’illustre concittadino Raffaello Sanzio, di cui nell’atrio è conservato il busto incompiuto dello scultore Carlo Finelli. A Pesaro è situato il teatro che porta il nome dell’illustre compositore nativo pesarese, Gioachino Rossini. Per risalire alle origini della costruzione bisogna rievocare il Teatro del Sole, eretto al posto delle vecchie scuderie ducali di Guidubaldo II Della Rovere nel 1637 e nello stesso luogo, nel 1818 praticamente riedificato, quale Teatro Nuovo, inaugurato con La gazza ladra, presente lo stesso autore ventiseienne. Progettato con la forma classica a forma di ferro di cavallo con quattro ordini di palchi più il loggione, il Nuovo nel 1855 verrà intitolato Rossini, ancora vivente il compositore. Dal 1980 è sede principale del prestigioso Rossini Opera Festival, che si avvale anche dell’Auditorium Pedrotti, nato quale sala da concerto nella sede del Liceo Musicale, anch’esso dedicato all’illustre pesarese, dove sono stati ospitati importanti produzioni liriche, tra cui nel 1984 l’indimenticata “prima” de Il viaggio a Reims di Rossini, direttore Claudio Abbado, regia di Luca Ronconi, scene di Gae Aulenti; oggi la sala è temporaneamente chiusa per restauri. La richiesta di una platea più vasta per il Festival ha imposto la scelta di spazi capienti, identificati dal 2006 ne l’Adriatic Arena poi dal 2019 Vitrigo Arena, un funzionale impianto polivalente, spazioso e moderno, quanto poco consono per rappresentazioni liriche. Altro gioiello della provincia di Pesaro-Urbino è il Teatro della Fortuna di Fano, il cui nome risale alla denominazione latina della città: Fanum Fortunae, dal tempio della Fortuna, probabilmente eretto a testimonianza della battaglia del Metauro nell’anno 207 a.C. . All’interno del Palazzo del Podestà di Fano la prima esecuzione teatrale è documentata al Carnevale del 1491 con la Rappresentatio Apollinis et Daphnes conversae in laurum di Giovanni Antonio Torelli, avo dell’illustre scenografo e architetto Giacomo Torelli. A quest’ultimo, di ritorno dalla Francia di Luigi XIV, venne affidata la progettazione del nuovo teatro a pianta di rettangolo absidato con cinque ordini di palchi, così come realizzato nei più importanti teatri dell’epoca. I lavori vennero ultimati nel 1677. La tradizione vuole che l’imperatore Leopoldo I d’Asburgo volle far edificare il teatro di Vienna sul modello ideato dal Torelli per Fano. Nel 1718 fu incaricato del restauro Ferdinando Bibiena, che fece ridipingere l’intero complesso, ampliò la dote scenografica del palcoscenico e fece realizzare un sipario in cui era raffigurata in prospettiva simmetrica, come in uno specchio, la sala del teatro in una contrapposizione di stampo tipicamente barocco tra il contenitore e il suo riflesso. Nel 1842 fu commissionata a Luigi Poletti la progettazione del nuovo teatro sempre all’interno del Palazzo del Podestà, demolendo quello del Torelli. Per la stagione inaugurale del 1863 vennero programmate 23 serate, con in scena Il Trovatore e il Macbeth di Verdi, La Favorita di Donizetti. Gravemente danneggiato nel corso dell’ultima guerra, il Teatro della Fortuna è stato riaperto nel 1998, dopo cinquattaquattro anni di complessi, meticolosi interventi di restauro e ristrutturazione, restituito al suo originario splendore e rinnovato negli impianti e attrezzature tecniche. All’interno si possono ammirare, oltre a una bellissima cavea neoclassica, uno dei più significativi sipari storici opera di Francesco Grandi, che raffigura un immaginario ingresso dell’Imperatore Cesare Ottaviano Augusto nell’antica Colonia Iulia Fanestris.


Dedicato a Mario Tiberini è l’ottocentesco teatro di San Lorenzo in Campo. Inizialmente denominato Teatro Trionfo, è un modello di “teatro di sala” ricavato in quella che probabilmente era la Sala da ballo, all’interno del cinquecentesco Palazzo Della Rovere, dove dalla metà del Settecento vi era un teatrino “alla francese”, montato e smontato secondo esigenza. Della nuova costruzione s’inizio a discutere nel 1813 durante il napoleonico Regno d’Italia, teatro che fu edificato solo dopo la restaurazione pontificia del 1816 su disegno del capomastro Luigi Tiberi; intitolato nel 1880 a Mario Tiberini celebre tenore nativo di San Lorenzo in Campo. Dopo un accurato restauro, il teatro è stato riaperto al pubblico nel 1983, mantenendo, nel suo insieme, l’aspetto originario. Caratteristico è il Teatro della Rocca di Sassocorvaro, posto all’interno della Rocca Ubaldinesca, che si distingue per essere strutturato alla francese, in una composizione del tutto particolare, privo di palchi, dotato di un solo palchettone ligneo fiancheggiato da paraste. Caratterizzato in elegante stile settecentesco nelle decorazioni, pur essendo state realizzate a metà dell’Ottocento. L’edificio diede rifugio a 10.000 opere d’arte italiane durante la seconda guerra mondiale. Il Teatro delle Muse risalente al 1754 è la prima struttura teatrale nel Comune di Cagli, sostituita dall’attuale Comunale inaugurato nel 1878 con la prima assoluta de Il violino del diavolo del compositore Agostino Mercuri nato nella non lontana Sant’Angelo in Vado. La struttura si caratterizza per le eclettiche decorazioni di fine Ottocento, che nel codice decorativo delle sale teatrali segna l’avvenuto trapasso del pluralismo neoclassico. Nel teatro è conservata la dotazione scenotecnica, così come in altre sale nelle Marche, con preziosi fondali d’epoca e gli originali comodini, ovvero un sipario arretrato rispetto al principale, utilizzato per il cambiamento delle scene e dotato di una passaggio centrale o due laterali, per permettere agli artisti di mostrarsi alla ribalta per gli applausi. Dieci fondali e quinte, inoltre, sono conservati nel palcoscenico del Comunale, realizzati da Girolamo Magnani, lo scenografo prediletto da Giuseppe Verdi. Restando in argomento sipari storici e fondali, vanno ricordati alcuni dipinti dalla famiglia degli scenografi Liverani, la cui testimonianza è conservata in alcuni teatri marchigiani, tra cui il Teatro del Trionfo nel piccolo borgo di Cartoceto, costruito fra il 1725 e il 1730 in un’ex deposito di olive, riedificato nel 1801 è dotato di tre ordini di palchi in legno. Nella provincia è annoverato quale terzo per antichità, dopo il Teatro Angel dal Foco di Pergola e l’Apollo di Mondavio. All’interno del Teatro del Trionfo la cui sala, nonostante alcuni lavori di manutenzione è, purtroppo, ancora inagibile, vi è conservato, in condizioni non ottimali, il pregevole sipario storico di Romolo Liverani.


Dalla provincia di Pesaro-Urbino a quella di Ancona, che, secondo una guida redatta dagli uffici della Regione, possiede 15 teatri storici, ma il numero potrebbe salire a 31 se si contano anche altre strutture. Per diritto di precedenza al capoluogo, inizieremo la visita dal Teatro delle Muse di Ancona, che dopo la ricostruzione della sala, ferita durante la Seconda Guerra Mondiale e poi demolita, nella logica di un intervento che fa ancor oggi discutere, avrebbe diritto di essere riconosciuto, dalla riapertura, quale sede di Fondazione lirico-sinfonica. Nell’Italia centrale ben due regioni non vantano il privilegio di una Fondazione lirico-sinfonica, le Marche e l’Umbria. Polemiche a parte, i bombardamenti che colpirono duramente Ancona, in quanto città portuale, danneggiarono la copertura del Delle Muse e l’attività dovette essere sospesa e lo rimarrà per ben 59 anni. Dopo molte controversie, si decise per la demolizione della sala, mentre altre strutture interne e l’apprezzabile facciata in forma neoclassica rimasero intatte. Il progetto definitivo di ricostruzione è degli architetti Danilo Guerri e Paola Salmoni, il cui scopo dichiarato fu quello di stabilire un rapporto armonico tra la riprogettazione in stile moderno della sala e lo spazio urbano circostante; all’impatto visivo, ancora una volta nell’edificazione di una struttura di sala da spettacolo, seguendo il concetto urbinate di Baldassare Castiglione. Viene mantenuta la facciata neoclassica di derivazione palladiana e in parte conservata la scala di ingresso e l’originario atrio. Vengono nuovamente decorate in stile moderno dall’architetto Leonello Cipolloni le sale del Casino Dorico, pur non avendo subito danneggiamenti significativi, destinate a feste e incontri culturali. All’interno dell’edificio è ricavato un ridotto. La nuova struttura è inaugurata nel 2002 con Idomeneo di Mozart, Lucia di Lammermoor di Donizetti, Madama Butterfly di Puccini e la prima di Canto di Pace, su parole di S. Giovanni Paolo II e musica di Marco Tutino. La storia del Massimo anconetano è lunga e complessa, così come per le principali strutture marchigiane. Un primo edificio è documentato sin dal 1665 con il nome di Teatro dell’Arsenale, distrutto nel novembre 1709 da un incendio. Dopo solo due anni venne inaugurato il nuovo Teatro della Fenice, rinascente dalle ceneri del precedente, una caratteristica ricorrente nella storia dei teatri italiani. Curioso sottolineare che alla ricostruzione del Teatro della Fenice contribuirono le donazioni di alcune facoltose famiglie, che in cambio entrarono a far parte della nobiltà anconitana. Nello scorrere del tempo e nel maturare delle nuove esigenze legate agli spazi urbani con la collocazione dell’edificio teatrale quale perno urbano a simbolo della vita culturale, nel 1819, un’apposita commissione determinò la demolizione del medioevale Palazzo del Bargello e al suo posto venne edificato il nuovo edificio che si volle dedicato alle nove Muse, raffigurate nel bassorilievo del timpano della facciata opera dello scultore Giacomo De Maria. Il Teatro delle Muse fu inaugurato nel 1827 presente Girolamo Bonaparte con due opere di Gioachino Rossini Aureliano in Palmira e Ricciardo e Zoraide. Altro ospite d’onore Vittorio Emanuele II per la stagione allestita nel 1861, in occasione dell’annessione di Ancona al Regno d’Italia, con in programma Il trovatore di Verdi. Il Teatro delle Muse, nella sua veste rinnovata, è considerato il più spazioso delle Marche, se si escludono luoghi teatrali impropri, classificato quale tredicesimo per capienza in Italia.
Il concetto del teatro quale elemento civico, modello introdotto dalla nuova concezione urbanistica dell’Ottocento, si realizza appieno nel Teatro Pergolesi di Jesi, già della Concordia. Il Teatro della Concordia venne inaugurato nel Carnevale del 1798 con esecuzione di tre operine: Lo spazzacamino principe e Le confusioni della somiglianza ossia Li due gobbi di Marcos António Portugal e La capricciosa corretta di Vicente Martín y Soler, con protagonista il soprano pesarese Anna Guidarini, madre di Gioachino Rossini. Una serata particolare, a causa delle vittorie napoleonica e del Trattato di Campoformio, con un pubblico di popolani e di giacobini “invasori”. Nel 1883 il Teatro venne intitolato a Giovan Battista Pergolesi nativo di Jesi. Precedentemente a Jesi, tra il 1728 ed il 1731 venne eretto il Teatro del Leone, una delle prime strutture “stabili” delle Marche. Per terminare la visita nella provincia di Ancona è d’obbligo una tappa al Teatro Gentile da Fabriano inaugurato nel 1884 con Aida di Verdi, terza struttura edificata nella città, dopo il Teatro dell’Aurora del 1692 e del Teatro Camurrio del 1852.


La provincia di Macerata è ricca di spazi teatrali e vanta il privilegio di avere una città, San Ginesio, dedicata al santo romano protettore degli attori e dei mimi. All’interno della regione, ci troviamo ora in quella che fu capitale del piccolo, ma importante Stato autonomo di Camerino, Signoria dei Da Varamo. Qui, dal 1728, si ergeva il teatro in legno ancora una volta intitolato al favoloso uccello sacro La Fenice. Il progetto per una nuova struttura in muratura, voluta dal Municipio e dall’aristocrazia, quindi nel sistema “misto”, risale al 1845 ed è di Vincenzo Ghinelli, architetto a cui si devono, tra gli altri, i teatri di Senigallia, Urbino, Cesena e Pesaro. Battezzato La Nuova Fenice, si apre con il Gentile da Varano del compositore Filippo Marchetti. Restaurato nel 1872, nel 1881 viene dedicato a Filippo Marchetti, con la messa in scena del suo dramma lirico più celebre il Ruy Blas, composto nel 1869. Da Camerino a Macerata, dove è operante uno dei teatri più rappresentativi della regione, dedicato nel 1884 al compositore Lauro Rossi. L’incarico di affidare il progetto per il nuovo teatro ad Antonio Galli detto il “Bibbiena” fu assegnato nel 1765 da quarantasei nobili maceratesi, che costituirono per l’impresa un condominio, volendo per la città una nuova struttura pubblica «…nell ’istesso sito ma in forma più amplia» della precedente, ovvero della cinquecentesca Sala de la Comedia. Il Bibbiena invia una pianta che ricalca il suo Teatro Pubblico, poi Comunale, di Bologna. Nella realizzazione viene mantenuta l’anomala tipologia a campana. Il teatro è un mirabile, quanto originale, esempio di prospetto urbano. Macerata è sede di un importante Festival, la cui sede principale per rappresentazioni liriche all’aperto è la suggestiva Arena Sferisterio, originalmente edificata per il gioco del pallone col bracciale. La progettazione dell’arena venne affidata nel 1823 al’architetto Ireneo Aleandri, a cui si deve, tra gli altri, il Teatro Nuovo di Spoleto, di recente dedicato alla memoria di Gian Carlo Menotti.


Proseguendo nel nostro percorso nel maceratese, ci troviamo in pieno classicismo al Teatro Comunale di Matelica, progettato da Giuseppe Piermarini nel 1805. A Giuseppe Lucatelli, pittore e architetto nativo del maceratese, si deve il progetto del Teatro dell’Aquila di Tolentino, successivamente intitolato al compositore concittadino Nicola Vaccaj. Lucatelli, allievo a Roma del pittore e storico dell’arte Anton Raphael Mengs, affascinato dal purismo francese, vi sperimenta con successo le sue doti d’architetto. Ultimati i lavori nel 1795, a causa della campagna d’Italia intrapresa da Napoleone Bonaparte, si dovette attendere per l’inaugurazione sino al 10 settembre 1797, giorno della ricorrenza di San Nicola da Tolentino. Nei primi anni del XVIII, trovandosi San Severino Marche priva di una sala di spettacolo a causa della demolizione del Palazzo Consolare, una delegazione di nobili costituirono un condominio per l’edificazione della nuova struttura in piazza Maggiore, affidandone nel 1740 la progettazione all’architetto fanense Domenico Bianconi, denominato Teatro de’ Condomini. Nel 1823 la struttura in legno risultò insicura per cui la Congregazione teatrale decise per un nuovo edificio in muratura, il Teatro Feronia, affidandone la realizzazione a Ireneo Aleandri, allievo presso l’Accademia di San Luca di Roma del neoclassico Raffaello Stern, giovane architetto locale che quello stesso anno aveva ricevuto l’incarico per l’edificazione dello Sferisterio di Macerata. Aleandri progetta una struttura elegante e slanciata verso l’alto, con pianta a ferro di cavallo, nella quale mostra per la prima volta nel soffitto le così dette unghiature bibianesche, che costituiranno in seguito una cifra distintiva del suo stile architettonico teatrale. Il sipario storico realizzato su bozzetto di Filippo Bigioli, è considerato un importante esempio di arte neoclassica. Terminati i lavori, il teatro venne inaugurato nel 1828 con Mosè in Egitto e Matilde di Shabran di Gioachino Rossini. Su una delle caratteristiche colline marchigiane, a cavallo tra la provincia di Ancona e di Macerata, a metà strada tra la dorsale appenninica e la costa adriatica, spicca lo storico centro di Montefano con il Teatro della Rondinella. La sala all’interno del Palazzo Comunale risale al 1802 e negli anni subì diversi interventi di manutenzione e ristrutturazione, fino a quello più radicale del 1887, su un’idea dell’architetto Luigi Daretti realizzata dall’ingegner Virgilio Tombolini, allora direttore tecnico al Gran Teatro la Fenice di Venezia. Chiuso per restauri, il teatro è stato riaperto nel 2004. A Recanati non potevamo che incontrare la nobile famiglia Leopardi, dove nel 1823 fu l’allora gonfaloniere Monaldo, padre del poeta Giacomo, a proporre l’erezione di un teatro tutto nuovo, in sostituzione del Teatro dei Nobili del 1719. La proposta fu accetta, ma subito iniziarono discussioni sul terreno su dove edificarlo, tanto che la città, per poter vantare il nuovo teatro dedicato al compositore concittadino Giuseppe Persiani, su disegno dell’architetto recanatese Tommaso Brandoni, dovette attendere il 1840. Per l’inaugurazione verrà rappresentata La Beatrice di Tenda di Vincenzo Bellini. Lasceremo il maceratese, solo dopo aver visitato nel comune di Penna San Giovanni, di circa mille abitanti, uno dei più piccoli teatri d’Italia: il Teatro Flora, vero gioiello architettonico edificato intorno al 1780, quasi interamente in legno, su indicazione dall’artista pennese Antonio Liuzzi, che ha conservato l’originaria decorazione barocca del pennese Antonio Liuzzi, con preziose pitture e a trompe l’oeil.


Nella provincia di Fermo e ancor prima nella sua più vasta collettività delle terre e dei castelli sotto la propria giurisdizione, ogni paese vantava la presenza di un teatro a dimostrazione di una consuetudine consolidata, per una popolazione che aveva recepito il melodramma quale parte integrante della propria formazione, sensibile alla cultura e alle novità dell’epoca. Molte delle sale teatrali della rinnovata provincia di Fermo e in particolare gli spazi presenti nei palazzi comunali dei piccoli centri, sono stati nel tempo demoliti. S’inizia dal teatro di Amandola, che percorre sentieri simili a quelli dell’intera regione. Qui il nuovo edificio viene inaugurato nel 1813 con il nome di Teatro dei Sigg. Condomini La Fenice, quindi più semplicemente La Fenice. Danneggiato dal terremoto del 2016/17, è in attesa di essere restituito al suo pubblico. Altro teatro storico nel territorio collinare del fermano è il Vincenzo Pagani di Monterrubbiano, inaugurato nel 1875, nell’area di un palazzo cinquecentesco detto il Palazzaccio della famiglia Pagani a cui appartiene il pittore Vincenzo. I restauri iniziati dal Comune nel 1984 ne hanno permesso la riapertura nel 1999. Il teatro è sede dell’Accademia di canto intitolata al celebre tenore recanatese Beniamino Gigli. Piccola perla del fermano è il Teatro dell’Iride di Petritoli, eretto nella seconda metà dell’Ottocento su progetto dell’ingegner Giuseppe Sabbatini di Montegiorgio, ispirato al Teatro della Fortuna di Fano che rappresentava, nelle Marche, l’esempio più innovativo della corrente purista, particolarmente sensibile al recupero filologico del repertorio classico.


L’inaugurazione è del 20 Maggio 1877. Dalla collina, alla costa adriatica con un altro piccolo, ma particolare teatro, il Comunale di Porto San Giorgio, sulla cui facciata troneggia la scritta del latinista francese Jean de Santeul: CASTIGAT RIDENDO MORES (-la satira- corregge i costumi deridendoli) . Inaugurato nel 1817 su disegno dell’architetto progettista Giuseppe Locatelli di Tolentino, venne intitolato a Vittorio Emanuele II nel 1860, in occasione del passaggio del re lungo la costa adriatica, avvenimento che ispirò lo scenografo Mariano Piervittori di Foligno per la pittura del sipario storico che, purtroppo, venne trafugato negli anni ’60. Dal 1992 il teatro ospita eventi di diverso genere e, con fierezza, esecuzioni del celebrato Corpo Bandistico Sangiorgese.
Brevemente, per il più recente Teatro Comunale di Campofilone, edificato negli anni 1928-1930 con una sottoscrizione pubblica di muratori e i braccianti che offrirono gratuitamente giornate di lavoro, altri sottoscrissero polizze di cento lire. Gravemente danneggiato, trasformato in ritrovo per sfollati, è stato recentemente restituito nella sua forma originaria grazie ad un attento restaurato. Con caratteristiche tutte proprie si presenta il Teatro Alaleona di Montegiorgio. Che Montegiorgio possa vantare un rilevante teatro storico non è frutto del caso, poiché l’inclinazione alla rappresentazione scenica è sempre stata una caratteristica di questa cittadinanza, testimoniata già dai secoli passati. E’ del 1869 l’iniziativa di affidare all’architetto locale Giuseppe Sabbatini di realizzare un progetto per il nuovo edificio, al cui estro si dovrà la particolare distinzione nell’assetto della sala a ferro di cavallo, con tre ordini di palchi ornati da cariatidi poste a rifinire i muri di divisione, con una sala dai rilucenti colori, restituiti dopo i recenti restauri. Il Teatro verrà chiamato inizialmente dell’Aquila ed inaugurato con la Maria di Rohan di Gaetano Donizetti. Ribattezzato nel 1914 Teatro Verdi, verrà dedicato alla memoria di Domenio Alaleona in data 8 settembre 1945 con un concerto di artisti marchigiani tra i più famosi, il tenore recanatese Beniamino Gigli e il basso di Ripatransone Luciano Neroni, direttore d’orchestra il maestro montegiorgese Mario Marcantoni. Montegiorgio manterrà, così, vivo il ricordo di Domenico Alaleona, uno dei suoi cittadini più illustri che fu compositore, scrittore, docente e fondatore della Società Nazionale di Musica Moderna, tra quella nutrita schiera di compositori che cercarono di rinnovare il linguaggio della musica all’inizio del XX secolo. Sebbene non abbia aderito al movimento futurista, tuttavia molti dei suoi atteggiamenti ne sono riconducibili, tanto da essere considerato l’unico rappresentate di questa corrente.


Centro politico e culturale del territorio nel corso dei secoli è Fermo, con il suo Teatro dell’Aquila, autentico vanto della città, tra i più significativi d’Italia per interesse storico e dimensioni. La città vantava un primo teatro “stabile” dal XVI secolo, chiamato Sala delle Commedie, oggi Sala del Mappamondo. Nel 1687 venne deciso di trasferire la sede per lo spettacolo nell’allora Gran Sala del Suffitto, oggi Sala dei Ritratti, denominata dal 1690 Teatro di Fermo oppure Sala del Teatro. Nel 1746, nello stesso luogo, venne realizzata in legno una prima struttura che, dai disegni a schizzo conservati, si presume fosse dotata d una platea di 124 posti e di tre ordini di palchi, di cui il primo diviso in “casini” e gli altri due a loggia, che prese il nome di Nuovo Teatro dell’Aquila, dall’attigua Sala dell’Aquila, quella dell’antico Concilium generale. Il 18 febbraio 1779 Il Consiglio di Cernita, essendo la sala stata danneggiata nel 1774 da un incendio sia pure di piccola entità, decise di non ricostruire il teatro nella medesima sede, bensì di «trasportarlo in sito meno pericoloso». Definitivamente accantonato il progetto Cordella-Fontana di ristrutturazione del primo piano del Palazzo degli Studi per un erigendo teatro, venne approvata l’idea di Augustoni e Paglialunga per una struttura totalmente nuova, così come citato nel verbale del Consiglio «di fianco alla strada gironale, e precisamente il semipiano alla parte di mezzo giorno, passato il Palazzo Apostolico del Governo». Il 21 agosto 1780 il terreno dove edificare il nuovo teatro venne ceduto da Monsignor Andrea dei conti Minucci, Arcivescovo e Principe di Fermo. Ritenuto non adeguato alle aspettative l’ulteriore progetto Augustoni-Paglialunga, venne affidato il nuovo incarico all’architetto Cosimo Morelli, molto presente nello Stato Pontificio a cui si doveva, sia pure di minori dimensioni, un analogo disegno per il Teatro dei Cavalieri Associati di Imola. Il 26 settembre 1790, a circa dieci anni dall’apertura del cantiere e a lavori non ultimati, venne programmata una serata «per eseguire un saggio del nostro Teatro dell’Aquila per ciò che riguarda il meccanismo e la pittura giunta al sospirato compimento e per provare l’illuminazione», con l’esecuzione dell’opera-oratorio La morte di Abele di Giuseppe Giordani detto il Giordaniello. Nell’agosto dell’anno successivo il Teatro dell’Aquila venne ufficialmente inaugurato con il dramma sacro La distruzione di Gerusalemme, sempre del Giordani, maestro di cappella della Cattedrale di Fermo. La vera e propria attività del Teatro dell’Aquila iniziò solo nel 1796 con la stagione di Carnevale, ma già l’anno successivo vennero affidate all’architetto Giuseppe Lucatelli di Magliano le prime modifiche, che riguardarono principalmente il palcoscenico, eliminando la scena a tre bocche, sostituita da un più canonico boccascena unico. Nella notte tra il 23 e 24 gennaio del 1826 un incendio danneggiò l’edificio compromettendone in parte la stabilità. Per riparare i danni tra il 1826 e il 1830 furono effettuati sostanziali lavori di restauro e rinnovamento così che la struttura assunse al suo interno le caratteristiche di stile ottocentesco che ancor oggi possiamo ammirare, con 124 palchi su cinque ordini e loggione, su progetto dall’architetto Pietro Ghinelli. Del 1828 è la realizzazione della pittura a tempera del volto, ad opera di Luigi Cochetti, autore anche del sipario storico raffigurante Armonia che consegna la cetra al genio fermano. In quegli anni fu acquistato a Parigi il lampadario a 56 bracci in ferro dorato e foglie lignee, alimentato originariamente a carburo; venne, inoltre, effettuata la commissione per alcuni fondali al celebre scenografo-pittore Alessandro Sanquirico. I sei scenari originali raffigurano una piazza con palazzo greco-romano, il luogo magnifico, bosco, interno rustico, e due interni. Gli scenari sono tornati alla luce nel corso dei più recenti lavori di restauro del teatro, insieme a 16 scenografie ottocentesche che ne rappresentavano la così detta “dote”, cioè quelle immagini a tema fisso: carcere, sala regia, sala civile, paesaggio di campagna e altre, adattabili a ogni esigenza del libretto. Le cronache del XIX secolo descrivono le stagioni liriche del Teatro dell’Aquila come vero e proprio vanto per la città, con un pubblico particolarmente esigente. In queste si può leggere che nel 1861, durante la Stagione lirica invernale, si manifestò da parte del pubblico un forte disappunto per la scarsa qualità degli artisti del Don Pasquale di Donizetti e Florina di Carlo Pedrotti, tale da far sospendere gli spettacoli e chiudere il teatro. Di tutto rilievo, eccezioni a parte, era la qualità dei cartelloni e spesso vi venivano rappresentate opere a pochi mesi dalla loro esecuzione in capitali quali Parigi, Londra e San Pietroburgo, con i più celebri artisti. Puccini fu presente il 17 agosto 1886 alla rappresentazione della sua giovanile prima opera Le Villi e successivamente nell’agosto 1896 tornò per La Bohème.

Nelle sale d’ingresso del teatro sono incastonati alle pareti diversi medaglioni raffiguranti artisti celebri che calcarono la scena del Teatro dell’Aquila nelle diverse epoche. Esempio mirabile, insieme ad altri teatri delle Marche, dell’importanza della lirica in provincia e non di provincia, come sembra essere equivocato in anni più recenti. Il teatro, sin dalla sua costruzione, manca di una facciata. Il progetto del 1865 su disegno dell’architetto fermano Gian Battista Carducci, non venne mai realizzato. A metà degli anni ’80 del Novecento, i nuovi lavori di manutenzione furono affidati all’ingegnere fermano Giovanni Monelli. Nel corso di questi e a causa di alcuni interventi all’interno con utilizzo improprio di cemento armato, che avrebbero nuociuto all’acustica della sala, i lavori furono momentaneamente sospesi dall’allora sindaco Francesco De Minicis , trovando successivamente la migliore soluzione per rimediare al’inconveniente. Un’occasione perduta, nel corso di questo recente intervento di restauro del Teatro dell’Aquila dal 1984 al 1997, è stata la mancata attuazione delle proposte dell’architetto di fama internazionale Gae Aulenti, che interessatasi alla città di Fermo venne rapita dal fascino del Teatro dell’Aquila, offrendo un progetto di straordinario valore che, se da un lato richiamava al prospetto ottocentesco del Carducci per la facciata principale, proponeva per la sala un intervento che aveva lo scopo di rimettere in valore tutto il percorso storico, stilistico e architettonico del teatro, operazione innovativa nel rispetto di tutti i passati interventi, con la valorizzazione e acquisizione di nuovi spazi. Punto essenziale del progetto era la creazione di una struttura da realizzare in acciaio e cristallo, in tutto e per tutto all’avanguardia, ma allo stesso tempo non invasiva, per la valorizzazione della parte retrostante il teatro, una volta esterna rispetto al centro storico, già deturpata negli anni ‘60 da costruzioni improprie. Qui, erano previsti passaggi tramite scale e ascensori a vista per un nuovo, agevole e mai visto nella sua originalità, accesso al teatro, che avrebbe fornito un moderno motivo d’interesse e di caratterizzazione urbana, della storica città. Un progetto di grande valore, che a causa della poca lungimiranza, divergenze politiche e diffidenza, non venne recepito, se non seguendo alcuni suggerimenti, pur fondamentali, per il risultato finale del restauro. La riapertura del Teatro dell’Aquila avvenne il giorno 8 marzo del 1997.


Restando in tema di grandi strutture siamo nel capoluogo del Piceno, ad Ascoli con il Ventidio Basso, che rappresenta, semmai ce ne fosse bisogno, un ulteriore esempio della ricchezza nelle Marche di teatri storici di valore inestimabile. Questa città è l’unica a possedere ben due edifici per lo spettacolo dal vivo di antico lustro, oltre al Teatro Ventidio Basso, il Teatro dei Filarmonici. Non per nulla il maestro Giancarlo Menotti, prima di eleggere Spoleto per il Festival dei Due Mondi, aveva proposto Ascoli quale sede della manifestazione, ma il proposito non trovò accoglimento adeguato. La storia di un edificio per lo spettacolo in Ascoli, s’identifica con la continuità della tradizione teatrale che caratterizza tutta la regione dal XV secolo ai nostri giorni. La prima struttura della città risalente al 1579 era realizzata interamente in legno e si trovava nel palazzo Anzianale, nel salone anticamente del Consiglio generale; la sua gloriosa attività si concluse nel 1839. Già nel 1827 si era ipotizzata la realizzazione di un nuovo grande edificio comunale da edificarsi sul Trivio, ovvero in prossimità della Chiesa di San Francesco non lontano della rinomata Piazza del Popolo, dove erano vari edifici di epoca rinascimentale, mentre l’Accademia dei Filodrammatici aveva in animo di costruire in autonomia un proprio teatro. Si decise di affidarne la progettazione ad Ireneo Aleandri di Sanseverino Marche, uno dei maggiori architetti del tempo, ma il progetto fu realizzato solo tra il 1840 ed il 1846, perché l’architetto aveva rinunciato per dissapori con la committenza. Gli subentrarono gli ascolani Marco Massimi e Gabriele Gabrielli con l’architetto fermano Giambattista Carducci, i quali apportarono numerose modifiche e innovazioni alle linee originali del disegno di Aleandri. Il teatro si compose con sala ovale e quattro ordini di palchi, suddivisi in 23 palchetti ciascuno ed il loggione a galleria. La facciata neoclassica, in travertino, presenta un colonnato centrale composto da sei colonne ioniche in pietra, aggiunte da Gabriele Gabrielli nel 1851. Inaugurato nel novembre 1846 con Ernani di Giuseppe Verdi e I puritani di Vincenzo Bellini, fu intitolato al generale ascolano Publio Ventidio Basso, vissuto nel I secolo a.C. che riuscì a salire i più alti gradi della gerarchia militare romana. Il teatro venne chiuso nel 1980 a causa dei danni del tempo, lesioni riportate nel terremoto del 1972 e altri deterioramenti, ma da subito ci si accorse che le condizioni della struttura portante, soprattutto il tetto e la sottostante cupola, avrebbero necessitato di ben altro impegno. La situazione sembrò ristagnare sino al 1993, quando l’allora sindaco Nazzareno Cappelli si convinse che per restituire il Massimo ascolano si dovevano accelerare i tempi con un provvedimento straordinario, così che fu fissata la data di ottobre 1994 per la riconsegna del teatro. Nell’agosto 1994, in prossimità della festa di Sant’Emidio, venne in Ascoli da Praga Josef Svoboda, celebre scenografo, innovatore dei mezzi dei mezzi di palcoscenico attraverso l’impiego di esperienze creative, che in un sopralluogo indicò soluzioni sceno-tecniche, fondamentali per la dotazione del teatro. In meno di un anno, accelerati i passaggi amministrativi e con la collaborazione di tutti, il 15 ottobre 1994, preceduto dall’esecuzione dell’Inno di Mameli con il pubblico in piedi ed emozionato, il teatro venne riaperto con una indimenticabile nuova produzione de La traviata di Verdi, con Giusy Devinu, Giuseppe Sabbatini, Roberto Servile, primo ballerino Raffaele Paganini, scene di Carlo Centolavigna collaboratore di Franco Zeffirelli, costumi di Anna Biagiotti confezionati nella Sartoria Tirelli. Il direttore Giuliano Carella ringraziò per essere stato prescelto, perché mai aveva avvertito una così forte condivisione di un’intera cittadinanza, partecipe con emozione a un evento culturale. Il Ventidio ritornò, in quegli anni, per la qualità delle produzioni, ad essere al centro dell’attenzione nazionale ed estera. Il Teatro dei Filarmonici, già dei Filodrammatici, venne costruito tra il 1829 ed il 1831 nelle vicinanze della sede dell’Accademia dei Filodrammatici di Ascoli. A causa dello scioglimento dell’Accademia nel 1860, il teatro fu gestito dall’Amministrazione comunale e nel 1897 acquistato dalla Società Filarmonica Ascolana. Passato di proprietà, la sala fu utilizzata per proiezioni cinematografiche; infine nel 1994 ceduto al Comune che provvide a far eseguire un accurato restauro. Il teatro si presenta in forma di ferro di cavallo, con platea, quattro ordini di palchi e loggione ed è stato riaperto il 20 maggio 2018.
Lungo la consolare Salaria sino a Castel di Lama, dove nell’affascinate Borgo Storico Seghetti Panichi sono in corso importanti lavori di ripristino, che prevedono nel giardino storico il ripristino di un teatro di verzura e iniziative legate alla ripresa della vita culturale e musicale del territorio. Si gira alla rotonda in direzione Offida, dove è ubicato un teatro dal nome affascinante: Teatro Serpente Aureo, dalla tradizione che vuole che in età preromana vi fosse un tempio dedicato al mitico Serpente d’Oro: “Ophite”, raffigurato sul sipario storico del Teatro dipinto da Giovanni Battista Magini. E’ documentato che prima del 1768 esistesse in una sala del Palazzo comunale un palcoscenico a «guisa di teatro», costruito «senza distinzione di ceto». Questo non piacque all’aristocrazia tanto che «per riparare», così è riportato in un verbale datato 8 luglio 1768, fu accolta la proposta per realizzare una struttura di legno con palcoscenico e 29 palchetti in giro di tre ordini. Il lavoro venne completato nel 1771, ma ben presto si rivelò troppo piccolo, poiché molte delle famiglie nobili erano rimaste senza palco. Il 21 ottobre 1801 venne affidato a Paolo Cipolletti l’incarico di rinnovarlo su disegno di Pietro Maggi, architetto ticinese che si stabilì nelle Marche al seguito del padre Carlo, molto attivo nella Bassa Marca, specialista nell’inserire le sue sale per lo spettacolo negli antichi palazzi comunali. Il progetto per Offida consisteva in un nuovo edificio dal costo di 900 scudi, ma nonostante la spesa fosse stata approvata nella seduta consiliare del 15 gennaio 1802, non si trovò alcuna impresa disposta ad eseguire il lavoro per una somma giudicata esigua. Nel frattempo Pietro Maggi era tornato ad Offida e aveva proposto un secondo progetto che prevedeva soluzioni più economiche. Pietro Maggi essendo venuto a mancare nel 1816, non poté assistere alla costruzione del nuovo teatro, la cui realizzazione ebbe inizio solo nel 1820, dopo che i signori del luogo convinsero un intraprendente imprenditore a realizzare il lavoro nei pressi del cortile a “tramontana” del Palazzo comunale. L’attuale Teatro risale al 1862, ampliato e decorato dall’artista offidano Alcide Allevi, ricavato demolendo parte dell’antica Casa comunale, soprannominato “La Bomboniera”. Come molti altri teatri nella Marche e soprattutto nel territorio del Piceno, nel periodo di Carnevale la sala viene utilizzata per i veglionissimi.Ancora l’architetto Pietro Maggi nel 1790, per lo studio di un progetto di teatro da realizzarsi all’interno del trecentesco Palazzo del Podestà di Ripatransone per la cui apertura, sebbene incompleto, si dovrà attendere sino al 1824: il Teatro del Leone. In una seconda fase, venne assegnato l’incarico all’architetto Francesco Bassotti, che ne seguì i lavori di completamento con riapertura nel 1843 con Lucia di Lammermoor di Gaetano Donizetti. Nel 1894 il teatro venne intitolato al poeta risorgimentale, lo “spigolatore” ripano Luigi Mercantini.


Terminato il nostro giro per i teatri storici delle Marche in gran parte restaurati e restituiti alla cittadinanza, si apre ora un’altra fase, tutt’ora parzialmente irrisolta, quella della gestione e della promozione, che fa i conti con i problemi di abbondanza di edifici preposti allo spettacolo dal vivo e quindi di necessaria razionalizzazione dell’offerta. Eppure, mai come in questo lungo periodo di pandemia, si è sentito così indispensabile l’andare a teatro, non solo come esigenza culturale di approfondimento, ma soprattutto come ritrovo di luogo di aggregazione, di scambio intellettuale e distacco mentale dall’impegnativo vivere quotidiano. Questo straordinario unicum dei teatri storici delle Marche nel panorama europeo rappresenta, inoltre, una potenziale offerta turistica, culturalmente senza uguali. Perché oggi, così come al momento della loro costruzione, devono tornare a rispondere a un processo di socializzazione e di rilancio occupazionale della comunità.


Vincenzo Grisostomi Travaglini

Vincenzo Grisostomi Travaglini (Photo: Giovanni Pirandello)

“Scherzo lirico”, un articolo del Maestro Vincenzo Grisostomi Travaglini in “L’Opera International Magazine”, Marzo 2021

Uno scherzo lirico, assai vivace, briosamente soprannominato Il pasteggiar cantando, che vede alla ribalta ricette ideate o dedicate ai più celebri personaggi del melodramma, in prevalenza italiano e francese.

Nell’Ottocento grandi cuochi vollero cimentarsi in piatti che prendessero il nome dei beniamini del pubblico del melodramma, dal celebre compositore parigino Giacomo Meyerbeer, a Bizet e Berlioz. Il più noto protagonista, però, resta l’inappagabile Gioachino Rossini, raffinato gourmet e complice dei più noti chef della Parigi dell’epoca, da Marie-Antoine Carême detto il cuoco dei re e il re dei cuochi al celebrato Auguste Escoffier la cui cucina entusiasmò a tal punto Guglielmo II da fargli affermare: «Io sono l’imperatore di Germania, ma tu sei l’imperatore degli chef». Se Rossini è ben conosciuto nel mondo della gastronomia, meno consueto è l’imbattersi con altri buongustai, quali furono Giuseppe Verdi e Giacomo Puccini. Verdi prima d’intraprendere un viaggio inviava agli amici e ospiti ricette scritte di suo pugno, affinché al suo arrivo potesse deliziarsi dei suoi piatti preferiti. Puccini si ritrovava con i suoi amici nel Club La bohème dove nello statuto erano previsti cibi prelibati, soprattutto cacciagione e vini senza parsimonia. Vietato, sempre nello statuto de La bohème, esimersi dai piaceri della tavola.

Un passo indietro, agli albori del XVII secolo, a Firenze e l’occasione sono le storiche alleanze matrimoniali; una di queste furono i grandiosi festeggiamenti in occasione del matrimonio di Cristina di Lorena con il granduca di Toscana Ferdinando de’ Medici. Tra banchetti favolosi, siamo all’alba della nascita del melodramma, protagonista è la progenitrice della figura della primadonna Vittoria Archillei, interprete del primo degli Intermedi eseguito nel Regio Salon di Palazzo. Nel 1608 saranno ancora una volta i cantanti ad avere la scena nel banchetto di nozze di Cosimo II de’ Medici con Maria Maddalena arciduchessa d’Austria: Vittoria Archilei, Francesca e Settimia Caccini, Melchiorre Palantrotti, il meglio che all’epoca si potesse chiedere alla scena canora. In quel lontano 1608 nel Salone dei Cinquecento, a Palazzo Vecchio a Firenze, vennero servite sei portate ed è ben precisato nelle cronache dell’epoca “abbondanti”: pavoni, capponi, tortore, fagiani, galli, mandorle, pistacchi, pan di spagna, bietole, prugne e mele; in tavola predominava sempre e comunque il sapore agrodolce. Così che tra banchetti, con timballi, fagiani, pernici e tanto vino, nacque il melodramma. All’epoca quella musica venne definita: “musica celestiale per chi ama il cibo degli dei”, con un buon condimento, aggiungerei, di piacere profano.

La felice unione tra musica e cibo è, in realtà, ben antica. L’uso d’accompagnare i banchetti con musiche risale fin dai tempi degli Egizi, per essere ripreso da Greci, Etruschi e Romani. Metà Odissea è cantata a un pranzo; la petroniana Cena di Trimalcione è interamente a ritmo di musica, perfino la liturgia missale è esaltazione cantata di un pasto rituale. La tradizione, che perdurò nel corso del Medioevo, si rinvigorì a partire dal ‘400. Per i conviti solenni, a cominciare dai pranzi di nozze, la presenza di cantori e musici era d’obbligo. Nei banchetti ufficiali delle corti, al liuto ed all’arpa era assegnato: “il compito di deliziare con delicate danze strumentali, le orecchie degli illustri commensali“. Nei pranzi domenicali e nelle occasioni speciali, si aggiungevano a questi “i trombetti, i corni e i piffari“. Nella cucina barocca i ricchi amavano lo sfarzo anche attraverso l’uso di spezie, che arrivavano direttamente dall’Oriente. Per un lungo periodo perfino il riso fu considerato una spezia, prima che se ne scoprisse l’utilità in cucina, dal dolce al salato. In questa fase storica il cibo diventava spettacolo, i banchetti erano una vera e propria messa in scena di piatti elaboratissimi, tagliati e serviti seguendo determinati movimenti, sempre volti a ricercare lo stupore dei commensali. Michel-Richard Delalande pubblica nel 1703 Les Symphonies pour les Soupers du Roy, composte come sottofondo musicale ai pasti di Luigi XIV. Georg Philip Telemann chiamò le sue grandiose suites Tafelmusik (Musica da tavola), forse per farci capire che la musica deve non solo essere ascoltata, ma anche degustata come se fosse cibo prelibato. L’espressione Musica da tavola, più nota nella versione tedesca e in quella francese Musique de table, designa il variegato repertorio di brani espressamente composti per essere eseguiti durante il banchetto. Di musiche da tavola ne scrive ad esempio Giovanni Battista Lulli (Jean-Baptiste Lully). Anche Beethoven compose musica da tavola, l‘Ottetto per fiati op. 103 del 1792, scritto per allietare la mensa dell’Elettore di Bonn e in tempi più recenti Paul Hindemith e molti altri. Cibo e musica vanno a braccetto da sempre e presentano anche similitudini lessicali; un piatto si compone e Leonard Bernstein ha ideato il ciclo delle “quattro ricette” per voce e pianoforte, basato su un testo che si chiama La bonne cuisine. Non dimentichiamoci dei direttori d’orchestra che amavano cucinare, quali ad esempio Karajan e Erich Kleiber, quest’ultimo affermò ed è quanto mai attuale: «Ascoltare solo musica registrata e non andare ai concerti è come mangiare solo cibi in scatola. E invece fa bene mangiare cibi freschi».

Da Firenze a Venezia, nel fulgore della gloria della Serenissima, con Antonio Vivaldi che come ci riportano le poche cronache concernenti la vita privata del musicista, non poteva rinunciare al risotto in tutte le sue più fini declinazioni, come pure del pesce; riso usato in circa 220 piatti durante l’epoca barocca. Ispirandosi all’opera di Vivaldi e seguitando la scia dei profumi musicali, si è voluto scherzare molto vivacemente con “interpretazioni” venete del riso sulla più celebre composizione del Prete Rosso: Le quattro stagioni. Senza voler forzare il paragone, per l’Inverno si è volto scegliere la ricetta del riso e cavolfiore; certamente il risotto risi e bisi ben si sposerebbe con la Primavera, questa portata era d’obbligo il 25 aprile, giorno di San Marco patrono della città; per l’Estate risotto alle seppie; infine  il risotto ai finferli (gallinacci)  e prosecco per quanto riguarda le nebbie lagunari evocate nell’Autunno. Il riso, che tanto amava Vivaldi, era arrivato nella Repubblica di Venezia dai paesi arabi, per poi essere coltivato nel veronese.

Eccoci nelle Marche con tre grandi compositori, in ordine cronologico: Giovan Battista Pergolesi, Gaspare Spontini e ovviamente il gastronomo per eccellenza che in questo incontro la farà da protagonista, Gioachino Rossini. A Giovan Battista Pergolesi, nato a Jesi nel 1710, è legato un piatto all’epoca caratteristico della sua città natale la Coratella d’agnello con cipolla alla Giovan Battista Pergolesi, una ricetta d’uso comune dei cordai jesini, che vivevano a pochi passi dalla casa natale del celebre compositore. Nell’intermezzo buffo La serva padrona di Pergolesi la cioccolata è quasi il fulcro della vicenda, così in Mozart l’astuta Despina del Così fan tutte prepara una cioccolata che poi servirà alle sue dame in preda a un attacco di malinconia d’amore. Mozart, lo incontreremo nuovamente al momento del dolce, era particolarmente bramoso di chocolate e a lui sono state dedicate molte ricette che fanno del cacao l’ingrediente principale. Molti grandi musicisti ne erano ghiotti, da Rossini a Verdi. Tornando alla Marche, un gran goloso di chocolate era Gaspare Spontini la cui moglie, Celeste Erard, ha lasciato una ricetta, Crème au chocolat râpé (Crema alla cioccolata grattugiata), tramandataci in un manoscritto ancor oggi conservato a Jesi. Andiamo per ordine, non abbiamo che accennato a Gioachino Rossini e riconducibili alla musica da tavola sono le brevi composizioni per pianoforte del pesarese intitolate ad antipasti e dessert, composte a Parigi in epoca matura, «le sole infrazioni» come lui stesso scherzosamente le aveva definite, alla decisione del compositore presa nel 1829 di non scrivere più musica. In realtà, fortunatamente, non sono le sole “infrazioni” raccolte nei 13 volumi che Rossini stesso chiamerà, con delizioso sarcasmo, i suoi Péchés de vieillesse (Peccati di vecchiaia), brevi composizioni alle quali Rossini darà titoli ironici e dissacranti, quali Quatre hors-d’oeuvres, nei quali c’è un’intera collezione di brani per pianoforte chiamati  Antipasti (ravanelli, acciughe, burro…) e quattro Desserts di frutta secca (fichi, uva, mandorle, noci).

Altro argomento è quello dei grandi cuochi dell’Ottocento, per non risalire a epoche più remote, che hanno dedicato le loro creazioni a compositori o cantanti. Nella sola cucina francese esistono quattro tipi di uova a tema: alla Daniel Auber, in camicia e poste su pomodori ripieni di pollo e tartufo tritati, poi coperti con salsa vellutata; alla Hector Berlioz, alla coque, accompagnate da croustades, patate duchesse, tartufo e funghi in salsa di Madeira; alla Georges Bizet, cotte in stampini foderati con lingua sott’aceto e servite su cuori di carciofo con salsa Périgueux e alla Giacomo Meyerbeer , in cocotte, guarnite con rognone d’agnello alla griglia. Il leggendario Auguste Escoffier s’innamorò a tal punto della Carmen di Bizet da volerle dedicare ben due ricette, le Costolette d’agnello e l’Insalata di pollo, ovviamente dette alla Carmen. A Bizet è anche dedicata la Torta che porta il suo nome, che unisce meringa e crema al burro. Di Georges Bizet da Le Docteur Miracle è doveroso citare Il brillante Quartetto de l’omelette. Tra le tante ricette dedicate a Giacomo Mayerber, il compositore per eccellenza del grand-opéra, è il Filet mignon à la Meyerbeer, ma in particolare queste ricette risulterebbero al palato odierno tra le più impegnative. In Francia nacquero, inoltre, i famosi Tournedos alla Rossini, detti la Suprema esagerazione per via del connubio fra filetto, burro, foie gras, pane, tartufo nero e salsa al Madeira, anche se non si sa con certezza il nome del primo chef a prepararli; forse il rinomato cuoco Marie-Antoine Carême o altrimenti l’altrettanto noto Casimir Moisson. Di sicuro la ricetta scaturì dalla fantasia inarrestabile del golosissimo genio pesarese. Gioachino Rossini, soprattutto nel suo secondo periodo parigino, si appassionò così tanto all’arte culinaria e alla mondanità da essere denominato il Principe della gastronomia. Elaborò anche diversi piatti, che andremo a indagare più avanti. A lui in epoca recente è stato anche dedicato il famosissimo Cocktail Rossini a base di fragole e prosecco, una variante del Bellini, che però non prende il nome da Vincenzo, il compositore catanese, come si potrebbe credere, bensì dal pittore Giovanni Bellini.

Altri compositori buongustai finirono per battezzare il loro piatto prediletto quali Niccolò Paganini per i ravioli al ragù; un prezioso manoscritto autografo conservato presso la Library of Congress di Washington ci racconta come il sommo Niccolò Paganini, oltre ai 24 Capricci per violino solo, compilò la sua personale ricetta del sugo di manzo per i Ravioli alla genovese. La descrizione che ne segue è gastronomicamente ineccepibile: «Per una libbra e mezza di farina due libbre di buon manzo magro per fare il suco. Nel tegame si mette del butirro, indi un poco di cipolla ben tritolata che soffrigga un poco. Si mette il manzo, e fare che prenda un po’ di colore. E per ottenere un suco consistente si prende poche prese di farina, ed adagio si semina in detto suco affinché prenda il colore. Poi si prende della conserva di pomodoro, si disfa nell’acqua, e di quest’acqua se ne versa entro alla farina che sta nel tegame e si mescola per scioglierla maggiormente, e per ultimo si pongono entro dei funghi secchi ben tritolati e pestati; ed ecco fatto il succo. Ora veniamo alla pasta per tirare le sfoglie senza ovi. Un poco di sale entro la pasta gioverà alla consistenza della medesima. Ora veniamo al pieno. Nello stesso tegame colla carne si fa in quel suco cuocere mezza libbra di vitella magra, poi si leva, si tritola e si pesta molto. Si prende un cervello di vitello, si cuoce nell’acqua, poi si cava la pelle che copre il cervello, si tritola e si pesta bene separatamente, si prende quattro soldi di salsiccia luganega, si cava la pelle, si tritola e si pesta separatamente. Si prende un pugno di borage chiamata in Nizza boraj, si fanno bollire, si premono molto, e si pestano come sopra. Si prendono tre ovi che bastano per una libbra e mezza di farina. Si sbattano, ed uniti e nuovamente pestati insieme tutti gli oggetti soprannominati, in detti ovi ponendovi un poco di formaggio parmigiano. (…)». Come si nota leggendo, tra gli ingredienti Paganini fu uno dei promotori e cultori dell’uso del pomodoro in cucina, in un’epoca in cui questo ortaggio iniziava ad imporsi quale alimento.

Nella letteratura epistolare di compositori e interpreti, spesso, più che parlare di musica ci si scambiano ricette o curiosità culinarie! E’ risaputo che nel mondo dell’opera i piaceri della tavola rappresentavano parte integrante della vita dei più importanti compositori. «Mangiare e amare, cantare e digerire: questi sono in verità i quattro atti di questa opera buffa che si chiama vita e che svanisce come la schiuma d’una bottiglia di champagne», questa frase suona lapidaria e la si potrebbe definire il “credo” di Gioachino Rossini. Durante tutta la sua vita, da Pesaro a Bologna, Firenze e infine Parigi, allora vera capitale della gastronomia, Gioachino Rossini non fu solo il musicista dalla sterminata bibliografia, bensì un uomo con tanti interessi culturali e politici. Si racconta che a sei anni facesse il chierichetto e che regolarmente fosse sgridato per aver bevuto dalle ampolle di vin santo nelle sacrestie delle chiese di Pesaro. Un altro episodio viene spesso citato: nel 1816, la prima rappresentazione de Il barbiere di Siviglia al Teatro Argentina di Roma fu un insuccesso. Comunicando l’accaduto al suo grande amore, la cantante Isabella Angela Colbran, Rossini tenne a precisare: «(…) ma ciò che mi interessa ben altrimenti che la musica, cara Angela, è la scoperta che ho fatto di una nuova insalata, della quale mi affretto ad inviarti la ricetta (…) prendete dell’olio di Provenza, mostarda inglese, aceto di Francia, un po’ di limone, pepe, sale, battete e mescolate il tutto; poi aggiungete qualche tartufo tagliato a fette sottili. I tartufi danno a questo condimento una sorta di aureola, fatta apposta per mandare in estasi un ghiottone. Il cardinale segretario di Stato, che ho conosciuto in questi ultimi giorni, mi ha impartito, per questa scoperta, la sua apostolica benedizione». Un’altra storia, forse leggenda, è quella di Rossini seduto in un ristorante di Venezia in attesa della cottura del suo risotto e qui compose l’aria di Tancredi con la cabaletta: Di tanti palpiti, che dopo la prima dell’opera il 6 febbraio 1813 al Gran Teatro la Fenice di Venezia divenne il brano più in voga in tutta Europa e fu soprannominata, date le particolari circostanze: ‘’l’aria del risotto di Rossini’’. Il palato del pesarese era non solo goloso, ma anche pronto agli abbinamenti più bizzarri, raffinato in fatto di vini ed insaziabile, i suoi piatti traboccano di tartufi, olive, fois gras, burro, carni, uova, stufati, zamponi e rognoni. Molte furono le ricette a lui dedicate, ma nei 39 anni di silenzio musicale riuscì a esprimere il suo talento e creatività con ricette proprie. Non aveva solo un grande appetito, ma era anche una fonte di sapienza in cucina; le sue ricette spaziano dai Tournedos, alla Torta Guglielmo Tell, un dolce servito in occasione della “prima” a Parigi nel 1829: naturalmente riferendosi al leggendario eroe svizzero, a base di mele, decorata con un pomo trafitto da una freccia di zucchero. Non è un caso che Rossini abbia confessato di aver pianto soltanto tre volte nel corso della sua vita, cioè dopo i fischi indirizzati alla sua prima opera, quando ascoltò il violino di Paganini e dopo la caduta di un tacchino farcito con i tartufi mentre era in barca per una gita. Il tacchino farcito doveva essere senza dubbio uno dei suoi piatti preferiti, a riguardo disse: «Per mangiare il tacchino bisogna assolutamente essere in due: io ed il tacchino». La pasta ripiena era un altro piatto a cui non poteva resistere, lui stesso ideò una ricetta: I maccheroni alla Rossini, per i quali utilizzava parmigiano reggiano, tartufi tritati, brodo, burro, spezie, prosciutto magro e panna. Sono molti i piatti ideati da Rossini o a lui dedicati che vale la pena ricordare; il più famoso sono i Tournedos, filetti di manzo con tartufo nero e fois gras. Non vanno dimenticati il Consommé di coda di bue al tartufo, gli Spaghetti alla Scala (sempre con una generosa spolverata di tartufo) e le Uova alla Rossini, ovvero dei tuorli d’uovo arricchiti con besciamella e fois gras, racchiusi all’interno di un guscio di pasta sfoglia. Apprezzava la cucina originaria delle sue native Marche, la cucina italiana, quella francese e quella internazionale. Da ciascuna traeva ciò che conveniva al suo gusto cosmopolita: si faceva portare dal suo amico Giovanni Vitali le olive da Ascoli Piceno, il panettone da Milano, vari tipi di stracchino dalla Lombardia, gli zamponi da Modena, la mortadella ed i tortellini da Bologna, il prosciutto da Siviglia, i formaggi piccanti o fermentati dall’Inghilterra, la crema di nocciole da Marsiglia ed infine le sardine royal, che gli ammiratori facevano a gara per mandargli. Pur apprezzando le finezze della cucina francese, non risparmiava lazzi all’indirizzo dei gusti del Paese che lo ospitava, come ben testimonia questa sua frase: «Gli amici gallici preferiscono la ricotta al formaggio, locchè equivale al preferire la romanza al pezzo concertato. Ah tempi! Ah miserie!». La sua vera passione erano i prodotti genuini e caserecci italiani, suoi compagni d’infanzia. Scrive al vecchio amico Marchese Antonio Busca: «(…) i due stracchini ricevuti … mi procurano la dolce reminiscenza della augusta madre sua che fu la prima a farmi gustare i nobili prodotti di Gorgonzola. Oh tempi felici! Oh gioventù!» La ricetta dei suoi maccheroni venne scritta sotto dettatura dello stesso Rossini il 26 dicembre 1866: «Per essere sicuri di poter fare dei buoni maccheroni, occorre innanzitutto avere dei tegami adeguati. I piatti di cui io mi servo vengono da Napoli e si vendono sotto il nome di terre del Vesuvio. La preparazione dei maccheroni si divide in quattro parti. La cottura è una delle operazioni più importanti e occorre riservarle la più grande cura. Si comincia col versare la pasta in un brodo in piena ebollizione precedentemente preparato; il brodo deve essere stato passato e filtrato; si fa allora cuocere la pasta su un fuoco basso dopo avervi aggiunto alcuni centilitri di panna e un pizzico di arancia amara. Quando i maccheroni hanno preso un colore trasparente per il grado di cottura, vengono tolti immediatamente dal fuoco e scolati sino a quando non contengano più acqua. Li si tiene da parte prima di essere sistemati a strati con parmigiano e tartufo». Negli anni venti dell’Ottocento a Parigi eccelleva il “divino” cuoco Marie-Antoine Carême che, dopo aver lavorato per i più importanti personaggi del suo tempo, gestiva le cucine dei Rothschild. Fu proprio in casa Rothschild che i due si conobbero e da quell’incontro nacque un’amicizia fatta di stima e d’affetto. Carême sosteneva che Rossini fosse il solo che lo aveva saputo comprendere; il Maestro rispose con una composizione musicale titolata: “Da Rossini a Caréme”. Caréme gli dedicò molti piatti, così come un altro celebre cuoco Auguste Escoffier autore del libro di ricette divenuto la bibbia della cucina moderna; nella sua Le Guide Culinaire ci sono talmente tante ricette dedicate a Rossini che si potrebbero compilare interi menu quali «leccorniose orchestrazioni» e non semplici liste di pietanze. Fu nel 1864 che il barone Rotschild mandò in dono al musicista alcuni grappoli provenienti dai suoi vigneti, che di tutta risposta in una missiva rispose come ringraziamento: «(…) la vostra uva è eccellente, ve ne ringrazio, ma il vino in pillole non mi piace affatto», sicché in cambio gli vennero recapitate alcune bottiglie del suo vino: il Chateau-Lafite. Questo aneddoto delinea in Rossini non solo la passione per la tavola, ma anche per il vino, di cui era esperto conoscitore e bevitore, tanto che discettava con produttori e cantinieri sui metodi di imbottigliamento e produzione, accrescendo così le sue conoscenze in campo enologico. Presso la Biblioteca Laurenziana Medicea di Firenze è custodito un menu, redatto dallo stesso compositore, particolarmente interessante per l’attento abbinamento dei vini ai piatti: il Madera ai salumi, il Bordeaux al fritto, il Reno al pasticcio freddo, lo Champagne all’arrosto, l’Alicante e la Lacrima a frutta e formaggio. La sua cantina conteneva di tutto, dal suo vino personale imbottigliato nelle isole Canarie alle bottiglie di Bordeaux, dal vino bianco di Johannesburg che Metternich gli inviò da Malaga, a bottiglie di raro Madeira, da bottiglie di Marsala al Porto della Riserva Reale che il Re del Portogallo, suo fanatico ammiratore, gli aveva donato.

I piaceri della tavola sono da sempre parte integrante della vita dei più importanti compositori d’opera. Si racconta di un Rossini apprensivo che durante la visita di Richard Wagner nella sua villa di Passy alle porte di Parigi si alzò più volte durante la conversazione per poi tornare a sedersi dopo pochi minuti, giusto per innaffiare la lombata di capriolo.  Rossini curava personalmente i suoi piatti, a volte abbandonando per qualche minuto i suoi ospiti, come accadde per Wagner su cui, a Parigi, girava una voce inquietante, ovvero si sospettava che fosse vegetariano. Peccato mortale!

Per Vincenzo Bellini ci viene subito in mente la Pasta alla Norma. Un piatto che, stando alla tradizione, adottò il nome del capolavoro di Bellini per ripagarlo del fiasco della prima scaligera del 1831. La prima della Norma fu accolta con freddezza alla Scala e Bellini dichiarò: «Fiasco, fiasco, solenne fiasco»e pare che abbia inoltre commentato:«I milanesi non hanno ancora digerito il risotto di ieri». In realtà la nascita della pasta alla Norma è molto più recente ed ha una data ben precisa, quella dell’ autunno del 1920. Occorre, però, far una breve premessa: “Pari ‘na Norma” ovvero “sembra una Norma”, era il paragone corrente, il massimo complimento per i catanesi, Catania città natale di Vincenzo Bellini, per magnificare oltre ogni dire tutto ciò che amavano, ammiravano e gustavano. Dunque il luogo è Catania, precisamente la via Etnea e fu lo scrittore e poeta Nino Martoglio che di fronte ad un piatto di pasta con pomodoro, basilico, melanzane fritte e ricotta salata battezzò “alla Norma”, ovvero sublime, questa ricetta. A Bellini piaceva frequentare i salotti del bel mondo, a Napoli e soprattutto a Milano, di palato raffinato, ma delicato. A lui, soprannominato il Cigno di Catania, sono stati dedicati recentemente nella città natale I cigni, praline di purissimo cioccolato di Modica che si ispirano alle dieci opere del celebre compositore.

Nel Gianni da Parigi di Donizetti vi è una gustosa pagina musicale che è paragonabile ad un menu, la scena così detta dei perniciotti: “Eccellenza… se vedesse… perde un pranzo da sovrano /  È squisito… sorprendente. Che portate! Che apparecchi! Quanti vini, e tutti vecchi! / Passerotti, starne, tordi, perniciotti… /  Un storione.  / Pasticcini, pasticcetti, salse, intingoli, guazzetti, e per colmo in un gran piatto un superbo vol au vent. / Poi faggiani… / Squisitissime omelettes, ma soufflées. / In qual bivio, (oh Dio! Mi-mal lo mette) Il decoro e l’omelette! Qual contrasto nel mio/suo core / fra l’onore e il vol au vent! / (…)  E quel fagiano!… (…) il mio-suo cervello girar farà. / (…) Dunque io vado. / L’ova e il pane a preparar”. …Cosa dire, poi, di Johann Strauss che compose una cotolekt-polka per esaltare la famosa cotoletta impanata, sulla cui paternità ancora oggi si contendono milanesi e viennesi!

Giuseppe Verdi fu uomo di mondo, ma egli stesso amava definirsi  pur sempre un contadino della Bassa. E’ la festa di san Donnino, il 10 ottobre del 1813, per le vie di Le Roncole, piccola frazione di Busseto in provincia di Parma, si aggira un gruppo di suonatori girovaghi. In una modesta casa colonica adibita a posteria, Carlo Verdi gestisce un’osteria in cui si preparano pasti per i viandanti e i passeggeri delle diligenze. Alle otto di sera nasce suo figlio Giuseppe. Giuseppe Verdi rimase sempre legato alla sua origine e amò i frutti della sua terra tanto da portarli con sé nei suoi viaggi o farseli spedire a destinazione. Grande è l’attenzione che il compositore dimostra nei confronti della terra e dei suoi prodotti. Come si può pensare a Sir John Falstaff senza l’Osteria della Giarrettiera? A Verdi furono dedicate da cuochi famosi molte ricette, una delle più conosciute è il Risotto Giuseppe Verdi, ideato e dedicato al Maestro dallo chef francese Henri-Paul Pellaprat. Pellaprat scrisse diversi manuali di gastronomia francese tra cui L’arte della cucina moderna e diresse la scuola di alta specializzazione Le Cordon Bleu fondata a Parigi nel 1895. Nella ricetta dedicata al bussetano: riso carnaroli, burro, funghi coltivati, punte di asparagi, prosciutto crudo, pomodori pelati, panna da cucina, brodo di carne, cipolla e non poteva mancare il Parmigiano Reggiano. In realtà, la preparazione di questo risotto non è del tutto frutto dell’ingegno di Pellaprat, bensì della moglie di Verdi, Giuseppina Strepponi, che in una lettera svela a Camille Du Locle, direttore de l’Opéra-Comique di Parigi, la ricetta del «maître pour le risotto», un piatto che a Giuseppe riesce particolarmente bene e che è per molti versi simile, se non uguale, a quella firmata dallo “chef” parigino. Vi era, però, una ricetta che Giuseppe Verdi gradiva particolarmente, quella de La spalla cotta. La spalla cotta è un prodotto tipico della Bassa (pianura Padana) e spesso Verdi la inviava agli amici, accompagnandola con affettuose istruzioni per l’uso: «Prima di cuocere la spalla – secondo le indicazioni del Maestro, occorre – (…) levarla di sale (…) lasciandola per due ore in acqua tiepida. Si pone quindi la spalla in una pentola che la contenga e si riempie di acqua; si lascia cuocere a fuoco dolce per almeno sei ore. Si lascerà raffreddare nel brodo di cottura, quindi si asciugherà e sarà pronta da gustare». Un ritratto sulle abitudini gastronomie di Giuseppe Verdi è tratteggiato dal poeta e musicista Arrigo Boito: «Il Maestro ama i pranzi prolissi e le opere concise. Cucina poderosa dei vecchi tempi. Gli piace anche la moderna quando è all’Hotel ed è finissimo assaporitore. Ma a casa sua… vuole le grandi fette di bue condite con la mostarda di Cremona, i funghi in aceto, la salsa verde. Quasi tutta la sua vita mangia, a desinare, un mezzo ovo sodo dopo l’arrosto. Il suo desinare in casa è composto di antipasti, d’una minestra, per solito sostanziosa (risotto, pasta asciutta, ravioli in brodo), d’un piatto di carne lessa, d’una frittura abbondante, d’un arrosto, d’un dolce formaggio, desert varii. Un’ora dopo il desinar fabbrica lui stesso il caffè».

Spaziando nel mondo dei compositori potremo fare molti altri esempi; viene narrato a tale proposito un episodio ambientato durante una cena avvenuta a Milano tra Pietro Mascagni e l’amico Giacomo Puccini, mentre i due ricordavano gli anni di studi e sacrifici condivisi nella stessa stanzetta a Milano, fra loro sarebbe esplosa una goliardica discussione sul se era più succulento un piatto di cacciucco livornese o una folaga rosolata lucchese. Per Mascagni non vi erano dubbi, migliore è il caciucco poi denominato alla Mascagni, che il compositore amava aromatizzare con salvia e zenzero. Nel 1901 il rinomato pasticciere Antonio Lo Verso, in occasione del debutto a Palermo di Iris di Mascagni, creò un dolce fritto da servire per la prima colazione, ripieno di crema alla ricotta. Nel 1930 Pietro Mascagni compose La danza dei gianduiotti per il Teatro Regio di Torino, in onore dei principi Umberto di Savoia e Maria José.

Il tema dell’amicizia che torna a tavola è quanto mai presente con Puccini. Egli coltivò sempre il piacere nell’arte del cucinare, ad esempio assieme all’amico Mascagni durante gli studi milanesi preparando piatti poveri, ma gustosi. Negli anni giovanili Puccini si dimostrò, quando poté, molto attento ai piaceri della tavola, concludendo le giornate lavorative di fronte a una sostanziosa cena. Se i soldi mancavano, da buona forchetta, si divertiva a creare personalmente ricette come la Pasta con le anguille o le Aringhe coi ravanelli. Così scriveva negli anni di studio, caratterizzati da ristrettezze economiche: «(…) La sera, quando ho quattrini vado al caffé, ma passano moltissime sere che non ci vado, perchè un ponce costa 40 centesimi… Mangio maletto, ma mi riempio di minestroni…e la pancia è soddisfatta». Si narra che Puccini andasse a far visita a sua sorella Iginia, monaca col nome di suor Giulia Enrichetta al Monastero della Visitazione della nativa Lucca, spinto dalla passione per i fagioli cotti al fiasco, che mangiava al refettorio. Automobili, donne e cucina erano le sue grandi passioni. A Torre del Lago Puccini, accanito cacciatore, si riuniva sulle rive del lago di Massaciucoli con un gruppo di artisti e scrittori presso una bettola chiamata La capanna di Giovanni dalle bande nere, da subito ribattezzata Club La bohème. Qui con gli amici passava molto tempo, festeggiando allegramente, bevendo vino e giocando a carte. Questi buontemponi redigettero anche una specie di scherzoso statuto:

Art 1 I soci del Club “La Bohème”, fedeli interpreti dello spirito onde il club è stato fondato, giurano di bere e mangiar meglio.

Art. 2 Ammusoniti, pedanti, stomachi deboli, poveri di spirito, schizzinosi e altri disgraziati del genere non sono ammessi o vengono cacciati a furore di soci.

Art. 3 Il presidente funge da conciliatore, ma s’incarica d’ostacolare il cassiere nella riscossione delle quote sociali.

Art. 4 Il cassiere ha la facoltà di fuggire con la cassa.

Art. 5 L’illuminazione del locale è fatta con lampada a petrolio. Mancando il combustibile, servono i “moccoli” dei soci.

Art. 6 Sono severamente proibiti tutti i giochi leciti.

Art. 7 È vietato il silenzio.

Art. 8 La saggezza non è ammessa neppure in via eccezionale”.

Ancora, la lista dei piatti legati alla musica operistica prosegue con tutta una serie di ricette dedicate ai grandi cantanti: La poularde Adelina Patti, Il chicken Tetrazzini e Le pesche Melba; più recente, golosissimo, è il dolce in omaggio a Renée Fleming rinominato La Diva Renée, un’esplosione di cioccolato. Non manca Maria Callas, con la torta che porta il suo nome e vi è anche  la ricetta di uno dei suoi piatti preferiti, i Bigoli con ragù d’anatra alla veneta, nella ricetta di Pia Meneghini, sorella di colui che fu marito e mentore del celebre soprano, Giovanni Battista Meneghini.

Diversa è la storia che lega il tenore Enrico Caruso alla sua Napoli. Secondo il racconto, nel 1901 Caruso dopo una lunga serie di trionfi italiani e internazionali tornò a Napoli per interpretare Nemorino ne L’elisir d’amore di Gaetano Donizetti al Teatro San Carlo, ma proprio nella sua città venne accolto con freddezza. La sua delusione fu tale che egli promise a se stesso di non cantare più a Napoli e di tornarvi solo per mangiare i suoi adorati spaghetti, mai più quale protagonista canoro e questo solenne giuramento, passato alla storia come “Il giuramento dei vermicelli”, avvenne proprio avanti al suo piatto preferito, ovvero gli spaghetti con un semplice condimento a base di aglio schiacciato, olio, peperoncino e prezzemolo tritato. Vi è un piatto che porta il nome del celebre tenore, i Bucatini alla Caruso e si vuole che sia un omaggio dell’artista alla sua amata Napoli. Una ricetta semplice e buonissima che arriva da Napoli e fa sentire ancora nell’aria il profumo della bella stagione. Per preparare i Bucatini alla Caruso, infatti, bisogna approfittare delle ultime settimane d’estate, quando al mercato si trovano ancora carnosi peperoni e zucchine piccole e tenere, protagonisti di questo piatto che secondo la tradizione fu ideato proprio dal grande tenore partenopeo. I Bucatini alla Caruso e si raccomanda nella ricetta «(…) non gli spaghetti, che non darebbero il giusto spessore alla pietanza», sono una specialità che racchiude i sapori e i colori della terra campana: pomodori San Marzano, freschi o pelati, una pregiata varietà coltivata dalla fine del Settecento nell’Agro sarnese-nocerino, peperoni gialli e rossi, il basilico e il peperoncino piccante, per un tocco di “carattere” in più. Caruso suggerì questa ricetta agli chef dei due hotel in cui soggiornava abitualmente, il Vittoria di Sorrento e il Vesuvio di Napoli. A Caruso venne dedicato anche un famosissimo cocktail dal tipico color verde smeraldo, a base di vermouth secco, gin e crema di menta.

Siamo arrivati al dolce con protagonista Wolfgang Amadeus Mozart. Che Mozart amasse la buona cucina lo si apprende dal suo epistolario, nelle sue lettere, infatti, il compositore austriaco descrive più volte il suo amore per il cibo e in particolare per quello italiano e le cronache ci tramandano di quanto Wolfgang Amadeus Mozart fosse ghiotto di dolci e in particolare di cioccolato. A Vienna il suo nome è indissolubilmente legato nella gastronomia dolciaria, al souvenir gastro-musicale per eccellenza, le Mozartkugeln, in origine chiamate Mozart-Bonbon, create a Salisburgo nel 1890 dal pasticciere austriaco Paul Fürst in onore del compositore a circa un secolo dalla scomparsa. In Austria si possono anche acquistare i Marrons glacés di Mozart e questo particolare riaccende un’antica, forse presunta, rivalità, perché a prediligere i marrons glacés non era tanto Mozart, quanto Antonio Salieri, il compositore di Legnago che ne era un grande appassionato. Veniamo ora alla predilezione di Mozart per quella bevanda che ci giungeva dalla terre di conquista spagnola, dalle Indie occidentali, poi Americhe: il chocolate. In passato il legame tra musica e cacao era esaltato dal fatto che i concerti, eseguiti nelle stanze dei palazzi nobiliari, venivano ascoltati sorbendo chicchere di cioccolata. Con il melodramma e le opere liriche, che descrivevano i costumi della società, il chocolate calcò il palcoscenico, come nel già citato dramma giocoso Così fan tutte, in cui la servetta Despina si lamenta del fatto che è costretta a servire la stuzzicante bevanda, senza mai gustarla: “È mezz’ora che sbatto; / Il cioccolatte è fatto, ed a me tocca / Restar ad odorarlo a secca bocca?”. È sempre Mozart, nel Don Giovanni, a mettere in scena il noto seduttore mentre ordina al fido servo Leporello di accompagnare i suoi ospiti e di ordinare: “ch’abbiano cioccolata, caffè, vini, prosciutti”.

Anche Georg Friedrich Händel ebbe la propria torta, sia pur sotto forma di preparato. Richard Strauss scrisse nel 1922 il balletto Schlagobers, i cui giovani protagonisti entrano in pasticceria per ordinare cioccolata e panna montata. Nel cammino nell’arte dolciaria dobbiamo ancora una volta riferirci all’acclamato chef francese Georges-Auguste Escoffier al quale si deve, oltretutto, l’invenzione di due famosi dessert: le Poires Belle Hélène (pere cotte nello sciroppo di zucchero e servite con gelato alla vaniglia e cioccolato fuso, in omaggio all’operetta di Jacques Offenbach La béllè Helene, 1864) e la Pesca Melba, in onore della cantante australiana Nellie Melba (Helen Porter Mitchell), alla quale, nel 1892, Escoffier servì un cigno di ghiaccio contenente gelato alla vaniglia, pesche, salsa di lamponi e un fiocco di zucchero filato per coronarne il trionfo al Covent Garden. Secondo la tradizione Escoffier aveva particolarmente apprezzato Nellie in una sua interpretazione del Lohengrin di Wagner e per omaggiarla, le fece trovare il giorno dopo a cena il dolce inventato in suo onore. Leggiamo da Ricordi inediti dello stesso Georges-Auguste Escoffier: «Ripensando al maestoso cigno mitico che apparve nel primo atto del Lohengrin, le feci servire, al momento opportuno, delle pesche disposte su di un letto di gelato alla vaniglia, all’interno di una coppa d’argento incastrata tra le ali di un superbo cigno scolpito in un blocco di ghiaccio e ricoperto da un velo di zucchero filato. L’effetto prodotto fu sorprendente e la signora Melba si mostrò estremamente colpita dalla mia attenzione. La grande artista, che di recente mi è capitato di rivedere all’Hôtel Ritz di Parigi, mi ha ricordato la serata delle famose pesche al cigno». Successo e risonanza furono grandissimi e il dolce divenne ben presto molto popolare e imitato, anche liberamente. Originariamente chiamato Pesche al cigno, secondo alcune fonti solo all’inaugurazione successiva dell’ Hotel Carlton fu ribattezzato Pêche Melba.

Il più celebre di tutti i dolci è il Gâteau Opéra definito: “il più amato omaggio al mondo del melodramma”, che è un dessert che non poteva mancare dopo ogni grande serata operistica. La ricetta originaria è andata perduta e la prima variante di questa torta (a base di Joconde, crema al burro al caffè e ganache al cioccolato) risale al 1890, quando lo chef Louis Clichy decise di preparare il dolce ideale per accompagnare il caffè che gli spettatori dell’Opéra Garnier prendevano sempre fra un atto e l’altro. La Torta Clichy divenne ufficialmente Opéra a metà del Novecento e, anche se la paternità della sua forma attuale (che prevede gli strati ben esposti, a simbolo dei vari atti dell’opera) se la contendono Cyriaque Gavillon e Gaston Lenôtre, chiunque ne sia l’ autore, non ci sono dubbi sul fatto che questo dolce sia davvero come una rappresentazione d’opera, ovvero: del tutto speciale. Chiudiamo l’offerta del nostro carrello con la Torta Donizetti. Secondo la leggenda, fu Gioachino Rossini a chiedere al suo cuoco un dolce per alleviare il mal d’amore dell’amico Gaetano Donizetti, suggerendo al cuoco di preparare una torta semplice, ma molto dolce con canditi e zucchero a velo, per dispensarlo almeno per un momento dai tormenti del cuore ed ecco la Torta del Dunizet, una delicata ciambella margherita con albicocca e ananas. In realtà, questo dolce venne ideato solo nel 1948 da Alessandro Balzer, per celebrare il centenario della morte del compositore bergamasco.

Siamo al caffè e Johann Sebastian Bach si divertì a glorificare la sua bevanda favorita nella graziosissima e deliziosa Kaffeekantate (La Cantata del caffè) scritta tra il 1732 e il 1734, per essere eseguita allo Zimmermannsche Kaffeehaus di Lipsia. Accanito fumatore e bevitore di caffè Bach compone con questo ironico e raffinato pezzo una lode al caffè come simpatico alleggerimento delle tribolazione quotidiane e ci dimostra che i grandi uomini, se veramente grandi, sono in grado di apprezzare le gioie quotidiane, di sorridere e di ironizzare su se stessi. Caffè, cacao amaro, zucchero e panna montata sono gli ingredienti della Barbajada, che prende il nome da Domenico Barbaja. Garzone e cameriere, grazie alle sue geniali invenzioni e abilità imprenditoriale si eleverà a titolare del rinomato Caffè dei Virtuosi, locale di moda aperto a pochi metri dalla Scala. Grazie al suo acume diventerà, in seguito, uno degli impresari più influenti d’Europa, da cui dipesero le sorti dei più celebri compositori dell’epoca, per citarne alcuni: Rossini, Donizetti e Bellini. Fu a capo di numerose imprese, tra cui quella della Scala e del San Carlo, tanto da essere soprannominato il principe degli impresari e il viceré di Napoli.

Vincenzo Grisostomi Travaglini

Vincenzo Grisostomi Travaglini

“Lo splendore di una grande partitura”, un’articolo del Maestro Vincenzo Grisostomi Travaglini, pubblicato in “L’Opera International Magazine”, Gennaio 2020

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C’era molta attesa per l’apertura della stagione del Teatro dell’Opera di Roma 2019/20, con Daniele Gatti per la quarta volta sul podio, ma al debutto nello spettacolo inaugurale quale Direttore musicale. E la sorpresa c’è stata, non tanto nell’indubbio talento del maestro, quanto per la sua capacità di coinvolgere tutte le forze produttive della Fondazione romana e prime fra queste una ritrovata Orchestra, come non la sentivamo da anni e un possente Coro. La scelta del titolo è temeraria: Les vêpres siciliennes, un lavoro complesso, di una maturità artistica di Giuseppe Verdi che per la prima volta si affaccia alla ribalta parigina del grand-opéra. Per Eugène Scribe, autore del libretto con Charles Duveyrier e per Giuseppe Verdi stesso, l’evento rivoluzione era da riproporsi nell’amplificazione propria dell’opera, immettendo nel teatro musicale romantico e in particolare nel grand-opéra  il grandioso e il terribile, appartenenti al tempo vissuto ed è proprio l’irruzione della storia che nel melodramma caratterizza gli sviluppi del teatro musicale, da Spontini a Meyerbeer. Scribe lavora in questa direzione imponendo all’avvenimento storico, anche se non concepito nella realtà dei fatti, la dimensione epica della spettacolarità. Nella stesura del libretto Verdi, eppure, non accetterà un concetto dell’opera così come voluto da Scribe. Il compositore leggerà e si documenterà sulla storia del Vespro: Verdi, sembrerà chiedersi se esistano soluzioni diverse per raggiungere quell’ideale di pur irrinunciabile “libertà”, ma non troverà in questo suo lavoro una risposta, come dimostra il finale stretto nei tempi, che conclude una partitura tra le più articolate.
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Daniele Gatti sin dal Largo introduttivo dell’Ouverture richiama l’attenzione per una comunicazione attenta tra orchestra e pubblico, all’apparenza eccessivamente misurata, per poi deflagrare dall’Allegro agitato in un turbinio d’emozioni melodiche di un linguaggio tutto musicale, di esposizione e di richiami che quell’orchestra che Verdi aveva scoperto a Parigi offriva, con nuove possibilità di dialogo. La direzione di Gatti è determinata, scevrà da facili effetti e immersa in quella pulsante espressività, ora intesa a riverberante l’umana passione, il dolore e la voluttà, nella tensione della rivelazione musicale. Così lucidamente “spietata” nel contrapporre alla melodia quelle sezioni dei gravi che insinuano alla rivolta, al mantenere viva in orchestra quanto in palcoscenico quella tensione ininterrotta che sfocierà in tragedia. Nell’insieme anche la proposta del Divertissement nell’originale terzo atto (qui seconda parte), così come da tradizione del grand-opéra (circa mezz’ora di musica), acquista un senso di compiutezza, purtroppo non esaurientemente recepita nel suo valore di grande spettacolo dal versante registico-coreografico.
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Tutto questo è compiuto dal direttore Daniele Gatti con l’Orchestra dell’Opera, nei possenti cori e dagli ottimi solisti (con parziale eccezione del soprano), con emozionante coinvolgimento e coerenza, senza alcun cedimento. Ad apertura di sipario il Coro dell’Opera con organico pieno con l’iniziale: Beau pays de France! raggiunge la sala come in un abbraccio di struggente poetica e di forza passionale, per poi confermarsi quale protagonsita con espressività nei tanti interventi di diverso carattere imposti da una partitura di così ampio respiro; maestro del coro Roberto Gabbiani. Tra gli interpreti svetta la professionalità di Roberto Frontali, tormentato Montfort in cui si evidenzia uno dei temi mai sopiti in Verdi, del rapporto di un non realizzato sentimento paterno, qui reso più complesso dai conflitti di una vicenda dai caratteri molteplici che nella scrittura richiedono al baritono verdiamo l’eperienza di un’intero percorso artistico, perché alla laboriosità della trama, dal tiranno crudele, agli affetti irealizzabili, si deve rispondere con altrettante sfumature e sovrapposizioni timbriche, modulate da Frontali in perfetto equilibrio. Altro ruolo principale è quello di Procida, qui affidato alle sottigliezze di Michele Pertusi, che a stento raffrena un istinto aggressivo in: Et toi, Palerme, poi rivelandosi appieno nell’intero arco dell’opera, nella sua determinazione di patriottismo estremo e perfida manipolazione, in un crescendo di esemplare autorità vocale. Degni di nota il Quatuor: Adieu, mon pays e gli “incisi” dell’Ensemble del finale quarto: O surprise! ô mystère! ; di una tale violenza e penetrazione quale ritroveremo solo negli accenti del Don Carlos,così come nel Trio: Sort fatal e Scène: Ah! venez compatir à ma douleur mortelle!. Perché ne Les vêpres siciliennes non tutto è come appare e il bene, come in Procida, può essere manipolato quale strumento contrario. Vittime di cotanti carnefici, di un padre estraneo e di un patriottismo fatale, è il personaggio di Henri che si abbandona a emissioni di stampo belcantistico che allo stesso tempo richiedono forte tempra vocale, qui tratteggiato alla perfezione da John Osborn. Tra tante personalità artistiche, la meno esperta Roberta Mantegna che in di Hélène stenta a trovare un proprio equilibrio in un ruolo che non può essere risolto solamente con indubbia qualità di emissione, da: Au sein des mers alla celebre Sicilienne: Merci, jeunes amie, è in difficoltà nel definire il confine tra agilità espressiva e più intensa drammaticità. La compagnia nel suo insieme è senza ombre, con Saverio Fiore (Thibault), Francesco Pittari (Daniéli), Daniele Centra (Mainfroid), Alessio Verna (Robert), Dario Russo (Le sire de Béthune) e infine per Le comte de Vaudemont Andrii Ganchuk del Progetto Fabbrica. La scenografia di Richard Peduzzi è suggestiva, presenta elementi dinamici per una Sicilia simbolicamente scultorea e pittorica, che riporta nei tratti essenziali a De Chirico e nelle suggestioni culturali a Guttuso, con cura particolare dei volumi e delle forme che ripropongono nell’essenzialità geometrica, ora di una cattedrale o di una chiesetta dal campanile ruinato dal tempo o dalla violenza di una terra vulcanica, di case e casupole; nel poderoso Ensemble: O fête brillante! caratterizzando la scena con seducenti teli variopinti. Costumi impersonali, di militari e popolo all’incirca degli anni quaranta del ‘900, di Luis F. Carvalho. Luci dalle alterne soluzioni, ora astratte con tinte surreali, altrimenti indeterminate e sempre d’effetto, realizzate da Peter van Praet.

Purtroppo tutto questo imponente lavoro non è appieno condiviso dalle scelte registiche di Valentina Carrasco, nativa di Buenos Aires. L’azione è attualizzata, forse alla Spagna franchista o pensata all’Argentina dei generali, accentrando l’interesse sulla violenza del regime nei confronti della donna. Il tema è pertinente, perché il protagonista Henri e figlio nato dallo stupro subito da una donna siciliana, violentata dal crudele governatore in Sicilia Guy de Montfort. Una situazione che permette a Verdi con la guida di Scribe di riproporre in musica la dualità tra conflitto interiore e afflizione del singolo e politica oppressiva. L’argomento della violenza sulle donne è, purtroppo, quanto mai attuale e sensibile, ma ripresentarlo ossessivamente in scena, ignorando il più ampio respiro drammaturgico e innovazione artistica della composizione, appare per lo meno riduttivo, ancor più perché il lavoro su solisti e coro appare ben poco efficace. Poco convincente, inoltre, la mano della regista che s’impone quale coreografa con Massimiliano Volpini per l’ampio Divertissement intitolato Les Saisons. Non ci si aspettava di certo di veder danzare ninfe e fauni come riportato nel libretto, eppure il tema ripresentato di donne prese con la violenza, martoriate, nel rito dell’acqua purificatrice, nel dolore della gravidanza da cui nasceranno i futuri patrioti e liberatori dall’oppressione(almeno questa è una possibile lettura), suscita perplessità perché nella realizzazione s’impone quale negazione del concetto stesso di spettacolo. Ballabili pur realizzati con indiscusso talento dal Corpo di ballo e i giovani della Scuola di danza del Teatro dell’Opera. Si registra al termine qualche dissenso, eco di una più marcata disapprovazione la sera della “prima”. Segue l’intervento corale conclusivo del terzo atto, il quarto e quinto atto in un’edizione musicalmente ineccepibile e una conclusione che nella determinazione esecutiva trova quella ragione che drammaturgicamente sembra altrimenti sfuggire. La rivolta incombe ne Les vêpres siciliennes senza scatenarsi e solo nella conclusione emerge crudele e sinistra: il rintocco della campana, il segnale e la morte attende gli amanti Hélène e Henri, il tiranno e padre Guy de Montfort … e dopo il breve, ma incisivo coro: Oui, vengeance! vengeance! scende il sipario. Verdi non compone, infatti, musica per il finale così come proposto da Scribe e che dopo il rintocco della campana, il segnale per l’insurrezione, si raccoglieva nell’avvertimento sinistro e implacato: Frappez-les tous! Que vous importe? / Français ou bien Siciliens, / Frappez toujours! Dieu choisira les siens! ; un cieco scatenamento di odio represso senza finalità per il futuro; liberatorio, ma sterile sul piano storico, in quanto soltanto negatore.

 

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