27 Novembre 2022: “Dialogues des Carmélites” di Francis Poulenc apre la stagione al Teatro dell’Opera di Roma. Recensione di Vincenzo Grisostomi Travaglini.

Dialogues des Carmelites_Anna Caterina Antonacci (Madame de Croissy), Corinne Winters (Blanche) photo credits: Fabrizio Sansoni-Opera di Roma

Data simbolo è il 27 novembre, giorno dell’inaugurazione nel 1880  dell’allora Teatro Costanzi, oggi Opera, con Semiramide di Rossini, giorno prescelto dal nuovo corso della Fondazione Lirica romana quale appuntamento identificativo. Per il titolo d’apertura della stagione 2022/23, da subito, si distingue la nuova produzione de Dialogues des Carmélitesdiretta da Michele Mariotti e regia di Emma Dante, problematico quanto acclamato capolavoro di metà Novecento. Si proseguirà il 27 novembre del 2023 con Mefistofele di Arrigo Boito e nelle stagioni successive e sempre il fatidico “27” Simon Boccanegra di Giuseppe Verdi e nel 2025 Lohengrin, debutto wagneriano sia per il maestro Mariotti che per il regista Damiano Michieletto. Una prospettiva lungimirante del Massimo Capitolino, nel proposito d’imporsi con rinnovata impronta nel panorama lirico internazionale, segnatamente alla recente nomina a sovrintendente di Francesco Giambrone e all’esordio quale Direttore musicale di Michele Mariotti. Nei Dialogues des Carmélites il Maestro si afferma dal podio sostenendo con risoluzione la multiforme partitura di Francis Poulenc, consapevolmente specifico riguardo a una scrittura che si pone in bilico tra un percorso negato dall’aggressività impositiva avanguardista, in contrapposizione allo spiccato tormento creativo del musicista in dicotomia compositiva per una personalità singolare, dalle espresse convinzioni legate alla propria posizione, personale e artistica, non sempre in linea con le convenzioni.

Dialogues des Carmelites_Corinne Winters (Blanche) photo credits: Fabrizio Sansoni-Opera di Roma

Nella concertazione, Mariotti non avvalora alcuna prassi di riferimento, alieno da convenzioni esecutive, per lo più pregevoli quanto a tendenza retorica, procedendo conseguentemente per la propria strada, edotto dei tanti riferimenti e appoggi compositivi, ma senza pregiudiziali, proiettandosi nella lettura affermativa con ricerca d’espressione nell’incalzare di quel ritmo verbale che ne caratterizza lo svolgimento. Un’esecuzione ascrivibile a un austero affresco narrativo e dove richiesto, con accompagnamento “leggero” alla Schumann, nell’evidenza della parola, con segnatura di motivi simbolici e allusivi che niente hanno a che vedere con conformismi d’etichetta. Designazione, sia essa marcata quale anti-romantica o avversa all’impressionismo musicale, ma Debussy, che tanto aveva segnato la formazione di Poulenc, ne è per ammissione uno dei maggiori ispiratori, se si vuole assimilato quale precorritore esistenzialista, con particolarità nella funzione degli interludi e/o preludi, di peculiare rilievo tra il primo e secondo quadro dell’atto terzo. Ancora, a relazioni neo-classicistiche alle quali Mariotti concede pertinenza, ma che risolve con l’affermazione dell’originalità di scrittura che vi si distingue rivelatrice, nella dialogante musicalità e spessore della simbologia del suono riferito al singolo strumento o sezione di un ampio organico. Pur sempre, nel rifiuto di un’analisi semplicistica del modello artistico di riferimento estetico alla Erik Satie (ma anche Stravinskij), principale stimolo del poliedrico Gruppo dei Sei, infuso all’affermazione della scuola francese, cui Francis Poulenc aderisce con convinzione e nella scia drammaturgica di Jean Cocteau. Poeta e saggista, quest’ultimo, con il quale il compositore collaborò per il suo terzo e ultimo lavoro di palcoscenico: La voix Humaine. La vicenda de Dialogues des Carmélites si dipana in tre atti e dodici quadri, con culmine nel martirio delle sedici suore del convento delle Carmelitane Scalze che, in pieno Regime del Terrore nel 1794, s’immoleranno pur di non rinnegare la propria fede, epilogo segnato dalla problematica di relatività per la sfuggente vita terrena e di marcata, rinvenuta religiosità, concetti di testimoniata umanità che contraddistinguono la definizione di Poulenc nella ricerca d’irrealizzabile idealità. Caratteristiche dell’andamento angoscioso particolarmente marcato dalla direzione di Mariotti, evidenziate in pagine quali la straziante agonia dell’anziana priora Madame de Croissy, nella recita nell’atto secondo del Sancta Maria dell’intera comunità in sgorgante sospensione con il seguente Interludio, eseguiti in rivelante cognizione all’intensa produzione sacra di Poulenc e del linguaggio tonale che, attraverso la forma, si erige a emozione. Imperativo il conclusivo Salve Regina, intonato dalle Martiri di Compiègneal patibolo, con agghiacciante sonorità da Requiem, nello scandire al sibilo della lama della ghigliottina che ne spegne con il canto, una ad una, l’esistenza terrena, pagina di così drammatica aggressività, quanto pervasa da lucente spiritualità. All’Opera, conclusione simbiotica tra direzione e regia, enfatizzata nella ferruginosa amplificazione del tagliente sfregamento di lastre di metallo con lama d’acciaio e l’abbattersi di un velo bianco a cancellare delle martiri la visività, annullandole nella propria cornice esteriore, incombente Soeur Blanche crocifissa, ultima voce dell’Antifona.

Dialogues des Carmelites_Ewa Vesin (Madame Lidoine) photo credits: Fabrizio Sansoni-Opera di Roma

Michele Mariotti nel suo percorso direttoriale ha da sempre privilegiato la collaborazione con fautori di un palcoscenico attualizzato, nel proponimento di rendere evidente il legame di problematiche che trovino al presente un filo indissolubile perché continuativo e nei Dialogues sono individuabili specificate inquietudini che trovano nel nostro tempo piena intestazione. L’opera, che da Roma mancava dal 1991, si riferisce a un fatto storico e venne commissionata da Guido Valcarenghi, direttore della casa editrice Ricordi, sollecitato dal successo teatrale del testo di Georges Bernanos, dialoghi originalmente commissionati per una sceneggiatura destinata a un film, realizzato solo nel 1959/60 con protagonista Jeanne Moreau. Vicenda imperniata sulla novella Die Letzte am Schafott (L’ultima al patibolo) della scrittrice Gertrud von Le Fort del 1931; dialoghi, essendo mancato nel 1948 Bernanos, elaborati in libretto d’opera dallo stesso Poulenc, che ne era venuto a conoscenza per la prima volta proprio a Roma, leggendone con crescente implicazione il testo, seduto in un bar di piazza Navona. La prima assoluta in lingua italiana è datata 25 gennaio 1957 al Teatro alla Scala e quella parigina, nell’originale francese, sei mesi dopo all’Opéra. Nell’attuale proposta, in coproduzione con il Gran Teatro la Fenice, Emma Dante, nella sua indiscutibile padronanza di palcoscenico, antepone un percorso attinente a tematiche d’effetto, percorrendo a ritroso lo svolgersi della vicenda. La regista vi privilegia una ricerca tutta al femminile oltre e anche precedente alla trattazione del dramma, così come prevalentemente muliebre si pone l’unica opera seria di Poulenc, ricercando di ogni protagonista quel percorso psicologico e morale, tanto quanto di marcata fisicità, che le porterà alla scelta o costrizione conventuale. Sino all’epilogo, nello stravolgimento epocale della Rivoluzione francese, con determinazione al sacrificio. Riferendosi a dipinti d’epoca, di ogni religiosa è riportato il ritratto in abiti nobiliari da Jacques-Louis David, Ingres, François Gérard e contemporanei, ricreando una varietà di visioni esaltanti; la loro realtà a cornice del segreto nell’indefettibile vocazione.

Dialogues des Carmelites_Krystian Adam (L’aumonier du Carmel) photo credits Fabrizio Sansoni-Opera di Roma

A nudo, in resistenza concettuale a quell’essenzialità di costrizione monastica, infine enfatizzandone l’apoteosi di martirio universale distanziandosi, però, dalla spiritualità fondante la drammaturgia di Bernanos/Poulenc. Argomento prioritario, per la regia, è la violenza contro le donne, figure che svaniscono nel vuoto dietro una candida tela allo scandire della lama! Insomma, tanti altri cammini di una realtà contorta e lacerante, ma con Emma Dante è pur sempre teatro segnato da un’attualità che impone forza nella denuncia della condizione femminile. Come spesso negli allestimenti della celebre regista i movimenti mimici/coreografici sono insistenti sino all’esaurimento, a cura di Sandro Campagna. L’apparato scenico di Carmine Maringola rimanda a simbolismi di luogo e d’argomento, reclamante sovrabbondanti crocifissi, all’apologia del Cristo-donna. Con il fondamentale apporto delle luci di Cristian Zucaro, l’allestimento rende fluidità all’affastellamento attuativo imprimendovi significati o sottintesi, distinguendosi per la nitidezze di forme lineari nell’inquadrature di cornici dai molti utilizzi, eloquenti dell’ossessività narrativa, con colori riferenti lo stato emozionale dei personaggi. Raffigurazioni senza limite temporale, grate conventuali come sbarre di prigione. Piena sintonia nei costumi di Vanessa Sannino, sfarzosi abiti, tuniche e armature di combattenti alla “Giovanna d’Arco” con simil-aureole santificanti (le Carmelitane del convento di Compiègne furono beatificate da Pio X) e riferimenti molteplici, funzionali a un discorso parallelo, perché ai realizzatori non importa della semiotica cristiana, bensì personali convincimenti. Poco, nulla, aggiungono appesantimenti funebri, quali i cinquecento teschi (tipo Catacomba a Palermo o Cripta a Roma dei Cappuccini), che, piuttosto che terrificanti, appaiono farseschi. Le chincaglierie non mancano, con le pietre d’iniziazione a schiacciare sadicamente i piedi delle novizie, la loro notturna fuga liberatoria, felici pedalando biciclette gialle. Uno spettacolo avvincente, malgrado l’indifferenza a quel messaggio distinto di riflessione sul dramma della solitudine.

Dialogues des Carmelites_Krystian Adam (L’aumonier du Carmel) photo credits Fabrizio Sansoni-Opera di Roma

Nell’eclettica scrittura dell’opera non ci sono vere e proprie distinzioni nel protagonismo di ruolo, nel senso che ognuno è funzionale nella specifica comprensività delle caratteristiche metodizzanti della lingua francese, seguendo il naturale slancio ritmico delle parole con passione e coinvolgimento, pressoché un omaggio tardivo al linguaggio del grand-opéra. Da questo assunto le connesse distinzioni, come per Blanche de la Force impersonata da Corinne Winters che si colloca sempre più nel panorama internazionale per l’abnegazione a lavori richiedenti specifica e lancinante sonorità, quali a Roma Kát’a Kabanova, con ribadito successo alla recente edizione del Festival di Salisburgo, ma anche al Circo Massimo in Madama Butterfly. Il soprano statunitense, nel solco di Denise Duval alla quale Poulenc proporzionò la personalità di Blanche, si esprime con decisione, marcando le incertezze e fragilità del personaggio, nella gestione di Emma Dante intensificandone la forza interiore; con sostenuto lessico melodioso, abbandonandosi con corporea assimilazione, stilisticamente appropriata per dinamiche e malleabilità di lancinante intendimento. Di rilevante sottolineatura la determinazione con la quale annuncia al padre Marquis de la Force, l’autorevole baritono Jean-François Lapointe, l’intenzione di farsi suora: Mon père, il n’est pas d’incident si négligeable / où ne s’inscrit la volonté de Dieu e su tutt’altra intensità, ma se si vuole con consequenziale introversione alla natura dei personaggi, l’incontro in convento tra Blanche e suo fratello Chevalier de la Force, pregevolmente impersonato dal tenore Bogdan Volkov dagli accenti masnettiani, che con sottigliezza, quasi un inganno fanciullesco da confessionale, propone sottintesi stilistici di un duetto d’amore con straziante addio. Distinta percezione per Anna Caterina Antonacci, qui nella relativa vocalità invalsa all’uso comune, che nella soggettività da soprano tendente a suoni dal sapore remoto si contrae oltre il mezzosoprano espressivo aderendo all’anziana e malata Priora del Carmelo Madame Croissy: Relevez-vous, ma fille, obbligandosi nell’affermare l’interiore drammaticità del personaggio sino all’intensità vocale di contralto: Oh! oh! Dieu nous délaisse! Dieu nous renonce! Teatralmente l’artista si pone quale immagine simbolo della sofferenza, definita nello sventramento del suo essere corpo, in abito bianco, con avvolgimento e trazione degli arti in rosso sangue di parvenza iconica, tuttavia con forzatura nella regia da Skydancer. Anna Caterina Antonacci, già implicante artefice d’emozioni quale Voix nell’atto unico La voix Humaine di Poulenc al Teatro Comunale di Bologna, sempre con direttore Michele Mariotti e regista Emma Dante. Il soprano lirico spinto Ewa Vesin interpreta Madame Lidoine, nell’equilibrio delle sonorità, segnatamente soave quale succedente priora, toccante nell’accorato sostegno alle consorelle dopo la prima notte di carcere. Nella rappresentazione dell’innocenza giovanile di suor Costanze de Saint-Denis, nella tessitura da soprano leggero, ben s’identifica Emöke Baráth, per la scrittura di Poulenc esempio di definizione caratteriale nell’utilizzo di specifica tipologia vocale. Successivo modello d’evidenza timbrica caratterizzante è per Mère Marie de l’Incarnation, antinomia ben stabilita dal discordante brunito del mezzosoprano Ekaterina Gubanova. Negli ulteriori ruoli, funzionali nella numerosa compagnia tutta adeguatamente commisurata a un fondamentale equilibrio: Krystian Adam (L’Aumônier du Carmel), Alessio Verna (Le Geôlier et deuxième Commissaire), William Morgan (premier Commissaire) e Roberto Accurso (Officier). Significativo l’apporto dei giovani dal progetto Fabbrica Young Artist Program del Teatro dell’Opera: Irene Savignano (Mère Jeanne de l’Enfant-Jésus), Sara Rocchi (Soeur Mathilde) e Andrii Ganchuk (Thierry e Javelinot). Il Coro del Teatro dell’Opera di Roma specificatamente nella sezione femminile e limitatamente in quella maschile, pur nell’impegno contenuto è plasmato con meticolosità dal maestro Ciro Visco, al suo primo incarico stabile nella Fondazione.

Vincenzo Grisostomi Travaglini

27 novembre 2022

Photo credits: Fabrizio Sansoni – Opera di Roma

“Il Trovatore negli immensi spazi della Roma antica”, un articolo del maestro Vincenzo Grisostomi Travaglini nella rivista mensile “L’Opera International Magazine”, Luglio/Agosto 2021

Il Trovatore di Giuseppe Verdi è dramma dall’elaborazione compositiva imprevedibile, dove l’originalità degli sviluppi e creatività, solo apparentemente contenuti in una struttura di convenzione, s’impongono più che nella indagine formale di ricercata esecuzione. Quest’ultima strada, però, sembra quella privilegiata da Daniele Gatti che nella sua carriera si cimenta per la seconda volta nel titolo, già diretto nel 2014 a Salisburgo, scelto per l’apertura della stagione estiva della Fondazione Teatro dell’Opera di Roma al Circo Massimo. Il maestro Gatti con questo titolo conclude l’esecuzione con i complessi dell’Opera, in periodo pandemico, della così detta trilogia, in ordine Rigoletto l’anno scorso al Circo Massimo, La traviata in forma di film-opera e Il trovatore. Tre opere che tra loro hanno ben poco in comune, se non il periodo di compimento, intorno agli anni ’50 dell’Ottocento.

Accumunati, certamente, nell’imporsi, non senza difficoltà,  di un Verdi già maturo e all’esplorazione di mutati e più vasti orizzonti. Proprio in questa perlustrazione Il trovatore si differenzia dagli altri due titoli che si vogliono compresi nel raggruppamento detto popolare o romantico, per l’immediatezza del fluire della scrittura. Come se la meno vincolante fonte letteraria dal drammaturgo spagnolo Antonio Garcìa Gutiérrez, in difformità dai più impegnati francesi Victor Hugo e Alexandre Dumas-figlio, liberasse nel compositore una vivacità tutta musicale, senza riferimenti o coercizioni a testi intellettualmente in elaborazione. Daniele Gatti, così come da suo perentorio approccio al repertorio romantico italiano, imprime una lettura personale, certamente di grande eleganza, ma priva di emozionalità, se non nel protagonismo orchestrale e lucidità di suoni. Un’orchestra al meglio delle sue prestazioni, con particolare attenzione agli stacchi direttoriali, in un susseguirsi di schegge che valutano la partitura come in un conseguire di numeri, scene e parti. Un’orchestrazione di minore coinvolgimento di disegno d’insieme e d’abbandono a un’esaltazione in musica, come si potrebbe definire Il trovatore; un’opera non per questo, anzi ancor più, esigente di una visione dello specifico repertorio a 360 gradi, compreso qualche lecito abbandono ad espressioni spontanee, non ammesse dalla lettura di Gatti, se non per effetti esteriori.

Per le voci, queste non sono aiutate da un’adeguata amplificazione, forse perché eravamo in apertura di stagione e i mezzi tecnici necessitavano di ulteriore verifica, nella vastità e spettacolarità dello spazio teatrale del Circo Massimo. Le peculiarità degli interpreti s’impongono egualmente e con distinzione. L’entusiasmo e tragicità romantica della giovane Roberta Mantegna, voce sopranile in rapida ascesa, vanto del progetto Fabbrica dell’Opera di Roma, qui Leonora sensibile e duttile alle diverse, estreme condizioni vocali quanto emotive, al meglio nella Scena e Aria della Parte IV e qui appassionata nella successiva Cabaletta Tu vedrai che amore in terra. Di classe il mezzosoprano Clémentine Morgaine per il ruolo di Azucena, finalmente schivo da effetti truculenti che di certo non appartengono a una scrittura così complessa e impervia, risolta appieno nell’accurato stile di canto.

Fabio Sartori, atteso Manrico, è interprete di chiara fama, ha ben delineato il ruolo che nella carriera ha sostenuto per la prima volta a Liegi nel 2018 e lo affronta con sicurezza, avvolte più con manifesto mestiere e soluzioni di provata esperienza, di sostegno in uno spazio così ampio e con orchestra incalzante. Esecuzione per lo più integrale, ma Ah! sì, ben mio ela sempre attesa Cabaletta Di quella pira con da capo, concettualmente epurati senza alcuna concessione, non emergono nell’insieme, risultando in sottotono. Discontinuo il baritono Christopher Maltman, poco convincente Conte di Luna, troppo schematico nell’impegnativo Il balen del suo sorriso, non sempre in sintonia con il gesto ed indicazioni direttoriali, più sicuro nel Duetto e Stretta Né cessi?Vivrà! e nel breve intervento della Scena finale. Decisamente non in una serata ottimale il basso Marco Spotti quale Ferrando. A completare la compagnia Marianna Mappa, ottima Ines (la qualità dei personaggi minori è pur sempre importante per definire una produzione), Domenico Pellicola (Ruiz), Leo Paul Chiarot (Un vecchio zingaro) e Michael Alfonsi (Un messo). Ottima la prova del coro con maestro Roberto Gabbiani, misurato nelle espressioni e partecipe nel canto; impossibilitato nei movimenti scenici per le vigenti norme di sicurezza e per la poca incisività registica.

Del regista Lorenzo Mariani, poco da dire, perché scarsamente si avverte del suo lavoro. Certamente, il vasto spazio di un palcoscenico di millecinquecento metri quadri è complesso da gestire, ma egualmente piccoli espedienti di limitato effetto non fanno di questa produzione uno dei suoi lavori migliori. Di Parte in Parte e sono otto, così è suddiviso Il trovatore nella sua complessità drammaturgica, si spostano tavoli e sgabelli, alla ricerche di figure o simboli il cui significato, al contrario, appare casuale. Ingombro il palcoscenico da enormi candelabri, spesso in bilico nelle mani dei diversi protagonisti. Lumicini per il coro degli Zingari che sembra di essere nelle gradinate dell’Arena di Verona e pertiche per gli Uomini d’arme come in un esercizio da palestra. S’inverte il significato della luna che cela e induce all’equivoco Leonora nel fatale fraintendimento del confondere il Conte con Manrico, non una luna “letteraria” dell’inganno bensì, al deflagrare del Terzetto, una luna quale presagio di sangue e di morte. Tutto rosso, come scontatamente nel secondo quadro de Il figlio della zingara. Fiamme e fiammette abbondano nelle proiezioni, ben realizzate nell’immenso schermo che delimita nel fondo il palcoscenico. Su questo sin dall’Introduzione si mostrano cieli ora corrucciati e al contrario costellati, presaghi pur sempre dell’imminente tragedia. Poco, nulla il risultato registico sugli interpreti che, pur tenendo conto del dovuto distanziamento, sono tutti staticamente compresi nelle difficoltà del canto, nella vastità del luogo e relatività acustica, impegnati in un rapporto rassicurante con il direttore d’orchestra. Scene e costumi impersonali di William Orlandi, luci di Vinicio Chelli, video di Fabio Massimo Iaquone e Luca Attili. Pubblico numeroso nell’incantevole cornice della Roma antica e dei suoi monumenti unici al mondo, alla presenza del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, accolto da una vigorosa esecuzione dell’Inno di Mameli, con la partecipazione del coro. Applausi cordiali di un pubblico da serata di gala, pur attento alle diverse valutazioni, accogliendo al termine con maggiore favore soprano, mezzosoprano e in parte il tenore; con particolare intensità il direttore e l’orchestra.

Vincenzo Grisostomi Travaglini

Photo credits: Fabrizio Sansoni (Teatro dell’Opera di Roma)

Roma, 15 giugno 2021

“Nel segno di Roma, una storia millenaria” e “Splendide sale per la Capitale d’Italia”, due articoli del Maestro Vincenzo Grisostomi Travaglini sui teatri storici nel Lazio, nella rivista mensile “L’Opera International Magazine”, Maggio e Giugno 2021

La storia dei luoghi teatrali della regione Lazio è fortemente marcata nel segno di Roma, dove i secoli perdono il loro scorrere temporale: centro dell’Impero, città dei Papi, capitale d’Italia.

Nella Prima Roma l’edificazione di compagini teatrali mobili, originalmente in legno, era consentita solo per cerimonie sacre e per lungo tempo non si eressero strutture stabili, perché vi era il timore che la libera frequentazione portasse a comportamenti contrari la morale, così come si ripeterà dal ‘600 in piena Controriforma e sino a Roma capitale del Regno d’Italia, trascorsi quasi due millenni, quando i luoghi destinati all’intrattenimento vennero avvolte esaltati, ma ben più spesso perseguitati dall’autorità papale quali sede di perversione. I ludi teatrali si svolgevano negli anfiteatri, le naumachie, gli spettacoli con fiere e belve e quelli circensi, con le corse di cavalli, parate e processioni, coincidevano puntualmente con festività religiose.

Siamo agli albori dell’Urbe e qui prende vita il teatro latino, una delle più significative espressioni della cultura dell’antica Roma, in origine rappresentata con testi greci tradotti o rielaborati, che si mescolavano a elementi di tradizione etrusca. Risale al 364 a.C. nel corso dei ludi romani una prima forma di teatro originale, che comprendeva canti e danze. I ludi scaenici avevano particolare importanza durante le campagne elettorali nella tarda repubblica e fu Giulio Cesare a voler far edificare un fastoso teatro che rivaleggiasse con quello di Pompeo fatto dorare da Nerone in un solo giorno, imponente edificio tutt’oggi visibile che venne inaugurato sotto Augusto e dedicato a Marco Claudio Marcello. Notizie sulla vita teatrale della Roma antica ci giungono dagli scritti di Livio, Tacito e Plinio, che accennano a strutture in legno in Campo Marzio o nei pressi del Palatino.

Una premessa indispensabile, perché imponenti sono tramandate le vestigia di edifici romani, tutt’oggi testimoni del glorioso passato; teatri, anfiteatri e circhi che convivono con la città moderna. Di altri si è persa traccia, nelle stratificazioni dei secoli, ma pur sempre partecipi di una città che vive nella sua storia un percorso di fasti e contraddizioni, che si perpetra nei secoli. L’elenco sarebbe quanto mai lungo e l’argomento avvincente, ma sarà interessante sottolineare come molte di queste costruzioni, sfidando il tempo, oltre che testimonianza millenaria, a tutt’oggi ospitano attività teatrali. Anche storiche strutture non finalizzate allo spettacolo sono diventate in epoca moderna sede di importanti manifestazioni, quali le Terme di Caracalla per la stagione estiva dell’Opera di Roma; nel 2020 viene allestito per la Fondazione capitolina un teatro all’aperto nel perimetro del Circo Massimo, offrendo più ampi spazi all’emergenza pandemica e alle regole di distanziamento. Saltuariamente, a causa di vincoli conservativi, ci si è avvalsi dell’Anfiteatro Flavio, meglio conosciuto quale Colosseo dove, ad esempio, si tenne un prezioso festival di respiro internazionale. Alle porte di Roma, celebrata è la stagione di prosa del Teatro di Ostia Antica e altre strutture nel territorio laziale sono utilizzate, sia pure saltuariamente, per spettacoli: il Teatro del Santuario di Ercole Vincitore nei pressi di Tivoli, il Teatro Romano di Tuscolo o Teatro di Cicerone, il Teatro Antico di Nemi.

Nel Novecento venne ristrutturato a Roma l’Anfiteatro Correa (per i romani er Corea), edificato nel 1780 sugli imponenti ruderi del Mausoleo di Augusto risalente al I secolo a.C. , qui dal 1882 al 1887 si eseguirono opere comiche e serie; l’Augusteo dal 1908 venne destinato a ospitare la stagione concertistica della Reale Accademia di Santa Cecilia, inaugurata il 16 febbraio con direttore Giuseppe Martucci. Rinnovato nel 1925 da Marcello Piacentini, prenderà il nome di Umberto I. Sarà demolito nel 1939 nel quadro della campagna mussoliniana finalizzata ad isolare i monumenti della Roma imperiale. Dal 1997, per alcuni anni, l’orchestra e coro dell’Accademia saranno ospitati all’interno della Basilica di Massenzio, nel programma di quell’estate romana voluta dall’allora Assessore alla cultura del Comune di Roma Renato Nicolini, su modello della Festa della Musica ideata in Francia dal Ministro alla cultura Jack Lang.

Progetto di Rafaello per Villa Madama

A ulteriore esempio di continuità, il citato Teatro di Pompeo venne inglobato in costruzioni medievali, tra cui il Teatro dei Satiri, che è stato definito con affettuosa enfasi il primo teatro di Roma in continuità storica dal 55 a.C. al 1946, quando la sala con facciata curvilinea che ricalca quello della cavea dell’antica struttura, venne rilevata dal conte Gianni Grifeo di Partanna, divenendo luogo di ritrovo e di cultura teatrale, situato tra il Valle e l’Argentina. Il Teatro di Marcello è conservato nelle sue linee portanti, grazie al suo utilizzo e ristrutturazione sin dal Medioevo a palazzo fortificato, ricavato a ridosso delle arcate originarie dalle potenti famiglie dei Pierleoni e dei Savelli, quest’ultima diede incarico di riorganizzare la propria abitazione a Baldassarre Peruzzi. Nel XVIII secolo ne divennero proprietari gli Orsini duchi di Gravina, la famiglia dei principi Orsini ci introdurrà in un altro argomento, sostanziale della vita teatrale della Roma rinascimentale e sino al XIX secolo, ovvero dell’importanza per lo sviluppo culturale della città della così detta nobiltà nera, all’interno delle lussuose dimore e quali promotori della costruzione delle principali strutture teatrali pubbliche, dal ‘600 a Ottocento inoltrato.

Attraverso i secoli, come nelle sensazioni offerte da una passeggiata notturna nel centro dell’Urbe al di là del tempo, si prende nota che a Nerone si devono le prime gare canore e nell’antica Roma venivano frequentemente allestiti spettacoli con musiche e canti. Sono manifestazioni che con l’avvento dei cristianesimo saranno considerate pagane, che procederanno nei secoli, anche contravvenendo al severo Editto di Milano, sino a tutto il Medioevo e che influenzeranno nel nuovo millennio i drammi liturgici che si volevano offrire sulla piazza del Laterano, in cui si narrava la vita dei Santi con canti dialettali, musiche e danze. Nel 1414 una Passione venne allestita nel Colosseo.

Siamo in pieno Rinascimento; di soli due giorni nel 1513 è la vita del primo edificio che segna l’attività teatrale della Seconda Roma. Interamente realizzato in legno venne eretto sul colle del Campidoglio su progetto dell’architetto Pietro Rosselli, per una capienza, si dice, di tremila posti con apparato scenografico di Baldassarre Peruzzi. Fu voluto da Papa Leone X della famiglia Medici, in occasione dei festeggiamenti per il conferimento della cittadinanza romana a suo fratello: Giuliano de’ Medici duca di Nemours. Circa del 1561 è il Teatro Anguillara, che si tramanda sia stato costruito dal poeta Giovanni Andrea Anguillara, appartenente a una delle famiglie più antiche di Roma, ricavato all’interno del suo palazzo in piazza Santi Apostoli. Con tutta probabilità già teatro pubblico fu quello edificato in via Giulia, attivo circa dal 1560 al 1575. A Roma il piacere per lo spettacolo attraversa i secoli: le corse dei cavalli e le naumachie a piazza Navona, cui seguiranno spettacoli di divertimento in musica con testi di Plauto e di Macchiavelli, a cui nel Rinascimento collaborerà quale scenografo anche Raffaello e nel Barocco Gian Lorenzo Bernini. A Raffaello Sanzio era stato commissionato da Leone X  il progetto di una villa suburbana su terreno di proprietà della famiglia Medici, che in seguito prenderà il nome di Villa Madama, includente un teatro, come annota lo stesso pittore e architetto in una dettagliata descrizione a Baldassarre Castiglione: «In questo spatio vi è un bello theatro fatto con questa misura et ragione (…) ce sono fatte le gradinate, la scena, il pulpito et l’horchestra (…) E questo theatro è collocato in modo che non può havere sole doppo il mezzodí, la quale è hora solita a simili giochi». A questi divertimenti in musica, in austero clima di Controriforma, s’ispireranno le altrimenti moraleggianti sacre rappresentazioni, da cui nel febbraio 1600 scaturirà il dramma sacro La rappresentazione di anima et di corpo con libretto di Agostino Manni e musica di Emilio de’ Cavalieri, eseguita all’Oratorio della Vallicella; una vera e propria opera rappresentata con scene, costumi e ricca di balli. Potrebbe sembrare una contraddizione, ma a Roma neanche i pontefici e le severe proibizioni poterono mutare nello scorrere degli eventi la vocazione di un popolo gaudente, che tendeva a trasformare in ricorrenza ogni tipo di evento, per cui anche le processioni erano giustificazione per giochi e sagre. In questi divertimenti primeggiava il Carnevale, la cui origine risale agli antichi Saturnali, tradizione che si protrarrà a simbolo della festosità del carattere dei romani, che in essi convive con la tristezza della rassegnazione e la saggia indolenza. Una tradizione che più di altre resisterà all’usura dei secoli e sino alla seconda metà del XX secolo, quando i bagliori di una città ormai snaturata da qualsiasi radice storico-culturale e troppo frettolosamente trasformata in capitale, verranno spenti dal dilagante borghesismo, soffocati anche negli aspetti più radicati.

De I Teatri di Roma ci siamo già occupati nello scorso numero di gennaio, ma sarà egualmente interessante, in un cammino solo apparentemente similare, ripercorrerne i momenti salienti, con ulteriori, stimolanti annotazioni. Tra i teatri che hanno lasciato traccia nella storia di Roma, all’interno delle residenze della nobiltà nera, primeggia quello della famiglia di Papa Urbano VIII, al secolo Maffeo Barberini. Non era ancora agibile il loro sontuoso palazzo alle Quattro Fontane sul colle del Quirinale quando i Barberini, nella più contenuta residenza ai Giubbonari, inaugurarono la stagione operistica mettendo in scena l’8 marzo 1631 il Sant’Alessio, con musica di Stefano Landi, libretto di Giulio Rospigliosi, futuro Papa Clemente IX: «la rappresentatione di S. Alessio (…) tutta recitata in musica, sendo riuscita una delle più belle fattesi da un tempo in qua». L’apparato scenico è del ferrarese Francesco Guitti, costruttore delle macchine berniniane. Ancora il Sant’Alessio il 23 febbraio 1634 per l’inaugurazione del Teatro Barberini alle Quattro Fontane, in occasione dei festeggiamenti in onore di Alexander Charles Wasa principe di Polonia. Attiguo al nuovo palazzo dei Barberini, innalzato a gloria del casato, si presenta con sala rettangolare, ballatoio su tre lati, banchi in platea e palcoscenico incorniciato tra colonne; la facciata è progettata da Pietro da Cortona. Si disse che potesse ospitare fino a 1500 spettatori; snaturato sin dal Settecento, venne definitivamente demolito nel 1926 nel piano di ristrutturazione di Roma capitale del Regno d’Italia con l’apertura di via Regina Elena, poi via Barberini. Il Sant’Alessio riveste una particolare importanza nella storia del teatro in musica, perché non solo fu la prima opera composta su soggetto storico, ma nel descrivere minuziosamente la vita interiore del santo tentò una caratterizzazione psicologica di tipo nuovo nell’ambito del teatro d’opera. L’attività, le grandi feste che fecero capo a questo spazio teatrale dei Barberini restano nella storia per la loro sontuosa creatività. Con Urbano VIII si concludeva di fatto la Controriforma e il pontefice prediligerà l’insorgente Barocco quale stile della Chiesa trionfante. Nei poco più di quarant’anni di regno di papa Barberini, l’Urbe diventerà una città ancora più imparagonabile, anche grazie alla creatività di artisti quali Gian Lorenzo Bernini, che si può indicare quale il massimo regista del Barocco romano. Per la corte papale il Bernini si dedicò a predisporre spettacoli in Vaticano e per il teatro di famiglia del pontefice si prodigò quale impareggiabile scenografo, regista ed attore. Bernini volle, inoltre, edificare nella sua casa di via del Corso uno spazio per spettacoli, il Teatro Bernini, oggi scomparso. Un versante quasi inesplorato del Seicento romano è quello dedicato a studi più approfonditi sul mecenatismo musicale della grandi famiglie della nobiltà nera e dei Principi della Chiesa.

A Roma, fra la fine del ‘500 e il primo ‘600, Alessandro Peretti Damasceni cardinal Montalto, pronipote di Sisto V, è un vero e proprio melomane e si contorna dei più celebrati cantanti dell’epoca: «(…) egli steso sonava il cimbalo (…) e cantava con maniera soave  et affettuosa» (da Ricerche di Alberto Cametti – Roma). Furono al suo sevizio, tra i tanti, il famoso eunuco Onofrio Gualfreducci, il compositore Cesare Marotta e sua moglie la clavicembalista Ippolita Recupito, amatissima cantante. Nel rione Parione si passa per via della Pace, dove si ergeva il teatro omonimo, ormai dimenticato, ma che rievoca un certo spaccato di vita della Roma Sei-Settecentesca, se si vuole minore quanto indiscutibilmente distintivo dei costumi di un epoca. Costruito negli ultimi anni del ‘600, la prima traccia è quella delle recite degli istrioni nel 1691, ovvero di attori che ancora nel XVII secolo si esibivano in uno stile dei tempi antichi. Nella stagione di Carnevale del 1694 si ha testimonianza della rappresentazione di due drammi: Roderico, con musica di Francesco Gasperini interpretato dal sopranista Alessandro Bisson e Orfeo con musica di Bernardo Sabatini, con scene dipinte, ci è tramandato magnifiche, di Ferdinando Galli da Bibbiena. Da sottolineare il ruolo che ebbe a Roma l’architetto teatrale e scenografo, appartenente alla celebre famiglia di artisti, nell’assicurare la continuità della corrente bibienesca nell’allestimento di spettacoli. Nel 1717 il Teatro Pace fu rinnovato dall’ingegnere teatrale e scenografo bolognese Domenico Maria Vellani e in seguito vi si eseguirono diversi drammi in musica, affidati alle celebrità dell’epoca, quali i musici soprano Domenico Gizzi, Felice Novelli e Cristoforo Raparini. Col progredire dei tempi il Teatro Pace andò sempre più decadendo e nel 1853 verrà demolito. Tra i teatri storici della città, di particolare rilievo fu quello ricavato all’interno di palazzo Altemps, costruito alla fine del 1480 alle spalle di Piazza Navona, tra lo Stadio di Domiziano e piazza Sant’ Apollinare, per il nipote di Sisto IV, il conte Girolamo Riario ed è riportato da documenti d’epoca che fu scenario di feste rinascimentali. Nel palazzo sarà edificato uno dei primi teatri privati, che venne detto tra più antichi di Roma, ma sono molti gli spazi per lo spettacolo, scorrendo le cronache, che ne vanterebbero il primato. Il palazzo verrà acquistato nel 1568 dal cardinale Marco Sittico Altemps, nipote di Pio IV, completato e rinnovato a opera di Martino Longhi il Vecchio. Ai primi del Seicento il secondo duca di Gallese, il mecenate Giovan Angelo Altemps, vi farà ricavare nel seminterrato un teatro dotato di una sala rettangolare lunga circa 20 metri, dove è attestato lo svolgersi di una vera e propria, articolata stagione teatrale: « (…) con costumi e utilizzo delle macchine di scena». La storia del teatro a palazzo Altemps attraversa il tempo lungo ben quattrocento anni, assecondando mode, gusti, tecniche e tecnologie dello spettacolo. Il 23 novembre del 1758, su invito del cardinale Carlo Rezzonico nipote del veneziano Clemente XIII, è in visita a Roma il drammaturgo Carlo Goldoni ed è da questo avvenimento che, probabilmente, il teatro gli venne dedicato. Nel 1870, con l’annessione di Roma al Regno d’Italia, il Goldoni verrà attestato tra quelli operanti in città anche se definito, con poca considerazione: Romanesco. Il palazzo Altemps  fu uno dei primissimi luoghi del cinema a Roma e le cronache raccontano delle folle accorse agli spettacoli con la lanterna magica e dopo il 1911 al Goldoni saranno proiettate le iniziali pellicole del muto, con accompagnamento di pianoforte. Sarà utilizzato per diverso tempo quale cinematografo, per poi riconvertirsi all’arte di palcoscenico e questo teatro, pur tra alterne vicende, non ha mai sospeso la sua attività fino al 1984. Il palazzo, con annesso teatro, passerà allo Stato e il Goldoni sarà riadattato nel nuovo secolo a sala moderna, accessoria al museo Nazionale Romano a Palazzo Altemps, conservando il palco originale in legno, con lo spazio scenico restituito a quello delle lontane origini.

Sono numerosi i teatri che operarono a Roma nel diciassettesimo secolo, principalmente privati e di dimensione ridotte, tra questi il Teatro del Collegio Romano, il Colonna, il Teatro del Collegio Clementino, l’Ameyden dedicato al poeta e storico naturalizzato romano, il Rospigliosi e il Teatro Orsini. I Ruspoli furono patroni di Händel e Caldara; il Cardinale Ottoboni di Corelli e Alessandro Scarlatti e il cardinale Pamphilj patrono di Corelli e Händel. Ancora, sono solo pochi esempi, il patronato musicale del cardinale Pietro Aldobrandini e dei già citati Barberini per Frescobaldi; il cardinale Montalto, i Ruspoli e i Borghese furono benefattori di Francesco Gasparini. Interessante sarebbe un approfondimento accedendo ad alcuni degli archivi di famiglia, a tutt’oggi in parte inesplorati, per un più preciso studio di quelle che furono le cariche e gli impegni dei musicisti e per il ritrovamento o riproposta di molte partiture, qui conservate negli scaffali. Accanto alle istituzioni religiose, inoltre, fiorirono nel Barocco romano congregazioni, confraternite, collegi, anche un’istituzione laica come l’Accademia di San Luca, che sosteneva annualmente una festa con l’esecuzione di importanti musiche, affidate nel primo Settecento ad Arcangelo Corelli; come pure l’Accademia dell’Arcadia.

La musica è spettacolo e non solo teatrale e messa in scena tra le più suntuose nello Stato Pontificio l’arrivo della regina Cristina, convertitasi al cattolicesimo e abdicato al trono di Svezia, fu trionfale. La sovrana vene accolta a Roma con grandi onori e feste da Alessandro VII al secolo Fabio Chigi, da poco eletto al Soglio di Pietro, successore di Innocenzo X della famiglia Pamphilij. Alessandro VII, uomo di raffinata cultura, fu il papa che più di ogni altro trasformò per Roma le ricorrenze liturgiche in cerimonie sontuose e memorabili spettacoli. L’ingresso sfarzoso a Roma di Cristina di Svezia doveva rappresentare per il pontefice il segno della politica estera, con la supremazia dei cattolici sui protestanti. La vita di corte a Roma si trasformerà sempre più nell’esaltazione della politica attraverso feste scenografiche ed eventi mondani, perché nella bellezza si manifestava la forza del papato e vi si identificava il concetto stesso di potere. Ci riportano le cronache, con dovizia di particolari, che il 20 dicembre 1655 la regina Cristina raggiunse il Vaticano a bordo di una lettiga appositamente disegnata da Gian Lorenzo Bernini. In suo onore, era stato lo stesso Bernini a restaurare Porta del Popolo, sulla quale si può ancor oggi leggere la scritta inneggiante al suo felice e fausto ingresso in città: «Felici faustoque ingressui». Quando la regina Cristina si stabilì a palazzo Barberini, prima tra le dimore romane, venne accolta da solenni festeggiamenti e da una folla di circa seimila spettatori, oltre che da una processione di cammelli ed elefanti abbigliati all’orientale e con torri in legno sulle loro groppe; memorabile il 28 febbraio 1656 in onore della sovrana la Giostra dei Caroselli, così come ci è trasmesso da un celebre dipinto di Filippo Gagliardi e Filippo Lauri. Trasferitasi a palazzo Farnese, decise di aprirvi il 24 gennaio 1656 l’Accademia Reale, imponendo ai componenti di aderire alla musica e al teatro.

Cristina di Svezia s’interessò diffusamente di cultura, quasi volesse trasformare la nuova corte in un esempio di rinnovato mecenatismo. La monarca, nel suo secondo soggiorno nella città dei Papi, fece costruire nel 1666 una sala nella sua residenza di palazzo Riario alla Lungara: il Teatro di Cristina di Svezia, dove si rappresentavano, oltre alle cantate, commedie che furono definite licenziosenell’ambiente eclesiastico, particolarmente critico nei confronti dei costumi liberaleggianti della sovrana. La struttura venne demolita dai Corsini, successivi proprietari dell’edificio. La regina Cristina si occupò di sale teatrali e in particolare del Tordinona, dove fece allestire per sé tre palchi con ingresso riservato, primo e prestigioso teatro pubblico romano, infelicemente demolito a fine Ottocento per far posto agli antiestetici muraglioni ai lati del Tevere della Roma post-unitaria. Il Teatro di Tordinona, poi Apollo, si può a diritto considerare quale il primo tra i grandi edifici teatrali della storia della Seconda Roma. Fu fatto edificare nel 1670 dal francese conte Giacomo (Jacques) d’Alibert, che il cardinale Decio Azzolino aveva raccomandato a Cristina di Svezia che lo nominò suo segretario dell’ambasciata o dei comandamenti. Il conte d’Alibert, per favorire la regina Cristina, fece richiesta che gli venisse concesso l’uso di una proprietà che affacciava sul Tevere per la costruzione di un teatro pubblico, una novità per la città di Roma.

Questo, prese il nome dall’antica torre: turris de Annona, della cinta muraria aureliana che nel ‘300 era passata di proprietà della famiglia Orsini, all’epoca prefetti dell’Annona, assumendo da questa qualifica l’appellativo. La richiesta fu accolta nel 1669 da papa Clemente IX, grazie alla mediazione della stessa sovrana. Per la costruzione furono abbattute strutture preesistenti, tra cui il vecchio carcere edificato nel 1410 della Confraternita di San Girolamo della Carità, da alcuni anni in disuso, con la tristemente celebre cella chiamata della vita dove fu rinchiuso, tra i tanti, Benvenuto Cellini. Il progetto venne affidato a Carlo Fontana, che ricavò una sala lignea nella tradizione del teatro all’italiana, con sei ordini di palchi. Del gennaio 1671 è la prima del dramma musicale Scipione Affricano di Francesco Cavalli, preceduto da un prologo di circostanza in lode di Clemente X e Cristina di Svezia, musicato da Alessandro Stradella. La vita del Tordinona sarà fortemente segnata dall’avvicendarsi al pontificato di personalità più o meno moralizzatrici, da cui ne dipesero le sorti. Nel 1675 anno giubilare, come imposto, tutti gli spettacoli nella Roma papale dovettero essere sospesi; in luglio dell’anno seguente morì Clemente X e il suo successore, Innocenzo XI, si dimostrò da subito avverso a ogni forma d’intrattenimento  e con provvedimenti restrittivi fece chiudere tutti i teatri. Una forma di repressione assoluta, tanto da essere soprannominato il papa minga, ovvero in dialetto lombardo, il papa del niente, chiosando il suo marcato accento comasco, da dove era originario papa Benedetto Odescalchi e marcato dall’ostilità per ogni forma d’intrattenimento che riuscì, però con difficoltà, a contenere l’irrefrenabile Carnevale romano. Alla morte di Innocenzo XI nel 1689, lo stesso anno della scomparsa di Cristina di Svezia, l’avvento al soglio pontificio del veneziano Alessandro VIII, nato Pietro Vito Ottoboni, permise la riapertura delle sale con la ripresa delle attività e fu l’occasione per il conte Giacomo d’Alibert di affidare nuovamente al Fontana il rinnovo del teatro.

Nel 1691 un altro cambio di pontefice e di conseguenza di filosofia per la Roma papalina, con l’elezione dell’intransigente Innocenzo XII, al secolo Antonio Pignatelli di Spinazzola, al quale sono riferite severe riforme, fra cui già nel 1792, un anno dopo la sua elezione, un decreto restrittivo sull’esecuzione di musiche nella liturgia. Il pontefice si mostrò talmente avverso a ogni tipo d’intrattenimento, che nel 1697 diede ordine di demolire il Tordinona, da poco ristrutturato, accusato di essere al centro di immoralità e scandali. Il teatro non venne riedificato sino al 1733, regnante il fiorentino Clemente XII, della famiglia Corsini. Ampliato, rimaneggiato, più volte a causa di crolli e incendi, la ricostruzione più importante per il Tordinona sarà quella intorno al 1790 di Felice Giorgi, nell’occasione rinominato Teatro Apollo, sul sipario dipinto da Felice Giani si volle far raffigurato Apollo sul carro del Sole. Considerato il teatro tra i più rilevanti della città, su quel palcoscenico vennero rappresentati molti lavori di maestri del ‘700, napoletani e veneziani. Dopo esser stato più volte venduto ed acquistato, dal 1820 divenne proprietà della famiglia Torlonia che nel 1831 provvide a commissionare un ulteriore rifacimento, con l’acquisizione della facciata neoclassica disegnata da un oramai anziano Giuseppe Valadier.

Nel 1839 venne dato incarico della gestione dell’Apollo all’impresario romano Vincenzo Jacovacci detto er Sor Cencio, che appoggiato dai Torlonia, gestì per quasi quarant’anni i principali teatri romani. Fu questo il periodo in cui l’Apollo conobbe maggior splendore, con in cartellone le opere dei più  famosi compositori e i cantanti più acclamati. Di quegli anni è la prima de Il trovatore di Giuseppe Verdi il 19 gennaio 1853 e sei anni dopo, il 17 febbraio 1859, quella di Un ballo in maschera avendo trovato il compositore per la sua nuova opera più comprensione nelle censura pontificia che in quella borbonica. Dopo l’elezione di Roma a capitale del Regno d’Italia nel 1871, l’Apollo fu promosso a teatro di prim’ordine e fu aggiunto il palco reale, ma inesorabilmente nel 1888/89 il teatro, che affacciava sul fiume, fu demolito per i lavori di costruzione degli argini del Tevere. Parte degli arredi saranno acquistati da Domenico Costanzi per arricchire gli interni del suo teatro, inaugurato al Viminale nel 1880. Nello stesso progetto verrà sacrificato anche un altro edificio teatrale, il più recente Politeama, che era stato inaugurato solamente nel 1862 sulla riva destra del Tevere, all’altezza di Ponte Sisto; qui due prime assolute per Roma di opere d’oltralpe: La notte di Valpurga di Gounod e Rienzi di Wagner. La famiglia Torlonia di origine francese di mercanti di tessuti e banchieri, nobilitati nell’Ottocento, oltre al Tordinona, acquisteranno anche i teatri Alibert, Capranica e Argentina, allo scopo di divenire arbitro della vita teatrale della città e in questo modo imporre una propria supremazia culturale, non scevri da fini investitivi, che nelle attività teatrali sono pur sempre rischiose.

Sempre i Torlonia, commissionarono un nuovo teatro, a uso sia pubblico che privato, all’interno del parco della villa di famiglia fuori le mura, conseguito nello stile del teatro di corte degli inizi del XVII secolo, ove all’impianto generale del teatro all’italiana venne aggiunto lo schema elaborato della Francia del XIX secolo, dotato di raffinati e stupefacenti marchingegni. I lavori del Teatro Torlonia iniziarono nel 1841 terminando solo nel 1871. Acquisito nella seconda metà del Novecento dal Comune di Roma in stato d’abbandono, quel palcoscenico è stato restituito alla città nel 2013, ma ancora in attesa di un utilizzo adeguato. La realtà romana, nei secoli, è piena di contraddizioni che affondano le radici nella volontà del Trono di Pietro che a rappresentare la città, al contrario di quanto accadeva in molti altre città di un’Italia ancora da unificare e nelle principali capitali europee in un rinnovato concetto urbanistico, non fosse il teatro ad apparire quale punto di riferimento di aggregazione sociale, bensì lo fossero i ben più indicativi, monumentali, edifici consacrati. A Roma i teatri sembrano erigersi con riserbo formale, per non essere in contrasto con il potere pontificio, che con la sua tramandata diffidenza e riserva nei confronti dei luoghi di spettacolo condizionava i costruttori con un tacito accordo di tolleranza, svago consentito con riserva, a patto che rimanga discreto al vedersi. Ancor più, perché i teatri erano dotati di piccoli salotti sospesi protetti dall’intrigante penombra, come definì Marcel Proust i palchi ed è racconto che lo scrittore si riferisse con questa descrizione a quelli del Teatro Argentina, ma Proust non soggiornò mai a Roma. Della vita teatrale romana s’interessò Stendhal, che non fu benevolo nei confronti della città, il quale nota stupito dei tendaggi dei palchi, uno diverso dall’altro, così come dei colori e degli stemmi di famiglie reali in esilio, che avevano trovato protezione nella città dei papi e che al pari e ancor più della nobiltà nera, abbellivano il palco di proprietà, spesso in una sorta di gara del lusso. Le dame vanno a teatro più per essere rimirate, corteggiate, vezzeggiate dai loro cavalieri e cicisbei, che per interessarsi allo spettacolo. Le stagioni d’opera a Roma si aprono puntualmente il 26 dicembre e durano sino all’ultimo giorno di Carnevale il martedì grasso, arrivate le Ceneri è consentito solo rappresentare oratori sacri. Già il Valadier lamentava di non aver potuto realizzare il suo progetto di un nuovo splendido teatro pubblico a Roma, presentato nel 1789 per il Concorso Clementino e da realizzarsi nell’area del Convento delle Convertite in via del Corso, così come non ci riuscirà nel tempo nessun’altra illustre figura. Proseguendo, del 1718 è il teatro voluto dallo stesso conte Giacomo d’Alibert sul fabbricato di sua proprietà per il gioco della pallacorda, aspirazione realizzata dal figlio Antonio. Il Teatro Alibert verrà edificato non lontano da piazza di Spagna, inaugurato con Alessandro Severo del compositore napoletano Francesco Mancini. Nel 1720 l’architetto Francesco Galli da Bibbiena lo amplia, ristrutturandone la sala. A causa dell’anno giubilare del 1725 tutti i teatri romani saranno chiusi e Antonio d’Alibert, aggravato dalle tante spese sostenute, verrà a trovarsi in difficoltà finanziarie, tantoché le autorità romane nel 1726 metteranno il teatro all’asta. Verrà acquistato da un consorzio di nobili e rinominato Teatro delle Dame, alla moda dell’epoca di dedicare le sale alle dame o ai cavalieri. La direzione del teatro passerà, quindi, ai Cavalieri di Malta, con i quali alcuni membri del consorzio avevano stretti legami. Nella prima metà degli anni ‘30 del Settecento è un ulteriore intervento, con ampia ristrutturazione e abbellimento, su progetto dell’architetto Ferdinando Fuga, con riapertura nel 1738 con il dramma per musica di Nicola Logroscino: Quinto Fabio. Felicissimi i cartellone di quegli anni e molti i titoli in prima su quel palcoscenico, considerato alla moda e di successo, dove si alternarono i cantanti più famosi dell’epoca.  Nel 1847 il duca Raffaele Torlonia, dopo averlo fatto demolire, ne affida la ricostruzione in solida muratura a Carlo Nicola Carnevali, corredandolo di vani per la sartoria, scuole di ballo e di musica. Il 15 febbraio 1836 un incendio, si sospettò doloso, lo distrugge definitivamente.

Altra casata di rilievo per la storia teatrale dell’Urbe è quella del cardinale Domenico Capranica, che vanterà nel tempo ben tre sale per lo spettacolo. Il primo teatro fu voluto nel 1679 da Pompeo Capranica, a  uso privato, all’interno del palazzo di famiglia a Santa Maria in Acquino. Ricostruito dal 1692 al 1695 dell’architetto Carlo Buratti, allievo di Carlo Fontana, venne aperto al pubblico. Nella sua storia ospitò circa 140 prime esecuzioni e per quel palcoscenico scrissero o riadattarono, all’uso dell’epoca: Antonio Caldara, Giovanni Bononcini, Antonio Vivaldi, Fernando Leo, Baldassarre Galluppi, Raimondo Lorenzini, Giovanni Paisiello, Niccolò Piccini, senza dimenticare lavori di Alessandro Scarlatti e Niccolò Porpora. Dopo un susseguirsi di traversie, nel 1881 venne chiuso per inagibilità dopo una recita di Ernani di Verdi. Degradato a deposito, il Capranica dal 1922 al 2000 è utilizzato quale sala cinematografica e infine centro congressi. Più nota la storia del secondo teatro voluto dai Capranica, costruito alle spalle del palazzo di famiglia a la Valle, dove nell’antichità era lo stagno di Agrippa. Venne edificato, forse, sui resti di un precedente edificio adibito a spettacoli costruito anch’esso in legno, su quelli che erano i giardini pensili con terrapieno del palazzo della famiglia dei Della Valle a Sant’Eustacchio, dove il cardinale Andrea Della Valle aveva raccolto una ricca collezione di marmi antichi, sistemandoli in un disegno di basilica all’aperto, anticipando così il concetto di museo. Il Valle, innalzato su progetto di Tommaso Morelli, venne inaugurato nel 1727 e vanterà molte prime di opere in musica che resteranno nella storia della composizione con protagonisti i più celebri compositori della Scuola Napoletana del ‘700 e nel secolo successivo Gioachino Rossini, come anche Gaetano Donizetti. Il Valle nel 1819 divenne in muratura su progetto di Giuseppe Valadier il quale, dopo il crollo dell’arco scenico, rinunciò e viene sostituito da Gaspare Salvi. Scrive il Valadier: «(…) era giunto alla sua decrepitezza il Teatro Valle, che fabbricato di Legnami, giusta il costume antico, formò per lungo tempo la delizia dei colti Abitanti di Roma. Quindi il Governo mi ordinò di esporre in disegno le mie idee sulla riedificazione di esso da farsi, no coi fragili Legni, ma coi cementi, in modo che fosse degno della città Regina».

L’impegno del Valadier assicurò al Valle una degna facciata in stile neoclassico, sia pur sempre discreta. Il Valle manterrà il suo prestigio nei secoli XVIII e XIX e dopo l’Unità d’Italia verrà corredato di palco reale, spesso frequentato dalla regina Margherita. La prosa prenderà il posto della lirica, salvo iniziative sporadiche quali il Sant’Alessio di Stefano Landi nel 1981 e due brevi stagioni a cura del Teatro dell’Opera nel 1991/’92 con La cenerentola di Rossini, che al Valle era stata rappresentata per la prima volta nel 1816, rinnovando con questa iniziativa la collaborazione con lo Sperimentale di Spoleto e la nuova produzione di Adina, ovvero il Califfo di Bagdad di Rossini. Chiuso per alterne vicende, dopo un successivo, accurato restauro il teatro è oggi a disposizione unicamente per attività di carattere culturale, non meglio definite. Un altro piccolo teatro verrà ricavato dai Capranica all’interno del loro palazzo a la Valle, all’altezza del piano nobile, il Valletto, attivo dal 1855 fu la prima sala a Roma ad essere illuminata a gas.

Voluto dal duca Giuseppe Sforza-Cesarini l’Argentina è l’ultima grande struttura edificata nella Roma papale, quasi un secolo e mezzo prima dell’elezione della città, nel 1871, a capitale del Regno d’Italia e dei grandi sventramenti e speculazioni edilizie che ne mutarono, almeno in parte, quella morfologia venutasi a formare nei secoli. L’Argentina avviò la sua attività il 13 gennaio 1732 con Berenice di Domenico Sarro, principale interprete il celebrato farfallino, il famoso castrato Giacinto Fontana, voce bianca particolarmente apprezzata da Montesquieu. Impresso nella storia il Teatro Argentina rimarrà per la tempestosa prima de Il Barbiere di Siviglia di Rossini del 1816, presentato per l’occasione con il titolo di Almaviva ossia l’inutil precauzione per evitare, inutilmente, la suscettibilità dei fautori del grande maestro Paisiello che aveva musicato sullo stesso libretto de Il barbiere nel 1782, al Teatro dell’Hermitage di San Pietroburgo. Ancora nella storia del teatro, nel 1849 durante la Repubblica Romana, la prima de La battaglia di Legnano di Giuseppe Verdi, con il teatro invaso da una folla entusiasta: “Viva l’Italia/ Sacro un patto/ tutti spinge i figli suoi”. Il progetto del nuovo edificio era stato affidato al marchese Girolamo Theodoli, che lo aveva realizzato con l’ausilio di un valido capomastro che vantava due sottoposti, fra cui mastro Zabaglia, inventore dei sampietrini. Prese il nome dalla torre che domina la piazza antistante, voluta dal vescovo Giovanni Burcardo, nel ‘500 maestro delle cerimonie pontificie, nativo di Argentoratum che è il nome latino di Strasburgo. Il Teatro Argentina nacque nella consapevolezza del suo ruolo protagonistico nella vita musicale della città e assunse da subito un ruolo importante nel panorama culturale romano, offrendo spettacoli di grande livello. Dal 1739 la rappresentazione di drammi in prosa con intermezzi musicali cedette il passo alla lirica, con particolare attenzione al dramma che era considerato un genere aristocratico rispetto alla più popolare opera buffa che, per questo, non apparve che raramente nei cartelloni del nuovo teatro. Più di 150 prime assolute costituiscono la ricca dote dell’Argentina. La costruzione dell’interno era così ammirata che l’architetto Giannantonio Selva la prese a modello per il progetto realizzato nel 1790/92 del Gran Teatro La Fenice di Venezia. Meno felice, come di prassi nella città dei Papi, risultò la facciata. Protagonisti di quegli anni: Alessandro Scarlatti, Christoph Willibald Gluk, Giovanni Paisiello, Domenico Cimarosa e sovrano incontrastato dell’opera seria il librettista Metastasio.

Tra le grandi feste musicali ospitate nella sala dell’Argentina, quella voluta dall’ambasciatore del Portogallo a Roma ad inizio del XVIII secolo, in segno della magnificenza del sovrano Giovanni V di Braganza, con ingresso libero per tutti i concittadini e alla quale molti romani si presentarono per entrar gratuitamente, affermando di essere di origine portoghese, da cui il detto fare il portoghese. Altro evento memorabile è quello commissionato nel 1757 da Frédéric Jérôme de la Rochefoucauld, ambasciatore di Francia presso lo Stato della Chiesa, per celebrare il decennale delle seconde nozze del Gran Delfino Louis Ferdinand di Borbone, con Maria Giuseppa di Sassonia, avvenute a Versailles. Innumerevoli gli eventi legati all’Argentina, teatro che meriterebbe da solo un intero capitolo di questa pur fuggevole carrellata dei teatri storici di Roma e del Lazio. Nel 1826 un restauro di Pietro Holl rivede la sala e realizza la nuova facciata neoclassica ed è così che il teatro apparve quando nel 1843 i Torlonia lo acquisteranno, sostituendo il loro più recente stemma a quello degli Sforza Cesarini. Il teatro cambia nuovamente aspetto per gli importanti lavori di ristrutturazione affidati all’architetto Nicola Carnevali, che ne modificano sostanzialmente la struttura. La vita dell’Argentina è destinata radicalmente a mutare dal 1869 con la vendita dei Torlonia al Comune. E’ la vigilia dell’annessione di Roma e nel 1871 viene decretata la sua elezione a capitale del Regno d’Italia. Dal 1870 risultò, in compagnia del solo Apollo, quale teatro di prim’ordine ed anche per l’Argentina era il momento per costruire il palco reale. Indispensabile per la capitale, alla stregua dei tempi, è di poter contare su di un nuovo, grande teatro di rappresentanza. I progetti si susseguiranno, nel 1886 il Consiglio Municipale manifesterà l’intenzione, in previsione della demolizione dell’Apollo, di costruire un nuovo teatro Massimo della città, da edificarsi su progetto dagli architetti Cipolla e Grimaldi nell’area oggi archeologica di fronte a quello che fu definito con poco rispetto il vecchio Argentina. Contrariamente, nell’impossibilità di garantire finanziamenti adeguati, verrà optato dal 1887 ed il 1888 per la ristrutturazione proprio del Teatro Argentina, per mano dell’architetto emerito del Comune di Roma: Gioachino Ersoch. L’architetto donerà alla struttura un’impronta tipicamente ottocentesca, arricchendola di ornati e tendaggi, soprattutto sostituendo i materiali settecenteschi con più solide murature, senza però alterarne le linee  caratterizzanti e proporzioni.In quegli anni, nuove per Roma all’Argentina: La bohème di Puccini, Andrea Chénier di Giordano, Loreley di Catalani, la Walkiria e il Crespuscolo degli dei di Wagner e tanti altri titoli. Il resto è pur sempre storia, nel 1926 un ulteriore restauro è affidato a Marcello Piacentini, architetto che in quegli anni aveva proposto al regine fascista un progetto per la costruzione nella capitale di un nuovo rappresentativo teatro reale. Ancora una volta ragioni economiche impedirono all’amministrazione pubblica di finanziarne il progetto e il governatorato deciderà di acquistare la maggioranza delle azioni dagli eredi di Domenico Costanzi che con i suoi mezzi, aveva fatto realizzare al Viminale, tra il 1979 al 1980, un nuovo teatro, il Costanzi, la cui ristrutturazione nel 1928 venne affidata allo stesso Piacentini, che sarà obbligato ad accettare l’incarico. L’Argentina negli anni successivi vivrà ulteriori interventi ed ancora affronti, come quello attuato del 1967 all’insegna della furia iconoclasta che ne alterò, fortunatamente non in modo irrimediabile, l’aspetto dei locali d’accesso e la sala. L’Argentina tornerà al suo splendore nel 1993 a seguito del minuzioso intervento di Paolo Portoghesi, senza più palco reale, ritrovando una sua più precisa linea stilistica.

Siamo nella Terza Roma è primo tra i grandi edifici edificati nell’eletta capitale del Regno d’Italia è il Costanzi, che prese il nome da Domenico Costanzi, abile costruttore e gestore di grandi alberghi, nativo di Macerata, dove aveva coltivato la passione per la musica frequentando il teatro locale dei Nobili Condomini, poi Lauro Rossi. In terra marchigiana primeggiavano le produzioni rossiniane e si dice che il giovane Domenico, che professionalmente avrebbe seguito le orme del padre costruttore, abbia partecipato nel 1832 quale corista a un’esecuzione al pianoforte del Guglielmo Tell in casa degli Azzolino. Domenico Costanzi, dopo aver girato l’Europa e aver approfondito la realtà di molte importanti città, si trasferì a Roma, Qui, dopo essersi arricchito con speculazioni edilizie, volle che un nuovo teatro fosse realizzato vicino al maggiore dei suoi alberghi, la Locanda del Quirinale. Costanzi aveva proposto, nella moda del tempo, la costruzione di un grande politeama destinato soprattutto al pubblico borghese dei nuovi quartieri, ma la promiscuità di questo genere di edificio aveva provocato tali diffidenze da invitare il costruttore da recedere dal modello. Nel presentare il suo progetto Costanzi aveva avuto fiducia di poter contare su fondi pubblici, che a parte insignificanti interventi, gli furono sempre negati. Dovette, quindi, impegnare tutto il suo capitale per portare a termine l’edificio, tanto da dover ipotecare, poi vendere, alcune sue proprietà, la casa della moglie e infine la propria. L’avversità dei romani per un nuovo teatro, da erigere sul colle del Viminale, considerato luogo troppo lontano da quelli che era stati per secoli i luoghi tradizionali dello svolgersi della vita della città, dove erano stati innalzati i principali edifici storici, sembrò insanabile:  «Un teatro lassù! – si mormorava in città – E chi vorrà andarci? (…) Torni, torni all’albergo». Fu così che Domenico Costanzi, forse suo malgrado, si trasformò in generoso mecenate della vita musicale romana. L’incarico di progettare il nuovo edificio venne affidato all’architetto milanese Achille Sfondrini di comprovata esperienza, a cui si doveva l’edificazione di numerosi teatri in Lombardia e in Emilia, ma in quella fine di secolo la commissione del Costanzi sarà per lui l’occasione più rilevante. Concepito sempre a forma di ferro di cavallo, in stile eclettico, con particolare cura per il risultato acustico, ideato come in una «camera armonica» (così è definita in Cenni Illustrativi del Nuovo Teatro Nazionale del signor Domenico Costanzi, sul progetto dell’ingegner architetto Achille Sfondrini), il teatro verrà completato in soli diciotto mesi eretto, forse casualmente, tra le vie rispettivamente intitolate a Torino, prima capitale e Firenze, capitale ad interim.

Teatro dell’Opera di Roma Photo credits: Yasuko Kageyama

In origine il teatro può ospitare circa 2000 posti, disponendo di tre ordini di palchi, il quarto non poté essere realizzato per i costi crescenti, di un anfiteatro e di una galleria, il tutto sormontato dalla cupola affrescata dal perugino Annibale Brugnoli. L’esterno, in stile cinquecentesco, era mancante di una facciata vera e propria e dotato di tre ingressi distinti, per rassicurare aristocratici e borghesi di non doversi mischiare con il popolo delle due gallerie. Il Costanzi, poi Reale, infine Teatro dell’Opera, che sarà soggetto ai pesanti interventi di Marcello Piacentini degli anni venti del ‘900 che vi portarono rilevanti modifiche, rappresenta per Roma l’ultimo esempio di quella architettura teatrale-musicale italiana avviatasi ai prima del ‘600 col Barocco e passata attraverso il lungo ciclo del neoclasicismo, durato in campo teatrale anche in pieno romanticismo e post romanticismo. Inaugurato il 27 novembre 1880 con Semiramide di Rossini, quella sera al Costanzi, era presente tutta l’aristocrazia romana e l’alta borghesia.

Re Umberto I e la regina Margherita vi erano giunti fra due drappelli di corazzieri in alta uniforme, accolti trionfalmente al loro ingresso, con orchestra e banda in palcoscenico inneggiando la Marcia Reale. Domenico Costanzi, per agevolare il riconoscimento del suo edificio a teatro di rappresentanza della capitale, aveva voluto che l’architetto Sfondrini prevedesse un elegante palco reale con corona sovrastante, che venne rimossa dopo la proclamazione della Repubblica, lasciando i due putti che la sorreggevano sostenere il nulla, corona ricostruita e rimessa al suo posto, in una concezione storica di ripristino della sala, negli anni ’90. L’orchestra abbassata ribassata rispetto al livello della platea, all’uso wagneriano, era una novità per il pubblico romano, che l’aveva guardata con proverbiale diffidenza.

Il Costanzi, oggi Fondazione Teatro dell’Opera di Roma, sin dai primi anni acquistò un’importanza europea, divenendo il teatro dei nuovi autori, quali Mascagni con Cavalleria Rusticana e Iris e Puccini che aprì il secolo facendo furore con il più romano dei melodrammi Tosca. Ripercorrerne la storia richiederebbe un volume dedicato; riporteremo solo alcuni tra i tanti episodi che ne caratterizzarono le attività. La gestione del Costanzi era passata nel 1888 a Eduardo Sonzogno, l’editore investì immediatamente il teatro a sede di rappresentazione delle sue pubblicazioni, in palese contrasto con l’editore Ricordi che ostacolava a queste l’ingresso al Teatro alla Scala di Milano.

Soffitto dell’Opera di Roma: Affresco di Annibale Brugnoli

Sonzogno lavorò con scrupolo a una stagione estremamente ricca di titoli e aperta a novità musicali di compositori italiani e d’oltralpe, tanto da assicurarsi l’interesse di pubblico e critica. Intanto erano maturi i tempi per la seconda edizione Concorso Sanzogno, che prevedeva di presentare all’apposita commissione un‘opera inedita in un atto unico da rappresentarsi nel teatro. Al primo posto venne selezionata Cavalleria rusticana di Pietro Mascagni. La prima di Cavalleria nella sala del Costanzi era prevista per martedì 13 maggio sennonché, per la superstizione della protagonista Gemma Bellincioni, la data slittò a sabato 17 maggio 1890. Il teatro, essendo la rappresentazione di un compositore allora sconosciuto, era tutt’altro che gremito, ma un fu un vero trionfo, con numerose chiamate al proscenio per Mascagni, il direttore Leopoldo Mugnone, la Bellincioni e Tito Stagno. Dal 1909, per un breve periodo, Pietro Mascagni è nominato direttore artistico del teatro. Il 14 gennaio del ‘900 al Costanzi la prima di Tosca, quella sera voci allarmistiche aveva turbato la concentrazione degli artisti. Riporta la brillante penna di Gino Tani che poco prima dell’inizio un uomo sconosciuto si avvicinò al direttore di origine napoletana Leopoldo Mugnone: «Maestro – disse – qualunque cosa accada lei attacchi subito la marcia reale» e il maestro allarmato «…ma che d’è. Che succede? E vuoie chi site? » e in risposta: «sono il commissario di pubblica sicurezza … pare che si tratti di un complotto .. si parla di bombe». Re Umberto il 29 luglio di quell’anno sarà assassinato a Monza. In sala al Costanzi un pubblico elegantissimo, con eminenti personalità politiche e culturali, presente la stessa regina Margherita che, trattenuta da un pranzo a corte, era giunta in ritardo. Nessun attentato in sala, ma molti fastidi tra il pubblico che entrava a spettacolo iniziato, tanto che per alcuni minuti si dovette sospendere l’esecuzione. Successo tiepido ed il capolavoro di Puccini dovette attendere le repliche per il meritato riconoscimento. La conduzione amministrativa del teatro fu rilevata nel 1907 dall’impresario Walter Mocchi e nel 1908 entra prepotentemente nella vita del teatro la figura di Emma Carelli, non più solo quale acclamata interprete ma, in compagnia del marito Walter Mocchi, abile e ed intelligente organizzatrice. Nel 1912 Emma Carelli viene nominata direttrice e responsabile della nuova Impresa Costanzi e per il teatro iniziava una nuova, brillante pagina, che si sarebbe conclusa nel 1926, con una recita de Il matrimonio segreto di Cimarosa, con la quale la Carelli lasciava l’impresariato del teatro, ceduto al Governatorato di Roma, che ne aveva acquistato dagli eredi di Domenico Costanzi la maggioranza delle azioni, per trasformarlo in teatro reale, alla stregua delle maggiori capitali europee. Il regime fascista voleva per Roma un grande teatro di rappresentanza e nell’impossibilità, anche allora per ragioni economiche e organizzative, di provvedere all’edificazione di un nuovo edificio, era stato deciso di fare rinnovare il Costanzi da Marcello Piacentini, uno dei più stimati architetti del momento. Piacentini non avrebbe voluto accettare, avendo presentato un progetto per un nuovo teatro innovativo e non volendo ripiegare su di un lavoro di ristrutturazione, come lui stesso motiverà nei suoi Studi per il teatro Massimo di Roma: «In Roma Capitale d’Italia, manca il grande Teatro di Stato. Sono celebri i Teatri di Corte  o di Stato di altre nazioni (…) Le altre Città d’Italia, già Capitali di Stati, anche piccoli hanno magnifici Teatri (…) In Roma il Costanzi di proprietà privata … pur avendo una sala di grandi linee, non risponde alle esigenze estetiche  e tecniche di una grande Teatro moderno …». Nasceva così il Teatro Reale dell’Opera, con le modifiche volute da Macello Piacentini, che ancora una volta era stato costretto ad imporsi un ulteriore radicale ripensamento delle sue ambizioni, in questa occasione sulla possibilità di trasformazione del Costanzi, del quale aveva previsto una parziale demolizione. Il lavoro comprendeva la costruzione del quarto ordine di palchi che venne, però, realizzato solo nell’estate del ‘28, aggiunta che era stata prevista nell’originale progetto di Sfondrini che, come già detto, vi aveva dovuto rinunciare a causa delle sopraggiunte ristrettezze economiche. Venivano eseguite con maggiore ricchezza le decorazioni in sala e nei locali d’intrattenimento del pubblico. Un grandioso lampadario, realizzato a Murano in cristallo di Boemia, il più grande d’Europa, dominava ora la sala. Il teatro era arricchito, inoltre, da un nuovo sipario di 80 metri quadrati, tessuto da esperte ricamatrici delle Industri Femminile Italiane con la tecnica degli antichi parati eclesiastici, velario che andò distrutto in un principio d’incendio circa nel 1989. Venne ampliato il palcoscenico, avvalendosi delle capacità di Pericle Ansaldo. Si realizzava la facciata, anche con ulteriori interventi, sia dell’estate del ’28 che del ’29, fatta avanzare con un portico venutosi a creare su via Viminale, oggi piazzale Beniamino Gigli, dopo la dolorosa demolizione del confinante Casino degli Strozzi.

Il 25 febbraio 1928 il teatro riaprì con la prova generale del Nerone, seguita due giorni dopo dall’inaugurazione del Reale, con l’opera incompiuta di Arrigo Boito, titolo favorito dal regime fascista perché riferito alla storia dell’antica Roma. Impresario di questa prima stagione è Ottavio Scotto, chiamato a sostituire Emma Carelli, che scomparirà improvvisamente per un incidente d’auto pochi mesi più tardi, nel maggio del ’28. Custodi del turno di notte tramandano di aver visto una signora con cappello e il viso velato, affacciarsi tra le tenebre della sala nel palco dal terzo ordine di palchi (che all’Opera si chiama secondo), proprio quello da cui era solita affacciarsi l’artista, il più vicino al suo ufficio. Scriverà Augusto Carelli alcuni anni più tardi ricordando la sorella Emma: «Il destino ha coinvolto la vita di mia sorella nelle mura e nell’anima sonante del Teatro Costanzi (…) Il Teatro Costanzi è stato sempre lo spasimo e la gioia della sua vita». I primi cartelloni del Teatro Reale si gonfiano di titoli e a Roma sono presenti per le ricche stagione dell’Opera i principali artisti. Nel 1958/59 si eseguirono nuovi lavori di restauro e consolidamento, sempre su progetto di Marcello Piacentini. Si modifica la facciata e l’anziano architetto ne affida la realizzazione a un assistente. Il risultato non fu dei più felici, tanto che su Il Messaggero del 30 novembre 1959 il cronista espresse la sua più vivace disapprovazione: «(…) contentiamoci della brutta architettura che abbiamo potuto realizzare (…) Ognuno ha quel che si merita e Roma non meritava di più».

Nell’attuale periodo di chiusura, a causa della pandemia si è provveduto a lavori di manutenzione e tra i diversi interventi, in vista della riapertura al pubblico che si spera imminente, verranno sostituite le poltrone di platea, che saranno rimpiazzate con delle nuove realizzate su disegno di quelle originali del Reale del 1926, poltroncine singole accostate tra di loro, recuperando una tradizione d’arredo più consona ed elegante.

Nel Lazio i teatri storici che rivestono una certa importanza si trovano a Civitavecchia, Viterbo, Rieti e il più recente, del Novecento, a Latina. Vi sono molte altre sale teatrali, a sud di Roma nei suoi Castelli, in Sabina e un poco ovunque, ricavate in chiese sconsacrate, all’interno dei monumentali palazzi principeschi, per lo più passati di proprietà comunale o derivanti da locali che nascevano quali cinema e dove successivamente venne ricavato un sia pur ridotto palcoscenico; per lo più in uso per la prosa, concerti con organico ridotto e pur sempre luogo d’incontro per la cittadinanza.

A nord di Roma, d’importanza strategica per il suo porto è la città di Civitavecchia, nei pressi della villa dell’imperatore Traiano, fondatore della tirrenica Centumcella, dove il principale teatro della città, nella emancipata coscienza storica che animerà l’Ottocento italiano, non poteva che essergli dedicato. Già dal 1786 Civitavecchia vantava un teatro interamente in legno, progettato da Ubaldo Minozzi da cui prese il nome, realizzato nella parte centrale e storica della città. Realizzato nella forma ad U in uso nel XVIII secolo, dotato di 40 palchi posti su tre ordini. Monsignor Vincenzo Annovazzi arcivescovo d’Iconio, nella sua Storia di Civitavecchia, c’informa  che durante la visita di papa Gregorio XVI il 20 maggio del 1835 furono chiesti al pontefice interventi per migliorare l’aspetto urbano della città, tra cui l’edificazione di un nuovo teatro. Nell’atto consiliare datato 11 giugno 1838 per la prima volta ci si riferisce al progetto per il nuovo teatro, da realizzarsi in solida muratura dall’architetto Antonio De Rossi.

La sua struttura è quella tipica a ferro di cavallo, con un’ampia platea, quattro ordini di palchi e un grande loggione. Si volle situarlo nel lussuoso quartiere con vista mare di Monte Claire e il Teatro Traiano venne inaugurato il 4 maggio 1844 con Estorgia da Romano di Donizetti, abile travestimento di Lucrezia Borgia, rinominata e modificata al fine di evitare problemi con la censura pontificia e con La vestale di Saverio Mercadante, inoltre due balli. Il vecchio Minozzi venne probabilmente chiuso e destinato all’abbandono, ma non precedentemente al 20 gennaio 1841, quando ospitò Gaetano Donizetti in una delle undici repliche a cura dell’Accademia Filarmonica di Civitavecchia de L’esule di Roma. Così descrive l’Annovazzi il nuovo teatro: «La figura di perfetto ferro di cavallo lo rende armonico a sufficienza, e la sua ampiezza è tale da poter contenere mille spettatori; il grande sipario dipinto maestrevolmente ad olio dal chiaro professor Podesti rappresenta uno de’ più belli fatti dell’istorie di Civitavecchia, quando cioè l’imperatore Traiano gettava le fondamenta del porto, ed offeriva sul lido stesso un sacrificio a Nettuno».

Per tutto il XIX secolo Il Traiano proseguì un’intensa attività e divenne punto di riferimento della vita culturale-politica della città. Il 2 ottobre 1870 ospitò il plebiscito all’annessione di Civitavecchia al Regno d’Italia. Il teatro fu distrutto quasi completamente il 14 maggio del 1943 dal devastante bombardamento su Civitavecchia dalle forze aeree americane, si salvarono solo la facciata e i locali adiacenti. Fu ricostruito in modo totalmente differente, con una piccola galleria e un’ampia sala. Inaugurato nella nuova configurazione nel 1948, fu successivamente adibito a cinema. Chiuso per restauri nel 1978 è stato riaperto dopo ventuno anni di silenzio il 29 maggio del 1999. Il sipario, dipinto dall’anconetano Vincenzo Podesti, fratello del più noto Francesco, membro dell’Accademia di San Luca, salvato dalle distruzioni del conflitto bellico è andato perso nel dopoguerra.

Teatro Unione di Viterbo – Progetto di Virginio Vespignani (1808-1882)

Nell’alto Lazio o Tuscia vi è la città di Viterbo, la cui principale costruzione teatrale è dovuta all’ unione di un gruppo di cittadini viterbesi che nel 1844 formarono la Società dei palchettisti e che da questi prende il nome di Teatro Unione o dell’Unione. Considerato oramai inadeguato il precedente Teatro del Genio, per capienza e scarsa connotazione sul tessuto urbano, per soddisfare le rinnovate esigenze ed il grande interesse che i viterbesi nutrivano per l’opera lirica, venne deciso di edificare un nuovo teatro. Scartata l’ipotesi di demolire la precedente struttura, la scelta del luogo dove erigerlo ricadde sulla Contrada San Marco. La Deputazione propose, inoltre, che la nuova costruzione dovesse richiamarsi nella forma al celebrato Teatro Argentina di Roma. Il 20 Giugno 1845 fu bandito il concorso per il progetto e l’incarico di valutarne le proposte fu attribuito all’Accademia Nazionale di San Luca, che ne affidò la realizzazione all’architetto Virginio Vespignani, esponente di spicco del tardo classicismo eclettico.

Il Teatro Unione venne edificato con sala a ferro di cavallo e 4 ordini di palchi e fu detto tra i più belli del Lazio. Inaugurato nel 1855 con una stagione lirica che ebbe inizio il 4 agosto per concludersi il 25 settembre, comprendeva l’esecuzione di tre melodrammi e un balletto, tra cui il Viscardello di Giuseppe Verdi, anche in questo caso un espediente per raggirare l’ottusa censura del tempo, qui impersonata dal censore artistico pontificio il poeta romanesco Giuseppe Gioachino Belli, per mascherare il messaggio considerato eversivo del Rigoletto di Giuseppe Verdi/Victor Hugo. A causa dei gravi danneggiamenti subiti dai bombardamenti della Seconda guerra mondiale, nella necessità di reperire ingenti somme per la ricostruzione, venne posto fine a quel condominio costituente tra Palchettisti e Comune e dal 9 dicembre 1949, con decreto prefettizio, la proprietà passò esclusivamente a comunale. Il teatro fu nuovamente inaugurato nel settembre del 1952. Dopo un’ulteriore chiusura di oltre sei anni, dovuta a lavori di ristrutturazione, l’Unione è stato riaperto al pubblico il 13 giugno 2017. Il teatro, oltre a spettacoli operistici e di prosa, ospita il Concorso internazionale di canto intitolato al tenore viterbese Fausto Ricci.

Nel 1923 il territorio di Rieti fu scorporato dall’Umbria ed inserito nel Lazio e nel 1927 venne ricostituita la provincia. Quindi, laziale è da considerarsi il Teatro Vespasiano di Rieti, edificato tra il 1883 e il 1893 da Achille Sfondrini, ben conosciuto nello Stato della Chiesa per aver realizzato il Costanzi di Roma, architetto che per il progetto dell’interno del Flavio Vespasiano prese come modello il Teatro Verdi che aveva precedentemente realizzato a Padova, non del tutto dissimile dalla sala del Costanzi, sia pure in formato ridotto. Il nuovo teatro veniva a sostituire precedenti strutture, la prima delle quali a Rieti era stato lo spazio organizzato dell’Accademia del Tizzone, i cui locali nello scorrere del tempo si erano dimostrati non più confacenti alle rinnovate esigenze, così che tra il 1765 e il 1768 l’edificio venne demolito e al suo posto edificato il Teatro dei Condomini, una costruzione più ampia, sempre realizzata in legno. Nel passare del tempo anche questo edificio si dimostrò inadeguato, nell’orgoglio cittadino di poter contare su di un teatro di maggiore prestigio che potesse competere con le nuove sale teatrali che si andavano costruendo nel resto degli Stati italiani. Del 1838 è un primo progetto di Luigi Poletti, ma fu l’architetto Vincenzo Ghinelli ad individuarne la collocazione lungo l’attuale via Garibaldi. La bella impresa, come fu definita, non riusciva, però,  a prendere quota se non quando costretti, nel 1883, essendo stati l’anno precedente dichiarati inagibili i teatri lignei, così che si placarono le molte discussioni che avevano tardato di quasi cinquanta anni la realizzazione del nuovo teatro. Il 16 dicembre 1883 fu posta la prima pietra di quello che sarà il Flavio Vespasiano, dedicato all’imperatore romano che vantava origini sabine. Anche su questa denominazione si aprirono vivaci controversie, perché in molti avrebbero voluto intitolarlo al compositore reatino Giuseppe Ottavio Pitoni alla cui memoria, però, nell’entusiasmo post-risorgimentale, fu rimproverata un’appartenenza troppo clericale. Dopo dieci anni di lavori e ritocchi sotto la direzione dell’architetto Sfondrini, soprattutto a causa del perdurare dei lavori per la decorazione della sala, il teatro fu inaugurato il 20 settembre 1893 con le rappresentazioni di Faust di Charles Gounod e di Cavalleria rusticana di Pietro Mascagni. Dopo appena cinque anni l’edificio fu danneggiato dal terremoto del 1898, che provocò il crollo della cupola e di parte della facciata. Del 1901 è la nuova cupola con pittura a tempera di Giulio Rolland. Nel corso della Seconda guerra mondiale il teatro ha subito gravi danni a causa dello scavo di un rifugio antiaereo. Restituito alla città, per diversi anni ha ospitato le attività del Concorso intitolato al celebre baritono Mattia Battistini, voluto nel 1979 dal direttore d’orchestra Maurizio Rinaldi con il fondamentale apporto dell’attrice e regista Franca Valeri, che tanto si prodigarono con questa iniziativa alla promozione di giovani voci italiane. Si susseguono per il Vespasiano interventi di adeguamento e ripristino che alla fine degli anni novanta ne restituiscono l’originario decoro. La sala a ferro di cavallo, che con i restauri effettuati dal 2005 al 2009 ha ritrovato le ottocentesche tonalità crema, si presenta oggi con le sue poltroncine rosse, tre ordini di palchi per un totale di 72 palchetti, loggione e palco reale. L’interno è sovrastato dalla grande cupola, con imponente lampadario che ricorda quello del Reale dell’Opera di Roma. Dal 2019 il sipario storico raffigurante La resa di Gerusalemme a Tito Flavio Vespasiano, dipinto da Antonino Calcagnadoro nel 1910, restaurato dall’Accademia di belle arti dell’Aquila, è nuovamente esposto al pubblico. Il Teatro Flavio Vespasiano è noto, inoltre, per l’ottima acustica.

Siamo nel Novecento, nell’originaria Littoria, edificata a seguito della Bonifica dell’Agro Pontino, ribattezza in seguito Latina. Nato come Caserma della Gioventù Italiana il Palazzo della Cultura è l’edificio realizzato nel 1942 su progetto dell’architetto Oriolo Frezzotti, di cui fanno parte il Teatro Comunale Gabriele D’Annunzio, il più contenuto Comunale Cafaro e quello che è stato definito un piccolo gioiello: il Teatro dei Mille. Strutture per la cui riapertura e agibilità non sono mancate accese polemiche. Negli anni ’90, l’allora sovrintendente del Teatro dell’Opera di Roma Giampaolo Cresci venne interessato al rilancio della struttura, che si risolse con pochi appuntamenti, tra cui un trionfale concerto del soprano Katia Ricciarelli. Riaprire il D’Annunzio, quale punto di riferimento culturale della città, deve essere un impegno di tutti, è stato dichiarato e l’augurio è che possa avvenire al più presto, con una programmazione adeguata.

Vincenzo Grisostomi Travaglini

“Due magnifiche proposte verdiane”, un articolo del Maestro Vincenzo Grisostomi Travaglini in “L’Opera International Magazine”, Giugno 2021

Ci sono gesti che rimarranno a segno di questa attesa riapertura del Teatro dell’Opera di Roma, dopo l’accoglienza del sindaco della Capitale, è il maestro Michele Mariotti, a girarsi dal podio verso la sala illuminata e con l’orchestra in piedi, a liberarsi dalle tensioni in un lungo applauso rivolto dall’ampio palco al pubblico ritrovato. Due giorni dopo, per Santa Cecilia, il Direttore musicale Sir Antonio Pappano, prende la parola e si rivolge ai presenti: «Caro… Carissimo pubblico», accentuando con il superlativo quel sollievo per un’espressione artistica altrimenti imposta al vuoto del vasto auditorium. Con l’orchestra dell’Accademia è Pëtr Il’ič Čajkovskij a trionfare con l’esecuzione della Sinfonia n. 6 in si minore Patetica di rara, appassionante intensità. Nella sala del Costanzi, il protagonista è Giuseppe Verdi, con tre dei ballabili tratti da opere nell’edizione parigina da Grand Opéra, dove al terzo atto l’inframmezzarsi della danza all’azione drammaturgica era pressoché d’obbligo. A Roma, però, il tradizionale ponentino si rafforza di ben altri venticelli che, stando ad insistenti indiscrezioni, causerebbero un mulinello di nomine ai vertici delle due Fondazioni Capitoline. Il maestro anglo-italiano Antonio Pappano è stato recentemente designato Chief conductor della London Symphony Orchestra e alla scadenza quale Direttore musicale dell’Accademia romana nel 2023 assumerà per Santa Cecilia la carica di Direttore emerito, un’accennata “Brexit-musicale” nonostante le rassicurazioni che non si tratterà di una funzione solo di facciata e al suo posto potrebbe essere nominato Daniele Gatti, che in passato vi aveva ricoperto la carica di Direttore stabile dal 1992 al 1997. Gatti che lascerebbe a fine mandato analogo incarico al Teatro dell’Opera, dove a succedergli sarebbe Michele Mariotti. Tutto al condizionale, ma già si vocifera, a presumibile conferma dei fatti, sull’ipotesi che nel 2024 quando sarà l’orchestra dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia a presiedere al Festival di Pasqua di Salisburgo, che a dirigere la prevista Madama Butterfly, che si vorrebbe sostituita con La forza del destino, sarebbe confermato Pappano e non il subentrante Gatti; tante ipotesi di un mondo della musica in divenire. Per restare all’oggi, di certo, all’Opera di Roma con il recente concerto dedicato ai ballabili e a poca distanza della Luisa Miller in forma di concerto, si consolida nel nome di Giuseppe Verdi l’ottimo rapporto di Mariotti con l’orchestra del Lirico della capitale. L’esecuzione dei ballabili era già in programma quando è arrivata la notizia sulla possibilità di riaprire i teatri al pubblico e in poche ore la biglietteria, con ingressi a prezzo simbolico, ha fatto registrare il tutto esaurito, sia pure nella ridotta disponibilità consentita di platea e palchi. L’interesse maggiore della proposta è stato nella valutazione schiva da prevenzioni di Mariotti per queste musiche, un tempo relegate quali superflue appendici ballettistiche, diminuite nel giudizio a un opportunismo compositivo avulso da esigenze narrative, se non nell’obbligo del Grand Opéra, in quella Parigi a cui Verdi si rivolgeva.

Mariotti, nella sua lettura personale, ne ha liberato l’effettivo valore musicale e di struttura, con convinzione e vivacità e l’esecuzione si è arricchita, nella raffinata strumentazione, di uno spessore narrativo quanto sinfonico che si è imposto su qualsiasi pregiudizio. Primo tra i ballabili quelli per il Don Carlos, tante volte ripensati dall’autore in quella complessa concatenazione di prove, idee e costrizioni. Il risultato per Le ballet de la reine: La Pérégrina, è di grande raffinatezza, elegante orchestrazione e dinamicità. Importante è crederci sino in fondo, così che il suono strumentale nella lettura di Mariotti s’identifica in canto, negli assolo e nel dialogare delle sezioni, con tale partecipata passionalità, tanto che nel finale la bacchetta gli è sfuggita di mano, sino a raggiungere le poltrone della platea. L’approccio alla musica verdiana di Mariotti è di volta in volta differente e il maestro si lascia come “stupire” dalle molte invenzioni, spronandone ogni spunto e in questi ballabili ve ne sono tanti, per valorizzare nella raffigurazione l’impulso in un segmento altrimenti riservato alle esigenze dei danzatori, evocatore di quella teatralità che puntualmente e in ogni genere è presente in Verdi. Incalzanti, seguono i ballabili dal Macbeth inseriti nell’edizione parigina, voluti in un più ampio ripensamento del compositore, che da lavoro giovanile per il Théâtre Lyrique traghetta il “suo” Shakespeare nell’accuratezza di una raggiunta maturità, tantoché Casa Ricordi li riportò in Italia nella rinnovata edizione a stampa. Concludono i più ampi ballabili da Les vêpres siciliennes, inquadrati nel tema codificato de Les quatre saisons.

Si torna allo streaming per la successiva Luisa Miller, rinviata a poche ore dall’esecuzione, a causa del tampone positivo di alcuni elementi del coro e riproposta a distanza di meno di due settimane. La prima è diffusa in diretta da Rai Radio3 e successivamente offerta in differita sul canale YouTube dell’Opera di Roma. Predisposta in forma di concerto in periodo di chiusura, per il dovuto distanziamento il coro è sistemato in platea e nei palchi e quindi senza la possibilità di accogliere il potenziale pubblico ed è impossibile ripensarne l’allestimento in così poco tempo. Per Mariotti è un debutto nel titolo e sin dalle prime battute la memoria torna al 2007, quando il giovane direttore si presentò al Comunale di Bologna con il Simon Boccanegra, perché l’approccio alla partitura verdiana, ieri come oggi, presenta caratteristiche analoghe, sia pure con la diversa consapevolezza delle proprie validità, ma con immutata passione. Il direttore affronta la partitura di Luisa Miller prendendo avvio dal solco della tradizione, per poi manifestarsi in tutte quelle sonorità di una sensibile, vigorosa ricerca di un’espressione che non fluisca da costruzioni pragmatiche, bensì da un naturale sviluppo di una riaffermata vitalità. Il direttore si avvale per questo debutto di una compagnia di canto, nell’insieme, di ottimo livello, nella partecipazione della quale si mostra, nelle intenzioni esecutive, una netta spartizione generazionale, tra artisti di più recente affermazione e smaliziati professionisti. Tra i primi il valido soprano Roberta Mantegna che nella sua già significativa carriera è d’orgoglio dell’iniziativa Fabbrica il programma per giovani artisti dell’Opera di Roma; il già affermato tenore Antonio Poli e il basso Marko Mimika. Questi tre interpreti hanno dimostrato maggiore disponibilità ad esprimersi, pur nella staticità della forma di concerto, priva di movimenti, ma non d’intenzioni. Roberta Mantegna è una Luisa appassionata e dagli adeguati mezzi vocali e se risente nel terzo atto di una minore aderenza espressiva, va a sua difesa l’evidente emozione nell’affrontare un personaggio di così complessa configurazione, con impegno vocale a tutto campo. Dall’enfasi al patetico il Rodolfo di Antonio Poli si presenta al meglio in tessiture che richiedono al tenore ampia flessibilità, esprimendosi appieno nell’elegiaco di Quando le sere al placido, dove il solista si raccoglie, quasi trasfigurando, esibendo un buon legato e alla ricerca di raffinate mezze voci proprie della scrittura verdiana e nei limiti di una tradizione interpretativa, ma che per il pieno risultato, pur apprezzandone l’impegno, necessiterebbe uniformemente di maggiore naturalezza. L’impressione in generale è che per i cantanti sarebbero state necessarie più prove, ma probabilmente la particolare situazione, il rinvio dovuto al contagio, gli spazi ristretti per una pur contenuta dinamica della parola scenica che sempre necessità di vitale svolgimento, tutto questo potrebbe aver influito per una più convincente resa d’insieme e sviluppo nell’introspezione dei ruoli, che in Luisa Miller rappresenta la vera svolta della complessità verdiana agli albori degli anni ’50 dell’Ottocento.

Di queste barriere sembrerebbe averne risentito anche il fronte più navigato, con Roberto Frontali di provata esperienza, oramai ospite fisso dell’Opera, che di recente vi ha affrontato ruoli che si possono ben considerare in linea evolutiva con la figura paterna di Miller, ma che pur in pochi anni di scrittura verdiana hanno marcato ben distinti accenti, così che il baritono è apparso già composto genitore nel ricorrente rapporto di padre e figlia, per un Miller che vorrebbe una maggiore aderenza a quel canto, di cui Frontali fu maestro, riferito più a un Verdi trascinante o ancor prima a un’eleganza e trasporto di derivazione donizettiana. A suo agio l’altro indiscusso professionista, il basso Michele Pertusi, che ha ben ribaltato alcune stanchezze vocali in personale assimilazione, cattivo ma non troppo Conte di Walter, già autoritario precursore con consapevole mestiere del gioco delle sonorità assegnate al basso della maturità verdiana, qui dai colori disimpegnati nella musicalità danzante di un ancor risorgimentale compositore, dominante sul complementare secondo basso, il castellano Wurm, la cui malvagità è restituita con opportuna misura da Marko Mimika. Più personaggio che interprete la stimata Daniela Barcellona quale duchessa Federica. Apprezzabile il livello dei comprimari: Irene Savignano (Laura) e Rodrigo Ortiz (Un contadino). La posizione frammentata tra platea e palchi, nonostante l’amplificazione, non ha giovato alla resa complessiva del coro, con maestro Roberto Gabbiani. Artisti del coro che al termine sono rimasti soli al di là della ribalta, compostamente a colmare il vuoto della sala e ad applaudire i protagonisti in palcoscenico, in un’apprezzabile pantomima dei saluti rituali, tanto meritati, quanto malinconici. Ancor più, se confrontati al trionfo del precedente concerto con pubblico in presenza. E’ stata necessità, che nulla toglie allo spessore della proposta.

Vincenzo Grisostomi Travaglini

Concerto ballabili – 28 aprile 2021

Luisa Miller – 30 aprile 2021

“Marche: la Terra dei cento Teatri”, un articolo del Maestro Vincenzo Grisostomi Travaglini in “L’Opera International Magazine”, Aprile 2021


I teatri storici nelle Marche sono nel loro complesso il sistema teatrale più articolato d’Italia, con una gamma di spazi che vanno dai grandi edifici municipali, come quelli di Pesaro, Fano, Jesi, Fabriano, Macerata, Fermo, Ascoli Piceno ed Ancona, a teatri medio grandi di eccezionale valore artistico, fino alle piccole gemme disseminate nei centri minori. Una realtà complessa, di difficile gestione sia per il mantenimento delle strutture, sia per l’individuazione della ritrovata funzione all’interno della comunità, per un utilizzo conveniente di una struttura che è parte integrante del territorio; che deve vivere nel presente non quale reperto museale, ma nella sua funzione originale di unione, per una condivisione dinamica di una collettiva maturazione artistica. Il retaggio storico di tale fioritura va ricercato nel passato, nelle origini e diversità di una regione, la sola in Italia che abbia conservato una declinazione al plurale, nel nome e nella varietà dei suoi abitanti. Un plurale in qualche modo unificante è stato precisato, ufficializzato sin dal Protocollo finale del Congresso di Vienna nel 1815, per un territorio così ricco quanto frastagliato. Le Marche sono la regione dai dolci colli e dai tanti dialetti, terra di artisti, di Raffaello, Leopardi e di Federico II, di Pergolesi, Spontini, Rossini e delle fisarmoniche; la regione del Tronto e dell’Esino. Una diversità che non divide, bensì è ineguagliabile ricchezza.


Le Marche sono Terra dei cento Teatri, un termine che riflette la risorsa di molteplici edifici diffusi in tutto quel territorio compiuto che fu Marca di Urbino, di Ancona, di Camerino, di Fermo e Picena. Rievocando la storia, numerosi furono gli spazi per gli spettacoli già in epoca romana, edificati in quel territorio dove oggi s’identifica la regione Marche, dove erano presenti 35 municipi e ognuno dei quali era dotato di teatro o di anfiteatro. Molte di queste strutture sono andate perdute, provate dal tempo e dall’uomo, di altre restano tracce, come a Fermo, Villa Potenza, Jesi, Ostra, Acqualagna, Urbino. Ad Ascoli Piceno sono ben visibili i ruderi del teatro romano ed è stato individuato l’ampio perimetro di un anfiteatro sempre di epoca romana, a ulteriore testimonianza della vitalità del territorio. A meglio documentare le caratteristiche legate alla cultura d’epoca romana dello spettacolo e dei giochi circensi sono le strutture del teatro e anfiteatro di Falerone e di Urbisaglia, quest’ultimi all’interno del parco archeologico più esteso della regione. Lavori importanti sono tutt’ora in corso per riportare alla luce l’anfiteatro di Suasa, uno dei maggiori della regione, già utilizzato in anni recenti per ospitare spettacoli teatrali e musicali. La successiva fioritura di spazi destinati allo spettacolo, dal XVI secolo in poi, risulta dall’imporsi degli avvenimenti; la formazione dei territori si diversifica nell’identificazione del Libero comune di origine medievale e nell’orgoglio di proprie identità, che verranno mantenute anche in tempi successivi, remoti quanto recenti e in ogni comunità grande o piccola che sia, allo sviluppo di una propria specificità, di cui l’edificio teatrale sarà parte integrante.Per l’avvio di questa realtà, che con azzardo potremo definire d’epoca recente, si può indicare una data e un luogo: la corte d’Urbino nel 1513, nello storico ducato che fu dei Montefeltro, dove nasce il primo allestimento scenico dell’età moderna, quando nella Sala del trono di Palazzo Ducale in onore di Francesco Maria I Della Rovere, si allestisce un grandioso spettacolo con La Calandria del cardinale Bernardo Dovizi da Bibbiena e Prologo di Baldassarre Castiglione: «in prosa, non in versi; moderna, non antiqua; vulgare, non latina». E’ l’occasione per l’incontro di tre grandi ingegni quali Bernardo Dovizi detto il Bibbiena, l’architetto di corte Girolamo Genga che ne progetta la grandiosa scenografia e Baldassare Castiglione, uno dei più celebri intellettuali del Rinascimento, che compone i quattro Intermezzi della commedia e firma la prima regia di quella che definiremo l’ età moderna della messa in scena. La descrizione fatta dal Castiglione permette di avere un’idea del nuovo rapporto venutosi a creare tra teatro e città grazie alle scenografie realizzate per La Calandria da Girolamo Genga, dalle quali s’introduce la scenografia prospettica dipinta, codificata e divulgata in Europa attraverso il celebre trattato di Sebastiano Serlio. Questa nuova realtà culturale non si limita alla corte, a distanza di pochi anni in altre città marchigiane la Sala delle commedie viene allestita all’interno del Palazzo pubblico. Le regione vanta anche altri primati in campo teatrale, poiché l’architetto pesarese Nicola Sabbatini scrisse nel 1637 il primo trattato di scenografia Pratica di fabbricar schene e Machine ne’ Teatri, mentre l’architetto e scenografo Giacomo Torelli, nativo di Fano, si afferma come il più grande scenografo d’Europa, prima a Venezia, poi in Francia alla corte del Re Sole. La molteplicità dello spazio barocco trova espressione nelle Marche nelle realizzazioni di Nicola Sabbatini e del celebre Giacomo Torelli, la cui abilità scenotecnica porta alla realizzazione di scene mobili. Le strutture effimere, originali dei teatri, sono rapidamente soppiantate da arredi, apparati, palchi, in un’articolazione sempre più complessa dello spazio scenico ricavato all’interno della così detta Sala grande, fino a giungere a costruzioni di legno ben strutturate, spesso ricavate all’interno del Palazzo di città, comunale o residenza gentilizia che ben presto, però, si riveleranno a grosso rischio d’incendio.


La filosofia illuminista, penetrando nelle classi più colte, favoriva il gusto per lo spettacolo e la creazione di strutture stabili per il teatro. Dal XVIII secolo le regione è appassionata nella diffusione capillare di sale da spettacolo, che coinvolge non solo i maggiori, ma anche i piccoli centri. Nelle Marche in particolare, ma in diversi aspetti anche in altre regioni, i teatri sono inizialmente costruiti su iniziativa di associazioni di privati che assumono il nome di Società condominiali, che provvedono al finanziamento per la realizzazione del progetto, fissando delle quote associative che garantiscono a ogni famiglia la proprietà di un palco, assicurando anche la gestione e la manutenzione dell’edificio. Alternativo alla Sala dello spettacolo del palazzo era il giardino o roccolo della villa di campagna, dove venivano ricavate tramite una strutturazione artificiale del verde, dei veri e propri schemi vegetali. Nel parco di Villa Caprile nel pesarese, residenza estiva della famiglia dei marchesi Mosca, ancora oggi si conserva nello splendido giardino all’italiana il Teatro di Verzura, a testimonianza di questo gusto per l’Arcadia che tanto peso ebbe nella cultura settecentesca. Qui, tra gli altri, fu accolto Giacomo Casanova e nell’Ottocento vennero ospiti Stendhal, Gioachino Rossini, Giacomo Leopardi e il generale Napoleone Bonaparte. Nel 2001, nell’ex galoppatoio di Villa Caprile, venne allestita dal Rossini Opera Festival la Festa musicale Le nozze di Teti e di Peleo, un pastiche con composizioni del compositore pesarese. Altra testimonianza è quella di Villa Centofinestre, nel comune di Filotrano, dove è ancora visibile il semicerchio di cipressi dove all’epoca, con tutta probabilità, vi era una struttura di verde più articolata.


Le Marche dell’epoca non conoscevano ancora un’unità amministrativa, anche se questo non impedì la formazione di un senso di appartenenza comune. E’ così che in molte città si approfitta della favorevole congiuntura economica legata allo sviluppo agricolo per dare vita a una fioritura di edifici teatrali. Dalla seconda metà del ‘700 e per tutto il XIX secolo ogni comune, che avesse voluto svolgere un ruolo sul territorio circostante, cominciò a programmare la costruzione del proprio teatro, anche se con una capienza di soli 50 posti. Per la progettazione prende avvio una vera e propria gara tra le diverse realtà territoriali al fine di potersi aggiudicare l’architetto più in vista del momento e vantare nel proprio comune l’edificio il più sorprendente. Vengono interpellati rinomati architetti marchigiani quali Domenico Bianconi, Pietro Ciaffaroni, Giuseppe Lucatelli, Ireneo Aleandri, Pietro e Vincenzo Ghinelli, Giuseppe Sabbatini, Luigi Petrini e ancor più celebri Antonio Galli Bibiena, Giuseppe Piermarini, Domenico Morelli, Pietro Maggi e Luigi Poletti. Nel corso dell’Ottocento si diffonde la passione per il melodramma e per il teatro di prosa, praticato non solo da attori professionisti, ma anche da rampolli della nobiltà locale. Nel 1834 in una delle pubblicazioni del maceratese Amico Ricci, lo storico dell’arte ipotizza che i giovani delle nobili casate marchigiane, non essendo più coinvolti in fatti di guerra, si erano talmente appassionati alle lettere, poesia e testi teatrali, da incentivare nelle città di appartenenza la costruzione di sale, appositamente per potersi esibire nei loro componimenti. Il teatro così detto all’italiana diviene il simbolo di questa distinzione dei ceti sociali ed è proprio il luogo di spettacolo che rappresenta l’esigenza di testimonianza intellettuale della città. Si costruiscono e si rinnovano sale, si moltiplicano accademie, si ampliano le cappelle musicali. Sempre più, si avverte l’esigenza di dotare i centri urbani di un teatro pubblico, con lo scopo di creare uno spazio destinato a un “sano” divertimento, soprattutto per i giovani. Tra questi giovani, il poeta Giacomo Leopardi che recita nel piccolo teatro privato all’interno del palazzo Cassi a Pesaro, parenti della nonna Virginia Mosca, struttura, purtroppo, demolita nel 1950, così come a Palazzo Leopardi a Recanati, dove il padre, conte Monaldo, aveva fissato la sede di un’accademia e dove il divario nella”sala grande” compiuto da due scalini, oggi colmati da una struttura lignea, ne lascia intravedere la forma originale. Quasi tutti i teatri nei palazzi nobiliari nella regione, un tempo fiorenti, sono stati nel tempo smantellati, quali ad Ascoli nelle case Alvitreti e Ciucci, affittando le scene del Comune, oppure dai Passionei di Fossombrone, dove si realizzarono dei veri e propri palchettoni.
Nel 1868 si possono contare nelle Marche ben 113 teatri e tutti i comuni si facevano vanto di esserne dotati, rivaleggiando tra loro nell’abbellimento della sala e per artisti ospiti. Ogni centro urbano, in una sorta di campanilismo persistente, realizza questo spazio, coinvolgendo qualità di manodopera e di professionalità, favorendo altresì l’economia del luogo. Le città si rinnovano ed il teatro in muratura dall’inizio dell’Ottocento è spesso al centro delle nuove sistemazioni quale punto di riferimento connotativo al decoro urbano. Le scelte architettoniche seguono avvolte le mode, l’esigenze avvolte capricciose della committenza o la conformazione degli spazi dove la sala verrà compresa. Nella realizzazione si passa dall’arcadica conformazione a U, alla fantasiosa tipologia a campana introdotta dai celebri Galli Bibiena, alla neoclassica interpretazione della forma ellissoidale, per giungere alla più tipica pianta a ferro di cavallo con il bulbo più o meno accentuato, ma senza che queste diverse soluzioni abbiano avuto, nell’incalzante ambizione del primeggiare, una logica temporale. I condomini teatrali, nell’evolversi dei tempi, si trasformano per lo più da privati in pubblici, in quanto l’iniziativa della costruzione del nuovo edificio in muratura, spesso a sostituzione della vetusta struttura in legno, viene presa in carico dalla municipalità che ne mantiene la proprietà; in altri casi i condomini si riorganizzano nel sistema così detto “misto”, ovvero gestito con capitali sia della municipalità che di privati; quest’ultimi, vistosi successivamente negata la proprietà del palco, intenteranno causa all’amministrazione comunale, senza ottenere risultato. I palchi, avvolte, di stagione in stagione, vengono estratti a sorte, per evitare rivendicazioni delle famiglie più facoltose. Il teatro è definitivamente un bene pubblico.


Il melodramma è il dominatore incontrastato delle scene; dalla seconda metà del Settecento ai primi decenni del Novecento, fino alla prima guerra mondiale, si allestiscono importanti stagioni liriche con la partecipazione di famosi cantanti, a testimoniare la passione di un pubblico attento e partecipe. La crisi degli anni ’80 del XIX secolo influì pesantemente sull’industria dello spettacolo, segnando una battuta d’arresto alla sua evoluzione. Seguirono anni di silenzioso abbandono! Dei 131 teatri censiti nel 1868 nelle Marche, numerosi sono stati tramandati, tenendo conto delle mutazioni evolutive, pressoché intatti, sia pure dopo accurati restauri; altri ricostruiti in seguito ad incendi e bombardamenti delle due guerre, sono stati poi gradualmente scalzati dall’avvento del cinematografo, che stravolge l’uso di alcuni spazi, subendo un’alterazione radicale della sala con la semplice organizzazione in platea e galleria. Altri, saranno trasformati in magazzini, degradati e rimpiazzati per speculazione da edifici commerciali. Sono 73 i teatri storici presenti oggi nella regione, con diverso metodo di calcolo se ne potrebbero annoverare sino a 76, quando nel 1995, al momento dell’avvio dell’attività del nuovo governo regionale, il quadro della conservazione di molti degli edifici storici era di fatto preoccupante, anche se alcuni progetti di restauro erano stati già avviati. Solo una quindicina quelli in attività, i lavori di recupero di altri in molti casi fermi, avvolte nemmeno avviati. Non si può non riconoscere che a metà anni ‘90 con la nomina del professor Gino Troli ad Assessore alla cultura della Regione Marche avvenne una vera e propria svolta che ha condotto alla riapertura, alle porte del nuovo millennio, della quasi totalità dei teatri storici marchigiani, con lo stanziamento di fondi principalmente regionali, comunali e provenienti da sovvenzioni dell’Unione Europea. Nella realizzazione del progetto di recupero di questo patrimonio, fondamentale è stato il coinvolgimento di Eustacchio Montemurro Dirigente del Servizio Beni e Attività culturali e dell’architetto Tiziana Maffei, così come le iniziative congiunte del Fai-Marche e dell’Associazione Marche Segrete, presiedute dalla principessa Giulia Panichi Pignatelli di Castel di Lama, che con determinazione ed impegno ha promosso l’individuazione, recupero e rivalutazione di tanti spazi teatrali e beni storici in abbandono. Un lavoro certosino per un risultato considerevole dove, però, a un ritrovato splendore delle strutture, non sempre ha corrisposto il legittimo ritorno a una rinnovata vita culturale.


I devastanti terremoti del 2016 e 2017 hanno lesionato alcuni di questi edifici, soprattutto il Teatro Filippo Marchetti di Camerino, che è nella lista tra i primi monumenti su cui intervenire; solo piccoli lesioni per il Filippo Marchetti di Camerino e il Feronia di San Severino Marche. Sono tanti i teatri storici presenti nelle grandi e medie città, così come nei piccoli centri delle Marche e tutti meriterebbero di essere menzionati in questo grand-tour regionale, ma ci limiteremo ad alcuni esempi. Non si può che iniziare dalla provincia di Pesaro e Urbino, che vede raggruppati i due maggiori centri del territorio. Il Teatro Raffaello Sanzio di Urbino venne eretto sulla parte superiore della rampa elicoidale, denominata dell’Abbondanza. Sin dal 1829 la comunità gentilizia di Urbino si era espressa a favore della costruzione di un nuovo edificio teatrale «primo ed essenziale ornamento di ogni culta città», che andasse a rimpiazzare il Teatro dell’Accademia dei Nobili Pascolini, la cui collocazione all’interno di Palazzo Ducale ne rendeva limitata la fruizione. Nel 1840 venne indetto un concorso, vinto dall’architetto Vincenzo Ghinelli di Senigallia, che volle inserirlo in un più articolato piano urbanistico, non integralmente realizzato. L’inaugurazione è del 1853. La struttura è stata radicalmente modificata in epoca relativamente recente, tra il 1996 e ‘97, alterandone l’assetto originale. Si volle intitolato all’illustre concittadino Raffaello Sanzio, di cui nell’atrio è conservato il busto incompiuto dello scultore Carlo Finelli. A Pesaro è situato il teatro che porta il nome dell’illustre compositore nativo pesarese, Gioachino Rossini. Per risalire alle origini della costruzione bisogna rievocare il Teatro del Sole, eretto al posto delle vecchie scuderie ducali di Guidubaldo II Della Rovere nel 1637 e nello stesso luogo, nel 1818 praticamente riedificato, quale Teatro Nuovo, inaugurato con La gazza ladra, presente lo stesso autore ventiseienne. Progettato con la forma classica a forma di ferro di cavallo con quattro ordini di palchi più il loggione, il Nuovo nel 1855 verrà intitolato Rossini, ancora vivente il compositore. Dal 1980 è sede principale del prestigioso Rossini Opera Festival, che si avvale anche dell’Auditorium Pedrotti, nato quale sala da concerto nella sede del Liceo Musicale, anch’esso dedicato all’illustre pesarese, dove sono stati ospitati importanti produzioni liriche, tra cui nel 1984 l’indimenticata “prima” de Il viaggio a Reims di Rossini, direttore Claudio Abbado, regia di Luca Ronconi, scene di Gae Aulenti; oggi la sala è temporaneamente chiusa per restauri. La richiesta di una platea più vasta per il Festival ha imposto la scelta di spazi capienti, identificati dal 2006 ne l’Adriatic Arena poi dal 2019 Vitrigo Arena, un funzionale impianto polivalente, spazioso e moderno, quanto poco consono per rappresentazioni liriche. Altro gioiello della provincia di Pesaro-Urbino è il Teatro della Fortuna di Fano, il cui nome risale alla denominazione latina della città: Fanum Fortunae, dal tempio della Fortuna, probabilmente eretto a testimonianza della battaglia del Metauro nell’anno 207 a.C. . All’interno del Palazzo del Podestà di Fano la prima esecuzione teatrale è documentata al Carnevale del 1491 con la Rappresentatio Apollinis et Daphnes conversae in laurum di Giovanni Antonio Torelli, avo dell’illustre scenografo e architetto Giacomo Torelli. A quest’ultimo, di ritorno dalla Francia di Luigi XIV, venne affidata la progettazione del nuovo teatro a pianta di rettangolo absidato con cinque ordini di palchi, così come realizzato nei più importanti teatri dell’epoca. I lavori vennero ultimati nel 1677. La tradizione vuole che l’imperatore Leopoldo I d’Asburgo volle far edificare il teatro di Vienna sul modello ideato dal Torelli per Fano. Nel 1718 fu incaricato del restauro Ferdinando Bibiena, che fece ridipingere l’intero complesso, ampliò la dote scenografica del palcoscenico e fece realizzare un sipario in cui era raffigurata in prospettiva simmetrica, come in uno specchio, la sala del teatro in una contrapposizione di stampo tipicamente barocco tra il contenitore e il suo riflesso. Nel 1842 fu commissionata a Luigi Poletti la progettazione del nuovo teatro sempre all’interno del Palazzo del Podestà, demolendo quello del Torelli. Per la stagione inaugurale del 1863 vennero programmate 23 serate, con in scena Il Trovatore e il Macbeth di Verdi, La Favorita di Donizetti. Gravemente danneggiato nel corso dell’ultima guerra, il Teatro della Fortuna è stato riaperto nel 1998, dopo cinquattaquattro anni di complessi, meticolosi interventi di restauro e ristrutturazione, restituito al suo originario splendore e rinnovato negli impianti e attrezzature tecniche. All’interno si possono ammirare, oltre a una bellissima cavea neoclassica, uno dei più significativi sipari storici opera di Francesco Grandi, che raffigura un immaginario ingresso dell’Imperatore Cesare Ottaviano Augusto nell’antica Colonia Iulia Fanestris.


Dedicato a Mario Tiberini è l’ottocentesco teatro di San Lorenzo in Campo. Inizialmente denominato Teatro Trionfo, è un modello di “teatro di sala” ricavato in quella che probabilmente era la Sala da ballo, all’interno del cinquecentesco Palazzo Della Rovere, dove dalla metà del Settecento vi era un teatrino “alla francese”, montato e smontato secondo esigenza. Della nuova costruzione s’inizio a discutere nel 1813 durante il napoleonico Regno d’Italia, teatro che fu edificato solo dopo la restaurazione pontificia del 1816 su disegno del capomastro Luigi Tiberi; intitolato nel 1880 a Mario Tiberini celebre tenore nativo di San Lorenzo in Campo. Dopo un accurato restauro, il teatro è stato riaperto al pubblico nel 1983, mantenendo, nel suo insieme, l’aspetto originario. Caratteristico è il Teatro della Rocca di Sassocorvaro, posto all’interno della Rocca Ubaldinesca, che si distingue per essere strutturato alla francese, in una composizione del tutto particolare, privo di palchi, dotato di un solo palchettone ligneo fiancheggiato da paraste. Caratterizzato in elegante stile settecentesco nelle decorazioni, pur essendo state realizzate a metà dell’Ottocento. L’edificio diede rifugio a 10.000 opere d’arte italiane durante la seconda guerra mondiale. Il Teatro delle Muse risalente al 1754 è la prima struttura teatrale nel Comune di Cagli, sostituita dall’attuale Comunale inaugurato nel 1878 con la prima assoluta de Il violino del diavolo del compositore Agostino Mercuri nato nella non lontana Sant’Angelo in Vado. La struttura si caratterizza per le eclettiche decorazioni di fine Ottocento, che nel codice decorativo delle sale teatrali segna l’avvenuto trapasso del pluralismo neoclassico. Nel teatro è conservata la dotazione scenotecnica, così come in altre sale nelle Marche, con preziosi fondali d’epoca e gli originali comodini, ovvero un sipario arretrato rispetto al principale, utilizzato per il cambiamento delle scene e dotato di una passaggio centrale o due laterali, per permettere agli artisti di mostrarsi alla ribalta per gli applausi. Dieci fondali e quinte, inoltre, sono conservati nel palcoscenico del Comunale, realizzati da Girolamo Magnani, lo scenografo prediletto da Giuseppe Verdi. Restando in argomento sipari storici e fondali, vanno ricordati alcuni dipinti dalla famiglia degli scenografi Liverani, la cui testimonianza è conservata in alcuni teatri marchigiani, tra cui il Teatro del Trionfo nel piccolo borgo di Cartoceto, costruito fra il 1725 e il 1730 in un’ex deposito di olive, riedificato nel 1801 è dotato di tre ordini di palchi in legno. Nella provincia è annoverato quale terzo per antichità, dopo il Teatro Angel dal Foco di Pergola e l’Apollo di Mondavio. All’interno del Teatro del Trionfo la cui sala, nonostante alcuni lavori di manutenzione è, purtroppo, ancora inagibile, vi è conservato, in condizioni non ottimali, il pregevole sipario storico di Romolo Liverani.


Dalla provincia di Pesaro-Urbino a quella di Ancona, che, secondo una guida redatta dagli uffici della Regione, possiede 15 teatri storici, ma il numero potrebbe salire a 31 se si contano anche altre strutture. Per diritto di precedenza al capoluogo, inizieremo la visita dal Teatro delle Muse di Ancona, che dopo la ricostruzione della sala, ferita durante la Seconda Guerra Mondiale e poi demolita, nella logica di un intervento che fa ancor oggi discutere, avrebbe diritto di essere riconosciuto, dalla riapertura, quale sede di Fondazione lirico-sinfonica. Nell’Italia centrale ben due regioni non vantano il privilegio di una Fondazione lirico-sinfonica, le Marche e l’Umbria. Polemiche a parte, i bombardamenti che colpirono duramente Ancona, in quanto città portuale, danneggiarono la copertura del Delle Muse e l’attività dovette essere sospesa e lo rimarrà per ben 59 anni. Dopo molte controversie, si decise per la demolizione della sala, mentre altre strutture interne e l’apprezzabile facciata in forma neoclassica rimasero intatte. Il progetto definitivo di ricostruzione è degli architetti Danilo Guerri e Paola Salmoni, il cui scopo dichiarato fu quello di stabilire un rapporto armonico tra la riprogettazione in stile moderno della sala e lo spazio urbano circostante; all’impatto visivo, ancora una volta nell’edificazione di una struttura di sala da spettacolo, seguendo il concetto urbinate di Baldassare Castiglione. Viene mantenuta la facciata neoclassica di derivazione palladiana e in parte conservata la scala di ingresso e l’originario atrio. Vengono nuovamente decorate in stile moderno dall’architetto Leonello Cipolloni le sale del Casino Dorico, pur non avendo subito danneggiamenti significativi, destinate a feste e incontri culturali. All’interno dell’edificio è ricavato un ridotto. La nuova struttura è inaugurata nel 2002 con Idomeneo di Mozart, Lucia di Lammermoor di Donizetti, Madama Butterfly di Puccini e la prima di Canto di Pace, su parole di S. Giovanni Paolo II e musica di Marco Tutino. La storia del Massimo anconetano è lunga e complessa, così come per le principali strutture marchigiane. Un primo edificio è documentato sin dal 1665 con il nome di Teatro dell’Arsenale, distrutto nel novembre 1709 da un incendio. Dopo solo due anni venne inaugurato il nuovo Teatro della Fenice, rinascente dalle ceneri del precedente, una caratteristica ricorrente nella storia dei teatri italiani. Curioso sottolineare che alla ricostruzione del Teatro della Fenice contribuirono le donazioni di alcune facoltose famiglie, che in cambio entrarono a far parte della nobiltà anconitana. Nello scorrere del tempo e nel maturare delle nuove esigenze legate agli spazi urbani con la collocazione dell’edificio teatrale quale perno urbano a simbolo della vita culturale, nel 1819, un’apposita commissione determinò la demolizione del medioevale Palazzo del Bargello e al suo posto venne edificato il nuovo edificio che si volle dedicato alle nove Muse, raffigurate nel bassorilievo del timpano della facciata opera dello scultore Giacomo De Maria. Il Teatro delle Muse fu inaugurato nel 1827 presente Girolamo Bonaparte con due opere di Gioachino Rossini Aureliano in Palmira e Ricciardo e Zoraide. Altro ospite d’onore Vittorio Emanuele II per la stagione allestita nel 1861, in occasione dell’annessione di Ancona al Regno d’Italia, con in programma Il trovatore di Verdi. Il Teatro delle Muse, nella sua veste rinnovata, è considerato il più spazioso delle Marche, se si escludono luoghi teatrali impropri, classificato quale tredicesimo per capienza in Italia.
Il concetto del teatro quale elemento civico, modello introdotto dalla nuova concezione urbanistica dell’Ottocento, si realizza appieno nel Teatro Pergolesi di Jesi, già della Concordia. Il Teatro della Concordia venne inaugurato nel Carnevale del 1798 con esecuzione di tre operine: Lo spazzacamino principe e Le confusioni della somiglianza ossia Li due gobbi di Marcos António Portugal e La capricciosa corretta di Vicente Martín y Soler, con protagonista il soprano pesarese Anna Guidarini, madre di Gioachino Rossini. Una serata particolare, a causa delle vittorie napoleonica e del Trattato di Campoformio, con un pubblico di popolani e di giacobini “invasori”. Nel 1883 il Teatro venne intitolato a Giovan Battista Pergolesi nativo di Jesi. Precedentemente a Jesi, tra il 1728 ed il 1731 venne eretto il Teatro del Leone, una delle prime strutture “stabili” delle Marche. Per terminare la visita nella provincia di Ancona è d’obbligo una tappa al Teatro Gentile da Fabriano inaugurato nel 1884 con Aida di Verdi, terza struttura edificata nella città, dopo il Teatro dell’Aurora del 1692 e del Teatro Camurrio del 1852.


La provincia di Macerata è ricca di spazi teatrali e vanta il privilegio di avere una città, San Ginesio, dedicata al santo romano protettore degli attori e dei mimi. All’interno della regione, ci troviamo ora in quella che fu capitale del piccolo, ma importante Stato autonomo di Camerino, Signoria dei Da Varamo. Qui, dal 1728, si ergeva il teatro in legno ancora una volta intitolato al favoloso uccello sacro La Fenice. Il progetto per una nuova struttura in muratura, voluta dal Municipio e dall’aristocrazia, quindi nel sistema “misto”, risale al 1845 ed è di Vincenzo Ghinelli, architetto a cui si devono, tra gli altri, i teatri di Senigallia, Urbino, Cesena e Pesaro. Battezzato La Nuova Fenice, si apre con il Gentile da Varano del compositore Filippo Marchetti. Restaurato nel 1872, nel 1881 viene dedicato a Filippo Marchetti, con la messa in scena del suo dramma lirico più celebre il Ruy Blas, composto nel 1869. Da Camerino a Macerata, dove è operante uno dei teatri più rappresentativi della regione, dedicato nel 1884 al compositore Lauro Rossi. L’incarico di affidare il progetto per il nuovo teatro ad Antonio Galli detto il “Bibbiena” fu assegnato nel 1765 da quarantasei nobili maceratesi, che costituirono per l’impresa un condominio, volendo per la città una nuova struttura pubblica «…nell ’istesso sito ma in forma più amplia» della precedente, ovvero della cinquecentesca Sala de la Comedia. Il Bibbiena invia una pianta che ricalca il suo Teatro Pubblico, poi Comunale, di Bologna. Nella realizzazione viene mantenuta l’anomala tipologia a campana. Il teatro è un mirabile, quanto originale, esempio di prospetto urbano. Macerata è sede di un importante Festival, la cui sede principale per rappresentazioni liriche all’aperto è la suggestiva Arena Sferisterio, originalmente edificata per il gioco del pallone col bracciale. La progettazione dell’arena venne affidata nel 1823 al’architetto Ireneo Aleandri, a cui si deve, tra gli altri, il Teatro Nuovo di Spoleto, di recente dedicato alla memoria di Gian Carlo Menotti.


Proseguendo nel nostro percorso nel maceratese, ci troviamo in pieno classicismo al Teatro Comunale di Matelica, progettato da Giuseppe Piermarini nel 1805. A Giuseppe Lucatelli, pittore e architetto nativo del maceratese, si deve il progetto del Teatro dell’Aquila di Tolentino, successivamente intitolato al compositore concittadino Nicola Vaccaj. Lucatelli, allievo a Roma del pittore e storico dell’arte Anton Raphael Mengs, affascinato dal purismo francese, vi sperimenta con successo le sue doti d’architetto. Ultimati i lavori nel 1795, a causa della campagna d’Italia intrapresa da Napoleone Bonaparte, si dovette attendere per l’inaugurazione sino al 10 settembre 1797, giorno della ricorrenza di San Nicola da Tolentino. Nei primi anni del XVIII, trovandosi San Severino Marche priva di una sala di spettacolo a causa della demolizione del Palazzo Consolare, una delegazione di nobili costituirono un condominio per l’edificazione della nuova struttura in piazza Maggiore, affidandone nel 1740 la progettazione all’architetto fanense Domenico Bianconi, denominato Teatro de’ Condomini. Nel 1823 la struttura in legno risultò insicura per cui la Congregazione teatrale decise per un nuovo edificio in muratura, il Teatro Feronia, affidandone la realizzazione a Ireneo Aleandri, allievo presso l’Accademia di San Luca di Roma del neoclassico Raffaello Stern, giovane architetto locale che quello stesso anno aveva ricevuto l’incarico per l’edificazione dello Sferisterio di Macerata. Aleandri progetta una struttura elegante e slanciata verso l’alto, con pianta a ferro di cavallo, nella quale mostra per la prima volta nel soffitto le così dette unghiature bibianesche, che costituiranno in seguito una cifra distintiva del suo stile architettonico teatrale. Il sipario storico realizzato su bozzetto di Filippo Bigioli, è considerato un importante esempio di arte neoclassica. Terminati i lavori, il teatro venne inaugurato nel 1828 con Mosè in Egitto e Matilde di Shabran di Gioachino Rossini. Su una delle caratteristiche colline marchigiane, a cavallo tra la provincia di Ancona e di Macerata, a metà strada tra la dorsale appenninica e la costa adriatica, spicca lo storico centro di Montefano con il Teatro della Rondinella. La sala all’interno del Palazzo Comunale risale al 1802 e negli anni subì diversi interventi di manutenzione e ristrutturazione, fino a quello più radicale del 1887, su un’idea dell’architetto Luigi Daretti realizzata dall’ingegner Virgilio Tombolini, allora direttore tecnico al Gran Teatro la Fenice di Venezia. Chiuso per restauri, il teatro è stato riaperto nel 2004. A Recanati non potevamo che incontrare la nobile famiglia Leopardi, dove nel 1823 fu l’allora gonfaloniere Monaldo, padre del poeta Giacomo, a proporre l’erezione di un teatro tutto nuovo, in sostituzione del Teatro dei Nobili del 1719. La proposta fu accetta, ma subito iniziarono discussioni sul terreno su dove edificarlo, tanto che la città, per poter vantare il nuovo teatro dedicato al compositore concittadino Giuseppe Persiani, su disegno dell’architetto recanatese Tommaso Brandoni, dovette attendere il 1840. Per l’inaugurazione verrà rappresentata La Beatrice di Tenda di Vincenzo Bellini. Lasceremo il maceratese, solo dopo aver visitato nel comune di Penna San Giovanni, di circa mille abitanti, uno dei più piccoli teatri d’Italia: il Teatro Flora, vero gioiello architettonico edificato intorno al 1780, quasi interamente in legno, su indicazione dall’artista pennese Antonio Liuzzi, che ha conservato l’originaria decorazione barocca del pennese Antonio Liuzzi, con preziose pitture e a trompe l’oeil.


Nella provincia di Fermo e ancor prima nella sua più vasta collettività delle terre e dei castelli sotto la propria giurisdizione, ogni paese vantava la presenza di un teatro a dimostrazione di una consuetudine consolidata, per una popolazione che aveva recepito il melodramma quale parte integrante della propria formazione, sensibile alla cultura e alle novità dell’epoca. Molte delle sale teatrali della rinnovata provincia di Fermo e in particolare gli spazi presenti nei palazzi comunali dei piccoli centri, sono stati nel tempo demoliti. S’inizia dal teatro di Amandola, che percorre sentieri simili a quelli dell’intera regione. Qui il nuovo edificio viene inaugurato nel 1813 con il nome di Teatro dei Sigg. Condomini La Fenice, quindi più semplicemente La Fenice. Danneggiato dal terremoto del 2016/17, è in attesa di essere restituito al suo pubblico. Altro teatro storico nel territorio collinare del fermano è il Vincenzo Pagani di Monterrubbiano, inaugurato nel 1875, nell’area di un palazzo cinquecentesco detto il Palazzaccio della famiglia Pagani a cui appartiene il pittore Vincenzo. I restauri iniziati dal Comune nel 1984 ne hanno permesso la riapertura nel 1999. Il teatro è sede dell’Accademia di canto intitolata al celebre tenore recanatese Beniamino Gigli. Piccola perla del fermano è il Teatro dell’Iride di Petritoli, eretto nella seconda metà dell’Ottocento su progetto dell’ingegner Giuseppe Sabbatini di Montegiorgio, ispirato al Teatro della Fortuna di Fano che rappresentava, nelle Marche, l’esempio più innovativo della corrente purista, particolarmente sensibile al recupero filologico del repertorio classico.


L’inaugurazione è del 20 Maggio 1877. Dalla collina, alla costa adriatica con un altro piccolo, ma particolare teatro, il Comunale di Porto San Giorgio, sulla cui facciata troneggia la scritta del latinista francese Jean de Santeul: CASTIGAT RIDENDO MORES (-la satira- corregge i costumi deridendoli) . Inaugurato nel 1817 su disegno dell’architetto progettista Giuseppe Locatelli di Tolentino, venne intitolato a Vittorio Emanuele II nel 1860, in occasione del passaggio del re lungo la costa adriatica, avvenimento che ispirò lo scenografo Mariano Piervittori di Foligno per la pittura del sipario storico che, purtroppo, venne trafugato negli anni ’60. Dal 1992 il teatro ospita eventi di diverso genere e, con fierezza, esecuzioni del celebrato Corpo Bandistico Sangiorgese.
Brevemente, per il più recente Teatro Comunale di Campofilone, edificato negli anni 1928-1930 con una sottoscrizione pubblica di muratori e i braccianti che offrirono gratuitamente giornate di lavoro, altri sottoscrissero polizze di cento lire. Gravemente danneggiato, trasformato in ritrovo per sfollati, è stato recentemente restituito nella sua forma originaria grazie ad un attento restaurato. Con caratteristiche tutte proprie si presenta il Teatro Alaleona di Montegiorgio. Che Montegiorgio possa vantare un rilevante teatro storico non è frutto del caso, poiché l’inclinazione alla rappresentazione scenica è sempre stata una caratteristica di questa cittadinanza, testimoniata già dai secoli passati. E’ del 1869 l’iniziativa di affidare all’architetto locale Giuseppe Sabbatini di realizzare un progetto per il nuovo edificio, al cui estro si dovrà la particolare distinzione nell’assetto della sala a ferro di cavallo, con tre ordini di palchi ornati da cariatidi poste a rifinire i muri di divisione, con una sala dai rilucenti colori, restituiti dopo i recenti restauri. Il Teatro verrà chiamato inizialmente dell’Aquila ed inaugurato con la Maria di Rohan di Gaetano Donizetti. Ribattezzato nel 1914 Teatro Verdi, verrà dedicato alla memoria di Domenio Alaleona in data 8 settembre 1945 con un concerto di artisti marchigiani tra i più famosi, il tenore recanatese Beniamino Gigli e il basso di Ripatransone Luciano Neroni, direttore d’orchestra il maestro montegiorgese Mario Marcantoni. Montegiorgio manterrà, così, vivo il ricordo di Domenico Alaleona, uno dei suoi cittadini più illustri che fu compositore, scrittore, docente e fondatore della Società Nazionale di Musica Moderna, tra quella nutrita schiera di compositori che cercarono di rinnovare il linguaggio della musica all’inizio del XX secolo. Sebbene non abbia aderito al movimento futurista, tuttavia molti dei suoi atteggiamenti ne sono riconducibili, tanto da essere considerato l’unico rappresentate di questa corrente.


Centro politico e culturale del territorio nel corso dei secoli è Fermo, con il suo Teatro dell’Aquila, autentico vanto della città, tra i più significativi d’Italia per interesse storico e dimensioni. La città vantava un primo teatro “stabile” dal XVI secolo, chiamato Sala delle Commedie, oggi Sala del Mappamondo. Nel 1687 venne deciso di trasferire la sede per lo spettacolo nell’allora Gran Sala del Suffitto, oggi Sala dei Ritratti, denominata dal 1690 Teatro di Fermo oppure Sala del Teatro. Nel 1746, nello stesso luogo, venne realizzata in legno una prima struttura che, dai disegni a schizzo conservati, si presume fosse dotata d una platea di 124 posti e di tre ordini di palchi, di cui il primo diviso in “casini” e gli altri due a loggia, che prese il nome di Nuovo Teatro dell’Aquila, dall’attigua Sala dell’Aquila, quella dell’antico Concilium generale. Il 18 febbraio 1779 Il Consiglio di Cernita, essendo la sala stata danneggiata nel 1774 da un incendio sia pure di piccola entità, decise di non ricostruire il teatro nella medesima sede, bensì di «trasportarlo in sito meno pericoloso». Definitivamente accantonato il progetto Cordella-Fontana di ristrutturazione del primo piano del Palazzo degli Studi per un erigendo teatro, venne approvata l’idea di Augustoni e Paglialunga per una struttura totalmente nuova, così come citato nel verbale del Consiglio «di fianco alla strada gironale, e precisamente il semipiano alla parte di mezzo giorno, passato il Palazzo Apostolico del Governo». Il 21 agosto 1780 il terreno dove edificare il nuovo teatro venne ceduto da Monsignor Andrea dei conti Minucci, Arcivescovo e Principe di Fermo. Ritenuto non adeguato alle aspettative l’ulteriore progetto Augustoni-Paglialunga, venne affidato il nuovo incarico all’architetto Cosimo Morelli, molto presente nello Stato Pontificio a cui si doveva, sia pure di minori dimensioni, un analogo disegno per il Teatro dei Cavalieri Associati di Imola. Il 26 settembre 1790, a circa dieci anni dall’apertura del cantiere e a lavori non ultimati, venne programmata una serata «per eseguire un saggio del nostro Teatro dell’Aquila per ciò che riguarda il meccanismo e la pittura giunta al sospirato compimento e per provare l’illuminazione», con l’esecuzione dell’opera-oratorio La morte di Abele di Giuseppe Giordani detto il Giordaniello. Nell’agosto dell’anno successivo il Teatro dell’Aquila venne ufficialmente inaugurato con il dramma sacro La distruzione di Gerusalemme, sempre del Giordani, maestro di cappella della Cattedrale di Fermo. La vera e propria attività del Teatro dell’Aquila iniziò solo nel 1796 con la stagione di Carnevale, ma già l’anno successivo vennero affidate all’architetto Giuseppe Lucatelli di Magliano le prime modifiche, che riguardarono principalmente il palcoscenico, eliminando la scena a tre bocche, sostituita da un più canonico boccascena unico. Nella notte tra il 23 e 24 gennaio del 1826 un incendio danneggiò l’edificio compromettendone in parte la stabilità. Per riparare i danni tra il 1826 e il 1830 furono effettuati sostanziali lavori di restauro e rinnovamento così che la struttura assunse al suo interno le caratteristiche di stile ottocentesco che ancor oggi possiamo ammirare, con 124 palchi su cinque ordini e loggione, su progetto dall’architetto Pietro Ghinelli. Del 1828 è la realizzazione della pittura a tempera del volto, ad opera di Luigi Cochetti, autore anche del sipario storico raffigurante Armonia che consegna la cetra al genio fermano. In quegli anni fu acquistato a Parigi il lampadario a 56 bracci in ferro dorato e foglie lignee, alimentato originariamente a carburo; venne, inoltre, effettuata la commissione per alcuni fondali al celebre scenografo-pittore Alessandro Sanquirico. I sei scenari originali raffigurano una piazza con palazzo greco-romano, il luogo magnifico, bosco, interno rustico, e due interni. Gli scenari sono tornati alla luce nel corso dei più recenti lavori di restauro del teatro, insieme a 16 scenografie ottocentesche che ne rappresentavano la così detta “dote”, cioè quelle immagini a tema fisso: carcere, sala regia, sala civile, paesaggio di campagna e altre, adattabili a ogni esigenza del libretto. Le cronache del XIX secolo descrivono le stagioni liriche del Teatro dell’Aquila come vero e proprio vanto per la città, con un pubblico particolarmente esigente. In queste si può leggere che nel 1861, durante la Stagione lirica invernale, si manifestò da parte del pubblico un forte disappunto per la scarsa qualità degli artisti del Don Pasquale di Donizetti e Florina di Carlo Pedrotti, tale da far sospendere gli spettacoli e chiudere il teatro. Di tutto rilievo, eccezioni a parte, era la qualità dei cartelloni e spesso vi venivano rappresentate opere a pochi mesi dalla loro esecuzione in capitali quali Parigi, Londra e San Pietroburgo, con i più celebri artisti. Puccini fu presente il 17 agosto 1886 alla rappresentazione della sua giovanile prima opera Le Villi e successivamente nell’agosto 1896 tornò per La Bohème.

Nelle sale d’ingresso del teatro sono incastonati alle pareti diversi medaglioni raffiguranti artisti celebri che calcarono la scena del Teatro dell’Aquila nelle diverse epoche. Esempio mirabile, insieme ad altri teatri delle Marche, dell’importanza della lirica in provincia e non di provincia, come sembra essere equivocato in anni più recenti. Il teatro, sin dalla sua costruzione, manca di una facciata. Il progetto del 1865 su disegno dell’architetto fermano Gian Battista Carducci, non venne mai realizzato. A metà degli anni ’80 del Novecento, i nuovi lavori di manutenzione furono affidati all’ingegnere fermano Giovanni Monelli. Nel corso di questi e a causa di alcuni interventi all’interno con utilizzo improprio di cemento armato, che avrebbero nuociuto all’acustica della sala, i lavori furono momentaneamente sospesi dall’allora sindaco Francesco De Minicis , trovando successivamente la migliore soluzione per rimediare al’inconveniente. Un’occasione perduta, nel corso di questo recente intervento di restauro del Teatro dell’Aquila dal 1984 al 1997, è stata la mancata attuazione delle proposte dell’architetto di fama internazionale Gae Aulenti, che interessatasi alla città di Fermo venne rapita dal fascino del Teatro dell’Aquila, offrendo un progetto di straordinario valore che, se da un lato richiamava al prospetto ottocentesco del Carducci per la facciata principale, proponeva per la sala un intervento che aveva lo scopo di rimettere in valore tutto il percorso storico, stilistico e architettonico del teatro, operazione innovativa nel rispetto di tutti i passati interventi, con la valorizzazione e acquisizione di nuovi spazi. Punto essenziale del progetto era la creazione di una struttura da realizzare in acciaio e cristallo, in tutto e per tutto all’avanguardia, ma allo stesso tempo non invasiva, per la valorizzazione della parte retrostante il teatro, una volta esterna rispetto al centro storico, già deturpata negli anni ‘60 da costruzioni improprie. Qui, erano previsti passaggi tramite scale e ascensori a vista per un nuovo, agevole e mai visto nella sua originalità, accesso al teatro, che avrebbe fornito un moderno motivo d’interesse e di caratterizzazione urbana, della storica città. Un progetto di grande valore, che a causa della poca lungimiranza, divergenze politiche e diffidenza, non venne recepito, se non seguendo alcuni suggerimenti, pur fondamentali, per il risultato finale del restauro. La riapertura del Teatro dell’Aquila avvenne il giorno 8 marzo del 1997.


Restando in tema di grandi strutture siamo nel capoluogo del Piceno, ad Ascoli con il Ventidio Basso, che rappresenta, semmai ce ne fosse bisogno, un ulteriore esempio della ricchezza nelle Marche di teatri storici di valore inestimabile. Questa città è l’unica a possedere ben due edifici per lo spettacolo dal vivo di antico lustro, oltre al Teatro Ventidio Basso, il Teatro dei Filarmonici. Non per nulla il maestro Giancarlo Menotti, prima di eleggere Spoleto per il Festival dei Due Mondi, aveva proposto Ascoli quale sede della manifestazione, ma il proposito non trovò accoglimento adeguato. La storia di un edificio per lo spettacolo in Ascoli, s’identifica con la continuità della tradizione teatrale che caratterizza tutta la regione dal XV secolo ai nostri giorni. La prima struttura della città risalente al 1579 era realizzata interamente in legno e si trovava nel palazzo Anzianale, nel salone anticamente del Consiglio generale; la sua gloriosa attività si concluse nel 1839. Già nel 1827 si era ipotizzata la realizzazione di un nuovo grande edificio comunale da edificarsi sul Trivio, ovvero in prossimità della Chiesa di San Francesco non lontano della rinomata Piazza del Popolo, dove erano vari edifici di epoca rinascimentale, mentre l’Accademia dei Filodrammatici aveva in animo di costruire in autonomia un proprio teatro. Si decise di affidarne la progettazione ad Ireneo Aleandri di Sanseverino Marche, uno dei maggiori architetti del tempo, ma il progetto fu realizzato solo tra il 1840 ed il 1846, perché l’architetto aveva rinunciato per dissapori con la committenza. Gli subentrarono gli ascolani Marco Massimi e Gabriele Gabrielli con l’architetto fermano Giambattista Carducci, i quali apportarono numerose modifiche e innovazioni alle linee originali del disegno di Aleandri. Il teatro si compose con sala ovale e quattro ordini di palchi, suddivisi in 23 palchetti ciascuno ed il loggione a galleria. La facciata neoclassica, in travertino, presenta un colonnato centrale composto da sei colonne ioniche in pietra, aggiunte da Gabriele Gabrielli nel 1851. Inaugurato nel novembre 1846 con Ernani di Giuseppe Verdi e I puritani di Vincenzo Bellini, fu intitolato al generale ascolano Publio Ventidio Basso, vissuto nel I secolo a.C. che riuscì a salire i più alti gradi della gerarchia militare romana. Il teatro venne chiuso nel 1980 a causa dei danni del tempo, lesioni riportate nel terremoto del 1972 e altri deterioramenti, ma da subito ci si accorse che le condizioni della struttura portante, soprattutto il tetto e la sottostante cupola, avrebbero necessitato di ben altro impegno. La situazione sembrò ristagnare sino al 1993, quando l’allora sindaco Nazzareno Cappelli si convinse che per restituire il Massimo ascolano si dovevano accelerare i tempi con un provvedimento straordinario, così che fu fissata la data di ottobre 1994 per la riconsegna del teatro. Nell’agosto 1994, in prossimità della festa di Sant’Emidio, venne in Ascoli da Praga Josef Svoboda, celebre scenografo, innovatore dei mezzi dei mezzi di palcoscenico attraverso l’impiego di esperienze creative, che in un sopralluogo indicò soluzioni sceno-tecniche, fondamentali per la dotazione del teatro. In meno di un anno, accelerati i passaggi amministrativi e con la collaborazione di tutti, il 15 ottobre 1994, preceduto dall’esecuzione dell’Inno di Mameli con il pubblico in piedi ed emozionato, il teatro venne riaperto con una indimenticabile nuova produzione de La traviata di Verdi, con Giusy Devinu, Giuseppe Sabbatini, Roberto Servile, primo ballerino Raffaele Paganini, scene di Carlo Centolavigna collaboratore di Franco Zeffirelli, costumi di Anna Biagiotti confezionati nella Sartoria Tirelli. Il direttore Giuliano Carella ringraziò per essere stato prescelto, perché mai aveva avvertito una così forte condivisione di un’intera cittadinanza, partecipe con emozione a un evento culturale. Il Ventidio ritornò, in quegli anni, per la qualità delle produzioni, ad essere al centro dell’attenzione nazionale ed estera. Il Teatro dei Filarmonici, già dei Filodrammatici, venne costruito tra il 1829 ed il 1831 nelle vicinanze della sede dell’Accademia dei Filodrammatici di Ascoli. A causa dello scioglimento dell’Accademia nel 1860, il teatro fu gestito dall’Amministrazione comunale e nel 1897 acquistato dalla Società Filarmonica Ascolana. Passato di proprietà, la sala fu utilizzata per proiezioni cinematografiche; infine nel 1994 ceduto al Comune che provvide a far eseguire un accurato restauro. Il teatro si presenta in forma di ferro di cavallo, con platea, quattro ordini di palchi e loggione ed è stato riaperto il 20 maggio 2018.
Lungo la consolare Salaria sino a Castel di Lama, dove nell’affascinate Borgo Storico Seghetti Panichi sono in corso importanti lavori di ripristino, che prevedono nel giardino storico il ripristino di un teatro di verzura e iniziative legate alla ripresa della vita culturale e musicale del territorio. Si gira alla rotonda in direzione Offida, dove è ubicato un teatro dal nome affascinante: Teatro Serpente Aureo, dalla tradizione che vuole che in età preromana vi fosse un tempio dedicato al mitico Serpente d’Oro: “Ophite”, raffigurato sul sipario storico del Teatro dipinto da Giovanni Battista Magini. E’ documentato che prima del 1768 esistesse in una sala del Palazzo comunale un palcoscenico a «guisa di teatro», costruito «senza distinzione di ceto». Questo non piacque all’aristocrazia tanto che «per riparare», così è riportato in un verbale datato 8 luglio 1768, fu accolta la proposta per realizzare una struttura di legno con palcoscenico e 29 palchetti in giro di tre ordini. Il lavoro venne completato nel 1771, ma ben presto si rivelò troppo piccolo, poiché molte delle famiglie nobili erano rimaste senza palco. Il 21 ottobre 1801 venne affidato a Paolo Cipolletti l’incarico di rinnovarlo su disegno di Pietro Maggi, architetto ticinese che si stabilì nelle Marche al seguito del padre Carlo, molto attivo nella Bassa Marca, specialista nell’inserire le sue sale per lo spettacolo negli antichi palazzi comunali. Il progetto per Offida consisteva in un nuovo edificio dal costo di 900 scudi, ma nonostante la spesa fosse stata approvata nella seduta consiliare del 15 gennaio 1802, non si trovò alcuna impresa disposta ad eseguire il lavoro per una somma giudicata esigua. Nel frattempo Pietro Maggi era tornato ad Offida e aveva proposto un secondo progetto che prevedeva soluzioni più economiche. Pietro Maggi essendo venuto a mancare nel 1816, non poté assistere alla costruzione del nuovo teatro, la cui realizzazione ebbe inizio solo nel 1820, dopo che i signori del luogo convinsero un intraprendente imprenditore a realizzare il lavoro nei pressi del cortile a “tramontana” del Palazzo comunale. L’attuale Teatro risale al 1862, ampliato e decorato dall’artista offidano Alcide Allevi, ricavato demolendo parte dell’antica Casa comunale, soprannominato “La Bomboniera”. Come molti altri teatri nella Marche e soprattutto nel territorio del Piceno, nel periodo di Carnevale la sala viene utilizzata per i veglionissimi.Ancora l’architetto Pietro Maggi nel 1790, per lo studio di un progetto di teatro da realizzarsi all’interno del trecentesco Palazzo del Podestà di Ripatransone per la cui apertura, sebbene incompleto, si dovrà attendere sino al 1824: il Teatro del Leone. In una seconda fase, venne assegnato l’incarico all’architetto Francesco Bassotti, che ne seguì i lavori di completamento con riapertura nel 1843 con Lucia di Lammermoor di Gaetano Donizetti. Nel 1894 il teatro venne intitolato al poeta risorgimentale, lo “spigolatore” ripano Luigi Mercantini.


Terminato il nostro giro per i teatri storici delle Marche in gran parte restaurati e restituiti alla cittadinanza, si apre ora un’altra fase, tutt’ora parzialmente irrisolta, quella della gestione e della promozione, che fa i conti con i problemi di abbondanza di edifici preposti allo spettacolo dal vivo e quindi di necessaria razionalizzazione dell’offerta. Eppure, mai come in questo lungo periodo di pandemia, si è sentito così indispensabile l’andare a teatro, non solo come esigenza culturale di approfondimento, ma soprattutto come ritrovo di luogo di aggregazione, di scambio intellettuale e distacco mentale dall’impegnativo vivere quotidiano. Questo straordinario unicum dei teatri storici delle Marche nel panorama europeo rappresenta, inoltre, una potenziale offerta turistica, culturalmente senza uguali. Perché oggi, così come al momento della loro costruzione, devono tornare a rispondere a un processo di socializzazione e di rilancio occupazionale della comunità.


Vincenzo Grisostomi Travaglini

Vincenzo Grisostomi Travaglini (Photo: Giovanni Pirandello)

“Festeggiar cantando”, un articolo del Maestro Vincenzo Grisostomi Travaglini in “L’Opera International Magazine”, Febbraio 2021″Il rapporto tra la musica e il testo, alle radici nel melodramma nelle Corti italiane”

Il festeggiar cantando, è uno scherzo in parole e musica, quando nel fluire del tempo ci si raccoglie, nel dilettarsi della narrazione. Quando più si ha bisogno di distrazione e citando William Shakespeare, perché: «tutto il mondo è palcoscenico». Il gioco di parole del titolo è presto svelato, il Recitar cantando è la locuzione che dà il nome a quel nuovo stile di canto con il quale, all’inizio del Seicento, si vuole individuare la nascita del melodramma ed il festeggiare richiama l’eleganza delle corti italiane, da dove nei secoli si diffonderà il gusto per una vita raffinata, nel far rinascere la cultura della vita sociale. La musica, tuttavia, non si connota solo in senso individuale e intimistico, ma riveste un importante ruolo pubblico; questa finalità si riflette ugualmente nella produzione letteraria. Di conseguenza, con autorità si propone alla nostra attenzione un terzo argomento. Dal recitar cantando e festeggiando, il rapporto tra la musica e il testo.Basti pensare alla mousiché greca, poesia cantata, accompagnata dalla sola lira. Nel corso dei secoli il tema musicale si andrà a sviluppare anche nel poema allegorico il cui massimo esponente sarà proprio uno dei Padri della lingua italiana, ovvero Dante Alighieri, la cui citazione è d’obbligo nel 750° anniversario dalla nascita. La Commedia dantesca è poema allegorico per eccellenza, che non si propone soltanto come narrazione fantastica o come metafora dell’itinerarium mentis in Deum, ma anche come compendio dello scibile umano. Nel poema del sommo Poeta suggestioni sonore e visive hanno sempre il compito di rafforzare l’efficacia narrativa. D’altronde la musica e la letteratura sin dagli albori dell’epoca classica si sono congiunte in un unico anello divenendo, così, uno dei temi d’antonomasia nell’ambito letterario. Scrive il poeta e critico letterario Alessandro Cabianca: «Se per noi, oggi, la poesia si identifica con la parola scritta, in antico si identificava con un particolare modo d’intonazione del racconto, che differiva dal semplice parlare per il ritmo, per le pause e, soprattutto, per l’accompagnamento di strumenti musicali (…)».Le prime notizie sicure relative alla conoscenza musicale di Dante le troviamo in Boccaccio: «Sommamente si dilettò in suoni e canti nella sua giovinezza e a ciascuno che a quei tempi era ottimo cantore e sonatore (…)» e ancora il Filelfo scriverà: «Canebat suavissime, vocem habebat apertissimam, organo citeramque callebat pulcherrime, ac personabat, quibus solebat suam senectutem in solitudine delectare». Nella vita di Dante dettata tra il 1840/44 da Melchiorre Missirini si può leggere: «Questo suo delicato amore per la musica, nato si può dire con lui, lo recò quindi a spargere di musica la Divina Commedia (…)». Nella Commedia il suono assume un ruolo centrale, ad esempio nel Canto secondo del Purgatorio, in cui il Poeta incontra l’amico, musico e finissimo cantore Casella e gli chiede d’intonare per lui l’incipit di una canzone dello stesso Dante, commentata nel III Trattato del Convivio:«Amor che nella mente mi ragionaCominciò allor sì dolcemente Che la dolcezza ancor dentro mi suona».

Il nostro percorso ci ha portato, è vero, lontano, ma non possiamo che prendere atto della vivacità di un mondo di cui dobbiamo mantenere coscienza. Un salto nel tempo e nel Cinquecento, in pieno Umanesimo, si intendeva, tra l’altro, propugnare la rinascita della tragedia greca, ritenendo che queste non fossero recitate, bensì cantate interamente, sia dai singoli interpreti, sia dal coro.Nel Rinascimento la musica profana non solo ebbe piena dignità d’arte, ma acquistò un significato spirituale; fu soprattutto musica di corte, legata ad una nuova aristocrazia ricca e colta. In questo periodo si sviluppa la figura del mecenate, ovvero di colui che si circonda di artisti e li mantiene in cambio della loro presenza e dei loro servigi. Per tutto il Rinascimento le corti italiane furono il centro della vita musicale europea e il punto d’incontro per tutti i musicisti, che allietavano con le loro composizioni, tutti i momenti salienti: feste banchetti, ricevimenti. Lo sviluppo del concetto di festa in musica che è spettacolo, che abbiamo giocosamente nomato il Festeggiar Cantando, prende adesso forma, sempre con maggiore consapevolezza, inevitabilmente nello stretto connubio tra poesia e l’arte dei suoni, ovvero, nel rapporto fra la letteratura e musica. In questo periodo vi è un notevole sviluppo della musica vocale, così come l’evoluzione di certi strumenti precedentemente utilizzati nel Medioevo. E’ proprio in Italia, in questo particolare contesto storico culturale, che nasce il primo teatro moderno.Il teatro italiano -cito Silvio d’Amico- è stato il:«Primo in ordine di tempo fra tutti i moderni teatri d’Europa influì sulle sorti di tutti gli altri, dai quali essi appresero:1°, la tradizione classica e in genere lo spirito del Rinascimento;2°, l’arte dell’attore;3°, la scenografia moderna;4°, infine, l’architettura del testo moderno».La musica vocale e strumentale era presente nelle rappresentazioni del teatro rinascimentale sotto l’aspetto di quelle che noi indichiamo con il termine musiche di scena. Composizioni occasionali in forma di madrigali e con funzione di prologhi ed intermezzi, sono ricordate nelle cronache sull’ Orfeo di Poliziano ed altri lavori teatrali. È stata conservata la musica composta dal ferrarese Alfonso della Viola per la favola pastorale Il sacrificio (1554) di Agostino Beccari, mentre è andata perduta la musica composta da Claudio Merulo per la Tragedia (1574) di Corrado Frangipani, spettacolo fastoso che la Repubblica di Venezia allestì per festeggiare degnamente Enrico III di Francia, in viaggio dalla Polonia alla volta di Parigi.

Ecco che i diversi elementi vengono a ricongiunsi, il concetto di festività in quello che verrà definito da qui a poco il recitar cantando. La dimestichezza dei musicisti con gli eventi del teatro rinascimentale accese lo stimolo ad intervenire con maggior peso nell’invenzione di nuovi modi rappresentativi. L’impegno di Andrea Gabrieli nel mettere in musica i cori dell’ Edipo Tiranno di Sofocle, tradotto in versi italiani da Orsatto Giustinian e rappresentato all’inaugurazione del Teatro Olimpico di Vicenza nel 1585, le reinvenzioni madrigalistiche della commedia dell’arte compiute in alcune commedie armoniche di Orazio Vecchi (L’Amfiparnaso) e di Adriano Banchieri (La pazzia senile e La prudenza – o Saviezza – giovanile). Un breve inciso, certamente questa genere sarà alla radice, ad esempio, nell’arte di un compositore quale Giovanni Battista Lulli, cognome poi francesizzato alla corte di Luigi XIV in Lully, da cui si svilupperà un genere ben preciso che caratterizzerà uno stile musicale che, nel suo evolversi, criticamente, porterà nel lontano Settecento a una svolta fondamentale per la storia del teatro in musica. La civiltà rinascimentale era aperta a nuove forme di teatro e di spettacolo, era ansiosa di sostituire l’esausta tradizione del teatro devozionale e di procedere al di là dei componimenti teatrali di derivazione classica recentemente scoperti. Tra la commedia e la tragedia si era insinuato con successo il nuovo genere teatrale, ovvero la favola pastorale, idilli scenici nei quali si muovevano personaggi mitologici e pastori di maniera. Il modello era stato la Fabula di Orfeo scritta da Angelo Poliziano. Il mito di Orfeo, Orfeo e Euridice, che resta a tutt’oggi un punto fondamentale di riferimento per letteratura e musica.Il Rinascimento è un momento particolarmente florido per il canto, è di questo periodo la nascita del madrigale, brano polifonico piuttosto complesso per quanto riguarda l’organizzazione delle voci. Il madrigale nasce con lo scopo di descrivere attraverso la musica ciò che il testo contiene. Infatti i madrigalismi sono una specie di traduzione in musica del contenuto del testo; per esempio, se il testo contiene la parola cielo, la musica sale verso l’acuto, così come se il testo contiene la parola cuore la musica presenta una pulsazione che fa ricordare l’organo cardiaco. E’ una pratica che caratterizzerà, nei secoli successivi, la musica di molti compositori, ad esempio, da Mozart a Giuseppe Verdi.Tra i compositori italiani molto apprezzati nella produzione madrigalistica vanno ricordati Luca Marenzio (1533 – 1599) e Claudio Monteverdi (1567 – 1643). Aspetti tipici della scrittura musicale polifonica iniziarono però, verso la fine del Cinquecento, ad essere messi in discussione, ovvero l’intreccio polifonico di più voci autonome che rendeva difficoltoso comprendere il testo che veniva cantato.

Nella musica polifonica, infatti, si rilevava la difficoltà di comunicare le emozioni o, come venivano chiamate allora, gli affetti, giacché l’affetto, essendo legato alla sfera individuale, personale, difficilmente poteva essere veicolato da un intreccio di voci distinte, appartenenti a un gruppo composto da persone diverse. L’interiorità di ogni individuo ha infatti un suo specifico affetto, un suo proprio modo di vivere quell’emozione. Di questi due problemi si dibatteva negli ultimi decenni del Cinquecento a Firenze, in casa del Conte Giovanni Bardi, dove si ritrovarono vari intellettuali e musicisti dell’epoca in quella che fu definita La Camerata dei Bardi o Fiorentina. Tra di essi vi era anche Vincenzo Galilei (c.1520 – 1591), padre dello scienziato Galileo Galilei e del liutista Michelagnolo. La Camerata era formata da gruppo di nobili che si incontravano per discutere con passione ed impegno di musica, letteratura, scienza ed arti, nota per aver elaborato gli stilemi che avrebbero portato alla nascita del melodramma, o meglio ancora di codificare quel recitar cantando da cui l’occasione di questo nostro “incontro”. A palazzo Bardi in via de’ Benci a Firenze si tenne la prima assise della Camerata di cui si ha notizia il 14 gennaio del 1573, durante le riunioni indagavano il modo di ricreare la musica greca che, a loro opinione, era perfetta e più espressiva di quella della loro epoca. I musicisti Vincenzo Galilei, Jacopo Peri, Giulio Caccini, Emilio de’ Cavalieri; il poeta Ottaviano Rinuccini; i conti gentiluomini: Giovanni Bardi, Jacopo Corsi, Piero Strozzi; l’insigne studioso di musica della Grecia antica Gerolamo Mei ed altri, si trovarono concordi con l’intuizione di come entrambi gli aspetti problematici si sarebbero risolti passando dalla Polifonia alla Monodia accompagnata, ovvero a un tipo di canto affidato a una voce singola sostenuta da un accompagnamento. Le loro riflessioni accoglievano tra l’altro quei fermenti che già da tempo si ravvisavano nella musica. Lo sviluppo della tematica portò, in campo musicale, alla elaborazione di uno stile recitativo in grado di cadenzare la parlata corrente ed il canto. Inizialmente questo stile fu applicato a semplici monodie o intermedi per poi essere applicato a forme compositive più articolate. Il conte Bardi e i suoi amici, forse, non lo sapevano, ma stavano edificando il futuro: teatro in musica. Da tutte queste riflessioni e da tutti questi stimoli nasce l’idea del recitar cantando, ovvero di un dramma in cui, secondo il modello dell’antico teatro greco, i personaggi anziché recitare le loro battute, le cantano. Un dramma, quindi, tutto in musica: il melodramma.Le tesi della Camerata fiorentina furono esposte nel 1581 da Vincenzo Galilei nel Dialogo della musica antica et della moderna. Sempre Vincenzo Galilei, si cimentò in pratica nella realizzazione musicale di quanto esposto in teoria nel suo Dialogo e compose Il lamento del conte Ugolino dall’ Inferno di Dante e inoltre alcune lamentazioni del profeta Geremia per la Settimana Santa, per voce con accompagnamento di viola, che purtroppo sono andati perduti. In tal modo, visto che si trattava di canto a una voce sola, le parole diventavano comprensibili. Soprattutto era così possibile veicolare le emozioni, gli affetti suscitati di volta in volta dal testo poetico che si stava intonando. La linea vocale tende ora, volutamente, a essere poco melodica, una via di mezzo tra il recitare e il cantare: l’impressione è quella di una recitazione parlata e musicale, con delicata espressività. Affinché la voce solista sia valorizzata al massimo è necessario che l’accompagnamento sia leggero e nello stesso tempo in grado di sostenere al meglio tutti i cambi di emozione che il cantante esprime nel suo recitar cantando e di assecondarli. Viene per questo motivo inventato, parallelamente alla monodia accompagnata e dunque al melodramma, un nuovo modo di accompagnare, ovvero il basso continuo. Il basso continuo, strettamente associato con tutti i generi di musica del periodo barocco, è il sostegno armonico-strumentale che accompagna le parti superiori della composizione dal principio alla fine. Il fortunato madrigale comincia a decadere, evolvendosi in forme più originali. È un madrigale che ha perso, testualmente, la composta eleganza della tradizione petrarchesca, rivolgendosi ad autori che, in quanto maestri della sonorità della parola, dei giochi verbali e della sensualità delle immagini, meglio si confaceva allo spirito dell’evoluto genere, per l’appunto, madrigalesco. Oltre al mutato madrigale, nasce un genere ibrido: la Cantata.

Potremmo definirla come una forma musicale vocale, formata da una sequenza di brani come arie, recitativi, duetti, cori e brani strumentali. In realtà, è così forte la contaminazione di generi nel ‘600, che attribuire definizioni più rigidamente tassonomiche, ovvero una forzata disciplina della classificazione, sarebbe rischioso quanto limitativo.La raccolta fondamentale in questo senso fu quella di Lodovico Grossi da Viadana che ebbe, probabilmente, ritengo sicuramente, anche un testo basato sulla melodia della cosiddetta Aria di Fiorenza o Ballo del Granduca, un brano composto a fine XVI secolo da Emilio de’ Cavalieri che fu un vero tormentone dell’epoca, se ne conoscono oltre 120 versioni coeve o successive. E’ con Lodovico Grossi da Viadana che per la prima volta troviamo indicata la voce Concerto. La parola assume la strana forma di termine chiave di cui però non si è ben capaci di delinearne i tratti semantici, finendo per essere utilizzata genericamente per indicare tutti i nuovi tipi di sonorità di quegli anni. Il termine si potrebbe far risalire alla sua origine latina (concertare nel senso di combattere insieme) e nell’uso quotidiano la si usa per definire l’atto di riunire più componenti sonore diverse, vocali e strumentali, o solistiche e corali, o organizzate sulla base di stili compositivi differenziati, o cori contrapposti.Il recitar cantando, che segna nel 1600 la nascita dello stile melodrammatico, ha quindi il suo riferimento genetico nel Madrigale cinquecentesco italiano, di cui uno degli ultimi rappresentanti è Gesualdo da Venosa, un genere che, anticipando di alcuni secoli il Lied, rappresenta la più genuina espressione del connubio tra il verso e la melodia in cui, quest’ultima, ricerca una nuova tonalità espressiva.Le varie Euridice di Peri e Caccini, affrontano e risolvono per l’epoca il rapporto tra parola e suono, forma di linguaggio misto, che è teso ad esprimere con mirabile comunicativa sentimenti e passioni, prassi questa che resterà quale punto di riferimento nei secoli. Basti pensare, ad esempio, che tra fine Ottocento, inizio Novecento sarà proprio questa prassi che ispirerà a Giacomo Puccini quel canto di conversazione che costituisce l’esito più alto nel nostro tempo della formula, vecchia ormai di quattro secoli, del recitar cantando, sulla quale poggia gran parte del teatro musicale sino a tutto il primo Novecento. Il recitar cantando, con il festeggiar cantando: feste, musica, eventi grandiosi, trovano il loro apice in occasione di alleanze matrimoniali che allietavano Firenze e le altri capitali dei così detti regni o stati italiani.

Una di queste occasioni a Firenze furono i grandiosi festeggiamenti in occasione del matrimonio di Cristina di Lorena, nipote favorita di Caterina, prima della famiglia Medici a divenire regina di Francia, con il granduca di Toscana Ferdinando I, che nel frattempo aveva rinunciato alla dignità cardinalizia.I festeggiamenti nuziali durarono ben quindici giorni: ebbero inizio il 1° e continuarono fino al 15 maggio. Cristina sposò Ferdinando de’ Medici nel 1586 per procura, ma si recò a Firenze solo nel 1589, quando vennero allestiti grandiosi apparati decorativi in tutta la città. Accanto al tradizionale gioco del “calcio” in piazza Santa Croce, a tornei e combattimenti di animali, essi comprendevano tre commedie, di cui La Pellegrina di Girolamo Bargagli, con sei Intermedi, rappresentata nel teatro posto al primo piano degli Uffizi. Gli Intermedi si presentavano come “spettacoli totali” o “globali”, dal momento che coinvolgevano, intorno ad argomenti mitologici, pastorali o allegorici, musiche vocali e strumentali, pantomine e balli, che impiegavano fastose messinscene, variate mediante l’impiego di macchine teatrali. All’Intermedio o meglio Intermedi fiorentini va riservata una particolare attenzione. Benché venissero interpolati come riempitivo o diversivo tra gli atti o le scene di commedie recitate in occasione di solenni cerimonie di corte, erano di fatto forme autonome, così come lo saranno i settecenteschi Intermezzi buffi. Gli intermedi del 1589 sono considerati il più diretto antecedente dell’opera in musica, anche perché ad essi collaborarono alcuni dei musicisti della Camerata Bardi. Uno dei motivi dell’interesse storico che rivestono questi intermedi è l’adozione, in molti brani, dello stile concertante. Gli esecutori erano spesso cantori professionisti che non si limitavano ad eseguire le melodie scritte, ma le arricchivano di improvvisazioni secondo la tecnica detta della “diminuzione” che consisteva nel seguire l’andamento melodico riempiendo però le note, specie le più lunghe, con fioriture di note più rapide, procedimento che veniva detto anche “cantare di gorgia”. Tra gli interpreti dei sei Intermedi a Firenze troviamo Vittoria Archillei, protagonista del primo degli Intermedi eseguito nel Regio Salon di Palazzo, dedicato al concetto neopitagorico dell’Armonia delle sfere, con musica del marito della cantante, il compositore Antonio Achilleri. Vittoria Archillei era posta su una nuvola e sullo sfondo di Roma. Interessante la descrizione dell’ambientazione del terzo Intermedio con musica di Luca Marenzio, dove si rappresentò la lotta di Apollo con Plutone e dove lo scenografo Bernardo Buontalenti rappresentò il mitico mostro: «(…) con l’aliacce distese, pieno di rilucenti specchi, e d’uno strano colore verde e nero e con una smisurata boccaccia aperta, con tre ordini di gran denti, con lingua fuori infuocata, fischiando e fuoco e tosco vomendo».Lo scopo di riportare in auge la tragedia greca si concretizzò alcuni anni dopo, con la Dafne e con il dramma mitologico-pastorale l’Euridice di Jacopo Peri su libretto di Ottavio Rinuncini. L’occasione per l’ Euridice del Peri furono le nozze di Maria de’ Medici, figlia del granduca di Toscana Francesco I, con Enrico IV di Francia, celebrate nel Duomo di Firenze il 5 ottobre del 1600.

Il melodramma musicato dal Peri fu allestito per la prima volta a Palazzo Pitti, il successivo 6 ottobre. Durante le grandi feste nuziali fiorentine del 1600 fu rappresentata anche la prima opera di Giulio Caccini Il rapimento di Cefalo. Nello stesso anno Caccini completò e fece pubblicare le sua Euridice, sugli stessi versi del Rinuccini che erano serviti al Peri. L’opera fu rappresentata nel 1602. Queste composizioni rappresentavano una novità preziosa e ricercata da esibire nelle occasioni rappresentative; gli apparati celebrativi e conviviali si arricchivano dell’intervento di musicisti e cantanti “corteggiati” dai principi d’Italia.Un altro musicista molto attivo nella Camerata fiorentina è Emilio de’ Cavalieri, che si trasferì successivamente a Roma. Non si deve, però, ritenere che le prime opere si basassero esclusivamente sul recitar cantando. Anche per fini di varietà, oltre che per esigenze teatrali, i recitativi erano intercalati da brevi arie strofiche e cori. Fra gli strumenti predominavano quelli ai quali era affidata la realizzazione del basso continuo: clavicembalo, chitarrone, lira e liuto. Tra i principali autori di raccolte monodiche è Claudio Monteverdi che ci conduce alla corte di Mantova. Risaliamo nel tempo, ovvero a Francesco II Gonzaga che nel 1490 si unisce in matrimonio con Isabella d’Este e da questo evento la corte mantovana diviene il fulcro di un genere di mecenatismo assai ampio che abbracciava le lettere, le arti figurative e la musica. Isabella era cresciuta a Ferrara, dove suo padre le aveva assicurato una completa educazione umanistica. Grazie alle sue lettere, sappiamo che era un’esperta musicista: sapeva suonare la cetra e aveva studiato il liuto con Angelo Testagrossa; cantava, ed era in grado di suonare gli strumenti a tastiera.Nel corso del penultimo decennio del Cinquecento, la vita musicale ferrarese alla corte estense, da cui proveniva Isabella, era dominata dal Concerto delle Dame che acquistò un’ottima reputazione attraverso l’Italia per le sue brillanti esecuzioni vocali in stile fiorito.Sorpresa dopo sorpresa, una breve pausa dal tema del Festeggiar cantando o meglio una variazione o tema di follia, per un fatto curioso che unisce il compositore Giulio Caccini, componente della Camerata de’ Bardi e autore de l’Euridice, a un fatto che potremo definire di cronaca scandalistica dell’epoca, che vede quale protagonista un Gonzaga. La così detta prova di efficienza sessuale di Vincenzo, pronipote di Francesco II Gonzaga. Vincenzo Gonzaga nel 1581 aveva 19 anni ed era convolato a nozze con la quattordicenne Margherita Farnese dei duchi di Parma. Margherita aveva una buona dote, rendite per 300.000 scudi, un ricchissimo corredo e un padre potente; tutto faceva presagire un buon matrimonio dinastico. Il padre di Margherita, Alessandro Farnese governatore dei Paesi Bassi Spagnoli, aveva richiesto a Guglielmo Gonzaga, padre di Vincenzo, di celebrare con grandi fasti questo evento ingaggiando cantanti di fama consolidata, con lo scopo primario di impiegarli nei festeggiamenti nuziali. Tutto ciò, non servì a niente; la povera fanciulla fin dalla prima notte di nozze si rivelò affetta da una grave malformazione che le impediva l’unione carnale. Dopo due anni e ripetute visite mediche i Gonzaga riuscirono a fare annullare il matrimonio e la povera Margherita finirà in convento come badessa, col nome di Maria Lucina. Il fatto non fu gradito dai Farnese, soprattutto da Ranuccio, fratello della ragazza, che odierà Vincenzo e i Gonzaga per tutta la vita. Per l’accaduto si sfiorò una guerra e Ranuccio Farnese si prodigò nel riversare fiumi di maldicenze su Vincenzo, asserendo che la colpa del fallimento matrimoniale fosse del Gonzaga, che essendo impotente avesse nascosto la cosa corrompendo i medici che avevano visitato Margherita. Vincenzo Gonzaga, era ben conosciuto per essere signore di facili costumi e tanto perpetuò la sua fama che a metà Ottocento Francesco Maria Piave, librettista del Rigoletto, opera tratta dal dramma di Victor Hugo e musicata da Giuseppe Verdi, dovendo subire a Venezia la censura austriaca sull’originaria ambientazione, si riferì proprio a lui per la trasposizione dalle dissolutezze dalla corte francese a quelle della corte mantovana. A causa di tutte queste maldicenze, quando i Gonzaga contattarono il granduca di Toscana Francesco I de’ Medici, chiedendo per Vincenzo in sposa la figlia Eleonora de’ Medici, sorella di Maria regina consorte di Francia, vennero avanzate delle perplessità. Da aggiungere che la seconda moglie del granduca Francesco, Bianca Cappello matrigna di Eleonora, era giunta al matrimonio dopo una vita non propriamente limpida e su di lei circolavano libelli che iniziavano con: «Il granduca di Toscana ha sposato una puttana».

Questa unione era stata più che criticata dai Gonzaga ed era l’occasione per la grande vendetta. La granduchessa Bianca pur dichiarandosi favorevole all’unione delle due casate e non avrebbe potuto dichiararsi altrimenti, chiese rassicurazioni che le maldicenze messe in giro dai Farnese sull’impotenza di Vincenzo Gonzaga non fossero veritiere. La “commedia” ha inizio con una lettera che il cardinale Francesco Cesi manda da Bologna a Firenze; gli è stato chiesto di informarsi segretamente sulla virilità di Vincenzo e il porporato si affida alla testimonianza di un medico di corte a Mantova, ma questi, dalla lettera, sembra non abbia realmente visitato il Gonzaga e riferisca ciò che ha sentito dire da altri. Tanto per concludere il “dramma giocoso”, il presunto medico afferma che il soggetto probabilmente soffre anche di mal francese. A questo punto i Granduchi di Toscana, più incerti di prima, pretendono una prova di virilità fisica, senza la quale il matrimonio non si farà. Per la prova verrà scelto un territorio neutro, a Venezia e come giudice Cesare d’Este. In tutta questa intricata faccenda, viene chiamato da parte medicea il politico Belisario Vinta, incaricato al difficile compito di trovare la vergine adatta per accertare le doti virili del futuro sposo. Scartate in molte, viene scelta una Giulia detta di Casa Albizzi, di 21 anni, probabilmente abbandonata da una serva della casata. Il Vinta così la descrive: « (…) è grande, ha cera nobile, né magra né grassa, ha viso da piacere, al mio giuditio (…) allevata bene, però modesta e vergognosa, pure par desta, di conoscimento et di spirito». Le si fece confezionare un abito ricamato e le promisero per il disturbo, è scritto 300, ma furono 3.000 scudi e un marito. La sera dell’11 Marzo 1584 Vincenzo, anch’egli ventunenne, arriva all’appuntamento nella casa dell’ambasciatore del Granducato di Toscana a Venezia (in una lettera la casa viene indicata come casino dei toscani), accompagnato dai suoi, cito testualmente: “«con tracotanza e sicurezza», pieno di cibi piccanti e ostriche considerati afrodisiaci e si suppone con qualche bicchiere di troppo. Il primo tentativo finisce male, alle ore 19, il futuro duca di Mantova esce dalla camera piegato in due e dice «ohimè stò male»; i Gonzaga sono costernati. Vincenzo ha una seconda occasione quattro giorni dopo, in modo che abbia tempo di rimettersi e il 15 marzo 1584, la prova si ripete. Questa volta il giovane si mostra sobrio, affabile, scherzoso. Così riferisce il cavaliere Vinta, da arguto toscano di Volterra: «Entrata la fanciulla nel letto, il Sig. Principe alla mia presenza si disvestì et lo rividi tutto ignudo, che si mutò di camicia, et con le sue armi naturali entrò in steccato (…)». Giulia! Che fine fece? Ci riferiscono alcuni storici e anche Maria Bellonci se ne occuperà in una delle ricerca per i suoi romanzi storici: «Lei venne fatta sposare con una grossa dote di 3.000 scudi ad un musico di corte, tale Giulio romano, ovvero Giulio Caccini, famoso artista della Camerata dei Bardi».Giulio Caccini, precedentemente caduto in disgrazia per una squallida vicenda che non ci è nota, sposando Giulia oltre a rimpolpare le proprie finanze, rientrò nelle grazie dei Gonzaga. Lei morì giovane, prima del 1600, lasciò diversi figli del Caccini, tra questi, nata però da seconde nozze, la famosa cantante e compositrice Francesca Caccini detta la Cecchina! Dopo questo fatto, che potremmo ricondurre scherzosamente al genere dell’Intermezzo semi-buffo, linguistico o divagazione sul tema, riprendiamo il filo del nostro discorso, per concludere. Abbiamo visto come in epoca rinascimentale la musica assurgeva in Italia sempre più a elemento di cultura e diletto delle classi alte e medie ed aveva una parte importante nella vita privata; musicista era persino un filosofo raffinato quale Marsilio Ficino; anche Leonardo, Benvenuto Cellini, Salvator Rosa erano bravi cantanti e suonatori. Nelle corti di Firenze, Mantova e Ferrara musicisti di fama, italiani o stranieri, vi trovano onorevole accoglienza. In questa atmosfera, ma ne avremo molti esempi anche nei secoli successivi e ancora sino a tutto il ‘900, si vennero a formare dei veri e propri nuclei familiari di musicisti, compositori, cantanti.

Ricordiamo nell’Ottocento la famiglia di Manuel Garcia padre, tenore, compositore e impresario, tra l’altro primo interprete de Il conte d’Almaviva nel Barbiere rossiniano, con il figlio primogenito il baritono Manuel jr e le figlie Maria Malibran e Pauline Viardot. Per citare un altro esempio, a Lucca, la famiglia da cui a metà Ottocento nacque Giacomo Puccini. Da quattro generazioni i Puccini erano Maestri di Cappella del Duomo di Lucca e fino al 1799 i loro antenati avevano lavorato per la prestigiosa Cappella Palatina della Repubblica di Lucca. Famiglia di musicisti tra XVI e XVII secolo, quella degli Archillei. Grande notorietà ebbe Antonio Archilei, di cui abbiamo accennato in occasione dell’Intermedio da lui musicato in occasione delle nozze tra Cristina di Lorena e Ferdinando de Medici. Compositore, cantante e liutista; fu al sevizio di Alessandro Sforza, Cardinale di Santa Fiora a Roma, passando poi nel 1584 al sevizio del cardinale Ferdinando de’ Medici. Quando il suo protettore divenne Granduca di Toscana (1587), lo seguì a Firenze con la moglie, la cantante Vittoria, che aveva sposato nel 1578 e con la figlioletta Margherita. Sua moglie, Vittoria Archilei, era fra le più apprezzate interpreti del momento. Ne abbiamo ricordato il trionfo quale interprete dell’Armonia Doria nel primo Intermedio eseguito a Firenze con musiche del consorte. Le lodi di straordinaria maestria le furono riservate ad ogni sua esibizione, con crescente entusiasmo. I più illustri musicisti dell’epoca lodarono la sua bravura e le sue doti sceniche. Vittoria Archilei, nata Concarini, detta la Romanina, oltre ad essere una cantante lirica era anche una capace liutista. Sia Jacopo Peri nella dedicatoria dell’Euridice del 1600, sia Giulio Caccini nella prefazione della sua Euridice, decantarono sommamente la cantante: l’uno per aver adornato le sue musiche; l’altro per: « (…) la nuova maniera de’ passaggi e raddoppiate inventate da me, quali ora adopera, cantando le opere mie, già è molto tempo, Vittoria Archilei, cantatrice di quella accellenza he mostra il grido della sua fama».Nasce, nel festeggiar cantando, la figura delle primadonna. Quattro secoli prima di Maria Callas.

Vincenzo Grisostomi Travaglini

Il Maestro Vincenzo Grisostomi Travaglini (Photo credits: Giovanni Pirandello)

“I Teatri di Roma”, un articolo del Maestro Vincenzo Grisostomi Travaglini in “L’Opera International Magazine”, Gennaio 2021

Gli antichi teatri italiani, così ricchi di storia, sono oramai popolati da illustri fantasmi. Veri e propri castelli della musica, in essi è il segno tangibile di una tradizione che resta sempre viva e presente. Ancor più nell’oggi, a simbolo di una volontà di resistere e oltre la speranza, di tornare a fare parte dinamica della società. I mezzi di comunicazione ben suppliscono a questa mancanza, il rapporto è tenuto vivo da una vivacità di dirette o differite che si sarebbero ritenute impossibili e che oggi raggiungono lo spettatore in ogni luogo ma, non deve accadere, come afferma con preoccupazione Riccardo Muti: «(…) che il pubblico possa essersi abituato a fare a meno dei teatri, dei concerti dal vivo» e aggiungerà il maestro in occasione del Concerto di Capodanno 2021 a Vienna da lui diretto: «(…) la musica è una missione verso la società, il suo futuro e la sua salute». Perché, se dopo la pandemia Covid, nulla sarà più come prima ed è insito nello stesso concetto di evoluzione l’esigenza di cambiamento, ancor più evidente nella transizione di momenti particolarmente difficili, i valori fondamentali della nostra cultura e la loro storia devono rappresentare la radice del nuovo sviluppo.

Segno di vitalità, il deflagrare delle tante iniziative, oltre alla preziosa riproposta di registrazioni d’archivio, spettacoli lirici con artisti in presenza, concerti delle più rinomate orchestre o semplici gruppi musicali, nel ritrovarsi e lanciare, assordante, questo grido di conservazione tramite televisione (ma l’impegno potrebbe essere ancora più significativo) e soprattutto avvalendosi dello streaming, un termine riservato agli appassionati del web e oggi così familiare. La reazione è stata significativa e tra grandi eventi ed iniziative più contenute, l’apertura della stagione 2020/21, pur senza pubblico in sala, è stata mantenuta, in attesa e nella speranza di potersi ritrovare, anche se la data sembra sempre più allontanarsi. «Ci sentiamo puniti (…)», afferma il maestro Antonio Pappano e ancora Gianluca Floris presidente di Assolirica dichiara: «(…) abbiamo distrutto l’opera lirica italiana».  E’ nostro dovere, infatti, non dimenticare che la cultura musicale è un vero e proprio patrimonio artistico e architettonico; le sale teatrali in Italia, gli auditori e qualsiasi altro luogo adibito allo spettacolo sono la viva sede di una cultura musicale profondamente sentita nel nostro Paese, sognata da tutto il mondo. La Lirica che, a differenza di qualsiasi altra disciplina, ha bisogno di un rapporto tutto proprio con il pubblico, quello della mediazione dell’artista che su di un palcoscenico, attraverso la propria sensibilità, restituisce ed interpreta l’opera del compositore. E’ proprio questo salto verso i grandi ricordi della storia musicale della Capitale che mi ha catturato, riportandomi indietro nel tempo, anche sfogliando gli appunti di un libro che scrissi negli anni ’90, cogliendo l’occasione di ripercorrere la storia dei teatri a Roma. Un viaggio, il nostro, nell’intrattenimento teatrale al tempo dei Papi, un percorso che nell’ambiente romano riflette la seduzione e le contraddizioni di una corte dalla quale lo spettacolo è sempre stato amato e allo stesso tempo ripudiato.

Le porte dell’Opera sono oggi chiuse, non ci sono produzioni da commentare ed è l’occasione da non perdere per ripercorrere un cammino di secoli, tra il serio e il faceto, perché se le luci alla ribalta sono spente, l’intera città di Roma è da sempre palcoscenico. Nella Città dei Papi la storia del teatro sembra voler vivere una propria realtà composta di “passioni”, onori e povertà e la passione per lo spettacolo a Roma vanta antiche radici, sin nella città imperiale, dove numerosi si ergevano teatri per la commedia e dove la tragedia vantava ascendenti d’origine greca, ma anche anfiteatri, circhi e ogni luogo che si prestasse a tramutarsi spontaneamente in palcoscenico. Qui il gusto per l’esibirsi non subisce interruzioni e anche i pontefici nei secoli della nuova era dovettero lasciare  libertà al popolo che non aveva nessuna intenzione di sacrificare il proprio carattere godereccio, al punto che anche le processioni potevano divenire pretesto per sagre popolari.

 A Roma il teatro fiorì in tutte le sue forme; gli edifici che dal ‘600 in poi furono destinati all’intrattenimento venivano visti sia come luogo di cultura che come sede di “perversione” e per questo spesso perseguitati dall’autorità papale. Non per nulla, molti dei fabbricati della Città dei Papi, dopo il proliferare delle sale barocche in palazzi principeschi, non comparivano all’esterno con sontuose facciate, come ad esempio a Napoli o a Milano. Al contrario, si nascondevano ipocritamente tra case e casupole. Anche i principali luoghi teatrali della città settecentesca, quali il Tordinona (poi Apollo), l’Alibert, il Valle e ultimo l’Argentina, dovettero attendere perché si progettasse e realizzasse per loro una degna, sia pur sempre contenuta, facciata. I teatri brulicavano di vita dove aristocrazia e popolino spesso si trovavano ad applaudire lo stesso interprete, lo stesso spettacolo, in un mescolare da sempre tipico della romanità, dove il principe gioca a carte con il portiere avanti a un bicchiere di vino dei Castelli, altrove impensabile.

Per la costruzione del primo teatro dell’età moderna, bisogna attendere il 1513 e Papa Leone X, dell’illuminata famiglia Medici, che ne ordinerà la costruzione sul colle del Campidoglio a opera di Pietro Rosselli e Baldassarre Peruzzi. Proprio dall’erezione di questo edificio in legno si vuole indicare per l’attività teatrale la data d’inizio della Seconda Roma, ancora una volta a dimostrare, come intuito dagli antichi greci, che il teatro è il cuore e l’immagine di una città e si muove pari passo con la sua evoluzione sociale e quindi civile. Nella Roma rinascimentale anche Raffaello progetta due teatri, a Villa Madama e negli appartamenti papali di Castel Sant’Angelo. Nella città impazza il Carnevale, la cui follia vuole essere un contraltare all’umanità ideale rappresentata  dall’universale del trono di Pietro, un violento contrasto tra sacro e profano, anche questo unico nella sua natura. Roma si arricchisce, sotto la spinta di un nuovo incremento edilizio, di luoghi per lo spettacolo e nel 1606 se ne possono contare ben 52 tra quelli ospitati in palazzi aristocratici e sale pubbliche, anche improvvisate. L’attività dei teatri nella Città del Papi prende nuovi sviluppi, ma è limitata nelle intenzioni e agli umori dei pontefici. Sin dal 1558 Paolo IV Carafa avrebbe bandito le donne dai palcoscenici, che vi potranno tornare, salvo una breve parentesi sotto il pontificato di di Clemente X Altieri, solo con la Repubblica Romana del 1798 e poi con l’annessione all’impero napoleonico. Giulio Rospigliosi, futuro Clemente IX, scrive il libretto del Sant’Alessio,musicato da Stefano Landi. Papa Barberini (Urbano VIII) darà anch’egli pieno impulso al teatro e sotto il suo pontificato Bernini si troverà ad allestire spettacoli in Vaticano e a dar lustro alla sala del palazzo della famiglia del Pontefice, esibendosi quale attore, oltre che celebrato scenografo e regista. Tra i pontefici ostili a qualsiasi forma di spettacolo è Innocenzo XII Pignatelli, che dopo aver tassato i proventi dei luoghi pubblici ordina la chiusura di ogni sala. I nuovi teatri vengono ricavati avvolte disordinatamente da sale e cortili e poco si curano di essere identificati all’esterno da una facciata. Superficialità che caratterizzò sino a parte dell’800 l’edilizia teatrale a Roma, quando architetti quali il Valadier e il Carnevali si dovranno affannare per dare una dignità alle principali strutture operanti.

Così il critico Milizia in un sin troppo severo scritto dell’epoca: «Roma ha una dozzina di Teatri. Saranno tutti eccellentemente modellati sopra i suoi tanti monumenti  dell’aureo secolo di Augusto, e specialmente sul Teatro di Marcello? Così dovrebbe essere, ma è tutto il contrario. I peggiori Teatri d’Italia sono quelli di Roma, tutti irregolari e sconci nelle forme (…) e frattanto essa si crede d’avere i più bei Teatri del mondo (…)».

Nella seconda metà del ‘600 nasce a Roma la prima concreta struttura pubblica e nello stesso periodo la città si arricchisce culturalmente con la presenza di Cristina regina di Svezia, stabilitasi a Roma dopo la propria conversione e abdicazione al trono, che con la sua influenza ed apertura darà un contributo essenziale all’evoluzione culturale della città. Primo tra gli edifici teatrali pubblici di questo periodo è il Tordinona, una malfamata locanda trasformata mirabilmente in teatro dall’architetto e scultore Carlo Fontana, voluto nel 1670 dal conte Giacomo (Jacques) d’Alibert, segretario d’ambasciata della regina Cristina, sovrana che volle per sé la proprietà di cinque palchi ed il privilegio di un ingresso privato. Il Tordinona alternava periodi di splendore  ad altri di decadenza e spesso, a causa delle piene del Tevere, vi si accedeva da scomode tavole di legno, per non affondare i piedi nel fango. Ma tutto questo non impedì che fosse considerato tra i più importanti edifici della città del Sei-Settecento.

Scrive Goethe nel 1788: «Il grande teatro di Tordinona, già distrutto da un incendio è, appena ricostruito, crollato improvvisamente, e purtroppo ora non sollazza più il popolino con le sue rappresentazioni di gala e le altre meraviglie e –conclude Goethe dopo aver descritto altri luoghi di spettacolo della città- (…) La passione dei romani per il teatro è grande».

Nel 1795 il Tordinona mutò il nome in Apollo e nell’Ottocento visse stagioni di particolare fervore con “prime” a Roma di Rossini, Bellini, Donizetti e in “prima assoluta” la Matilde di Shabran di Gioachino Rossini, Il Trovatore e Un ballo in Maschera di Giuseppe Verdi, oltre al debutto italiano de La forza del destino in una forma censurata dal titolo Don Alvaro e nel Carnevale del 1854 Violetta, vero e proprio travisamento de La Traviata, che suscitò l’indignazione del compositore, il quale scrisse a Vincenzo Luccardi: «Tante grazie! Così ha guastato tutte le posizioni, tutti i caratteri. Una puttana deve sempre essere una puttana. Se nella notte splendesse il sole, non vi sarebbe più la notte. Insomma, non capiscono nulla».

Nel 1871 Roma diviene capitale del Regno d’Italia e l’Apollo corredato, così come lo sarà l’Argentina, del palco reale. Nel 1875 Giuseppe Garibaldi è a Roma per sollecitare in Parlamento la soluzione del “problema” Tevere, le cui continue alluvioni costituivano una piaga secolare per la città. Viene deciso di costruire dei muraglioni che delimitassero il corso del fiume che ne avrebbero, però, snaturato l’aspetto, obbligando alla demolizione di molti edifici costruiti lungo i suoi argini. Fra questi l’Apollo, che spegnerà definitivamente la ribalta la sera del 31 gennaio 1888 con Hamlet di Thomas.

Altro edificio teatrale di storica importanza a Roma era il Teatro d’Alibert, chiamato delle Dame, dall’uso di dedicare le opere alle dame o ai cavalieri. Voluto dal conte Antonio d’Alibert nel 1718, compiendo un progetto del padre Giacomo, fu edificato sul fabbricato di sua proprietà sito non lontano da piazza di Spagna, adibito per il gioco della pallacorda. Felicissimi i cartelloni di quegli anni e numerosi i titoli in “prima assoluta”. Su quel palcoscenico, considerato alla moda e di successo, ben presto trionfarono i castrati, tra cui il celebre Caffariello. Subito il pungente commento nella poesia popolare romana:

«Sarà dunque permesso alli villani

nello Stato Papale, impunemente

di castrare i lor figli empiamente

acciò strillin cantando in modo strano?» (di anonimo).

C’informa il compositore Ambroise Thomas, ospite alla Villa Medici di Roma e futuro Prix de Rome nel 1832: « (…) L’interno del teatro è tutto illuminato a candele, messe in lampadari o in candelabri di legno dorato posti a ciascun lato dei palchetti».  Scrive Antonio Nibby nel 1838, sempre riferendosi all’Alibert: «E’ il più vasto di tutti quelli della nostra città (…) sei ordini di comodi palchi si trovano (…) ma all’esterno non solo ha prospetto di sorta, ma più che di Teatro ha faccia da fienile (…)». Dopo vari interventi, il Teatro d’Alibert viene riedificato nel 1859 in solida muratura, ma nel 1863 un incendio lo distrugge definitivamente.

Le stagioni in tutti i teatri si aprivano in Carnevale, che prendeva l’avvio il 26 dicembre, per chiudersi rigorosamente all’inizio della Quaresima, quando nei luoghi di culto i sacerdoti indossavano i paramenti viola, a segno del periodo di lutto della Chiesa. Il colore viola è rimasto quale simbolo di negatività per l’artista che si trovava costretto a interrompere , sino alla nuova stagione, il proprio lavoro.

Nel’700 i teatri erano sempre affollatissimi e tutta Roma vi passava le sere e sino alla mezzanotte ad assistere a spettacoli in prosa, musica e danza. Di notte, nei palchi, al lume delle tante candele, si giocava a scacchi, a tombola, si organizzavano intrattenimenti e nelle sale più povere si mangiava e si beveva. I teatri ospitavano i grandi balli di Carnevale che tanto impressionarono illustri letterati e pittori del Sette-Ottocento che amavano dimorare nella città. I palchi erano dotati di una tenda che, al bisogno, poteva isolare l’interno da occhi indiscreti!..

«E’ incredibile quanto i romani tengano a recarsi agli spettacoli – appunta il Volkman nel suo saggio sull’Italia del 1777- se anche dovessero prendere in prestito il denaro e impegnare la loro roba, il marito deve condurre la moglie alcune volte all’opera durante il carnevale».

Per l’assegnazione dei palchi spesso scoppiavano delle proprie e vere risse, nonché incidenti tra i vari ambasciatori che obbligarono persino alla chiusura dei teatri. Punto d’onore del romano era comunque riuscire ad entrare gratuitamente.

Così scrive Giuseppe Gioachino Belli ne Li teatri de Roma:

«Otto Teatri fanno in sta stagione

De carnovale si me s’aricorda:

Fiani, Ornano, er Naufraggio, Pallaccorda,

Pace, Valle, Argentina e Tordinone.

Crepanica nun fa, manco er Pavone,

Ma c’è invece er casotto: e ssi ss’accorda

Quello de le quilibbre e ball’in corda,Caccia puro Libberti er bullettone (…)».

Due i teatri edificati dalla nobile famiglia Capranica: il primo nel 1679 a Santa Maria in Aquino, ricavato all’interno di un’ala nel palazzo del Cardinale  Domenico Capranica, inizialmente a uso privato e a fine Seicento aperto al pubblico. Un secondo, il Valle, costruito alle spalle del palazzo di famiglia “a la Valle”, vicino a Sant’Andrea, che prese il nome dal luogo ove il teatro venne edificato, dove nell’antichità era lo stagno di Agrippa. Il Valle venne costruito su progetto dell’architetto Tommaso Morelli e inaugurato nel 1727. Molte in quegli anni le “prime assolute” di opere in musica che resteranno nella storia della composizione. Non sempre gli spettacoli dovevano esservi allestiti, però, con ricchezza di mezzi, se si arrivò nel 1802 a multare l’impresario De Santis di 1.000 scudi per aver proposto al pubblico una compagnia scadente.

«Li Teatri de Roma sò ariuperti,

Ciovè la Valle e ‘r teatrino Fiani.

In quanto a Cassandrino li Romani

Dicheno a chi ce va: “Lei se diverti”.

Ma ppe la Valle state puro certi

Che manco se farebbe a li villani.

Madonna, che cantà! Cristo che cani!

Peggio assai de li gatti de Libberti!» (Giuseppe Gioachino Belli da Li teatri de primavera).

Dopo il rifacimento del 1791, Gioachino Rossini scrisse appositamente per il Valle Demetrio e Polibio, Torvaldo e Dorliska e nel 1817 qui la “prima assoluta” de La Cenerentola.

Una curiosità, l’ingresso al palco centrale del Valle, di proprietà della famiglia Capranica, era situato nel cortile del palazzo e venne fatto murare da un amministratore dei marchesi dopo la proclamazione delle Repubblica, in occasione di un’annunciata visita del Presidente Enrico De Nicola, che non poté usufruirne.

Il Valle dopo alterne vicende, tra cui l’occupazione nel 2011 da un gruppo di lavoratori dello spettacolo, passa di proprietà dallo Stato al Comune di Roma che ne cura un minuzioso restauro, ma a tutt’oggi le luci della ribalta restano scandalosamente spente.

L’Argentina, voluto dal duca Giuseppe Sforza Cesarini, è l’ultimo dei principali teatri romani prima del Costanzi, edificato dopo più di un secolo e mezzo nel 1880. L’inaugurazione dell’Argentina è del 13 gennaio 1732 con Berenice, musica di Domenico Sarro. Nei primi anni si privilegiano nei programmi drammi in prosa con Intermezzi musicali, che dal 1739 cedono il passo alla lirica. Nel suo repertorio figura l’opera seria, considerata un genere più aristocratico rispetto alla più popolare opera buffa, ma vi primeggiano anche spettacoli di ballo con l’illustre famiglia dei Viganò. Più di 150 “prime assolute” costituiscono la ricca dote del nuovo, prestigioso palcoscenico romano. Protagonisti di quegli anni Alessandro Scarlatti, Gluck, Paisiello, Cimarosa e sovrano incontrastato dell’opera seria è il librettista Metastasio. Dopo aver vissuto intensamente gli anni napoleonici con il primo esperimento della Repubblica Romana, il ritorno al potere temporale e l’arresto da parte delle truppe francesi di Pio VII Chiaramonti, il Nobil Teatro di Torre Argentina torna  alla musica con il fiasco solenne, nel 1816, della “prima assoluta”  de Il barbiere di Siviglia (Almaviva o sia l’inutile precauzione) di Gioachino Rossini. Nel 1837 va in scena Lucia di Lammermoor di Donizetti con protagonista il soprano Giuseppina Strepponi, futura moglie di Giuseppe Verdi (la “prima” romana è dell’anno precedente al Valle). Del maestro di Busseto nel 1844 viene eseguita in “prima assoluta” l’opera I due Foscari. Acceso da risorgimentale fervore sull’esperienza mazziniana della Seconda Repubblica Romana, il palcoscenico dell’Argentina accoglie un’altra prima assoluta verdiana La battaglia di Legnano (1849). In quella storica serata erano presenti in sala Garibaldi e Mameli ed i palchi erano tutti addobbati con stoffe tricolori, così come nastri bianchi rossi e verdi primeggiavano nelle acconciature delle signore. L’Argentina segue da protagonista i grandi mutamenti politici di quegli anni ed il Teatro, usato anche quale spazio per riunioni, spesso viene chiuso per paura di disordini. La vita dell’Argentina è destinata, però, a mutare radicalmente nel 1869, proclamata l’Unità d’Italia, con la vendita del Teatro al Comune. E’ la vigilia dell’annessione di Roma all’Italia (1870) e l’anno successivo viene decretata la sua elezione a capitale. Anche per l’Argentina è tempo di edificare il palco reale. Indispensabile per Roma è ora di poter contare su di un grande teatro di rappresentanza ed il Comune, nell’impossibilità di garantire un finanziamento adeguato per la costruzione di un nuovo edificio, decide la ristrutturazione dell’Argentina. Nel febbraio 1888, alla sua riapertura, la Regina Margherita commenta soddisfatta: «di una baracca avete fatto un Teatro».

Iniziano le prime polemiche sull’opportunità di concedere sovvenzionamenti pubblici a sostegno del “Comunale”, mentre si vengono pian piano a creare presupposti, assai sdrucciolevoli, di un sistema teatrale pubblico. Discussioni anche discordi che porteranno tra innumerevoli difficoltà, dopo oltre mezzo secolo, al superamento della formula dell’impresariato e alla nascita dell’Ente Lirico.

Particolarità del tutto romana era stata, infatti, l’impossibilità, dalla seconda metà del Settecento in poi, di edificare un grande teatro alla stregua con l’evolversi dei tempi. Ci aveva provato, come detto, il Valadier e con lui tanti altri celebri architetti e sino all’Unità d’Italia, quando con il riconoscimento di Roma a capitale si era sentita ancora più evidente la necessità di poter contare su di un teatro di rappresentanza. La città, intesa come nucleo sociale, andava disgregandosi e né l’Amministrazione comunale, né il Governo riuscivano a varare importanti progetti, come al contrario avveniva a Vienna e Parigi. L’esigenza di un edificio per spettacoli che avesse funzioni di rappresentanza, nuovo per la città, venne raccolto da un privato, Domenico Costanzi, un uomo che doveva la sua ricchezza a fortunati investimenti nell’edilizia, che tra innumerevoli difficoltà riuscirà con le sue forze a edificare un grande e sfarzoso teatro cittadino. Lo volle costruire nel quartiere alto al Viminale, là dove aveva concentrato i suoi investimenti, lontano, quindi, dai quartieri storci della città. Il progetto risultò subito inviso alla popolazione della Roma ex-papalina e la sua collocazione scomoda e inopportuna. Il Comune, sotto la pressione delle forze più tradizionaliste, aveva ignorato Domenico Costanzi, approvando la funzione pubblica di Massimo teatro lirico romano unicamente per l’Argentina e l’Apollo, non riconoscendo le potenzialità della nuova elegante sala destinata alle rappresentazioni operistiche. L’Apollo era, però, uscito di scena per l’ “infame” decreto di demolizione e l’Argentina restava solo contro il Costanzi. La situazione dell’Argentina divenne sempre più critica e la sua tradizione lirica era destinata a interrompersi, nella continuità, dalla stagione 1898/99, a causa di una serie di incidenti artistici e difficoltà finanziarie. Non avendo il Comune ritenuto di accordare altri contributi l’impresa falliva: «Mentre era in tutti penetrata la convinzione che le sorti del Teatro comunale, fin qui così depresse, si sarebbero in questo scorcio di stagione risollevate (…) si annunciata improvvisamente che tutto è finito (…)» (da La Tribuna).

Il Teatro Argentina, dopo vari restauri, infelice quello “iconoclasta” del 1967, è tornato nel 1993 all’antico splendore grazie all’intervento dell’architetto Paolo Portoghesi ed è oggi sede dello Stabile: Teatro di Roma.

Con il passare degli anni, tra fine Ottocento e inizio Novecento, la realtà del Costanzi era andata sempre più affermandosi, mancando a Roma un teatro di più vaste dimensioni, aperto nel cartellone a una visione più ampia del panorama musicale europeo. Questa realtà s’impose di diritto, ma troppo tardi per Domenico Costanzi, che per compiere l’ambizioso progetto, deluso lungo il percorso dai negati appoggi pubblici e privati, vi aveva investito la propria fortuna, sino a trovarsi in rovina, solo e abbandonato da tutti. Il Costanzi divenne il Massimo della capitale, ristrutturato da Marcello Piacentini, a cui era stato negato il progetto per l’edificazione di un nuovo teatro, fu nuovamente inaugurato nel 1928 quale Teatro Reale dell’Opera con il Nerone di Boito; dall’avvento della Repubblica nel 1946 rinominato: Teatro dell’Opera. Nella sala voluta e finanziata dall’imprenditore Domenico Costanzi, all’indomani dell’elezione di Roma a capitale, di quell’edificio che oggi porta il nome di Teatro dell’Opera, sono passate intere generazioni di artisti e di dirigenti così che l‘edificio ha vissuto, pur sempre nella prospettiva di sequenze infinite anch’esse pullulanti di leggende e di fantasmi, in una sua propria e caratterizzante vicenda nel realizzarsi di fatti, soprattutto concreti, che si sono susseguiti vertiginosamente, evolvendosi nel tempo e sino al presente, all’incerta stagione 2020/21 … L’Opera riaprirà al suo pubblico, superata l’emergenza sanitaria, in attesa del sorgere di un nuovo giorno, rinnovando il suo rapporto, tutto proprio, con il pubblico, quello della mediazione dell’artista che su di un palcoscenico, attraverso la propria sensibilità, che restituisce ed interpreta l’opera del compositore. Ogni rappresentazione, ogni esecuzione, infatti, è unica ed irrepetibile e la storia delle nostre sale è scandita da tutte le serate nelle quali il sipario si alza e la ribalta s’illumina. Il Teatro non è quindi un museo, bensì un luogo dove si ripete un dramma, una commedia in musica, il dipanarsi di una sinfonia, il rituale di un concerto che, per essere eseguiti, hanno bisogno di una cura tutta speciale. Questa particolarità è anche il suo fascino. Frequentare un palcoscenico è un momento magico, come, nella fiaba di Alice nel paese delle meraviglie, quando la fanciulla attraverso lo specchio, al di là del mondo, dove tutto diviene possibile, così in un teatro, perché qui il tempo e lo spazio vi assumono, magicamente, nuovi ritmi e infiniti orizzonti.

Vincenzo Grisostomi Travaglini

“La storia del Festival di Fermo”, un articolo del Maestro Vincenzo Grisostomi Travaglini nella rivista “L’Opera International Magazine” di Luglio-Agosto 2020

«C’era una volta…», eppure questa non è una storia di fantasia, bensì una realtà durata ben cinque anni di grande impegno, lavoro e passione. Si potrebbe, è vero, raccontare questa esperienza come in un libro di favole, dove in ogni episodio compaiano i tanti che ne furono coinvolti e che erano, sono e saranno protagonisti della vita musicale internazionale: il Festival di Fermo, dal 1987 al 1991.

Quella data, il 1987, sembra così lontana eppure è ancora presente nella memoria! Tutto iniziò nella terra natia, in quelle Marche che diedero luce a illustri compositori e dove sono presenti, a tutt’oggi, importanti iniziative culturali.  La città di Fermo nella così detta Marca Sporca, la M.S. ovvero Marca sotto il Ducato longobardo di Spoleto, vanta un illustre passato, ne sono testimonianza monumenti e memorie. Il centro storico è tra i più suggestivi, luogo ideale per ospitare un’iniziativa culturale, quale fu il Festival, che in breve tempo s’impose all’attenzione internazionale, oltre ogni aspettativa. L’idea che la città potesse ospitare una serie di manifestazioni nel corso dell’estate, spaziando nel vasto universo dell’arte musicale, fu di Fabrizio Emiliani, da poco nominato sindaco, che mi chiese un incontro. Accettati la carica di consulente, poi direttore artistico e da subito si mise in moto un ingranaggio di cui a stento riuscivamo a comprendere il funzionamento. I luoghi che avrebbero potuto ospitare i concerti e le rappresentazioni operistiche di certo a Fermo non mancavano, nonostante lo storico teatro fosse chiuso da molto tempo e fu indicata la centrale Piazza del Popolo, l’antica Piazza Grande del libero comune, quale punto di riferimento e luogo simbolo dell’iniziativa. La piazza si presenta come una scenografia, così come fu ridisegnata sotto la signoria di Francesco Sforza, con nello sfondo il Palazzo dei Priori che vanta origine nel XIII secolo, la Biblioteca Civica che trae origine nel tempo dell’imperatore Lotario I e dopo cinquecento anni, nel 1303, restituita a rinnovata centralità dal temibile Bonifacio VIII, la sede dell’Ateneo fermano che fiorì sotto il pontificato di Sisto V; racchiusa nei lati da portici in cotto di rara eleganza, per una lunghezza complessiva di circa 135 metri. L’ambizione andava oltre e si voleva che questa iniziativa si potesse caratterizzare, oltre che con ospiti illustri, con proposte insolite, frutto di collaborazione con ricercatori che potessero aprire quegli scrigni preziosi che sono gli archivi degli storici conservatori italiani, primo tra tutti San Pietro a Majella di Napoli. Sin dal primo anno aderirono al progetto Festival artisti famosi quali i solisti Mstislav Rostropovič, e Salvatore Accardo; Wolfgand Sawallisch, Lorin Maazel a capo di orchestre, per citare le più conosciute l’Orchestre national de France e la Bayerische Staatsoper. Per affondare le radici e far germogliare l’iniziativa occorreva, inoltre, poter contare su un organismo che avesse un ruolo di stabilità e fondamentale fu l’apporto del professor Annio Giostra che per anni si era dedicato alla formazione dell’Orchestra Internazionale d’Italia, scaturita dall’esperienza della Jeunesses Musicales, con direttore Donato Renzetti. Lo storico teatro di Fermo, che porta il nome dell’Aquila federicea, era chiuso per restauri che sembravano non avere mai fine. Era stato chiamato dell’Aquila, perché in origine era situato all’interno del Palazzo dei Priori, accanto alla sala che porta il nome dell’emblema araldico del celebre imperatore Federico II, le cui vicende in Italia s’intrecciarono con quelle della marca fermana. Aquila che fu adottata quale simbolo nell’elegante, incisiva grafica del Festival, grazie al raffinato impegno e all’amicizia dei fratelli Maurizio e Georgia Bettoja. Senza teatro, si dovevano individuare degli spazi oltre che all’aperto, anche al chiuso e ideale fu la disponibilità di poter usufruire delle ampie navate della gotica chiesa di San Francesco, tra i monumenti illustri della regione Marche. L’acustica non era, però, delle migliori e furono commissionate delle ampie vele di tela bianca, che sinuose si stendevano lungo gli oltre 60 metri di lunghezza del tempio. Un’immagine di grande suggestione, oltre che acusticamente efficace.

Gli eventi da ricordare sarebbero molti e l’elenco sin troppo lungo. Era passato meno di un anno dal primo incontro con l’allora sindaco e l’assessore alla cultura Luciano Bonfigli e nel frattempo primo cittadino e Presidente del Festival era stato nominato Francesco De Minicis; il 29 maggio 1987, nel tempio di San Francesco, l’Orchestra Internazionale d’Italia si presentava al pubblico con in programma musiche di Mozart, Prokofiev, Čajkovskij, direttore Daniele Renzetti, solista Diego Dini Ciacci. Lo stesso anno, nel medesimo luogo, la Menhuin School con direttore Peter Norris e I virtuosi di Roma. Il tempio fu concesso per concerti straordinari e negli anni seguenti avvolte negato a causa delle indicazioni restrittive sull’uso dei luoghi sacri per ospitare avvenimenti pubblici. Memorabili resteranno a San Francesco, nelle edizioni successive del Festival, I concerti di musica sacra, con l’orchestra Internazionale d’Italia, la partecipazione de I virtuosi di Bucarest, il Coro di Musica Antica di Padova, l’ArPa Chorus con maestro Emanuela Di Pietro.  Nei programmi, la riscoperta di alcune parti della Messa detta di Milano: il Kirye e il Gloria nella trascrizione di Gabriele Gandini che ne fu anche direttore, mentre il manoscritto del Credo si rivelò non recuperabile.  Sempre Gabriele Gandini a San Francesco per I concerti di musica sacra, con le prime esecuzioni assolute della Messa in mi bemolle di Luigi Cherubini, il Qui Tollis di Gioachino Rossini e la prima esecuzione assoluta italiana e prima in epoca moderna del Requiem in do minore di Franz Joseph Haydn. Nei diversi programmi dei concerti nel tempio di San Francesco, la riproposta di musiche ingiustamente dimenticate di Giuseppe Giordani, detto il Giordanello, con la riscoperta della Sinfonia in Re maggiore dall’opera Atlanta e il mottetto per coro e orchestra: Clamate mortales; in altra occasione, sempre a San Francesco, la prima esecuzione assoluta del Qui sedes dalla Messa in Fa maggiore. Nativo di Napoli, Giuseppe Giordani ottenne riconoscimenti in tutta Europa e nel 1789, dopo il successo raggiunto dal dramma per musica La disfatta di Dario al Teatro alla Scala di Milano, ricevette a Fermo il posto di Direttore della Cappella Musicale Metropolitana e qui vi morì nel gennaio del 1798. Nell’Archivio Storico Arcivescovile della città sono conservate numerose pagine autografe della maturità del compositore e nel corso dei cinque anni del Festival si sono voluti proporre alcuni suoi lavori, grazie all’impegno e la collaborazione dei musicologi Ugo Gironacci e Italo Vescovo ai quali si devono le revisioni critiche delle partiture del Giordaniello e la schedatura del fondo musicale del Duomo di Fermo. Purtroppo non si riuscì ad eseguire alcuna sua opera e soprattutto gli oratori: La morte di Abele (1790) e La distruzione di Gerusalemme (1791), con i quali venne inaugurato il Teatro dell’Aquila. Così come si dovette rinunciare a un’ulteriore prima in epoca moderna di un lavoro del repertorio serio di Gioachino Rossini, ricordo che la notizia mi fu data per telefono dall’allora sindaco mentre ero a Tokyo, titolo che negli anni successivi fu rappresentato nella sede preposta del Festival di Pesaro. Quindi, per Fermo, repertorio del Settecento, Ottocento, ma anche Novecento storico, con concerti dedicati al compositore nativo della non lontana Montegiorgio, Domenico Alaleona (1881-1928), unico musicista aderente al movimento del Futurismo, grazie al materiale autografo messo a disposizione dalla famiglia, con appuntamenti a Fermo e nella cornice dell’incantevole teatro della sua città natale, che dal musicista prende il nome. Il repertorio operistico, sin dal primo anno, non poteva mancare e inizialmente per ospitare la programmazione fu reso disponibile il cortile-giardino del settecentesco Palazzo Caffarini-Sassatelli, all’epoca sede di rappresentanza della Cassa di Risparmio di Fermo, con una serata di gala, per la prima in epoca moderna de La modista raggiratrice ovvero la Scuffiara di Giovanni Paisiello, con revisione critica di Giampiero Tintori direttore del Museo teatrale alla Scala, sul podio una giovane promessa: Carlo Rizzi. Tra gli interpreti, Maria Angeles Peters, Bruno Praticò, Carlo Desideri, Bruno De Simone, l’esecuzione fu registrata e commercializzata. Tanti i titoli rari e prime assolute in epoca moderna, come in quello stesso anno L’italiana in Londra di Domenico Cimarosa e di Mozart la meno rappresentata Finta giardiniera.

La politica del territorio trovò terreno fertile in quello che era il galoppatoio dell’ottocentesca Villa Vitali trasformato in spazio teatrale e ancora, all’interno della Rocca che porta il nome del veneziano Lorenzo Tiepolo, nel 1267 podestà di Fermo e futuro Doge di Venezia, edificata a difesa dell’antico porto, dal 1878 inglobata nel territorio del nascente comune di Porto San Giorgio. Questi, alcuni dei luoghi dove si svolsero gli innumerevoli eventi del Festival nell’arco di cinque anni, ai quali andranno ad aggiungersi la chiesa di Sant’Agostino nel borgo storico di Torre di Palme, dov’è conservato il prezioso polittico de La Vergine in trono con Agostino e santi di Vittore Crivelli e la piazza della contrada di Capodarco, dove si possono trovare le migliori olive fritte all’ascolana della zona. I ricordi s’intrecciano e si confondono nello scorrere di quel tempo; i nutriti programmi nel rapido succedersi, spesso, contrastano con emotività che riaffiorano, non prive di suggestione. In quel 1987 si costituiva quella che sarebbe stata la struttura del Festival e nella tradizione della città non poteva mancare l’opera di Ferragosto, un titolo popolare presentato per l’occasione nello spazio di Villa Vitali; quella prima volta: Rigoletto, nuovamente sul podio Carlo Rizzi. Costumista, Otello Camponeschi che, con il contributo di Fabrizio Onali, ha collaborato frequentamente alle produzioni del Festival. Era solo l’inizio! S’intensificava la collaborazione con studiosi per la ricerca di partiture dimenticate negli scaffali dei molti archivi. Il celebre San Pietro a Majella, dove sono confluiti i manoscritti dei settecenteschi conservatori napoletani. Questo era da noi immaginato come un luogo da leggenda e il custode avrebbe poturo ricordare personaggi delle incisioni dell’inferno dantesco di Gustave Doré. La realtà era ben diversa dalla fantasia, eppure, avervi accesso, era pur sempre un privilegio e musicologi, ricercatori, ebbero un ruolo fondamentale nel riportare alla luce alcune partiture i cui originali languivano tra quegli scaffali; tra i tanti nomi il napoletano Pietro Andrisani e per le trascrizioni e revisioni, l’insostituibile Lorenzo Tozzi, fondatore e direttore artistico del Festival Internazionale di Mezza Estate di Tagliacozzo. Era un periodo in Italia di grande fermento, si ricorda il lavoro di Italo Gomez, recentemente scomparso, direttore artistico del Gran Teatro La Fenice di Venezia e il suo interesse per gli eredi della venerabile Scuola Veneziana, straordinaria la riproposta del Nascimento dell’Aurora di Albinoni al Teatro Olimpico di Vicenza con June Anderson. L’impegno e la competenza di Rodolfo Celletti direttore artistico del Festival della Valle D’Itria a Martina Franca e tra i tanti esempi possibili, l’immedesimazione quasi mediatica con la tradizione del Settecento napoletano di Roberto De Simone, direttore artistico del Teatro di San Carlo, musicologo e compositore partenopeo, un titolo fra tutti Il Flaminio di Giovan Battista Pergolesi, che si voleva esserci giunto incompleto, ma poi la partitura apparve integrale. Altre vivacità e competenze, come in Sicilia per la stagione estiva proposta al Teatro di Verzura sulla via Real Favorita, alle porte di Palermo; le iniziative di Opera Giocosa al Teatro Chiabrera di Savona; il Festival Opera Barga, che nacque con l’obbiettivo di contribuire alla formazione e al lancio di giovani artisti. Un patrimonio inestimabile quello storico-musicale, tra Napoli, Roma, Firenze, Venezia, ma in ogni archivio, in Italia ovunque si voglia cercare, si trova l’inimmaginabile, un tesoro da salvaguardare prima che sia troppo tardi. Torniamo, però, alle Marche e al Festival di Fermo; l’anno successivo nel 1998, il programma raddoppiò, presentato in conferenza stampa a Milano grazie alla cortesia di Anna Crespi degli Amici della Scala, a Roma in diverse sedi; sono organizzate conferenze stampa in Austria, Germania, Svizzera e l’interesse di pubblico e critica non tarda nel rendere la manifestazione un appuntamento imperdibile. Fare l’elenco di tutti i partecipanti e le iniziative di quegli anni sarebbe interminabile, eppure alcuni eventi si evidenziano alla memoria, come non ricordare nel 1988 a Piazza del Popolo la Grande Orchestra della Radiotelevisione Polacca (Katowice) diretta da Kristov Penderesky, l’Orchestra Sinfonica di Berlino con Wolf-Dieter Hauschild, l’Orchestra del Teatro dell’Opera di Madrid con sul podio Rafael Frübek de Burgos, la Wiener Johan Strauss Orchester diretta da Alfred Eschwé e solisti quali il pianista Michele Campanella e la violinista Victoria Mullova; la lista potrebbe essere lunga, per la sinfonica, la cameristica, per l’opera così detta da camera. S’impone citare l’evento in Piazza del Popolo con l’Orchestra Nazionale di Whashington diretta da Mstislav Rostropovich, in programma la Sinfonia n.5 di Šostakóvič e di Čajkovskij l’Ouverture-Fantasia Romeo e Giulietta seguita, a conclusione, dall’Ouverture-Solennelle 1812 con cui Čajkovskij commemora la sventata invasione napoleonica della Russia; il tema del cannone in partitura fu realizzato al sintetizzatore, ma per i rintocchi a festa delle campane in onore della vittoria e liberazione della Russia furono mobilitati i sacrestani delle tante chiese d’intorno, che a Fermo sono numerose e in piena notte  gli incaricati, collegati con woki toki, diedero mano alle corde e le campane risuonarono a festa e ai rintocchi del trionfo si aggiunsero gli spettacolari fuochi d’artificio, di cui nelle Marche sono maestri, che erano stati commissionati silenziosi, d’accompagnamento al possente finale, ma gli artificieri preparano a sorpresa una scarica sontuosa e risonante. Lo spettacolo era ripreso integralmente da Rai2 ed ebbi timore che il maestro Rostropovich si lamentasse per aver sovrastato l’orchestra con tanto fragore, ma al contrario ne fu felice e passò la notte, ospite di una famiglia dell’aristocrazia fermana, chiedendo più volte alle cucine di preparare altra pasta e bevendo vodka.

Dalla sinfonica alle proposte di prime esecuzioni in epoca moderna, quali Il mondo della luna di Niccolò Piccinni nella piazza della contrada di Capodarco e Le astuzie femminili di Domenico Cimarosa nell’Arena di Villa Vitali; alla Rocca Tiepolo di Porto San Giorgio Betly o La capanna svizzera  di Donizetti nella versione in un atto e la prima in epoca moderna in forma scenica de La romanziera e l’Uomo nero, lavoro incompiuto sempre con musica di Donizetti, completato nel testo e in veste di narratore da Michael Aspinall; in questa occasione vorrei nominare il direttore Fabio Maestri a cui si devono tante iniziative nel circuito umbro e il sempre collaborativo regista Italo Nunziata. Citare tutti è impossibile! L’opera di Ferragosto: Il Trovatore a Villa Vitali, direttore Massimo De Bernard. Repertorio operistico anche per l’imponente struttura montata ogni estate in Piazza del Popolo, con Il barbiere di Siviglia di Giovanni Paisiello, che si avvalse della sperimentata regia di Maurizio Scaparro. C’erano tutti, un pubblico eterogeneo e prenotazioni da tutta Italia e dall’estero, una critica competente delle maggiori testate italiane ed estere. Spazio alla prosa, con un lavoro appositamente scritto da Guido Barbieri e Sandro Cappelletto nel cortile di Palazzo Caffarini-Sassatelli La voce perduta ovvero l’incontro tra Mozart e Farinelli, rappresentazione preceduta dal convegno: L’evirato cantore nell’opera e nella cultura italiana. La convegnistica, gli incontri, saranno soggetti sempre partecipi nell’arco delle attività del Festival; con gli stessi Barbieri e Cappelletto: Fra le sciagure, felici, il teatro pubblico oggi, in Italia. Con il coordinamento di Angelo Foletto: Per La realtà del palcoscenico ottocentesco, relatori: Luciano Alberti, Eduardo Rescigno, Mario Morini, Julian Budden, Marcello Conati e altri, tra cui Giorgio Gualerzi, che curerà per due edizioni il convegno: Le Marche, terra per fare musica; un incontro con i responsabili delle diverse manifestazioni regionali, tra cui Francesco Canessa per lo Sferisterio di Macerata e Gianfranco Mariotti per il Rossini Opera Festival. Spazio ai giovani, in collaborazione con l’allora sezione staccata di Fermo del Conservatorio Rossini di Pesaro, oggi Conservatorio Giovan Battista Pergolesi, con Dido and Aeneas di Purcell, tra gli interpreti l’allievo Andrea Concetti, direttore un giovane Alessio Vlad che tornerà a Fermo più volte, con l’Orchestra Internazionale d’Italia con concerti in Piazza del Popolo. L’anno successivo la collaborazione con il Conservatorio proseguirà con Actéon di Marc-Antoine Charpentier. Sempre nel cortile di palazzo Caffarini-Sassatelli un’altra promessa, Daniele Gatti. Lo avevo conosciuto alcuni mesi prima a Osimo al Teatro La Nuova Fenice nella prima rappresentazione di Rararbaro Rabarbaro con musica di Carlo Pedini e Gianni Schicchi di Giacomo Puccini, per la prima volta regista d’opera Pippo Baudo, sul podio un giovane dal Conservatorio Verdi di Milano che da subito dimostrò un eccezionale talento. Lo invitai per il Progetto giovani al Festival di Fermo dove venne in quel 1998 con un gruppo di studenti del Conservatorio milanese che si ritrovava sotto il nome di Orchestra da Camera Stradivari; poco prima del concerto il maestro Gatti si ruppe un braccio e diresse con una mano ingessata; in programma tra l’altro Apollon Musagete di Stravinskij in un’esecuzione indimenticabile. Un palcoscenico prestigioso per la musica da camera, quello del cortile-giardino del palazzo lungo corso Cavour, che in quella stessa edizione ospitò il Gruppo Musica Insieme di Cremona con Pietro Antonini, l’Orchestra da Camera di Salisburgo e un concerto di arie da salotto ottocentesche con il debuttante tenore Luca Canonici. Un altro luogo si aggiunge alla lista, la Sala dei Ritratti a Palazzo dei Priori, dove sino alla metà del Settecento era situata la struttura lignea che fungeva da teatro, detto dell’Aquila, con il Quintetto a Fiati Italiano, pianista Michele Campanella e una maratona dedicata al Pianoforte Russo. Sono i primi due anni e per i successivi si trova spazio solo per dei cenni, ma come non ricordare nell’edizione 1989 in Piazza del Popolo la Grande Orchestra  Sinfonica dell’URSS di Radio Mosca diretta da Vladimir Fedoseev con violino solista Viktor Tret’jakov, la Gustav Mahler Jugendorchester, fondata da Claudio Abbado, con direttore Franz Welser-Möest e solista al pianoforte András Schiff. Nella chiesa di Santa Lucia le Sonate da Chiesa e Sacri Concerti con Marco Rossi all’organo, Dora Bratchkova violino e solista Anna Caterina Antonacci, che aveva esordito con me, che ne ero regista, ne Il barbiere di Siviglia al Teatro Petrarca di Arezzo. Ancora, Anna Caterina Antonacci a Villa Vitali ne I due baroni di Rocca Azzurra di Domenico Cimarosa con il debutto nella regia lirica di Luca Verdone. La prima esecuzione originale in epoca moderna nel cortile di palazzo Caffarini-Sassatelli di Denys le Tyran di André Grétry e la prima assoluta dell’opera commissionata al musicista Paolo Arcà: Il carillon del gesuita, con libretto di Giovanni Carli Ballola. Non fu questa l’unica commissione del Festival, sempre nel cortile del settecentesco palazzo fu la volta del compositore Franco Donatoni con la prima esecuzione assoluta di Soft, per clarinetto basso, nel Concerto del Quintetto a Fiati Italiano con flauto Harry Spaarnay, in programma oltre Donatoni, Mozart, Rossini e Berio. La musica contemporanea fu protagonista anche nella Sala dei Ritratti, con Il motivo degli oggetti di vetro commissionata dal Festival a Salvatore Sciarrino che venne appositamente a Fermo, ma all’ingresso non fu riconosciuto e gli fu fatto pagare il biglietto. Il compositore, divertito, conservò il titolo e lo incorniciò per conservarlo nella sua casa di Città di Castello, non gli era mai successo! La serata era dedicata a musiche per flauto e pianoforte con Roberto Fabbriciani, Gabriele Betti (fauti) e Fausto Bongelli (pianoforte). Ancora, a palazzo Caffarini-Sassatelli un omaggio al baritono Giuseppe Taddei, che si esibì in compagnia del soprano Stefania Bonfadelli e del suo allievo, il tenore Enrico Stinchelli, al pianoforte Marco Boemi. L’opera di Ferragosto La Bohème, ne firmai la regia facendo avanti e indietro con Torre del Lago, tra gli interpreti Carmela Apollonio che era arrivata seconda a-pari-merito con Anna Caterina Antonacci al Concorso Maria Callas svoltosi nel 1988 al Teatro di San Carlo (il primo premio non era stato assegnato), con lei, il tenore Giuseppe Sabbatini, il mezzo-soprano Alessandra Ruffini, i baritoni Roberto Servile (Marcello), Paolo Rumetz (Schaunard) e il basso Aurio Tomicich (Colline); direttore Fabio Maestri.

Non posso dimenticare nell’occasione quella che fu la recensione apparsa su La Repubblica a firma di Dino Villatico, giornalista competente quanto obbiettivo, che mise in luce aspetti dello spettacolo che io stesso, quale direttore artistico del Festival e regista, non avrei potuto descrivere con maggiore sensibilità. Difficile frenare il galoppo del tempo tra tante suggestioni, ma la cronaca impone di proseguire in una sintesi. Il Festival è all’apice e nel 1990 continua la lista di prime esecuzioni in epoca moderna del repertorio operistico della scuola napoletana con Le due contesse di Giovanni Paisiello a Villa Vitali e l’avventura con I vampiri, commedia in musica composta nel 1812 che si credeva perduta, del compositore ischitano Silvestro Palma, con Lucetta Bizzi, Stefania Donzelli, Bruno De Simone, Romano Franceschetto, fedeli interpreti, più volte ospiti del Festival. La sera prevista per il debutto de I vampiri si scatenò l’uragano e per la prima volta nella programmazione del Festival lo spettacolo dovette essere rinviato al giorno successivo. Il clima era lugubre, come se degli esseri demoniaci si fossero realmente palesati, scatenando le furie della natura. Com’è diverso lo sguardo al cielo quando si è responsabili di una manifestazione estiva! Presenti a Fermo critici, realmente di tutte le maggiori testate nazionali; ci consolammo con la cucina dalla signora Duilia alla Casina delle Rose, oggi edificio abbandonato, sito nel punto più alto della città, il Girfalco, all’epoca albergo e ristorante che è stato per tutti noi un punto di sicuro riferimento, per l’eccellenza dell’ospitalità e buona cucina marchigiana. Qui ci ritrovavamo con colleghi, giornalisti e artisti, così come a zonzo con il capo-ufficio stampa del Festival, l’infaticabile Anna Dalponte, nella campagna del fermano alla ricerca di gustose specialità e tra gli amici più affezionati, Sabino Lenoci e l’indimenticato Giorgio Banti. La Casina delle Rose, stesso albergo e ristorante preferito dall’architetto Gae Aulenti che, tramite l’amico Marco Vallora, avevo coinvolto per un contributo progettuale al restauro dello storico Teatro dell’Aquila, di cui nel 1990/91 ricorrevano i 200 anni dall’inaugurazione. Nel tempo a capo dell’amministrazione di Fermo si erano succeduti diversi sindaci e particolare riconoscenza è dovuta a Francesco De Minicis, che credette nel progetto Festival appoggiandone lo sviluppo e senza mai interferire nelle scelte artistiche e dopo i primi anni, pur desiderando abbandonare la politica accettò, dopo quella di sindaco, la carica di assessore alla cultura, pur di continuare a sostenere l’iniziativa. Ancor prima dell’arrivo a Fermo di Gae Aulenti, i restauri del Teatro dell’Aquila erano avanzati, realizzati con cura dall’ingegnere incaricato, ma questi non era un esperto di acustica e alcuni interventi rischiavano di rovinarne la specificità. De Minicis mi ascolto e in accordo con lo stesso ingegnere, furono fatte le giuste modifiche al progetto, rinunciando a nefaste immissioni di cemento che ne avrebbero inibito la risonanza. Quindi, si presentò l’opportunità del celebre architetto, che elaborò un progetto che purtroppo non fu da tutti accettato. Il Teatro non ha mai avuto una facciata, sin dalla fondazione, ma la Aulenti non voleva intervenire sul preesistente, bensì avrebbe preferito imporre il concetto di conservazione di tutti gli interventi che si erano susseguiti nei due secoli di storia, l’ingresso principale, gli spazi d’accoglienza e la sala. Il progetto si sarebbe caratterizzato per una diversa configurazione del retro, che si affaccia sul lato esterno della città eretta sulle pendici del Colle Sàbulo. Da questo lato Gae Aulenti progettò una struttura moderna di acciaio e cristalli, che nel pieno rispetto della configurazione della pendice, al contrario sfigurata negli anni ’60 con costruzioni inadeguate, formasse un diverso ingresso del Teatro con scale e ascensori a vista. Un progetto geniale e all’avanguardia, dove il concetto di modernità si coniugava con quello del rispetto dell’impatto ambientale. Rimasi stupito, anni dopo, accompagnando anonimamente degli amici in visita alla sala del restitutito Teatro dell’Aquila, ascoltando la guida dire che l’edificio era stato ristrutturato su progetto di Gae Aulenti, perché purtroppo non era stato così, anche se l’attuale restauro tenne pur conto delle specificità e stile della costruzione, così come suggerito dal celebre architetto, ma nell’anonimato di un lavoro ben realizzato. Torniamo al programma e sempre nel 1990 è doveroso citare in piazza del Popolo la presenza della Royal Philarmonic Orchestra con direttore e solista Vladimir Ashkenazy, in programma musiche di Brahms, Beethoven, Šostakóvič. Un giornalista locale alla conferenza stampa di presentazione della IV edizione del Festival lanciò la sfida, affermando che avrebbe creduto alla presenza di Ashkenazy solo quando lo avesse visto sul palco di Piazza del Popolo, perché spesso la stampa del luogo sembrava meravigliarsi della puntualità di una programmazione ambiziosa. Il celebre pianista e direttore rimase talmente affascinato dal luogo che dopo il concerto improvvisammo una cena sul lato opposto del palco, nella piazza a ridosso di quella porzione di portico che è denominato di San Rocco, con un tavolato montato su due cavalletti, dove all’animo del grande interprete s’impose, nel rapporto personale, l’umanità dell’artista. Sempre nella Piazza, concerto con l’Orchestra Internazionale d’Italia diretta da Donato Renzetti, solista François-Joël Thiollier, con programma interamente dedicato a musiche di Gershwin. A Villa Vitali in scena La Traviata con Giusy Devinu, alla quale devo particolare riconoscenza e affetto; direttore Eugene Kohn, già collaboratore di Thomas Schippers, accompagnatore al pianoforte di Maria Callas e Renata Tebaldi, assistente di Placido Domingo al Washington National Opera. Avevo firmato solo pochi mesi prima (settembre 1989) un’altra produzione de La Traviata, al Teatro Comunale di Adria con Giusy Devinu e con Roberto Alagna al debutto italiano e dopo pochi mesi, il succesivo aprile 1990, il tenore era alla Scala con Riccardo Muti e Liliana Cavani, nel medesimo ruolo. Il lavoro per una produzione operistica all’aperto è ben più impegnativo e per le prove tecniche e realizzazione delle luci si deve lavorare di notte. Con il disegnatore luci Stefano Pirandello, pronipote del celebre Luigi, avevamo terminato il nostro lavoro, ma nella sequenza di controllo notai che l’alba del finale dell’atto primo era troppo luminosa. Stefano mi riprese, non era un effetto, bensì il sole che sorgeva alle spalle del palcoscenico, sul non lontano mare Adriatico.

Di tradizione a Ferragosto, si scatenavano temporali, che non rinviarono mai le nostre attività, ma la sera della generale di Traviata, il 15 agosto di quel 1990, avendo piovuto abbondantemente nel pomeriggio e rinfrescato l’aria, la protagonista preferì restare nella sua camera d’albergo e fu così che quella sera sperimentai, quale regista, cosa volesse dire affrontare un’intera opera quale Violetta in palcoscenico! Completavano la compagnia nei ruoli principali il tenore José Sempre e il baritono Roberto Servile. Per i concerti di musica da camera a palazzo Caffarini-Sassatelli: il Quartetto d’archi Sliven; Le Quatuor de Contrabbasses “Mobile”; il concerto del flautista Roberto Fabbriciani; il duo Dora Brathkova violino, Claudio Marcotulli chitarra; l’Orchestra da Camera Benedetto Marcello diretta da Dario Lucantoni con un programma da Vivaldi a Barber. Un cenno dovuto alla collaborazione negli anni con l’Accademia Organistica Elpidiense e i concerti ospitati nella Basilica della Misericordia a Sant’Elpidio a Mare, dove sono custoditi il prezioso organo del maestro veneto Pietro Nocchini del 1757 e quello dell’allievo e prosecutore della scuola organaria veneta, Gaetano Callido del 1782. Un’occasione rara per la proposta di programmi ricchi e articolati, grazie all’impegno di Giovanni Martinelli. Il 1991 fu l’ultimo per il Festival, il mio impegno era sin dall’inizio per cinque anni, ma non avevo compreso che la manifestazione non sarebbe andata oltre. Il 1990/91 segnava il bicentenario dell’inaugurazione del Teatro dell’Aquila, ma una sia pur limitata iniziativa all’interno del cantiere con un’operina di fantasia appositamente commissionata (ispirata al mago dei fumetti Mandrake) fu sconsigliata dal responsabile dell’impresa. Avevamo, nel frattempo, promosso delle audizioni per la formazione di un nuovo complesso giovanile, che prese il nome di Orchestra del Festival di Fermo. Nella Sala dei Ritratti a Palazzo dei Priori fu allestito un Pastiche, con il debutto di un giovane mezzo-soprano di nome Sonia Ganassi. Dopo averla sentita casualmente studiare per un’audizione nella così detta Sala50 del Teatro dell’Opera di Roma, la segnalai al regista, il celebre Edmo Fenoglio, che appena ebbe modo di conoscerla la volle interprete nel Pastiche del rondò da La Cenerentola di Rossini, inserendola in uno spettacolo appositamente ideato, articolato nei testi e con musiche di Galuppi, Paisiello, Cimarosa, Mozart e da brani da Le Bourgeois gentilhomme di Molière con le musiche di scena di Jean-Baptiste Lully. A Villa Vitali Il curioso indiscreto con musica di Pasquale Anfossi, dramma giocoso per il quale a Vienna Mozart compose tre arie, ovviamente eseguite al Festival. La parte della protagonista era stata offerta a Natalie Dessay, giovane soprano che da poco si era esibita in concerto al Teatro Valle di Roma; non più disponibile la parte fu assegnata a Jenni Drivala che riscosse un personale successo, con Carmela Apollonio, Maurizio Picconi e Luigi Petroni. L’opera di Ferragosto: Il barbiere di Siviglia di Rossini, con Raquel Pierotti, Roberto Servile, Bruno Praticò, direttore Giuliano Carella. A Piazza del Popolo un appuntamento inatteso, il ritorno di Franco Battiato in Concerto, dopo tanti anni di silenzio. Ancora, l’Orchestra Internazionale d’Italia con direttore Lu-Jia e in altra serata con sul podio Emil Tchakarov. Punta di diamante l’Orchestra del Teatro Kirov di Leningrado, già dell’Opera Imperiale russa, oggi Mariinskij, una delle più antiche istituzioni musicali, con direttore Alexander Vilumanis. L’importanza di quest’ultimo appuntamento fu la difficoltà di far lasciare l’Unione Sovietica al direttore e ai componenti l’orchestra, in quanto vi era stato il fallito tentativo di colpo di stato, con conseguente chiusura delle frontiere. Realizzare il concerto previsto a Fermo, all’interno di una tournée, richiese un vero e proprio intervento diplomatico e rimase incerto sino all’ultimo momento. Sindaco era nuovamente Fabrizio Emiliani, che accolse gli ospiti con tanto di fascia tricolore e fu un trionfo. Le cose in Italia e a Fermo, però, stavano cambiando, la politica culturale era passata in mano ad altri, non favorevoli e anche i tempi degli investimenti sulla cultura da parte di alcune amministrazioni volgeva al tramonto. Avrei tanto voluto che qualcun altro continuasse nel mio impegno. Così non fu! Dopo due anni nel 1993, sempre nella regione d’origine della mia famiglia, le Marche, fui chiamato ad Ascoli Piceno per gestire artisticamente la riapertura dello storico Teatro Ventidio Basso, chiuso da molti anni per importanti restauri. Il progetto era di riconsegnare il Ventidio Basso, in occasione della ripresa delle attività, alla sua funzione di palcoscenico non di provincia, ma in provincia, così come da nostra secolare e inimitabile tradizione. Le Marche sono la regione dove resistono, nonostante l’indifferenza di alcune amministrazioni, molte strutture teatrali al pari o più che in ogni altro luogo d’Italia e d’Europa. Ci riuscimmo nel 1994 ad Ascoli Piceno per due stagioni, iniziando con La Traviata di Giuseppe Verdi, tra i soliti, ancora «…una volta…» insieme con Giusy Devinu, Giuseppe Sabatini, Roberto Servile; primo ballerino Raffaele Paganini, scene di Carlo Centolavigna tra i più fedeli collaboratori di Franco Zeffirelli, direttore Giuliano Carella. Quella sera, all’esecuzione dell’Inno di Mameli, tutto il pubblico scattò in piedi in silenzioso rispetto. Questa, però, è un’altra storia.

Vincenzo Grisostomi Travaglini

“La missione di un artista-creatore”, articolo del Maestro Vincenzo Grisostomi Travaglini nella rivista mensile “L’Opera International Magazine”, Settembre 2020.Conversazione con Sir Antonio Pappano sulla sua esperienza all’Accademia di Santa Cecilia e al suo “Otello” verdiano.

Nato in Inghilterra, Antonio Pappano è oggi tra i direttori d’orchestra più stimati al mondo. I suoi genitori sono originari di Castelfranco in Miscano, un borgo dell’Appennino campano e sarà suo padre a trasmettergli l’amore per la musica, appassionato del repertorio operistico italiano e in particolare di Giacomo Puccini. Le esperienze nel mondo della musica del maestro Pappano sono molteplici, ma qui basterà ricordare la nomina nel 1999, effettivo da 2002, a Direttore musicale della Royal Opera House (Covent Garden), orchestra che aveva diretto sin da giovanissimo e dal 2005 la nomina a Direttore musicale dell’Accademia Nazionale Santa Cecilia di Roma. Nel 2012 ricevette della regina Elisabetta II l’onorificenza di cavaliere (Knight Bachelor), che gli conferisce il titolo di “Sir”.

Venendo all’attualità, in questo particolare periodo, relegati dalla pandemia a vita claustrale, spesso abbiamo trovato consolazione tramite televisione e mezzi-audiovisivi dove, tra i grandi protagonisti dello schermo, il maestro Pappano si è imposto sul podio di produzioni operistiche di grande rilievo. Sono tutti argomenti che approfondiremo nel corso di questo nostro incontro, ma insostituibili, come confermerà lo stesso Pappano, restano pur sempre l’esperienza e il ricordo legati a quelle esecuzioni a cui si è avuto la fortuna di assistere, in campo sinfonico e operistico. Del rapporto tra il direttore e le “sue” orchestre, l’emozione che resta impressa nello spettatore da una comunicazione istantanea, perché in Pappano tutto è musica, dal gesto, la postura, lo sguardo. Basta un minimo cenno e il corpo si fa tramite del pensiero ed è questo risultato che fa la differenza! I repertori affrontati da Pappano sono tra i più vasti e basterà riferire di esperienze quali le registrazioni riproposte de il Macbeth e de La Bohème dal Covent Garden, produzioni dove la parola teatrale assume un suo specifico significato, come ci dirà lo stesso maestro. Sir Antonio Pappano ci parlerà, inoltre, di quello che deve essere il rapporto in teatro tra orchestra e palcoscenico, rispondendo che per lui sono importanti le relazioni tra i personaggi e che se il direttore d’orchestra crea un’unità tra palco e buca, questa è una produzione riuscita. Eppure, questa filosofia intrinseca è valida nel repertorio sinfonico, nel dialogo tra gli strumenti. Nella memoria più recente, inoltre, l’esperienza di titoli operistici in concerto, dove Pappano riesce a ricreare complessivamente questo rapporto, senza nulla togliere alla dinamica insita nello svolgimento drammaturgico, anche nella forma semi-scenica, così come abbiamo assistito in questi anni nella sala di Santa Cecilia a Roma, con l’orchestra e coro sul palco e i cantanti in proscenio. Tra gli esempi, il più recente, nel 2018: West Side Story di Bernstein, dove il direttore Pappano è entrato, come dire, nell’azione scenica, con semplici gesti, partecipando dal podio con il fischietto della polizia a redimere la rissa fra fazioni rivali, sempre interagendo con discrezione ed efficacia.

Maestro Pappano, come gestisce i due diversi incarichi di Direttore musicale alla Royal Opera House e all’Accademia Nazionale di Santa Cecilia e in qual modo l’uno è di compendio all’altro?

«Per me, queste due esperienze, insieme, sono molto importanti, perché dopo tanti anni in teatro con la lirica, mi resi conto che per sviluppare, per fare il passo successivo, anche se di tanto in tanto dirigevo complessi orchestrali, senza un vero investimento nel dominio sinfonico, io rimanevo come fermo. Sto parlando di una quindicina di anni fa e compresi che stavo cercando un equilibrio fra le due espressioni musicali, dove in un certo senso una informa l’altra. Certamente, i repertori sono molto vasti e richiedono contatti diversi, ad esempio ci sono delle opere che potremmo definire più o meno sinfoniche. C’è la musica classica, sinfonica, c’è Malher, c’è Schönberg e in ogni caso è richiesto un diverso approccio. Però, essere da solo avanti a un’orchestra è come guardarsi allo specchio, è una cosa molto intima. Nella lirica ci sono i cantanti, c’è l’allestimento, le luci, il buio, il dramma, più elementi; per carità l’opera è la mia vita e l’adoro, però trovarsi di fronte a un’orchestra sinfonica come a Santa Cecilia, serve veramente per capire, per stimolare un altro tipo di emozione, altri sentimenti. Da subito mi resi conto che essere in mezzo a una sinfonia, mi faceva provare sensazioni diverse».

Quindi essere Direttore musicale di un’orchestra prevalentemente sinfonica, ha richiesto un diverso approccio?

«Il mio rapporto con i musicisti è l’unica cosa che conta e non lo spettacolo. Questa dell’incontro con l’Orchestra e il Coro di Santa Cecilia è stata per me una bellissima lezione e ha fatto sì che abbia potuto indirizzare le mie energie, tutta la mia forza mentale e fisica, verso un nuovo orizzonte. Ciò mi ha arricchito enormemente. Allo stesso tempo io mi sono sviluppato insieme alla mia Orchestra, questo crescere comune è stato una bellissima occasione, una cosa di cui sono molto fiero e con la speranza che possa continuare».

Veniamo all’oggi e alla traumatica interruzione di qualsiasi attività a causa della pandemia. Quali sono le prospettive per il futuro?

«Come quasi tutti gli Enti in questo periodo stiamo ridimensionando la programmazione, prevedendo di formare dei complessi più ragionevoli. Cosa vuol dire questo? Che ad esempio se io domando se sarebbe ragionevole eseguire Die Meistersinger di Wagner, cinque ore e mezzo di spettacolo, con cui inaugurare la prossima stagione, questo sarebbe impossibile. Adesso non voglio dare il nostro programma per l’Accademia di Santa Cecilia, perché noi abbiamo diversi piani di lavoro, però, ogni settimana cambiano le notizie, allora prima di fare annunci vogliamo essere sicuri di quello che potremo fare. I progetti li abbiamo e siamo pronti ad adattarli a quelle che saranno le necessità richieste, prima dobbiamo capire meglio, ad esempio, come gestire il coro. Al momento, da alcuni studi il coro è molto penalizzato; abbiamo un bellissimo Coro a Santa Cecilia. Per me è fondamentale comprendere, dopo la stagione estiva che si è svolta all’aperto nella cavea del Parco della Musica con la Nona Sinfonia di Beethoven e due successivi concerti con la partecipazione Coro, come e quando potremo ricominciare con la loro l’attività. Per questo, dobbiamo tornare nella nostra casa, avere la possibilità di entrare nell’auditorium, per valutare il distanziamento. Forse noi, avendo una sala così capiente e un palco così grande, forse … stiamo esagerando nel pensare troppo in piccolo e dobbiamo avere l’esperienza per trovare le soluzioni più idonee. Di vedere se l’orchestra dovrà essere ridotta; oppure, sempre mantenendo il distanziamento e rispettando le regole, se potremo contare su un maggiore organico. Si potrebbe, anche, cercare di ampliare il palco facendolo venire più in avanti. Queste soluzioni verranno da una preparazione e senza quelle verifiche che potremo fare solo sul posto, non possiamo dare nulla per certo. Se qualcuno affermasse che le cose saranno così, o che faremo in questo o in quell’altro modo, sarebbero tutte fantasie! Dobbiamo vedere, controllare, come gestire la superficie e dominare lo spazio in questo momento di transizione, prima che si possa tornare alla normalità».

Queste verifiche e dovuta prudenza valgono per Santa Cecilia a Roma, quanto per il Covent Garden a Londra?

«Al Covent Garden, ovviamente come per tutti gli Enti lirici, il discorso è molto più complicato. Devo essere onesto, a Londra siamo un po’ in uno stato di caos e le regole per i teatri al chiuso sono molto rigide. Al momento, dobbiamo pensare come usare gli spazi, forse in un modo innovativo. Si potrebbe mettere l’orchestra in platea e il pubblico in alto. Sarà molto, molto difficile prevedere una programmazione e non capiamo bene come andrà a finire. In giugno avevamo organizzato un primo concerto, con tre cantanti, con me al pianoforte e la collaborazione di alcuni elementi del ballo. La sala vuota, trasmesso in streaming! L’atmosfera era strana, perché in questa bellissima sala, malgrado stessimo facendo musica, sembrava che fossimo in un ristorante deserto, che se anche è il posto più famoso del mondo diventa triste; l’atmosfera era pari allo zero. A Roma, ci si può permettere un’attività all’aperto, mi riferisco all’immediato di questa emergenza, noi per Santa Cecilia abbiamo realizzato questa estate un programma prevalentemente dedicato all’anniversario beethoveniamo nella cavea del Parco della Musica, ma a Londra, malgrado il clima gradevole degli scorsi mesi, una primavera storica, non abbiamo proprio i mezzi e non possiamo contare sul bel tempo. Importante è anche come gestire il pubblico. Nei luoghi al chiuso ci sono limitazioni al momento che rendono difficile l’attività. A Santa Cecilia abbiamo una sala da 2.800 posti, allora non è questione di avere una capienza ridotta al minimo. No, io penso che si abbiamo più possibilità e dobbiamo studiare come realizzarle».

Nel mese di luglio, grande successo ha avuto la stagione estiva dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia nella cavea, rinominata alla memoria di Ennio Morricone, segnando per ogni appuntamento il tutto esaurito. In programma l’integrale delle Sinfonie di Beethoven nel 250° anniversario della nascita. A questo programma si sono aggiunte le tournée: a Torre del Lago per il Festival Puccini, a Caserta e con particolare significato il concerto del 27 luglio nel capoluogo ligure, per l’inaugurazione del nuovo ponte Genova San Giorgio, svoltosi in un’atmosfera del tutto particolare, sotto una campata, in un cantiere. Una particolare emozione?

«E’ stato per me un vero debutto, lo devo ammettere. Sono stato orgoglioso di dirigere l’Orchestra dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia in questa occasione, sotto il nuovo ponte appena completato. Un concerto che si è svolto simbolicamente in un momento storico così importante. Un tempo in cui tutte le risorse migliori si sono messe all’opera per ricucire uno strappo doloroso e far rinascere una città, dando un esempio di ripresa all’intero Paese. Questo ponte non è solo una bella infrastruttura, ma è anche il simbolo di un lavoro orchestrale che è stato gestito da tutti coloro che vi hanno partecipato».

La stagione estiva dell’Accademia, come detto, è stata prevalentemente dedicata a Beethoven. In due occasioni, in presenza del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella a Roma e a Genova per l’inaugurazione del ponte, è stato scelto di eseguire la Sinfonia n.5. C’è una particolare ragione?

«Beethoven con Bach, è stato il più grande architetto della storia della musica, con la sua creatività, le sue doti di sperimentatore, come figura grintosa per quanto riguarda il lavoro, lo sforzo per arrivare a finire un progetto. Lui, il simbolo perfetto per l’inaugurazione del ponte San Giorgio di Genova e simbolicamente, lo è stato anche per la presenza del Capo dello Stato. Il bello della Quinta Sinfonia, malgrado il primo movimento così torturato da utilizzi inappropriati, con questo incipit così famoso, così conosciuto, è che comincia in conflitto per arrivare in gioia. Dal buio, alla luce! Però, per arrivare alla luce, per arrivare alla gioia, alla fratellanza, come nella Nona Sinfonia, si deve guadagnare il diritto di queste conquiste. Si deve lavorare, si deve creare un ponte e con queste parole non sto inventando una metafora … è vero, è proprio così ed è bellissimo! Questa Sinfonia, in questo particolare momento, è il giusto messaggio che abbiamo voluto trasmettere, facendo risuonare l’incipit più famoso, quello appunto della Quinta Sinfonia. Il celebre motivo ritmico di quattro note del destino che bussa alla porta. Che esprime in modo evocativo la lotta dell’uomo contro il fato, profilandosi come uno dei capolavori assoluti di ogni tempo».

L’esecuzione della Quinta Sinfonia a Genova è stata preceduta da un omaggio alle vittime del ponte Morandi, perché è stata scelta una composizione di Samuel Barber?

«Con le società costruttrici, insieme a me e a tutti i componenti dell’Orchestra di Santa Cecilia, si è voluto rendere un commosso omaggio alle vittime del Ponte Morandi con l’Adagio per Archi del compositore statunitense Samuel Barber perché è un brano molto comunicativo. E’ una musica dove in tre note si capisce tutto ed è veramente commovente, sono molto felice di aver eseguito questo programma».

E’ prematuro parlare della prossima stagione dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia, ma già per l’autunno sono previsti degli eventi?

«Tornerò sul podio dell’Accademia nella seconda metà di settembre, partiremo con l’Orchestra per una tournée a Budapest, Vienna con due concerti al Musikverein, Linz e Bratislava».

La sua opinione sulla situazione italiana, dove per tradizione sono presenti istituzioni liriche storicamente di rilievo, a differenza ad esempio del Regno Unito, dove a Londra è concentrata gran parte dell’attività culturale. Un patrimonio immenso quello italiano, ma anche un pericolo di frammentazione nella cultura musicale? In particolar modo nella realtà odierna, con limitate risorse economiche.

«Gli Enti musicali in questo difficile momento devono collaborare per arrivare a delle soluzioni comuni. La mia paura è che ogni Ente vada per la propria strada, questo è pericoloso. Non affermo che essere competitivi sia sbagliato, ma siamo in un momento particolare e stiamo parlando di cose molto, molto serie. Detto questo, ovviamente, senza l’aiuto del governo, delle regioni, avremo difficoltà ad affrontare la ripresa. Spero, almeno fino a Natale, che potremo contare su questi appoggi. Avremo veramente bisogno di un grande aiuto, perché la nostra attività è importante. Importante perché la cultura in Italia non è un lusso, è rilevante per il turismo e per tutto ciò che si muove intorno alla nostra attività, tutta la parte economica. Naturalmente io posso riaffermare quella che è l’importanza dell’arte per l’anima, della musica, della prosa, della cultura tutta; sull’argomento posso esprimermi in modo molto poetico, ma ci sono ragioni da tenere presenti puramente finanziarie, interessi economici. Non dimentichiamo che sostenere l’arte è un investimento in un settore che porta molto al proprio Paese».

In Italia abbiamo molti teatri lirici e meno attività nel sinfonico. Crede che questo sia motivato da un problema culturale. Una minore attenzione del pubblico o una mancanza educativa?

«Io non posso cambiare centinaia di anni di storia, la musica lirica è la gloria d’Italia, diciamo, però, che Enti come l’Orchestra e il Coro di Santa Cecilia, la Filarmonica della Scala, quali l’Orchestra della Regione Toscana, la Cherubini, l’Orchestra Mozart, sono degli esempi ammirevoli. Prima di tutto in queste orchestre c’è un’intensità verso la sinfonica e una qualità che si è molto sviluppata in questi ultimi anni. La storia, però, è la storia ed io non vedo questo come un torto, perché nel DNA di qualsiasi musicista italiano c’è il teatro, c’è la lirica, c’è la cantabilità, ci sono i colori, c’è l’atmosfera, c’è il raccontare. Tutto questo indirizzato verso il repertorio sinfonico è un grande valore aggiunto. Allora, se in Italia non ci sono, diciamo, dieci o venti orchestre sinfoniche di grande rilievo, allora non importa. La cosa si sta sviluppando da sé».

Lei avverte questo istinto teatrale nei musicisti italiani anche quando, sia pure in forma semi-scenica con l’Orchestra e il Coro dell’Accademia, ovvero di vocazione sinfonica, esegue un titolo del repertorio operistico?

«Nella storia di Santa Cecilia la concentrazione è sempre stata verso un repertorio lirico tendente al sinfonismo, cioè Wagner, Richard Strauss, avvolte Mozart. Allora, per me era importante far capire ai miei musicisti la loro provenienza, di far comprendere cos’è Verdi, cos’è Puccini. Abbiamo avuto la gran bella fortuna di avere avuto sin dall’inizio con i complessi di Santa Cecilia un bellissimo rapporto con Rossini, che è una musica per loro molto naturale, per la mia Orchestra, per il Coro. Inoltre, avere l’opportunità di registrare tanti dischi con cantanti quali Jonas Kaufmann, la Netrebko e d’incidere Aida, Guillaume Tell, adesso Otello, dischi dedicati al Verismo, di arie pucciniane e tanti altri; un disco che sta per uscire con Diana Damrau che interpreta musiche di Donizetti, dalle Tre Regine; tutto questo informa, educa la mia Orchestra a capire le proprie radici e questo per me è fondamentale. Sì, abbiamo eseguito anche Peter Grimes di Britten e Das Rheingold di Wagner, ma anche Dallapiccola e nel mio programma c’era di proporre a Roma un altro titolo di Wagner; io ho diretto pochissimo Wagner».

Quanto è importante nelle attività dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia l’esperienza nel repertorio lirico?

«Per me, importante è che loro conoscano Verdi o Puccini non solo come un nome della loro storia, ma che capiscano il perché questi compositori hanno spiccato e hanno dato un profilo alla lirica italiana, a tutta la patria».

La registrazione più recente con l’Orchestra e Coro di Santa Cecilia è quella di “Otello”, realizzata in due settimane di lavoro al Parco della Musica di Roma l’anno scorso e da poco in commercio. Sembra che lei abbia un rapporto privilegiato con questo titolo verdiano. Quale posto occupa “Otello” nell’arco della sua carriera di direttore d’orchestra?

«Ho un rapporto intenso con questa opera, ma ogni volta che la dirigo è un’esperienza diversa. La prima volta di Otello fu negli anni ’90, era in forma di concerto con Giuseppe Giacomini e Barbara Frittoli che debuttava in Desdemona. Giacomini fu molto carino con lei aiutandola e dando consigli per affrontare il personaggio. Era molto importante ascoltare un artista così compenetrato nel ruolo, con questa voce potente e molto maschile. Durante le prove se si andava fuori tempo per una qualsiasi ragione, bastava capire che lui procedeva al ritmo della parola, allora si sviluppava tra noi una fluidità molto naturale, ho imparato molto da questo. Ho diretto Otello diverse volte e con importanti tenori, anche con Placido Domingo in una serata di gala, ma solo il quarto atto. Ancora nel 2017 al Covent Garden, con il debutto nel ruolo di Jonas Kaufmann, lo stesso tenore con cui abbiamo registrato Otello con i complessi di Santa Cecilia».

L’”Otello” è stato registrato senza pubblico in sala. Come restituire la teatralità insita nella partitura senza la reazione di una platea e l’obbligo di seguire il susseguirsi degli atti, così come da libretto?

«La cosa più difficile per la realizzazione di un disco è che i brani non si registrano in ordine, per esempio abbiamo cominciato la prima sessione di registrazione con Fuoco di gioia, per cercare di trovare l’equilibrio tra orchestra e coro e dopo si saltava altrove, poi si ritornava alla tempesta, si eseguiva parte del terzo atto, per poi riprendere dal secondo; dipende dal piano di produzione, dalla disponibilità della compagnia. Bisogna avere un’esperienza ben sviluppata per mantenere quel filo conduttore del racconto, affinché al termine, quando tutti gli spezzoni sono montati in sequenza, si sia conservata la logica, la coerenza della narrazione; che si capisca quello che si è fatto, che nell’ascoltatore, attraverso la coerenza del messaggio musicale, si crei quella giusta tensione e attesa per quei momenti, diciamo, simbolo di questa partitura».

Il lavoro di preparazione per una produzione operistica è quanto mai complessa. La scelta della compagnia di canto è fondamentale per la buona riuscita del progetto?

«Per prima cosa si deve pensare all’equilibrio della compagnia e per questo si deve seguire una logica. Il dovere fondamentale è quello di trovare degli artisti adeguati che possano esprimere tutto quello che c’è dentro quella partitura. Avere i cantanti giusti è anche di grande aiuto per comunicare con l’orchestra. Nel coro cantano, quindi capiscono subito quest’arte che nasce dall’anima, si poggia nel diaframma e passa per la gola, ma l’orchestra per entrare nella drammaturgia, per comprendere l’importanza della vocalità, che talvolta può apparire strana e difficile, ha bisogno di ascoltare. Questo arricchisce la cultura di un’orchestra, il partecipare al processo per realizzare un’opera e di essere convincenti a ogni “centimetro” della partitura, di vedere come si arriva a quel determinato risultato. E’ un’esperienza veramente fantastica, che può solo farli crescere mentalmente, in quella che potremmo definire un’intelligenza-emozionale. Perché i cantanti hanno veramente, a un livello pazzesco, questa emotional intelligence e quando si vedono al lavoro si capisce come alcuni artisti usino questo ingegno per capire al volo una situazione e risolverla. E’ veramente un dono prezioso e tale opportunità l’abbiamo avuta in pieno con questa compagnia, equilibrata nella vocalità e interpretazione dei rispettivi ruoli, nei rapporti gli uni con gli altri, sentita nei loro cuori. Veri artisti, primo fra tutti il tenore Jonas Kaufmann, con lui il soprano Federica Lombardi e il baritono Carlos Alvarez».

Nel suo repertorio operistico la musica verdiana è protagonista, vorrei ricordare la riproposta del “Don Carlos” (quindi la versione francese) nel 1996 al Théâtre du Châtelet di Parigi e dello stesso titolo l’edizione in italiano al Festival di Salisburgo nel 2013 con Kaufmann, solo per fare un esempio e l’elenco potrebbe essere lungo. “Otello”, nella maturità verdiana, presenta degli aspetti del tutto inediti. Questo richiede un diverso lavoro con orchestra, coro e solisti?

«I cantanti mi aiutano molto nel lavoro che devo affrontare, il loro apporto è veramente importante soprattutto in quei passaggi così dolci, del piano e pianissimo che sono indicati da Verdi in partitura. Questo tipo di approccio si può averlo solo con dei grandi interpreti. Se si dovesse controllare partitura alla mano che cosa i cantanti stanno facendo realmente, allora io credo che si debba loro il massimo rispetto. Stiamo parlando delle dinamiche, questa è una cosa molto difficile da conseguire, per un problema vocale, avvolte per il fiato o non saprei. C’è, poi, il problema delle tradizioni e questo crea delle aspettative nel pubblico e delle tensioni inimmaginabili. Quante volte ho sentito un commento sul perché quel cantante esegue quella nota in quel modo invece che in quell’altro, oppure se realizziamo quella scena in modo diverso da come si è sempre fatto. Questo è un altro argomento, perché dobbiamo cercare di pulire, di togliere la vernice del tempo per vedere, individuare veramente il significato di una scrittura musicale. Non dico che noi siamo perfetti, che facciamo quest’approfondimento per ogni riga della partitura, no! Siamo degli essere umani, ma sempre alla ricerca di un nostro linguaggio. Per l’orchestra, sentire un solista cantare piano è una cosa speciale, perché molti cantanti dicono che quando c’è da affrontare l’orchestra devono dare di più, perché hanno timore che l’orchestra copra la loro voce, è il contrario! Se si canta piano, in quel momento i professori si adeguano, perché loro ascoltano, vogliono capire e quando sentono un’atmosfera particolare, sono molto sensibili nell’accompagnarla. Però, avvolte, si deve combattere con queste difficoltà. Si dice che Otello sia un titolo iconico, certamente, ma lo è anche Aida e tante altre opere. La nostra vita, quella mia, di Jonas, di Federica, di Carlo Alvarez è di doverci confrontare con una partitura, con un capolavoro, che si chiami Otello, oppure Aida, Rigoletto o Tristan und Isolde! Certo, sono pezzi difficili, ma sono da conoscere e onorare. Inoltre, il nostro rispetto va a tutti i cantanti del passato, ma noi dobbiamo creare la nostra realtà e questa la possiamo ottenere solo lottando con il materiale, non avendo paura di entrare in una sorta di discussione personale con i capolavori, allora sì, questi prendono vita».

Un altro elemento in “Otello”  è il Coro di voci bianche. Una pagina impegnativa l’ingresso di Desdemona nel secondo atto?

«Quella scena mi ha creato trent’anni di mal di stomaco, devo ammetterlo. Perché per l’insieme, l’arpa, le chitarre, i mandolini, i bambini, il coro ridotto, è veramente difficile, ma l’inserimento di questo episodio è molto shakespeariano. Dopo tutta la drammaticità e l’energia del primo atto, malgrado il fatto che ci sia un duetto d’amore e dopo il Credo di Jago, abbiamo bisogno di un momento di riposo, di grande calma e innocenza, per celebrare la purezza, la bellezza di Desdemona. Questa situazione si pone in massimo contrasto con quello che precede e che seguirà e ci riporta direttamente a Shakespeare, dove ai momenti più tragici, più complessi e conflittuali, si frappone una scena da commedia, come due vagabondi, oppure due ubbriachi o i becchini in Amleto, entrano in scena e da quell’interruzione parte il dramma ed è questa una situazione molto teatrale».

Sino a che punto l’interpretazione di una partitura è influenzata dal momento stesso in cui questa è eseguita, ovvero il tempo presente; dalla reazione del pubblico, da un diverso approccio socio-culturale dell’epoca attuale. Sono condizionamenti, oppure opportunità?

«Ogni concerto, ogni allestimento è un’opportunità, per comunicare delle verità del nostro mondo. Io credo che l’essere umano non sia così cambiato rispetto al passato, che si provino delle emozioni che non hanno tempo, perché sono universali. Sono emozioni che abbiamo in comune con tutto il mondo, perché le condividiamo con la storia».

Una domanda di carattere personale, durante la sua esecuzione della “Messa da Requiem” di Giuseppe Verdi in Accademia, rimasi impressionato dall’interiorità del dialogo tra voci e orchestra, dall’esigenza di esprimere quell’interrogativo alla soglia della vita terrena. Verdi sembra porsi alla ricerca dell’espressione di una spiritualità altrimenti negata. Come, secondo lei, questa esigenza è risolta nella produzione verdiana di musica sacra e anche operistica e condivide questa mia riflessione?

«Dipende da cosa s’intende per spiritualità! La spiritualità per Verdi non era la chiesa, era la famiglia, è un rapporto personale con Dio. Il Requiem è una composizione della maturità e naturalmente con la sua sviluppata bravura acquisita negli anni, assume un linguaggio più sofisticato, anche maggiormente personale. Verdi è stato capace d’entrare in un mondo molto più misterioso e credo che nel linguaggio del suo passato, non trovo adesso la parola giusta, diciamo… più ruvido, arrivare a quegli apici di spiritualità del Requiem sarebbe stato meno facile, mentre è stato possibile nella pienezza del dominio del linguaggio musicale, non solo nella musica sacra, ma per esempio componendo Aida con una fluidità armonica che sembra così semplice, ma che non lo è! Verdi nella maturità è stato capace d’attingere ad atmosfere che neanche lui, forse, avrebbe potuto sognare di avere. Pensiamo a come avrà la capacità di attingere alla tradizione nell’uso della fuga, al riferimento di tutta la musica liturgica della storia d’Italia; era consapevole di avere tutto questo patrimonio alle spalle e lo maturò nelle sue composizioni, quanto nella propria umanità. Interessante che lui con il Requiem, con i Quattro Pezzi Sacri, c’è anche una piccola Ave Maria che è molto bella, l’abbiamo registrata, arrivò a livelli altissimi. Stiamo parlando di un Verdi che non è solo quello del mondo del palcoscenico, della lirica, ma che va ben oltre».

Esiste, per il direttore d’orchestra, un margine d’azione per esprimere nell’esecuzione di una partitura la propria personalità e sino a che punto?

«Sentendo questa domanda mi viene da sorridere, perché qualsiasi direttore che affermi di rispettare la partitura e di fare solo quello che c’è scritto, non è così! Perché con ogni direttore, pur guardando la stessa scrittura, il suono, i tempi, saranno leggermente diversi. Siamo tutti diversi l’uno dall’altro. Questo vuol dire che quando si è se stessi, pur nel rispetto dalla partitura e di tutti i segni in essa contenuti, ognuno arriva a eseguire un qualcosa di personale. Questo, ovviamente, si deve riferire a un fondamento di preparazione, di aver digerito il materiale, di aver comunicato all’orchestra con precisione quale sia il racconto, la sintassi di questa musica e che loro lo capiscano così bene, tanto da poterlo trasmettere al pubblico».

Quindi, la partitura deve essere, come disse il maestro Alberto Zedda, solo un punto di partenza per la creatività dell’artista-esecutore?

«Esatto! Diciamo, per me la cosa fondamentale è che la musica è morta fino a che è viva. Cioè è un pezzo di carta e il direttore deve farla uscire dalla pagina in cui è scritta, questo è il mio punto di partenza, cioè dimostrare un entusiasmo per qualsiasi cosa che possa essere interpretato come un’idea da parte del compositore, come una spunta verso una direzione inaspettata. Di cercare, sempre, di trasmettere il senso di gioia che c’è nella musica agli esecutori, o almeno di convinzione della propria missione».

Tra i diversi incarichi, come detto, lei è anche Direttore musicale della Royal Opera House Covent Garden e nelle produzioni da lei dirette, più che in altri allestimenti oggi di successo, sembra essersi creato un diverso equilibrio tra podio e palcoscenico perché, pur nell’innovazione della proposta, la parte visiva non cerca mai il sopravvento sulla scrittura musicale. E’ possibile affermare che oggi, considerati vetusti gli allestimenti tradizionali che pur avevano il loro fascino e spettacolarità, possa considerarsi superata la così detta fase sperimentale della ricerca di diverse espressioni e stia maturando un più efficace equilibrio, che pur tenendo conto delle diverse esigenze estetiche del pubblico contemporaneo, riconduce ai significati autentici della tradizione del melodramma?

«Io cerco di lavorare con registi che siano musicali, non ho bisogno che loro siano professori di musica, ma che abbiano una grandissima sensibilità alla musica e alla parola scenica, questo per me è fondamentale. Non guardo alla bellezza o all’indirizzo della messa in scena, io sono molto più libero, nel senso di trovare una soluzione poeticamente valida. Per rispondere più direttamente alla domanda, ci sono degli spettacoli che riescono a essere innovativi pur rispettando il contenuto dell’opera proposta. Non è facile, in particolare con Verdi. In qualche modo Verdi è molto legato alla sua epoca. Però, non è impossibile».

Una conciliazione tra proposta e ricezione del pubblico?

«Il fatto è che una gran parte del pubblico, se il racconto, se la trama dice che c’è quella cosa, vuole vedere quella cosa. Il problema, avvolte, non è solo il regista, oppure lo scenografo o le idee che regista e scenografo hanno concepito insieme. Io personalmente non sono così, diciamo, talebano, per me importanti sono i rapporti tra i personaggi e se uno spettacolo fa capire che gli interpreti si stanno ascoltando, stanno comunicando, stanno collaborando e che il direttore d’orchestra crea un’unità tra palco e buca, questa per me è una produzione riuscita».

Il pubblico, avvolte, si divide nella reazione a una proposta; cosa pensa dei così detti tradizionalisti?

«Che c’è una gran parte del pubblico che sul palco ha una necessità viscerale di realismo. Se si dice che c’è una tavola, una sedia, allora devono essere una tavola e una sedia. Se c’è scritto che deve apparire un castello allora deve essere un castello, se c’è una montagna deve essere una montagna. Io penso che quando si entra in un teatro si debba avere la mente aperta, non dico che non si possa criticare, nella nostra società c’è la libertà di espressione, però a priori venire a teatro e dire che se quella Carmen o quella Traviata non sono così come è sempre stato, altrimenti do i numeri, questo no! Certamente, non sono d’accordo nell’andare a cercare da parte di alcuni registi forzatamente la bruttezza o la scurrilità, perché va contro il senso di ogni partitura e in questi casi, io personalmente, ho dei problemi… Ma vorrei aggiungere che non va bene, neanche, se il direttore non è sensibile alla musica e dirige solo le parole; l’argomento è molto complesso».

Sale da concerto, teatri, sono i luoghi ideali per ogni esecuzione. A questi, si aggiungono le riprese televisive e gli altri mezzi di diffusione, che ancor più in questo periodo di confinamento, hanno supplito all’esigenza di essere accompagnati dalla musica.  In questi mesi siamo stati più volte confortati dalle registrazioni di concerti da lei diretti con l’Orchestra dell’Accademia e dalla diffusione di produzioni dal Covent Garden, così come in precedenza molto interesse aveva suscitato il progetto di dirette di eventi musicali diffusi in sale cinematografiche.  Qual è l’importanza di queste iniziative e quanto resta importante il richiamo del pubblico, quello affezionato e anche di una rinnovata e più vasta platea, nei luoghi deputati per l’ascolto e la visione di concerti e di opere?

«La tecnologia, oggi, è fondamentale per avere un rapporto con la realtà e credo che tutti noi, in questo periodo di lockdown, ci siamo avvicinati ancora di più a questo mondo. Se una persona non può arrivare al concerto, non può essere lì, a partecipare dal vivo e usa la tecnologia per avere l’esperienza di quello che noi stiamo facendo, io trovo che questa sia una cosa bella; è importante che adesso una parte del nostro mondo si avvicini all’arte tramite la comunicazione digitale! Rimarrà così, ma sempre con l’incoraggiamento da parte di tutto il nostro settore e mio personale per affermare che niente può rimpiazzare la musica dal vivo. Dobbiamo fare qualsiasi sforzo per non dimenticarlo, che la musica dal vivo è una cosa speciale, è una comunità che creiamo e di cui abbiamo necessità. Questa è la nostra storia e allora dobbiamo cercare di salvaguardare questo concetto così importante, così umano, umanistico anche, così caloroso e bello. Abbiamo la possibilità di comunicare la nostra musica dal vivo e le nostre sale sono capienti e le opportunità torneranno a presentarsi numerose. Detto questo, certamente, in questo periodo è stato molto interessante per dimostrare che siamo capaci ed è stato anche necessario, di trasmettere la nostra musica tramite mezzi virtuali …E che gioia avere questa possibilità, di poter usare la tecnologia per diffondere il messaggio musicale. Il digitale, secondo me è una grande opportunità; la speranza è che la nostra società sia sempre in sviluppo e disponibile a offrire un qualcosa di migliore. Comunque, dobbiamo essere pronti a tornare, appena ci sarà reso possibile, a offrire un messaggio umano e non solo meccanico, così come è avvenuto per la stagione estiva all’aperto dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia. Con questo momento di arresto di tutte le attività è difficile rendersi conto di quello che sta avvenendo, perché le orchestre sono restate a lungo in silenzio, i teatri sono vuoti. Roma, come altri luoghi in Italia, ha la fortuna di avere delle stagioni musicali estive all’aperto, in spazi che permettono di avere un pubblico non troppo esiguo anche con l’attuale normativa. Adesso dobbiamo affrontare le stagioni al chiuso, in autunno e in inverno e stiamo riscaldando in qualche maniera le nostre anime, le nostre dita, il nostro respiro, le nostre voci, per continuare a passare questo messaggio così com’era sempre stato pensato, cioè in comunità, con delle altre persone. Chiedo scusa, adesso divento troppo poetico, forse… Ma io credo in questo, ci credo molto».

Preoccupazioni per il futuro, in una realtà nella quale alla cultura non sempre sembra sia riconosciuto un valore sociale ed evolutivo?

«Devo dire che in questo momento siamo in uno stato di preoccupazione dappertutto e che anche le questioni economiche hanno il potenziale per essere fatali. Questo non lo possiamo nascondere! Io spero che qualsiasi governo, in qualsiasi paese, si renda conto che siamo un punto di riferimento e questo in particolare in Italia; che siamo definiti per la nostra cultura. La specificità comprende anche la tradizione del cibo, del vino, ma soprattutto la cultura della nostra storia, dei musei, dell’arte, della cinematografia e ovviamente della musica sia sinfonica che lirica, ma anche pop e qualsiasi altra forma espressiva. I governi non devono dare mai per scontato che noi si possa sopravvivere come in una bolla, devono rendersi conto che facciamo parte dell’essenza stessa del Paese. Non dico, ovviamente, che la gente possa non aver da mangiare, negare che ci siano tanti altri problemi e che l’arte sia più importante, questo mai; non direi mai una cosa simile, però chiedo di non essere dimenticati».

Si dice frequentemente che nella ripresa, dopo la pandemia, nulla sarà più come prima.  Servendomi di un ironico “gergo colloquiale“, per la cultura musicale sarebbe una minaccia oppure una promessa”?

«Noi stiamo vivendo questa esperienza in comune con tutto il mondo, con altri musicisti, con i popoli e i governi di tutto il mondo. Allora, io credo che questa esperienza meriti rispetto. Il ricordo di questo momento nella nostra storia rimarrà per sempre e sottilmente cambierà, io spero, il nostro approccio con il prossimo. Forse questo concetto è …no… non è solo cristiano, è un sentimento dell’essere umano e spero che insieme, con l’esperienza del ritrovarci per un concerto o un’opera, ci si renda conto ancor più di prima che la condivisione, questa comunità creata per sentire insieme qualcosa di bello, per vedere insieme qualcosa di bello, sia una consapevolezza quanto mai preziosa. Questa è la mia speranza».

Quindi la musica è bellezza?

«La musica è tantissime cose: è bellezza, poesia, conflitto, caos, passione, spiritualità. Tantissime cose».

Vincenzo Grisostomi Travaglini

RIGOLETTO de GIUSEPPE VERDI: L’oeuvre-symbole de la Renaissance de l’art lyrique à Rome après les longs mois de confinement…

Il Teatro dell’Opera di Roma per la “ripartenza” ha avuto l’opportunità di una struttura unica al mondo, realizzata nell’incantevole cornice del Circo Massimo, con un palcoscenico gigantesco di mille e cinquecento metri quadri e una vasta platea capace di mille e quattrocento posti, tenuto conto delle norme di distanziamento. Il titolo d’apertura della stagione, tra i più amati dal pubblico: Rigoletto, in una nuova produzione firmata da Daniele Gatti, Direttore Musicale della Fondazione capitolina e per la regia di Damiano Michieletto che si è voluto distinguere in una sorta di sfida alle leggi della regia, tra spazi teatrali e set cinematografico. Il pubblico aspettava con impazienza di tornare a godere della musica, del canto, del ballo e si deve riconoscere che in questa produzione vi erano tutti gli ingredienti per un risultato che si sarebbe voluto all’altezza dei mezzi a disposizione. La magia di Roma e un meteo ideale, con il caratteristico Ponentino, rappresentano l’eccellenza per una gradevole serata d’estate romana; un parterre di primo piano, con il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, i Presidenti delle due Camere, la Sindaca Raggi, ancorché della star internazionale del cinema Ralph Fiennes. Rilevante la rappresentanza diplomatica e presenti autorevoli esponenti dell’aristocrazia romana… veramente non mancava nulla affinché questo Rigoletto fosse l’evento più atteso. Così com’è stato, sin dall’Inno Nazionale Italiano eseguito dall’Orchestra dell’Opera di Roma e un pubblico commosso.

Tutti sono rimasti colpiti dagli imponenti mezzi tecnici a disposizione della produzione: dal palcoscenico immenso, dalle luci pontentissime e da tutti gli artifici messi in campo dal regista per imporre le proprie scelte, per brillare ancora di più nell’universo della notorietà. Ancora, uno schermo “massimo” come fondale, assolutamente in tono con il luogo stesso della recita. La direzione del Maestro Daniele Gatti prometteva di offrire una lettura singolare del capolavoro di Verdi, mentre la scelta di Damiano Michieletto si annunciava come una visione molto personale del concetto stesso di regia operistica al tempo del Covid. In un certo senso, si potrebbe affermare che il risultato è stato ottenuto, con una produzione originale, che sicuramente segnerà le loro rispettive carriere, con un sigillo al sapore provocatorio di quella “nuova era” che sembra si stia aprendo dopo la pandemia. La scelta di ambientare la corte del Duca di Mantova in un immenso drive-in della fine degli anni cinquanta e di vestire tutte le donne in minigonne di paillette colorate sino all’eccesso, ha subito suggerito un riferimento insolente ad alcune pellicole musicali del periodo Disco. Da parte del regista non sono mancati i referimenti ai grandi maestri e si sente la sua voglia di condividere con il pubblico il feroce impulso di rinascita dopo un lungo periodo di astinenza anche se, l’uso dello schermo come tentativo di una “mise en abime” alla maniera di Corneille nella sua Illusion comique, era sin troppo evidente. Il problema è che non si tratta di una tragedia del ‘600 francese, ma di un’opera famosissima del più celebrato compositore della lirica italiana. In altri termini, “la maionese non ha preso”. Lo schermo era una distrazione inutile per lo spettatore, la giostra sulla destra del palcoscenico dava un’impressione inevitabile di déjà-vu e l’uso delle mascherine da pagliaccio dei cortigiani venuti a rapire la povera Gilda era palesemente una ri-elaborazione infelice della figura del clown assassino, un cliché del cinema americano contemporaneo…

Per la parte musicale, è complicato trovare una strada originale per un’opera come Rigoletto, che il pubblico conosce a memoria. I tempi del Maestro Gatti fanno riflettere per l’inadeguatezza alle nostre abitudini, ma è anche possibile che lo stimato direttore d’orchestra sia stato costretto a rallentare alcuni tempi per facilitare l’interpretazione dei cantanti in difficoltà: niente più acuti, seguendo i dettami dello scritto. Complessivamente un Rigoletto debole, di poche emozioni, meno accorto nelle esigenze musicali e maggiormente centrato nell’espressione, eccessivamente rimarcata, dalla parte visiva, di violenza e di vendetta. Il Duca di Mantova Ivan Ayon Rivas, dalla voce soave e deliziosa, era ampiamente aiutata dall’amplificazione; un meritato applauso al soprano Rosa Feola, che ha saputo trasmettere con molta grazia, emozioni e genuinità alla sua Gilda. Martina Belli ci ha donato una Maddalena sensuale a oltranza con il giusto pizzico di rammarico che conviene e Riccardo Zanellato nelle vesti di Sparafucile appariva grandioso nel suo ruolo d’implacabile verità. Ovviamente, Roberto Frontali è un grande professionista e ammirato Rigoletto, non ultima la sua esibizione nel ruolo nella sala del Costanzi dell’Opera di Roma di due anni fa; qui ha dovuto conformarsi a un ruolo volutamente sotto tono e senza grande rilievo. La sua presenza scenica e la sua arte nel superare le difficoltà di un canto complesso l’hanno portato, in ogni caso, a conquistare l’assenzo entusiastico di un pubblico alla ricerca di punti di riferimento, per un ritorno in teatro, sia pure con tutte le restrizioni di mascherine e distanziamento sociale.

Una bella idea, realizzata con arte, è stata quella di proiettare sullo schermo durante i brevi intervalli dei filmati di Roma vista dal cielo durante il periodo del confinamento, iniziativa che ha acuito l’emozione di questa “rimpatriata” in terra musicale e artistica. Rigoletto a Roma nel luglio 2020 è senza dubbio una produzione da considerare con uno sguardo diverso, come una fenice che rinasce dalle proprie ceneri in un momento particolarmente delicato e sensibile. La questione da porsi è di sapere come confrontarsi con una proposta che riunisce le diverse arti del palcoscenico, allo scopo di permettere a un pubblico numeroso di ritrovarsi in un teatro, all’aperto, senza paura e nel piacere del godimento di una produzione operistica. Come rendere la sensualità erotica di un duca di Mantova perverso e allo stesso tempo tenero, senza toccarsi, né mani, né labbra? Come esprimere la violenza della vendetta del buffone che assolda uno spadaccino per lavare l’onore perduto della sua figlia unica? La risposta è difficile e ci vorrà molto tempo prima di tornare a un modo espressivo soddisfacente, teatralmente e musicalmente.

Una volta perso nella tempesta, l’uomo ritorna ai suoi fondamentali per ri-studiare le fonti della sua cultura. L’innovazione non è sempre sinonimo di genialità e molto spesso si ha tendenza a perdersi nell’eccesso di concetti ingarbugliati, correnti di pensiero e dissonanze di visioni. Il risultato, così, diventa insipido, malgrado la quantità di riferimenti ai Grandi dell’arte, nonostante la qualità della musica e dei musicisti e la benevolenza del publico che ri-vuole il suo teatro, che chiede di tornare a quel rito di una socialità che per un momento, che è sembrato interminabile, sembrava perduto. Coraggio e perseveranza aspettano questi nuovi creatori della lirica post-Covid, affinché possano trovare una più equilibrata espressione, nel rispetto della scrittura della musica, delle didascalie sceniche della partitura e della creatività personale. Siamo all’alba di una era di rinnovo, dopo un doloroso affogamento, nell’angoscia estrema di fronte ad una malattia sconosciuta. Però, attenzione a non cadere nella trappola della superficialità, per mancanza di umiltà e il senso del limite rimane pur sempre una qualità imprescindibile.

Sisowath Ravivaddhana Monipong

Photo credits: Yasuko Kageyama & Kimberley Ross

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