“Scherzo lirico”, un articolo del Maestro Vincenzo Grisostomi Travaglini in “L’Opera International Magazine”, Marzo 2021

Uno scherzo lirico, assai vivace, briosamente soprannominato Il pasteggiar cantando, che vede alla ribalta ricette ideate o dedicate ai più celebri personaggi del melodramma, in prevalenza italiano e francese.

Nell’Ottocento grandi cuochi vollero cimentarsi in piatti che prendessero il nome dei beniamini del pubblico del melodramma, dal celebre compositore parigino Giacomo Meyerbeer, a Bizet e Berlioz. Il più noto protagonista, però, resta l’inappagabile Gioachino Rossini, raffinato gourmet e complice dei più noti chef della Parigi dell’epoca, da Marie-Antoine Carême detto il cuoco dei re e il re dei cuochi al celebrato Auguste Escoffier la cui cucina entusiasmò a tal punto Guglielmo II da fargli affermare: «Io sono l’imperatore di Germania, ma tu sei l’imperatore degli chef». Se Rossini è ben conosciuto nel mondo della gastronomia, meno consueto è l’imbattersi con altri buongustai, quali furono Giuseppe Verdi e Giacomo Puccini. Verdi prima d’intraprendere un viaggio inviava agli amici e ospiti ricette scritte di suo pugno, affinché al suo arrivo potesse deliziarsi dei suoi piatti preferiti. Puccini si ritrovava con i suoi amici nel Club La bohème dove nello statuto erano previsti cibi prelibati, soprattutto cacciagione e vini senza parsimonia. Vietato, sempre nello statuto de La bohème, esimersi dai piaceri della tavola.

Un passo indietro, agli albori del XVII secolo, a Firenze e l’occasione sono le storiche alleanze matrimoniali; una di queste furono i grandiosi festeggiamenti in occasione del matrimonio di Cristina di Lorena con il granduca di Toscana Ferdinando de’ Medici. Tra banchetti favolosi, siamo all’alba della nascita del melodramma, protagonista è la progenitrice della figura della primadonna Vittoria Archillei, interprete del primo degli Intermedi eseguito nel Regio Salon di Palazzo. Nel 1608 saranno ancora una volta i cantanti ad avere la scena nel banchetto di nozze di Cosimo II de’ Medici con Maria Maddalena arciduchessa d’Austria: Vittoria Archilei, Francesca e Settimia Caccini, Melchiorre Palantrotti, il meglio che all’epoca si potesse chiedere alla scena canora. In quel lontano 1608 nel Salone dei Cinquecento, a Palazzo Vecchio a Firenze, vennero servite sei portate ed è ben precisato nelle cronache dell’epoca “abbondanti”: pavoni, capponi, tortore, fagiani, galli, mandorle, pistacchi, pan di spagna, bietole, prugne e mele; in tavola predominava sempre e comunque il sapore agrodolce. Così che tra banchetti, con timballi, fagiani, pernici e tanto vino, nacque il melodramma. All’epoca quella musica venne definita: “musica celestiale per chi ama il cibo degli dei”, con un buon condimento, aggiungerei, di piacere profano.

La felice unione tra musica e cibo è, in realtà, ben antica. L’uso d’accompagnare i banchetti con musiche risale fin dai tempi degli Egizi, per essere ripreso da Greci, Etruschi e Romani. Metà Odissea è cantata a un pranzo; la petroniana Cena di Trimalcione è interamente a ritmo di musica, perfino la liturgia missale è esaltazione cantata di un pasto rituale. La tradizione, che perdurò nel corso del Medioevo, si rinvigorì a partire dal ‘400. Per i conviti solenni, a cominciare dai pranzi di nozze, la presenza di cantori e musici era d’obbligo. Nei banchetti ufficiali delle corti, al liuto ed all’arpa era assegnato: “il compito di deliziare con delicate danze strumentali, le orecchie degli illustri commensali“. Nei pranzi domenicali e nelle occasioni speciali, si aggiungevano a questi “i trombetti, i corni e i piffari“. Nella cucina barocca i ricchi amavano lo sfarzo anche attraverso l’uso di spezie, che arrivavano direttamente dall’Oriente. Per un lungo periodo perfino il riso fu considerato una spezia, prima che se ne scoprisse l’utilità in cucina, dal dolce al salato. In questa fase storica il cibo diventava spettacolo, i banchetti erano una vera e propria messa in scena di piatti elaboratissimi, tagliati e serviti seguendo determinati movimenti, sempre volti a ricercare lo stupore dei commensali. Michel-Richard Delalande pubblica nel 1703 Les Symphonies pour les Soupers du Roy, composte come sottofondo musicale ai pasti di Luigi XIV. Georg Philip Telemann chiamò le sue grandiose suites Tafelmusik (Musica da tavola), forse per farci capire che la musica deve non solo essere ascoltata, ma anche degustata come se fosse cibo prelibato. L’espressione Musica da tavola, più nota nella versione tedesca e in quella francese Musique de table, designa il variegato repertorio di brani espressamente composti per essere eseguiti durante il banchetto. Di musiche da tavola ne scrive ad esempio Giovanni Battista Lulli (Jean-Baptiste Lully). Anche Beethoven compose musica da tavola, l‘Ottetto per fiati op. 103 del 1792, scritto per allietare la mensa dell’Elettore di Bonn e in tempi più recenti Paul Hindemith e molti altri. Cibo e musica vanno a braccetto da sempre e presentano anche similitudini lessicali; un piatto si compone e Leonard Bernstein ha ideato il ciclo delle “quattro ricette” per voce e pianoforte, basato su un testo che si chiama La bonne cuisine. Non dimentichiamoci dei direttori d’orchestra che amavano cucinare, quali ad esempio Karajan e Erich Kleiber, quest’ultimo affermò ed è quanto mai attuale: «Ascoltare solo musica registrata e non andare ai concerti è come mangiare solo cibi in scatola. E invece fa bene mangiare cibi freschi».

Da Firenze a Venezia, nel fulgore della gloria della Serenissima, con Antonio Vivaldi che come ci riportano le poche cronache concernenti la vita privata del musicista, non poteva rinunciare al risotto in tutte le sue più fini declinazioni, come pure del pesce; riso usato in circa 220 piatti durante l’epoca barocca. Ispirandosi all’opera di Vivaldi e seguitando la scia dei profumi musicali, si è voluto scherzare molto vivacemente con “interpretazioni” venete del riso sulla più celebre composizione del Prete Rosso: Le quattro stagioni. Senza voler forzare il paragone, per l’Inverno si è volto scegliere la ricetta del riso e cavolfiore; certamente il risotto risi e bisi ben si sposerebbe con la Primavera, questa portata era d’obbligo il 25 aprile, giorno di San Marco patrono della città; per l’Estate risotto alle seppie; infine  il risotto ai finferli (gallinacci)  e prosecco per quanto riguarda le nebbie lagunari evocate nell’Autunno. Il riso, che tanto amava Vivaldi, era arrivato nella Repubblica di Venezia dai paesi arabi, per poi essere coltivato nel veronese.

Eccoci nelle Marche con tre grandi compositori, in ordine cronologico: Giovan Battista Pergolesi, Gaspare Spontini e ovviamente il gastronomo per eccellenza che in questo incontro la farà da protagonista, Gioachino Rossini. A Giovan Battista Pergolesi, nato a Jesi nel 1710, è legato un piatto all’epoca caratteristico della sua città natale la Coratella d’agnello con cipolla alla Giovan Battista Pergolesi, una ricetta d’uso comune dei cordai jesini, che vivevano a pochi passi dalla casa natale del celebre compositore. Nell’intermezzo buffo La serva padrona di Pergolesi la cioccolata è quasi il fulcro della vicenda, così in Mozart l’astuta Despina del Così fan tutte prepara una cioccolata che poi servirà alle sue dame in preda a un attacco di malinconia d’amore. Mozart, lo incontreremo nuovamente al momento del dolce, era particolarmente bramoso di chocolate e a lui sono state dedicate molte ricette che fanno del cacao l’ingrediente principale. Molti grandi musicisti ne erano ghiotti, da Rossini a Verdi. Tornando alla Marche, un gran goloso di chocolate era Gaspare Spontini la cui moglie, Celeste Erard, ha lasciato una ricetta, Crème au chocolat râpé (Crema alla cioccolata grattugiata), tramandataci in un manoscritto ancor oggi conservato a Jesi. Andiamo per ordine, non abbiamo che accennato a Gioachino Rossini e riconducibili alla musica da tavola sono le brevi composizioni per pianoforte del pesarese intitolate ad antipasti e dessert, composte a Parigi in epoca matura, «le sole infrazioni» come lui stesso scherzosamente le aveva definite, alla decisione del compositore presa nel 1829 di non scrivere più musica. In realtà, fortunatamente, non sono le sole “infrazioni” raccolte nei 13 volumi che Rossini stesso chiamerà, con delizioso sarcasmo, i suoi Péchés de vieillesse (Peccati di vecchiaia), brevi composizioni alle quali Rossini darà titoli ironici e dissacranti, quali Quatre hors-d’oeuvres, nei quali c’è un’intera collezione di brani per pianoforte chiamati  Antipasti (ravanelli, acciughe, burro…) e quattro Desserts di frutta secca (fichi, uva, mandorle, noci).

Altro argomento è quello dei grandi cuochi dell’Ottocento, per non risalire a epoche più remote, che hanno dedicato le loro creazioni a compositori o cantanti. Nella sola cucina francese esistono quattro tipi di uova a tema: alla Daniel Auber, in camicia e poste su pomodori ripieni di pollo e tartufo tritati, poi coperti con salsa vellutata; alla Hector Berlioz, alla coque, accompagnate da croustades, patate duchesse, tartufo e funghi in salsa di Madeira; alla Georges Bizet, cotte in stampini foderati con lingua sott’aceto e servite su cuori di carciofo con salsa Périgueux e alla Giacomo Meyerbeer , in cocotte, guarnite con rognone d’agnello alla griglia. Il leggendario Auguste Escoffier s’innamorò a tal punto della Carmen di Bizet da volerle dedicare ben due ricette, le Costolette d’agnello e l’Insalata di pollo, ovviamente dette alla Carmen. A Bizet è anche dedicata la Torta che porta il suo nome, che unisce meringa e crema al burro. Di Georges Bizet da Le Docteur Miracle è doveroso citare Il brillante Quartetto de l’omelette. Tra le tante ricette dedicate a Giacomo Mayerber, il compositore per eccellenza del grand-opéra, è il Filet mignon à la Meyerbeer, ma in particolare queste ricette risulterebbero al palato odierno tra le più impegnative. In Francia nacquero, inoltre, i famosi Tournedos alla Rossini, detti la Suprema esagerazione per via del connubio fra filetto, burro, foie gras, pane, tartufo nero e salsa al Madeira, anche se non si sa con certezza il nome del primo chef a prepararli; forse il rinomato cuoco Marie-Antoine Carême o altrimenti l’altrettanto noto Casimir Moisson. Di sicuro la ricetta scaturì dalla fantasia inarrestabile del golosissimo genio pesarese. Gioachino Rossini, soprattutto nel suo secondo periodo parigino, si appassionò così tanto all’arte culinaria e alla mondanità da essere denominato il Principe della gastronomia. Elaborò anche diversi piatti, che andremo a indagare più avanti. A lui in epoca recente è stato anche dedicato il famosissimo Cocktail Rossini a base di fragole e prosecco, una variante del Bellini, che però non prende il nome da Vincenzo, il compositore catanese, come si potrebbe credere, bensì dal pittore Giovanni Bellini.

Altri compositori buongustai finirono per battezzare il loro piatto prediletto quali Niccolò Paganini per i ravioli al ragù; un prezioso manoscritto autografo conservato presso la Library of Congress di Washington ci racconta come il sommo Niccolò Paganini, oltre ai 24 Capricci per violino solo, compilò la sua personale ricetta del sugo di manzo per i Ravioli alla genovese. La descrizione che ne segue è gastronomicamente ineccepibile: «Per una libbra e mezza di farina due libbre di buon manzo magro per fare il suco. Nel tegame si mette del butirro, indi un poco di cipolla ben tritolata che soffrigga un poco. Si mette il manzo, e fare che prenda un po’ di colore. E per ottenere un suco consistente si prende poche prese di farina, ed adagio si semina in detto suco affinché prenda il colore. Poi si prende della conserva di pomodoro, si disfa nell’acqua, e di quest’acqua se ne versa entro alla farina che sta nel tegame e si mescola per scioglierla maggiormente, e per ultimo si pongono entro dei funghi secchi ben tritolati e pestati; ed ecco fatto il succo. Ora veniamo alla pasta per tirare le sfoglie senza ovi. Un poco di sale entro la pasta gioverà alla consistenza della medesima. Ora veniamo al pieno. Nello stesso tegame colla carne si fa in quel suco cuocere mezza libbra di vitella magra, poi si leva, si tritola e si pesta molto. Si prende un cervello di vitello, si cuoce nell’acqua, poi si cava la pelle che copre il cervello, si tritola e si pesta bene separatamente, si prende quattro soldi di salsiccia luganega, si cava la pelle, si tritola e si pesta separatamente. Si prende un pugno di borage chiamata in Nizza boraj, si fanno bollire, si premono molto, e si pestano come sopra. Si prendono tre ovi che bastano per una libbra e mezza di farina. Si sbattano, ed uniti e nuovamente pestati insieme tutti gli oggetti soprannominati, in detti ovi ponendovi un poco di formaggio parmigiano. (…)». Come si nota leggendo, tra gli ingredienti Paganini fu uno dei promotori e cultori dell’uso del pomodoro in cucina, in un’epoca in cui questo ortaggio iniziava ad imporsi quale alimento.

Nella letteratura epistolare di compositori e interpreti, spesso, più che parlare di musica ci si scambiano ricette o curiosità culinarie! E’ risaputo che nel mondo dell’opera i piaceri della tavola rappresentavano parte integrante della vita dei più importanti compositori. «Mangiare e amare, cantare e digerire: questi sono in verità i quattro atti di questa opera buffa che si chiama vita e che svanisce come la schiuma d’una bottiglia di champagne», questa frase suona lapidaria e la si potrebbe definire il “credo” di Gioachino Rossini. Durante tutta la sua vita, da Pesaro a Bologna, Firenze e infine Parigi, allora vera capitale della gastronomia, Gioachino Rossini non fu solo il musicista dalla sterminata bibliografia, bensì un uomo con tanti interessi culturali e politici. Si racconta che a sei anni facesse il chierichetto e che regolarmente fosse sgridato per aver bevuto dalle ampolle di vin santo nelle sacrestie delle chiese di Pesaro. Un altro episodio viene spesso citato: nel 1816, la prima rappresentazione de Il barbiere di Siviglia al Teatro Argentina di Roma fu un insuccesso. Comunicando l’accaduto al suo grande amore, la cantante Isabella Angela Colbran, Rossini tenne a precisare: «(…) ma ciò che mi interessa ben altrimenti che la musica, cara Angela, è la scoperta che ho fatto di una nuova insalata, della quale mi affretto ad inviarti la ricetta (…) prendete dell’olio di Provenza, mostarda inglese, aceto di Francia, un po’ di limone, pepe, sale, battete e mescolate il tutto; poi aggiungete qualche tartufo tagliato a fette sottili. I tartufi danno a questo condimento una sorta di aureola, fatta apposta per mandare in estasi un ghiottone. Il cardinale segretario di Stato, che ho conosciuto in questi ultimi giorni, mi ha impartito, per questa scoperta, la sua apostolica benedizione». Un’altra storia, forse leggenda, è quella di Rossini seduto in un ristorante di Venezia in attesa della cottura del suo risotto e qui compose l’aria di Tancredi con la cabaletta: Di tanti palpiti, che dopo la prima dell’opera il 6 febbraio 1813 al Gran Teatro la Fenice di Venezia divenne il brano più in voga in tutta Europa e fu soprannominata, date le particolari circostanze: ‘’l’aria del risotto di Rossini’’. Il palato del pesarese era non solo goloso, ma anche pronto agli abbinamenti più bizzarri, raffinato in fatto di vini ed insaziabile, i suoi piatti traboccano di tartufi, olive, fois gras, burro, carni, uova, stufati, zamponi e rognoni. Molte furono le ricette a lui dedicate, ma nei 39 anni di silenzio musicale riuscì a esprimere il suo talento e creatività con ricette proprie. Non aveva solo un grande appetito, ma era anche una fonte di sapienza in cucina; le sue ricette spaziano dai Tournedos, alla Torta Guglielmo Tell, un dolce servito in occasione della “prima” a Parigi nel 1829: naturalmente riferendosi al leggendario eroe svizzero, a base di mele, decorata con un pomo trafitto da una freccia di zucchero. Non è un caso che Rossini abbia confessato di aver pianto soltanto tre volte nel corso della sua vita, cioè dopo i fischi indirizzati alla sua prima opera, quando ascoltò il violino di Paganini e dopo la caduta di un tacchino farcito con i tartufi mentre era in barca per una gita. Il tacchino farcito doveva essere senza dubbio uno dei suoi piatti preferiti, a riguardo disse: «Per mangiare il tacchino bisogna assolutamente essere in due: io ed il tacchino». La pasta ripiena era un altro piatto a cui non poteva resistere, lui stesso ideò una ricetta: I maccheroni alla Rossini, per i quali utilizzava parmigiano reggiano, tartufi tritati, brodo, burro, spezie, prosciutto magro e panna. Sono molti i piatti ideati da Rossini o a lui dedicati che vale la pena ricordare; il più famoso sono i Tournedos, filetti di manzo con tartufo nero e fois gras. Non vanno dimenticati il Consommé di coda di bue al tartufo, gli Spaghetti alla Scala (sempre con una generosa spolverata di tartufo) e le Uova alla Rossini, ovvero dei tuorli d’uovo arricchiti con besciamella e fois gras, racchiusi all’interno di un guscio di pasta sfoglia. Apprezzava la cucina originaria delle sue native Marche, la cucina italiana, quella francese e quella internazionale. Da ciascuna traeva ciò che conveniva al suo gusto cosmopolita: si faceva portare dal suo amico Giovanni Vitali le olive da Ascoli Piceno, il panettone da Milano, vari tipi di stracchino dalla Lombardia, gli zamponi da Modena, la mortadella ed i tortellini da Bologna, il prosciutto da Siviglia, i formaggi piccanti o fermentati dall’Inghilterra, la crema di nocciole da Marsiglia ed infine le sardine royal, che gli ammiratori facevano a gara per mandargli. Pur apprezzando le finezze della cucina francese, non risparmiava lazzi all’indirizzo dei gusti del Paese che lo ospitava, come ben testimonia questa sua frase: «Gli amici gallici preferiscono la ricotta al formaggio, locchè equivale al preferire la romanza al pezzo concertato. Ah tempi! Ah miserie!». La sua vera passione erano i prodotti genuini e caserecci italiani, suoi compagni d’infanzia. Scrive al vecchio amico Marchese Antonio Busca: «(…) i due stracchini ricevuti … mi procurano la dolce reminiscenza della augusta madre sua che fu la prima a farmi gustare i nobili prodotti di Gorgonzola. Oh tempi felici! Oh gioventù!» La ricetta dei suoi maccheroni venne scritta sotto dettatura dello stesso Rossini il 26 dicembre 1866: «Per essere sicuri di poter fare dei buoni maccheroni, occorre innanzitutto avere dei tegami adeguati. I piatti di cui io mi servo vengono da Napoli e si vendono sotto il nome di terre del Vesuvio. La preparazione dei maccheroni si divide in quattro parti. La cottura è una delle operazioni più importanti e occorre riservarle la più grande cura. Si comincia col versare la pasta in un brodo in piena ebollizione precedentemente preparato; il brodo deve essere stato passato e filtrato; si fa allora cuocere la pasta su un fuoco basso dopo avervi aggiunto alcuni centilitri di panna e un pizzico di arancia amara. Quando i maccheroni hanno preso un colore trasparente per il grado di cottura, vengono tolti immediatamente dal fuoco e scolati sino a quando non contengano più acqua. Li si tiene da parte prima di essere sistemati a strati con parmigiano e tartufo». Negli anni venti dell’Ottocento a Parigi eccelleva il “divino” cuoco Marie-Antoine Carême che, dopo aver lavorato per i più importanti personaggi del suo tempo, gestiva le cucine dei Rothschild. Fu proprio in casa Rothschild che i due si conobbero e da quell’incontro nacque un’amicizia fatta di stima e d’affetto. Carême sosteneva che Rossini fosse il solo che lo aveva saputo comprendere; il Maestro rispose con una composizione musicale titolata: “Da Rossini a Caréme”. Caréme gli dedicò molti piatti, così come un altro celebre cuoco Auguste Escoffier autore del libro di ricette divenuto la bibbia della cucina moderna; nella sua Le Guide Culinaire ci sono talmente tante ricette dedicate a Rossini che si potrebbero compilare interi menu quali «leccorniose orchestrazioni» e non semplici liste di pietanze. Fu nel 1864 che il barone Rotschild mandò in dono al musicista alcuni grappoli provenienti dai suoi vigneti, che di tutta risposta in una missiva rispose come ringraziamento: «(…) la vostra uva è eccellente, ve ne ringrazio, ma il vino in pillole non mi piace affatto», sicché in cambio gli vennero recapitate alcune bottiglie del suo vino: il Chateau-Lafite. Questo aneddoto delinea in Rossini non solo la passione per la tavola, ma anche per il vino, di cui era esperto conoscitore e bevitore, tanto che discettava con produttori e cantinieri sui metodi di imbottigliamento e produzione, accrescendo così le sue conoscenze in campo enologico. Presso la Biblioteca Laurenziana Medicea di Firenze è custodito un menu, redatto dallo stesso compositore, particolarmente interessante per l’attento abbinamento dei vini ai piatti: il Madera ai salumi, il Bordeaux al fritto, il Reno al pasticcio freddo, lo Champagne all’arrosto, l’Alicante e la Lacrima a frutta e formaggio. La sua cantina conteneva di tutto, dal suo vino personale imbottigliato nelle isole Canarie alle bottiglie di Bordeaux, dal vino bianco di Johannesburg che Metternich gli inviò da Malaga, a bottiglie di raro Madeira, da bottiglie di Marsala al Porto della Riserva Reale che il Re del Portogallo, suo fanatico ammiratore, gli aveva donato.

I piaceri della tavola sono da sempre parte integrante della vita dei più importanti compositori d’opera. Si racconta di un Rossini apprensivo che durante la visita di Richard Wagner nella sua villa di Passy alle porte di Parigi si alzò più volte durante la conversazione per poi tornare a sedersi dopo pochi minuti, giusto per innaffiare la lombata di capriolo.  Rossini curava personalmente i suoi piatti, a volte abbandonando per qualche minuto i suoi ospiti, come accadde per Wagner su cui, a Parigi, girava una voce inquietante, ovvero si sospettava che fosse vegetariano. Peccato mortale!

Per Vincenzo Bellini ci viene subito in mente la Pasta alla Norma. Un piatto che, stando alla tradizione, adottò il nome del capolavoro di Bellini per ripagarlo del fiasco della prima scaligera del 1831. La prima della Norma fu accolta con freddezza alla Scala e Bellini dichiarò: «Fiasco, fiasco, solenne fiasco»e pare che abbia inoltre commentato:«I milanesi non hanno ancora digerito il risotto di ieri». In realtà la nascita della pasta alla Norma è molto più recente ed ha una data ben precisa, quella dell’ autunno del 1920. Occorre, però, far una breve premessa: “Pari ‘na Norma” ovvero “sembra una Norma”, era il paragone corrente, il massimo complimento per i catanesi, Catania città natale di Vincenzo Bellini, per magnificare oltre ogni dire tutto ciò che amavano, ammiravano e gustavano. Dunque il luogo è Catania, precisamente la via Etnea e fu lo scrittore e poeta Nino Martoglio che di fronte ad un piatto di pasta con pomodoro, basilico, melanzane fritte e ricotta salata battezzò “alla Norma”, ovvero sublime, questa ricetta. A Bellini piaceva frequentare i salotti del bel mondo, a Napoli e soprattutto a Milano, di palato raffinato, ma delicato. A lui, soprannominato il Cigno di Catania, sono stati dedicati recentemente nella città natale I cigni, praline di purissimo cioccolato di Modica che si ispirano alle dieci opere del celebre compositore.

Nel Gianni da Parigi di Donizetti vi è una gustosa pagina musicale che è paragonabile ad un menu, la scena così detta dei perniciotti: “Eccellenza… se vedesse… perde un pranzo da sovrano /  È squisito… sorprendente. Che portate! Che apparecchi! Quanti vini, e tutti vecchi! / Passerotti, starne, tordi, perniciotti… /  Un storione.  / Pasticcini, pasticcetti, salse, intingoli, guazzetti, e per colmo in un gran piatto un superbo vol au vent. / Poi faggiani… / Squisitissime omelettes, ma soufflées. / In qual bivio, (oh Dio! Mi-mal lo mette) Il decoro e l’omelette! Qual contrasto nel mio/suo core / fra l’onore e il vol au vent! / (…)  E quel fagiano!… (…) il mio-suo cervello girar farà. / (…) Dunque io vado. / L’ova e il pane a preparar”. …Cosa dire, poi, di Johann Strauss che compose una cotolekt-polka per esaltare la famosa cotoletta impanata, sulla cui paternità ancora oggi si contendono milanesi e viennesi!

Giuseppe Verdi fu uomo di mondo, ma egli stesso amava definirsi  pur sempre un contadino della Bassa. E’ la festa di san Donnino, il 10 ottobre del 1813, per le vie di Le Roncole, piccola frazione di Busseto in provincia di Parma, si aggira un gruppo di suonatori girovaghi. In una modesta casa colonica adibita a posteria, Carlo Verdi gestisce un’osteria in cui si preparano pasti per i viandanti e i passeggeri delle diligenze. Alle otto di sera nasce suo figlio Giuseppe. Giuseppe Verdi rimase sempre legato alla sua origine e amò i frutti della sua terra tanto da portarli con sé nei suoi viaggi o farseli spedire a destinazione. Grande è l’attenzione che il compositore dimostra nei confronti della terra e dei suoi prodotti. Come si può pensare a Sir John Falstaff senza l’Osteria della Giarrettiera? A Verdi furono dedicate da cuochi famosi molte ricette, una delle più conosciute è il Risotto Giuseppe Verdi, ideato e dedicato al Maestro dallo chef francese Henri-Paul Pellaprat. Pellaprat scrisse diversi manuali di gastronomia francese tra cui L’arte della cucina moderna e diresse la scuola di alta specializzazione Le Cordon Bleu fondata a Parigi nel 1895. Nella ricetta dedicata al bussetano: riso carnaroli, burro, funghi coltivati, punte di asparagi, prosciutto crudo, pomodori pelati, panna da cucina, brodo di carne, cipolla e non poteva mancare il Parmigiano Reggiano. In realtà, la preparazione di questo risotto non è del tutto frutto dell’ingegno di Pellaprat, bensì della moglie di Verdi, Giuseppina Strepponi, che in una lettera svela a Camille Du Locle, direttore de l’Opéra-Comique di Parigi, la ricetta del «maître pour le risotto», un piatto che a Giuseppe riesce particolarmente bene e che è per molti versi simile, se non uguale, a quella firmata dallo “chef” parigino. Vi era, però, una ricetta che Giuseppe Verdi gradiva particolarmente, quella de La spalla cotta. La spalla cotta è un prodotto tipico della Bassa (pianura Padana) e spesso Verdi la inviava agli amici, accompagnandola con affettuose istruzioni per l’uso: «Prima di cuocere la spalla – secondo le indicazioni del Maestro, occorre – (…) levarla di sale (…) lasciandola per due ore in acqua tiepida. Si pone quindi la spalla in una pentola che la contenga e si riempie di acqua; si lascia cuocere a fuoco dolce per almeno sei ore. Si lascerà raffreddare nel brodo di cottura, quindi si asciugherà e sarà pronta da gustare». Un ritratto sulle abitudini gastronomie di Giuseppe Verdi è tratteggiato dal poeta e musicista Arrigo Boito: «Il Maestro ama i pranzi prolissi e le opere concise. Cucina poderosa dei vecchi tempi. Gli piace anche la moderna quando è all’Hotel ed è finissimo assaporitore. Ma a casa sua… vuole le grandi fette di bue condite con la mostarda di Cremona, i funghi in aceto, la salsa verde. Quasi tutta la sua vita mangia, a desinare, un mezzo ovo sodo dopo l’arrosto. Il suo desinare in casa è composto di antipasti, d’una minestra, per solito sostanziosa (risotto, pasta asciutta, ravioli in brodo), d’un piatto di carne lessa, d’una frittura abbondante, d’un arrosto, d’un dolce formaggio, desert varii. Un’ora dopo il desinar fabbrica lui stesso il caffè».

Spaziando nel mondo dei compositori potremo fare molti altri esempi; viene narrato a tale proposito un episodio ambientato durante una cena avvenuta a Milano tra Pietro Mascagni e l’amico Giacomo Puccini, mentre i due ricordavano gli anni di studi e sacrifici condivisi nella stessa stanzetta a Milano, fra loro sarebbe esplosa una goliardica discussione sul se era più succulento un piatto di cacciucco livornese o una folaga rosolata lucchese. Per Mascagni non vi erano dubbi, migliore è il caciucco poi denominato alla Mascagni, che il compositore amava aromatizzare con salvia e zenzero. Nel 1901 il rinomato pasticciere Antonio Lo Verso, in occasione del debutto a Palermo di Iris di Mascagni, creò un dolce fritto da servire per la prima colazione, ripieno di crema alla ricotta. Nel 1930 Pietro Mascagni compose La danza dei gianduiotti per il Teatro Regio di Torino, in onore dei principi Umberto di Savoia e Maria José.

Il tema dell’amicizia che torna a tavola è quanto mai presente con Puccini. Egli coltivò sempre il piacere nell’arte del cucinare, ad esempio assieme all’amico Mascagni durante gli studi milanesi preparando piatti poveri, ma gustosi. Negli anni giovanili Puccini si dimostrò, quando poté, molto attento ai piaceri della tavola, concludendo le giornate lavorative di fronte a una sostanziosa cena. Se i soldi mancavano, da buona forchetta, si divertiva a creare personalmente ricette come la Pasta con le anguille o le Aringhe coi ravanelli. Così scriveva negli anni di studio, caratterizzati da ristrettezze economiche: «(…) La sera, quando ho quattrini vado al caffé, ma passano moltissime sere che non ci vado, perchè un ponce costa 40 centesimi… Mangio maletto, ma mi riempio di minestroni…e la pancia è soddisfatta». Si narra che Puccini andasse a far visita a sua sorella Iginia, monaca col nome di suor Giulia Enrichetta al Monastero della Visitazione della nativa Lucca, spinto dalla passione per i fagioli cotti al fiasco, che mangiava al refettorio. Automobili, donne e cucina erano le sue grandi passioni. A Torre del Lago Puccini, accanito cacciatore, si riuniva sulle rive del lago di Massaciucoli con un gruppo di artisti e scrittori presso una bettola chiamata La capanna di Giovanni dalle bande nere, da subito ribattezzata Club La bohème. Qui con gli amici passava molto tempo, festeggiando allegramente, bevendo vino e giocando a carte. Questi buontemponi redigettero anche una specie di scherzoso statuto:

Art 1 I soci del Club “La Bohème”, fedeli interpreti dello spirito onde il club è stato fondato, giurano di bere e mangiar meglio.

Art. 2 Ammusoniti, pedanti, stomachi deboli, poveri di spirito, schizzinosi e altri disgraziati del genere non sono ammessi o vengono cacciati a furore di soci.

Art. 3 Il presidente funge da conciliatore, ma s’incarica d’ostacolare il cassiere nella riscossione delle quote sociali.

Art. 4 Il cassiere ha la facoltà di fuggire con la cassa.

Art. 5 L’illuminazione del locale è fatta con lampada a petrolio. Mancando il combustibile, servono i “moccoli” dei soci.

Art. 6 Sono severamente proibiti tutti i giochi leciti.

Art. 7 È vietato il silenzio.

Art. 8 La saggezza non è ammessa neppure in via eccezionale”.

Ancora, la lista dei piatti legati alla musica operistica prosegue con tutta una serie di ricette dedicate ai grandi cantanti: La poularde Adelina Patti, Il chicken Tetrazzini e Le pesche Melba; più recente, golosissimo, è il dolce in omaggio a Renée Fleming rinominato La Diva Renée, un’esplosione di cioccolato. Non manca Maria Callas, con la torta che porta il suo nome e vi è anche  la ricetta di uno dei suoi piatti preferiti, i Bigoli con ragù d’anatra alla veneta, nella ricetta di Pia Meneghini, sorella di colui che fu marito e mentore del celebre soprano, Giovanni Battista Meneghini.

Diversa è la storia che lega il tenore Enrico Caruso alla sua Napoli. Secondo il racconto, nel 1901 Caruso dopo una lunga serie di trionfi italiani e internazionali tornò a Napoli per interpretare Nemorino ne L’elisir d’amore di Gaetano Donizetti al Teatro San Carlo, ma proprio nella sua città venne accolto con freddezza. La sua delusione fu tale che egli promise a se stesso di non cantare più a Napoli e di tornarvi solo per mangiare i suoi adorati spaghetti, mai più quale protagonista canoro e questo solenne giuramento, passato alla storia come “Il giuramento dei vermicelli”, avvenne proprio avanti al suo piatto preferito, ovvero gli spaghetti con un semplice condimento a base di aglio schiacciato, olio, peperoncino e prezzemolo tritato. Vi è un piatto che porta il nome del celebre tenore, i Bucatini alla Caruso e si vuole che sia un omaggio dell’artista alla sua amata Napoli. Una ricetta semplice e buonissima che arriva da Napoli e fa sentire ancora nell’aria il profumo della bella stagione. Per preparare i Bucatini alla Caruso, infatti, bisogna approfittare delle ultime settimane d’estate, quando al mercato si trovano ancora carnosi peperoni e zucchine piccole e tenere, protagonisti di questo piatto che secondo la tradizione fu ideato proprio dal grande tenore partenopeo. I Bucatini alla Caruso e si raccomanda nella ricetta «(…) non gli spaghetti, che non darebbero il giusto spessore alla pietanza», sono una specialità che racchiude i sapori e i colori della terra campana: pomodori San Marzano, freschi o pelati, una pregiata varietà coltivata dalla fine del Settecento nell’Agro sarnese-nocerino, peperoni gialli e rossi, il basilico e il peperoncino piccante, per un tocco di “carattere” in più. Caruso suggerì questa ricetta agli chef dei due hotel in cui soggiornava abitualmente, il Vittoria di Sorrento e il Vesuvio di Napoli. A Caruso venne dedicato anche un famosissimo cocktail dal tipico color verde smeraldo, a base di vermouth secco, gin e crema di menta.

Siamo arrivati al dolce con protagonista Wolfgang Amadeus Mozart. Che Mozart amasse la buona cucina lo si apprende dal suo epistolario, nelle sue lettere, infatti, il compositore austriaco descrive più volte il suo amore per il cibo e in particolare per quello italiano e le cronache ci tramandano di quanto Wolfgang Amadeus Mozart fosse ghiotto di dolci e in particolare di cioccolato. A Vienna il suo nome è indissolubilmente legato nella gastronomia dolciaria, al souvenir gastro-musicale per eccellenza, le Mozartkugeln, in origine chiamate Mozart-Bonbon, create a Salisburgo nel 1890 dal pasticciere austriaco Paul Fürst in onore del compositore a circa un secolo dalla scomparsa. In Austria si possono anche acquistare i Marrons glacés di Mozart e questo particolare riaccende un’antica, forse presunta, rivalità, perché a prediligere i marrons glacés non era tanto Mozart, quanto Antonio Salieri, il compositore di Legnago che ne era un grande appassionato. Veniamo ora alla predilezione di Mozart per quella bevanda che ci giungeva dalla terre di conquista spagnola, dalle Indie occidentali, poi Americhe: il chocolate. In passato il legame tra musica e cacao era esaltato dal fatto che i concerti, eseguiti nelle stanze dei palazzi nobiliari, venivano ascoltati sorbendo chicchere di cioccolata. Con il melodramma e le opere liriche, che descrivevano i costumi della società, il chocolate calcò il palcoscenico, come nel già citato dramma giocoso Così fan tutte, in cui la servetta Despina si lamenta del fatto che è costretta a servire la stuzzicante bevanda, senza mai gustarla: “È mezz’ora che sbatto; / Il cioccolatte è fatto, ed a me tocca / Restar ad odorarlo a secca bocca?”. È sempre Mozart, nel Don Giovanni, a mettere in scena il noto seduttore mentre ordina al fido servo Leporello di accompagnare i suoi ospiti e di ordinare: “ch’abbiano cioccolata, caffè, vini, prosciutti”.

Anche Georg Friedrich Händel ebbe la propria torta, sia pur sotto forma di preparato. Richard Strauss scrisse nel 1922 il balletto Schlagobers, i cui giovani protagonisti entrano in pasticceria per ordinare cioccolata e panna montata. Nel cammino nell’arte dolciaria dobbiamo ancora una volta riferirci all’acclamato chef francese Georges-Auguste Escoffier al quale si deve, oltretutto, l’invenzione di due famosi dessert: le Poires Belle Hélène (pere cotte nello sciroppo di zucchero e servite con gelato alla vaniglia e cioccolato fuso, in omaggio all’operetta di Jacques Offenbach La béllè Helene, 1864) e la Pesca Melba, in onore della cantante australiana Nellie Melba (Helen Porter Mitchell), alla quale, nel 1892, Escoffier servì un cigno di ghiaccio contenente gelato alla vaniglia, pesche, salsa di lamponi e un fiocco di zucchero filato per coronarne il trionfo al Covent Garden. Secondo la tradizione Escoffier aveva particolarmente apprezzato Nellie in una sua interpretazione del Lohengrin di Wagner e per omaggiarla, le fece trovare il giorno dopo a cena il dolce inventato in suo onore. Leggiamo da Ricordi inediti dello stesso Georges-Auguste Escoffier: «Ripensando al maestoso cigno mitico che apparve nel primo atto del Lohengrin, le feci servire, al momento opportuno, delle pesche disposte su di un letto di gelato alla vaniglia, all’interno di una coppa d’argento incastrata tra le ali di un superbo cigno scolpito in un blocco di ghiaccio e ricoperto da un velo di zucchero filato. L’effetto prodotto fu sorprendente e la signora Melba si mostrò estremamente colpita dalla mia attenzione. La grande artista, che di recente mi è capitato di rivedere all’Hôtel Ritz di Parigi, mi ha ricordato la serata delle famose pesche al cigno». Successo e risonanza furono grandissimi e il dolce divenne ben presto molto popolare e imitato, anche liberamente. Originariamente chiamato Pesche al cigno, secondo alcune fonti solo all’inaugurazione successiva dell’ Hotel Carlton fu ribattezzato Pêche Melba.

Il più celebre di tutti i dolci è il Gâteau Opéra definito: “il più amato omaggio al mondo del melodramma”, che è un dessert che non poteva mancare dopo ogni grande serata operistica. La ricetta originaria è andata perduta e la prima variante di questa torta (a base di Joconde, crema al burro al caffè e ganache al cioccolato) risale al 1890, quando lo chef Louis Clichy decise di preparare il dolce ideale per accompagnare il caffè che gli spettatori dell’Opéra Garnier prendevano sempre fra un atto e l’altro. La Torta Clichy divenne ufficialmente Opéra a metà del Novecento e, anche se la paternità della sua forma attuale (che prevede gli strati ben esposti, a simbolo dei vari atti dell’opera) se la contendono Cyriaque Gavillon e Gaston Lenôtre, chiunque ne sia l’ autore, non ci sono dubbi sul fatto che questo dolce sia davvero come una rappresentazione d’opera, ovvero: del tutto speciale. Chiudiamo l’offerta del nostro carrello con la Torta Donizetti. Secondo la leggenda, fu Gioachino Rossini a chiedere al suo cuoco un dolce per alleviare il mal d’amore dell’amico Gaetano Donizetti, suggerendo al cuoco di preparare una torta semplice, ma molto dolce con canditi e zucchero a velo, per dispensarlo almeno per un momento dai tormenti del cuore ed ecco la Torta del Dunizet, una delicata ciambella margherita con albicocca e ananas. In realtà, questo dolce venne ideato solo nel 1948 da Alessandro Balzer, per celebrare il centenario della morte del compositore bergamasco.

Siamo al caffè e Johann Sebastian Bach si divertì a glorificare la sua bevanda favorita nella graziosissima e deliziosa Kaffeekantate (La Cantata del caffè) scritta tra il 1732 e il 1734, per essere eseguita allo Zimmermannsche Kaffeehaus di Lipsia. Accanito fumatore e bevitore di caffè Bach compone con questo ironico e raffinato pezzo una lode al caffè come simpatico alleggerimento delle tribolazione quotidiane e ci dimostra che i grandi uomini, se veramente grandi, sono in grado di apprezzare le gioie quotidiane, di sorridere e di ironizzare su se stessi. Caffè, cacao amaro, zucchero e panna montata sono gli ingredienti della Barbajada, che prende il nome da Domenico Barbaja. Garzone e cameriere, grazie alle sue geniali invenzioni e abilità imprenditoriale si eleverà a titolare del rinomato Caffè dei Virtuosi, locale di moda aperto a pochi metri dalla Scala. Grazie al suo acume diventerà, in seguito, uno degli impresari più influenti d’Europa, da cui dipesero le sorti dei più celebri compositori dell’epoca, per citarne alcuni: Rossini, Donizetti e Bellini. Fu a capo di numerose imprese, tra cui quella della Scala e del San Carlo, tanto da essere soprannominato il principe degli impresari e il viceré di Napoli.

Vincenzo Grisostomi Travaglini

Vincenzo Grisostomi Travaglini

“I Teatri di Roma”, un articolo del Maestro Vincenzo Grisostomi Travaglini in “L’Opera International Magazine”, Gennaio 2021

Gli antichi teatri italiani, così ricchi di storia, sono oramai popolati da illustri fantasmi. Veri e propri castelli della musica, in essi è il segno tangibile di una tradizione che resta sempre viva e presente. Ancor più nell’oggi, a simbolo di una volontà di resistere e oltre la speranza, di tornare a fare parte dinamica della società. I mezzi di comunicazione ben suppliscono a questa mancanza, il rapporto è tenuto vivo da una vivacità di dirette o differite che si sarebbero ritenute impossibili e che oggi raggiungono lo spettatore in ogni luogo ma, non deve accadere, come afferma con preoccupazione Riccardo Muti: «(…) che il pubblico possa essersi abituato a fare a meno dei teatri, dei concerti dal vivo» e aggiungerà il maestro in occasione del Concerto di Capodanno 2021 a Vienna da lui diretto: «(…) la musica è una missione verso la società, il suo futuro e la sua salute». Perché, se dopo la pandemia Covid, nulla sarà più come prima ed è insito nello stesso concetto di evoluzione l’esigenza di cambiamento, ancor più evidente nella transizione di momenti particolarmente difficili, i valori fondamentali della nostra cultura e la loro storia devono rappresentare la radice del nuovo sviluppo.

Segno di vitalità, il deflagrare delle tante iniziative, oltre alla preziosa riproposta di registrazioni d’archivio, spettacoli lirici con artisti in presenza, concerti delle più rinomate orchestre o semplici gruppi musicali, nel ritrovarsi e lanciare, assordante, questo grido di conservazione tramite televisione (ma l’impegno potrebbe essere ancora più significativo) e soprattutto avvalendosi dello streaming, un termine riservato agli appassionati del web e oggi così familiare. La reazione è stata significativa e tra grandi eventi ed iniziative più contenute, l’apertura della stagione 2020/21, pur senza pubblico in sala, è stata mantenuta, in attesa e nella speranza di potersi ritrovare, anche se la data sembra sempre più allontanarsi. «Ci sentiamo puniti (…)», afferma il maestro Antonio Pappano e ancora Gianluca Floris presidente di Assolirica dichiara: «(…) abbiamo distrutto l’opera lirica italiana».  E’ nostro dovere, infatti, non dimenticare che la cultura musicale è un vero e proprio patrimonio artistico e architettonico; le sale teatrali in Italia, gli auditori e qualsiasi altro luogo adibito allo spettacolo sono la viva sede di una cultura musicale profondamente sentita nel nostro Paese, sognata da tutto il mondo. La Lirica che, a differenza di qualsiasi altra disciplina, ha bisogno di un rapporto tutto proprio con il pubblico, quello della mediazione dell’artista che su di un palcoscenico, attraverso la propria sensibilità, restituisce ed interpreta l’opera del compositore. E’ proprio questo salto verso i grandi ricordi della storia musicale della Capitale che mi ha catturato, riportandomi indietro nel tempo, anche sfogliando gli appunti di un libro che scrissi negli anni ’90, cogliendo l’occasione di ripercorrere la storia dei teatri a Roma. Un viaggio, il nostro, nell’intrattenimento teatrale al tempo dei Papi, un percorso che nell’ambiente romano riflette la seduzione e le contraddizioni di una corte dalla quale lo spettacolo è sempre stato amato e allo stesso tempo ripudiato.

Le porte dell’Opera sono oggi chiuse, non ci sono produzioni da commentare ed è l’occasione da non perdere per ripercorrere un cammino di secoli, tra il serio e il faceto, perché se le luci alla ribalta sono spente, l’intera città di Roma è da sempre palcoscenico. Nella Città dei Papi la storia del teatro sembra voler vivere una propria realtà composta di “passioni”, onori e povertà e la passione per lo spettacolo a Roma vanta antiche radici, sin nella città imperiale, dove numerosi si ergevano teatri per la commedia e dove la tragedia vantava ascendenti d’origine greca, ma anche anfiteatri, circhi e ogni luogo che si prestasse a tramutarsi spontaneamente in palcoscenico. Qui il gusto per l’esibirsi non subisce interruzioni e anche i pontefici nei secoli della nuova era dovettero lasciare  libertà al popolo che non aveva nessuna intenzione di sacrificare il proprio carattere godereccio, al punto che anche le processioni potevano divenire pretesto per sagre popolari.

 A Roma il teatro fiorì in tutte le sue forme; gli edifici che dal ‘600 in poi furono destinati all’intrattenimento venivano visti sia come luogo di cultura che come sede di “perversione” e per questo spesso perseguitati dall’autorità papale. Non per nulla, molti dei fabbricati della Città dei Papi, dopo il proliferare delle sale barocche in palazzi principeschi, non comparivano all’esterno con sontuose facciate, come ad esempio a Napoli o a Milano. Al contrario, si nascondevano ipocritamente tra case e casupole. Anche i principali luoghi teatrali della città settecentesca, quali il Tordinona (poi Apollo), l’Alibert, il Valle e ultimo l’Argentina, dovettero attendere perché si progettasse e realizzasse per loro una degna, sia pur sempre contenuta, facciata. I teatri brulicavano di vita dove aristocrazia e popolino spesso si trovavano ad applaudire lo stesso interprete, lo stesso spettacolo, in un mescolare da sempre tipico della romanità, dove il principe gioca a carte con il portiere avanti a un bicchiere di vino dei Castelli, altrove impensabile.

Per la costruzione del primo teatro dell’età moderna, bisogna attendere il 1513 e Papa Leone X, dell’illuminata famiglia Medici, che ne ordinerà la costruzione sul colle del Campidoglio a opera di Pietro Rosselli e Baldassarre Peruzzi. Proprio dall’erezione di questo edificio in legno si vuole indicare per l’attività teatrale la data d’inizio della Seconda Roma, ancora una volta a dimostrare, come intuito dagli antichi greci, che il teatro è il cuore e l’immagine di una città e si muove pari passo con la sua evoluzione sociale e quindi civile. Nella Roma rinascimentale anche Raffaello progetta due teatri, a Villa Madama e negli appartamenti papali di Castel Sant’Angelo. Nella città impazza il Carnevale, la cui follia vuole essere un contraltare all’umanità ideale rappresentata  dall’universale del trono di Pietro, un violento contrasto tra sacro e profano, anche questo unico nella sua natura. Roma si arricchisce, sotto la spinta di un nuovo incremento edilizio, di luoghi per lo spettacolo e nel 1606 se ne possono contare ben 52 tra quelli ospitati in palazzi aristocratici e sale pubbliche, anche improvvisate. L’attività dei teatri nella Città del Papi prende nuovi sviluppi, ma è limitata nelle intenzioni e agli umori dei pontefici. Sin dal 1558 Paolo IV Carafa avrebbe bandito le donne dai palcoscenici, che vi potranno tornare, salvo una breve parentesi sotto il pontificato di di Clemente X Altieri, solo con la Repubblica Romana del 1798 e poi con l’annessione all’impero napoleonico. Giulio Rospigliosi, futuro Clemente IX, scrive il libretto del Sant’Alessio,musicato da Stefano Landi. Papa Barberini (Urbano VIII) darà anch’egli pieno impulso al teatro e sotto il suo pontificato Bernini si troverà ad allestire spettacoli in Vaticano e a dar lustro alla sala del palazzo della famiglia del Pontefice, esibendosi quale attore, oltre che celebrato scenografo e regista. Tra i pontefici ostili a qualsiasi forma di spettacolo è Innocenzo XII Pignatelli, che dopo aver tassato i proventi dei luoghi pubblici ordina la chiusura di ogni sala. I nuovi teatri vengono ricavati avvolte disordinatamente da sale e cortili e poco si curano di essere identificati all’esterno da una facciata. Superficialità che caratterizzò sino a parte dell’800 l’edilizia teatrale a Roma, quando architetti quali il Valadier e il Carnevali si dovranno affannare per dare una dignità alle principali strutture operanti.

Così il critico Milizia in un sin troppo severo scritto dell’epoca: «Roma ha una dozzina di Teatri. Saranno tutti eccellentemente modellati sopra i suoi tanti monumenti  dell’aureo secolo di Augusto, e specialmente sul Teatro di Marcello? Così dovrebbe essere, ma è tutto il contrario. I peggiori Teatri d’Italia sono quelli di Roma, tutti irregolari e sconci nelle forme (…) e frattanto essa si crede d’avere i più bei Teatri del mondo (…)».

Nella seconda metà del ‘600 nasce a Roma la prima concreta struttura pubblica e nello stesso periodo la città si arricchisce culturalmente con la presenza di Cristina regina di Svezia, stabilitasi a Roma dopo la propria conversione e abdicazione al trono, che con la sua influenza ed apertura darà un contributo essenziale all’evoluzione culturale della città. Primo tra gli edifici teatrali pubblici di questo periodo è il Tordinona, una malfamata locanda trasformata mirabilmente in teatro dall’architetto e scultore Carlo Fontana, voluto nel 1670 dal conte Giacomo (Jacques) d’Alibert, segretario d’ambasciata della regina Cristina, sovrana che volle per sé la proprietà di cinque palchi ed il privilegio di un ingresso privato. Il Tordinona alternava periodi di splendore  ad altri di decadenza e spesso, a causa delle piene del Tevere, vi si accedeva da scomode tavole di legno, per non affondare i piedi nel fango. Ma tutto questo non impedì che fosse considerato tra i più importanti edifici della città del Sei-Settecento.

Scrive Goethe nel 1788: «Il grande teatro di Tordinona, già distrutto da un incendio è, appena ricostruito, crollato improvvisamente, e purtroppo ora non sollazza più il popolino con le sue rappresentazioni di gala e le altre meraviglie e –conclude Goethe dopo aver descritto altri luoghi di spettacolo della città- (…) La passione dei romani per il teatro è grande».

Nel 1795 il Tordinona mutò il nome in Apollo e nell’Ottocento visse stagioni di particolare fervore con “prime” a Roma di Rossini, Bellini, Donizetti e in “prima assoluta” la Matilde di Shabran di Gioachino Rossini, Il Trovatore e Un ballo in Maschera di Giuseppe Verdi, oltre al debutto italiano de La forza del destino in una forma censurata dal titolo Don Alvaro e nel Carnevale del 1854 Violetta, vero e proprio travisamento de La Traviata, che suscitò l’indignazione del compositore, il quale scrisse a Vincenzo Luccardi: «Tante grazie! Così ha guastato tutte le posizioni, tutti i caratteri. Una puttana deve sempre essere una puttana. Se nella notte splendesse il sole, non vi sarebbe più la notte. Insomma, non capiscono nulla».

Nel 1871 Roma diviene capitale del Regno d’Italia e l’Apollo corredato, così come lo sarà l’Argentina, del palco reale. Nel 1875 Giuseppe Garibaldi è a Roma per sollecitare in Parlamento la soluzione del “problema” Tevere, le cui continue alluvioni costituivano una piaga secolare per la città. Viene deciso di costruire dei muraglioni che delimitassero il corso del fiume che ne avrebbero, però, snaturato l’aspetto, obbligando alla demolizione di molti edifici costruiti lungo i suoi argini. Fra questi l’Apollo, che spegnerà definitivamente la ribalta la sera del 31 gennaio 1888 con Hamlet di Thomas.

Altro edificio teatrale di storica importanza a Roma era il Teatro d’Alibert, chiamato delle Dame, dall’uso di dedicare le opere alle dame o ai cavalieri. Voluto dal conte Antonio d’Alibert nel 1718, compiendo un progetto del padre Giacomo, fu edificato sul fabbricato di sua proprietà sito non lontano da piazza di Spagna, adibito per il gioco della pallacorda. Felicissimi i cartelloni di quegli anni e numerosi i titoli in “prima assoluta”. Su quel palcoscenico, considerato alla moda e di successo, ben presto trionfarono i castrati, tra cui il celebre Caffariello. Subito il pungente commento nella poesia popolare romana:

«Sarà dunque permesso alli villani

nello Stato Papale, impunemente

di castrare i lor figli empiamente

acciò strillin cantando in modo strano?» (di anonimo).

C’informa il compositore Ambroise Thomas, ospite alla Villa Medici di Roma e futuro Prix de Rome nel 1832: « (…) L’interno del teatro è tutto illuminato a candele, messe in lampadari o in candelabri di legno dorato posti a ciascun lato dei palchetti».  Scrive Antonio Nibby nel 1838, sempre riferendosi all’Alibert: «E’ il più vasto di tutti quelli della nostra città (…) sei ordini di comodi palchi si trovano (…) ma all’esterno non solo ha prospetto di sorta, ma più che di Teatro ha faccia da fienile (…)». Dopo vari interventi, il Teatro d’Alibert viene riedificato nel 1859 in solida muratura, ma nel 1863 un incendio lo distrugge definitivamente.

Le stagioni in tutti i teatri si aprivano in Carnevale, che prendeva l’avvio il 26 dicembre, per chiudersi rigorosamente all’inizio della Quaresima, quando nei luoghi di culto i sacerdoti indossavano i paramenti viola, a segno del periodo di lutto della Chiesa. Il colore viola è rimasto quale simbolo di negatività per l’artista che si trovava costretto a interrompere , sino alla nuova stagione, il proprio lavoro.

Nel’700 i teatri erano sempre affollatissimi e tutta Roma vi passava le sere e sino alla mezzanotte ad assistere a spettacoli in prosa, musica e danza. Di notte, nei palchi, al lume delle tante candele, si giocava a scacchi, a tombola, si organizzavano intrattenimenti e nelle sale più povere si mangiava e si beveva. I teatri ospitavano i grandi balli di Carnevale che tanto impressionarono illustri letterati e pittori del Sette-Ottocento che amavano dimorare nella città. I palchi erano dotati di una tenda che, al bisogno, poteva isolare l’interno da occhi indiscreti!..

«E’ incredibile quanto i romani tengano a recarsi agli spettacoli – appunta il Volkman nel suo saggio sull’Italia del 1777- se anche dovessero prendere in prestito il denaro e impegnare la loro roba, il marito deve condurre la moglie alcune volte all’opera durante il carnevale».

Per l’assegnazione dei palchi spesso scoppiavano delle proprie e vere risse, nonché incidenti tra i vari ambasciatori che obbligarono persino alla chiusura dei teatri. Punto d’onore del romano era comunque riuscire ad entrare gratuitamente.

Così scrive Giuseppe Gioachino Belli ne Li teatri de Roma:

«Otto Teatri fanno in sta stagione

De carnovale si me s’aricorda:

Fiani, Ornano, er Naufraggio, Pallaccorda,

Pace, Valle, Argentina e Tordinone.

Crepanica nun fa, manco er Pavone,

Ma c’è invece er casotto: e ssi ss’accorda

Quello de le quilibbre e ball’in corda,Caccia puro Libberti er bullettone (…)».

Due i teatri edificati dalla nobile famiglia Capranica: il primo nel 1679 a Santa Maria in Aquino, ricavato all’interno di un’ala nel palazzo del Cardinale  Domenico Capranica, inizialmente a uso privato e a fine Seicento aperto al pubblico. Un secondo, il Valle, costruito alle spalle del palazzo di famiglia “a la Valle”, vicino a Sant’Andrea, che prese il nome dal luogo ove il teatro venne edificato, dove nell’antichità era lo stagno di Agrippa. Il Valle venne costruito su progetto dell’architetto Tommaso Morelli e inaugurato nel 1727. Molte in quegli anni le “prime assolute” di opere in musica che resteranno nella storia della composizione. Non sempre gli spettacoli dovevano esservi allestiti, però, con ricchezza di mezzi, se si arrivò nel 1802 a multare l’impresario De Santis di 1.000 scudi per aver proposto al pubblico una compagnia scadente.

«Li Teatri de Roma sò ariuperti,

Ciovè la Valle e ‘r teatrino Fiani.

In quanto a Cassandrino li Romani

Dicheno a chi ce va: “Lei se diverti”.

Ma ppe la Valle state puro certi

Che manco se farebbe a li villani.

Madonna, che cantà! Cristo che cani!

Peggio assai de li gatti de Libberti!» (Giuseppe Gioachino Belli da Li teatri de primavera).

Dopo il rifacimento del 1791, Gioachino Rossini scrisse appositamente per il Valle Demetrio e Polibio, Torvaldo e Dorliska e nel 1817 qui la “prima assoluta” de La Cenerentola.

Una curiosità, l’ingresso al palco centrale del Valle, di proprietà della famiglia Capranica, era situato nel cortile del palazzo e venne fatto murare da un amministratore dei marchesi dopo la proclamazione delle Repubblica, in occasione di un’annunciata visita del Presidente Enrico De Nicola, che non poté usufruirne.

Il Valle dopo alterne vicende, tra cui l’occupazione nel 2011 da un gruppo di lavoratori dello spettacolo, passa di proprietà dallo Stato al Comune di Roma che ne cura un minuzioso restauro, ma a tutt’oggi le luci della ribalta restano scandalosamente spente.

L’Argentina, voluto dal duca Giuseppe Sforza Cesarini, è l’ultimo dei principali teatri romani prima del Costanzi, edificato dopo più di un secolo e mezzo nel 1880. L’inaugurazione dell’Argentina è del 13 gennaio 1732 con Berenice, musica di Domenico Sarro. Nei primi anni si privilegiano nei programmi drammi in prosa con Intermezzi musicali, che dal 1739 cedono il passo alla lirica. Nel suo repertorio figura l’opera seria, considerata un genere più aristocratico rispetto alla più popolare opera buffa, ma vi primeggiano anche spettacoli di ballo con l’illustre famiglia dei Viganò. Più di 150 “prime assolute” costituiscono la ricca dote del nuovo, prestigioso palcoscenico romano. Protagonisti di quegli anni Alessandro Scarlatti, Gluck, Paisiello, Cimarosa e sovrano incontrastato dell’opera seria è il librettista Metastasio. Dopo aver vissuto intensamente gli anni napoleonici con il primo esperimento della Repubblica Romana, il ritorno al potere temporale e l’arresto da parte delle truppe francesi di Pio VII Chiaramonti, il Nobil Teatro di Torre Argentina torna  alla musica con il fiasco solenne, nel 1816, della “prima assoluta”  de Il barbiere di Siviglia (Almaviva o sia l’inutile precauzione) di Gioachino Rossini. Nel 1837 va in scena Lucia di Lammermoor di Donizetti con protagonista il soprano Giuseppina Strepponi, futura moglie di Giuseppe Verdi (la “prima” romana è dell’anno precedente al Valle). Del maestro di Busseto nel 1844 viene eseguita in “prima assoluta” l’opera I due Foscari. Acceso da risorgimentale fervore sull’esperienza mazziniana della Seconda Repubblica Romana, il palcoscenico dell’Argentina accoglie un’altra prima assoluta verdiana La battaglia di Legnano (1849). In quella storica serata erano presenti in sala Garibaldi e Mameli ed i palchi erano tutti addobbati con stoffe tricolori, così come nastri bianchi rossi e verdi primeggiavano nelle acconciature delle signore. L’Argentina segue da protagonista i grandi mutamenti politici di quegli anni ed il Teatro, usato anche quale spazio per riunioni, spesso viene chiuso per paura di disordini. La vita dell’Argentina è destinata, però, a mutare radicalmente nel 1869, proclamata l’Unità d’Italia, con la vendita del Teatro al Comune. E’ la vigilia dell’annessione di Roma all’Italia (1870) e l’anno successivo viene decretata la sua elezione a capitale. Anche per l’Argentina è tempo di edificare il palco reale. Indispensabile per Roma è ora di poter contare su di un grande teatro di rappresentanza ed il Comune, nell’impossibilità di garantire un finanziamento adeguato per la costruzione di un nuovo edificio, decide la ristrutturazione dell’Argentina. Nel febbraio 1888, alla sua riapertura, la Regina Margherita commenta soddisfatta: «di una baracca avete fatto un Teatro».

Iniziano le prime polemiche sull’opportunità di concedere sovvenzionamenti pubblici a sostegno del “Comunale”, mentre si vengono pian piano a creare presupposti, assai sdrucciolevoli, di un sistema teatrale pubblico. Discussioni anche discordi che porteranno tra innumerevoli difficoltà, dopo oltre mezzo secolo, al superamento della formula dell’impresariato e alla nascita dell’Ente Lirico.

Particolarità del tutto romana era stata, infatti, l’impossibilità, dalla seconda metà del Settecento in poi, di edificare un grande teatro alla stregua con l’evolversi dei tempi. Ci aveva provato, come detto, il Valadier e con lui tanti altri celebri architetti e sino all’Unità d’Italia, quando con il riconoscimento di Roma a capitale si era sentita ancora più evidente la necessità di poter contare su di un teatro di rappresentanza. La città, intesa come nucleo sociale, andava disgregandosi e né l’Amministrazione comunale, né il Governo riuscivano a varare importanti progetti, come al contrario avveniva a Vienna e Parigi. L’esigenza di un edificio per spettacoli che avesse funzioni di rappresentanza, nuovo per la città, venne raccolto da un privato, Domenico Costanzi, un uomo che doveva la sua ricchezza a fortunati investimenti nell’edilizia, che tra innumerevoli difficoltà riuscirà con le sue forze a edificare un grande e sfarzoso teatro cittadino. Lo volle costruire nel quartiere alto al Viminale, là dove aveva concentrato i suoi investimenti, lontano, quindi, dai quartieri storci della città. Il progetto risultò subito inviso alla popolazione della Roma ex-papalina e la sua collocazione scomoda e inopportuna. Il Comune, sotto la pressione delle forze più tradizionaliste, aveva ignorato Domenico Costanzi, approvando la funzione pubblica di Massimo teatro lirico romano unicamente per l’Argentina e l’Apollo, non riconoscendo le potenzialità della nuova elegante sala destinata alle rappresentazioni operistiche. L’Apollo era, però, uscito di scena per l’ “infame” decreto di demolizione e l’Argentina restava solo contro il Costanzi. La situazione dell’Argentina divenne sempre più critica e la sua tradizione lirica era destinata a interrompersi, nella continuità, dalla stagione 1898/99, a causa di una serie di incidenti artistici e difficoltà finanziarie. Non avendo il Comune ritenuto di accordare altri contributi l’impresa falliva: «Mentre era in tutti penetrata la convinzione che le sorti del Teatro comunale, fin qui così depresse, si sarebbero in questo scorcio di stagione risollevate (…) si annunciata improvvisamente che tutto è finito (…)» (da La Tribuna).

Il Teatro Argentina, dopo vari restauri, infelice quello “iconoclasta” del 1967, è tornato nel 1993 all’antico splendore grazie all’intervento dell’architetto Paolo Portoghesi ed è oggi sede dello Stabile: Teatro di Roma.

Con il passare degli anni, tra fine Ottocento e inizio Novecento, la realtà del Costanzi era andata sempre più affermandosi, mancando a Roma un teatro di più vaste dimensioni, aperto nel cartellone a una visione più ampia del panorama musicale europeo. Questa realtà s’impose di diritto, ma troppo tardi per Domenico Costanzi, che per compiere l’ambizioso progetto, deluso lungo il percorso dai negati appoggi pubblici e privati, vi aveva investito la propria fortuna, sino a trovarsi in rovina, solo e abbandonato da tutti. Il Costanzi divenne il Massimo della capitale, ristrutturato da Marcello Piacentini, a cui era stato negato il progetto per l’edificazione di un nuovo teatro, fu nuovamente inaugurato nel 1928 quale Teatro Reale dell’Opera con il Nerone di Boito; dall’avvento della Repubblica nel 1946 rinominato: Teatro dell’Opera. Nella sala voluta e finanziata dall’imprenditore Domenico Costanzi, all’indomani dell’elezione di Roma a capitale, di quell’edificio che oggi porta il nome di Teatro dell’Opera, sono passate intere generazioni di artisti e di dirigenti così che l‘edificio ha vissuto, pur sempre nella prospettiva di sequenze infinite anch’esse pullulanti di leggende e di fantasmi, in una sua propria e caratterizzante vicenda nel realizzarsi di fatti, soprattutto concreti, che si sono susseguiti vertiginosamente, evolvendosi nel tempo e sino al presente, all’incerta stagione 2020/21 … L’Opera riaprirà al suo pubblico, superata l’emergenza sanitaria, in attesa del sorgere di un nuovo giorno, rinnovando il suo rapporto, tutto proprio, con il pubblico, quello della mediazione dell’artista che su di un palcoscenico, attraverso la propria sensibilità, che restituisce ed interpreta l’opera del compositore. Ogni rappresentazione, ogni esecuzione, infatti, è unica ed irrepetibile e la storia delle nostre sale è scandita da tutte le serate nelle quali il sipario si alza e la ribalta s’illumina. Il Teatro non è quindi un museo, bensì un luogo dove si ripete un dramma, una commedia in musica, il dipanarsi di una sinfonia, il rituale di un concerto che, per essere eseguiti, hanno bisogno di una cura tutta speciale. Questa particolarità è anche il suo fascino. Frequentare un palcoscenico è un momento magico, come, nella fiaba di Alice nel paese delle meraviglie, quando la fanciulla attraverso lo specchio, al di là del mondo, dove tutto diviene possibile, così in un teatro, perché qui il tempo e lo spazio vi assumono, magicamente, nuovi ritmi e infiniti orizzonti.

Vincenzo Grisostomi Travaglini