“Marche: la Terra dei cento Teatri”, un articolo del Maestro Vincenzo Grisostomi Travaglini in “L’Opera International Magazine”, Aprile 2021


I teatri storici nelle Marche sono nel loro complesso il sistema teatrale più articolato d’Italia, con una gamma di spazi che vanno dai grandi edifici municipali, come quelli di Pesaro, Fano, Jesi, Fabriano, Macerata, Fermo, Ascoli Piceno ed Ancona, a teatri medio grandi di eccezionale valore artistico, fino alle piccole gemme disseminate nei centri minori. Una realtà complessa, di difficile gestione sia per il mantenimento delle strutture, sia per l’individuazione della ritrovata funzione all’interno della comunità, per un utilizzo conveniente di una struttura che è parte integrante del territorio; che deve vivere nel presente non quale reperto museale, ma nella sua funzione originale di unione, per una condivisione dinamica di una collettiva maturazione artistica. Il retaggio storico di tale fioritura va ricercato nel passato, nelle origini e diversità di una regione, la sola in Italia che abbia conservato una declinazione al plurale, nel nome e nella varietà dei suoi abitanti. Un plurale in qualche modo unificante è stato precisato, ufficializzato sin dal Protocollo finale del Congresso di Vienna nel 1815, per un territorio così ricco quanto frastagliato. Le Marche sono la regione dai dolci colli e dai tanti dialetti, terra di artisti, di Raffaello, Leopardi e di Federico II, di Pergolesi, Spontini, Rossini e delle fisarmoniche; la regione del Tronto e dell’Esino. Una diversità che non divide, bensì è ineguagliabile ricchezza.


Le Marche sono Terra dei cento Teatri, un termine che riflette la risorsa di molteplici edifici diffusi in tutto quel territorio compiuto che fu Marca di Urbino, di Ancona, di Camerino, di Fermo e Picena. Rievocando la storia, numerosi furono gli spazi per gli spettacoli già in epoca romana, edificati in quel territorio dove oggi s’identifica la regione Marche, dove erano presenti 35 municipi e ognuno dei quali era dotato di teatro o di anfiteatro. Molte di queste strutture sono andate perdute, provate dal tempo e dall’uomo, di altre restano tracce, come a Fermo, Villa Potenza, Jesi, Ostra, Acqualagna, Urbino. Ad Ascoli Piceno sono ben visibili i ruderi del teatro romano ed è stato individuato l’ampio perimetro di un anfiteatro sempre di epoca romana, a ulteriore testimonianza della vitalità del territorio. A meglio documentare le caratteristiche legate alla cultura d’epoca romana dello spettacolo e dei giochi circensi sono le strutture del teatro e anfiteatro di Falerone e di Urbisaglia, quest’ultimi all’interno del parco archeologico più esteso della regione. Lavori importanti sono tutt’ora in corso per riportare alla luce l’anfiteatro di Suasa, uno dei maggiori della regione, già utilizzato in anni recenti per ospitare spettacoli teatrali e musicali. La successiva fioritura di spazi destinati allo spettacolo, dal XVI secolo in poi, risulta dall’imporsi degli avvenimenti; la formazione dei territori si diversifica nell’identificazione del Libero comune di origine medievale e nell’orgoglio di proprie identità, che verranno mantenute anche in tempi successivi, remoti quanto recenti e in ogni comunità grande o piccola che sia, allo sviluppo di una propria specificità, di cui l’edificio teatrale sarà parte integrante.Per l’avvio di questa realtà, che con azzardo potremo definire d’epoca recente, si può indicare una data e un luogo: la corte d’Urbino nel 1513, nello storico ducato che fu dei Montefeltro, dove nasce il primo allestimento scenico dell’età moderna, quando nella Sala del trono di Palazzo Ducale in onore di Francesco Maria I Della Rovere, si allestisce un grandioso spettacolo con La Calandria del cardinale Bernardo Dovizi da Bibbiena e Prologo di Baldassarre Castiglione: «in prosa, non in versi; moderna, non antiqua; vulgare, non latina». E’ l’occasione per l’incontro di tre grandi ingegni quali Bernardo Dovizi detto il Bibbiena, l’architetto di corte Girolamo Genga che ne progetta la grandiosa scenografia e Baldassare Castiglione, uno dei più celebri intellettuali del Rinascimento, che compone i quattro Intermezzi della commedia e firma la prima regia di quella che definiremo l’ età moderna della messa in scena. La descrizione fatta dal Castiglione permette di avere un’idea del nuovo rapporto venutosi a creare tra teatro e città grazie alle scenografie realizzate per La Calandria da Girolamo Genga, dalle quali s’introduce la scenografia prospettica dipinta, codificata e divulgata in Europa attraverso il celebre trattato di Sebastiano Serlio. Questa nuova realtà culturale non si limita alla corte, a distanza di pochi anni in altre città marchigiane la Sala delle commedie viene allestita all’interno del Palazzo pubblico. Le regione vanta anche altri primati in campo teatrale, poiché l’architetto pesarese Nicola Sabbatini scrisse nel 1637 il primo trattato di scenografia Pratica di fabbricar schene e Machine ne’ Teatri, mentre l’architetto e scenografo Giacomo Torelli, nativo di Fano, si afferma come il più grande scenografo d’Europa, prima a Venezia, poi in Francia alla corte del Re Sole. La molteplicità dello spazio barocco trova espressione nelle Marche nelle realizzazioni di Nicola Sabbatini e del celebre Giacomo Torelli, la cui abilità scenotecnica porta alla realizzazione di scene mobili. Le strutture effimere, originali dei teatri, sono rapidamente soppiantate da arredi, apparati, palchi, in un’articolazione sempre più complessa dello spazio scenico ricavato all’interno della così detta Sala grande, fino a giungere a costruzioni di legno ben strutturate, spesso ricavate all’interno del Palazzo di città, comunale o residenza gentilizia che ben presto, però, si riveleranno a grosso rischio d’incendio.


La filosofia illuminista, penetrando nelle classi più colte, favoriva il gusto per lo spettacolo e la creazione di strutture stabili per il teatro. Dal XVIII secolo le regione è appassionata nella diffusione capillare di sale da spettacolo, che coinvolge non solo i maggiori, ma anche i piccoli centri. Nelle Marche in particolare, ma in diversi aspetti anche in altre regioni, i teatri sono inizialmente costruiti su iniziativa di associazioni di privati che assumono il nome di Società condominiali, che provvedono al finanziamento per la realizzazione del progetto, fissando delle quote associative che garantiscono a ogni famiglia la proprietà di un palco, assicurando anche la gestione e la manutenzione dell’edificio. Alternativo alla Sala dello spettacolo del palazzo era il giardino o roccolo della villa di campagna, dove venivano ricavate tramite una strutturazione artificiale del verde, dei veri e propri schemi vegetali. Nel parco di Villa Caprile nel pesarese, residenza estiva della famiglia dei marchesi Mosca, ancora oggi si conserva nello splendido giardino all’italiana il Teatro di Verzura, a testimonianza di questo gusto per l’Arcadia che tanto peso ebbe nella cultura settecentesca. Qui, tra gli altri, fu accolto Giacomo Casanova e nell’Ottocento vennero ospiti Stendhal, Gioachino Rossini, Giacomo Leopardi e il generale Napoleone Bonaparte. Nel 2001, nell’ex galoppatoio di Villa Caprile, venne allestita dal Rossini Opera Festival la Festa musicale Le nozze di Teti e di Peleo, un pastiche con composizioni del compositore pesarese. Altra testimonianza è quella di Villa Centofinestre, nel comune di Filotrano, dove è ancora visibile il semicerchio di cipressi dove all’epoca, con tutta probabilità, vi era una struttura di verde più articolata.


Le Marche dell’epoca non conoscevano ancora un’unità amministrativa, anche se questo non impedì la formazione di un senso di appartenenza comune. E’ così che in molte città si approfitta della favorevole congiuntura economica legata allo sviluppo agricolo per dare vita a una fioritura di edifici teatrali. Dalla seconda metà del ‘700 e per tutto il XIX secolo ogni comune, che avesse voluto svolgere un ruolo sul territorio circostante, cominciò a programmare la costruzione del proprio teatro, anche se con una capienza di soli 50 posti. Per la progettazione prende avvio una vera e propria gara tra le diverse realtà territoriali al fine di potersi aggiudicare l’architetto più in vista del momento e vantare nel proprio comune l’edificio il più sorprendente. Vengono interpellati rinomati architetti marchigiani quali Domenico Bianconi, Pietro Ciaffaroni, Giuseppe Lucatelli, Ireneo Aleandri, Pietro e Vincenzo Ghinelli, Giuseppe Sabbatini, Luigi Petrini e ancor più celebri Antonio Galli Bibiena, Giuseppe Piermarini, Domenico Morelli, Pietro Maggi e Luigi Poletti. Nel corso dell’Ottocento si diffonde la passione per il melodramma e per il teatro di prosa, praticato non solo da attori professionisti, ma anche da rampolli della nobiltà locale. Nel 1834 in una delle pubblicazioni del maceratese Amico Ricci, lo storico dell’arte ipotizza che i giovani delle nobili casate marchigiane, non essendo più coinvolti in fatti di guerra, si erano talmente appassionati alle lettere, poesia e testi teatrali, da incentivare nelle città di appartenenza la costruzione di sale, appositamente per potersi esibire nei loro componimenti. Il teatro così detto all’italiana diviene il simbolo di questa distinzione dei ceti sociali ed è proprio il luogo di spettacolo che rappresenta l’esigenza di testimonianza intellettuale della città. Si costruiscono e si rinnovano sale, si moltiplicano accademie, si ampliano le cappelle musicali. Sempre più, si avverte l’esigenza di dotare i centri urbani di un teatro pubblico, con lo scopo di creare uno spazio destinato a un “sano” divertimento, soprattutto per i giovani. Tra questi giovani, il poeta Giacomo Leopardi che recita nel piccolo teatro privato all’interno del palazzo Cassi a Pesaro, parenti della nonna Virginia Mosca, struttura, purtroppo, demolita nel 1950, così come a Palazzo Leopardi a Recanati, dove il padre, conte Monaldo, aveva fissato la sede di un’accademia e dove il divario nella”sala grande” compiuto da due scalini, oggi colmati da una struttura lignea, ne lascia intravedere la forma originale. Quasi tutti i teatri nei palazzi nobiliari nella regione, un tempo fiorenti, sono stati nel tempo smantellati, quali ad Ascoli nelle case Alvitreti e Ciucci, affittando le scene del Comune, oppure dai Passionei di Fossombrone, dove si realizzarono dei veri e propri palchettoni.
Nel 1868 si possono contare nelle Marche ben 113 teatri e tutti i comuni si facevano vanto di esserne dotati, rivaleggiando tra loro nell’abbellimento della sala e per artisti ospiti. Ogni centro urbano, in una sorta di campanilismo persistente, realizza questo spazio, coinvolgendo qualità di manodopera e di professionalità, favorendo altresì l’economia del luogo. Le città si rinnovano ed il teatro in muratura dall’inizio dell’Ottocento è spesso al centro delle nuove sistemazioni quale punto di riferimento connotativo al decoro urbano. Le scelte architettoniche seguono avvolte le mode, l’esigenze avvolte capricciose della committenza o la conformazione degli spazi dove la sala verrà compresa. Nella realizzazione si passa dall’arcadica conformazione a U, alla fantasiosa tipologia a campana introdotta dai celebri Galli Bibiena, alla neoclassica interpretazione della forma ellissoidale, per giungere alla più tipica pianta a ferro di cavallo con il bulbo più o meno accentuato, ma senza che queste diverse soluzioni abbiano avuto, nell’incalzante ambizione del primeggiare, una logica temporale. I condomini teatrali, nell’evolversi dei tempi, si trasformano per lo più da privati in pubblici, in quanto l’iniziativa della costruzione del nuovo edificio in muratura, spesso a sostituzione della vetusta struttura in legno, viene presa in carico dalla municipalità che ne mantiene la proprietà; in altri casi i condomini si riorganizzano nel sistema così detto “misto”, ovvero gestito con capitali sia della municipalità che di privati; quest’ultimi, vistosi successivamente negata la proprietà del palco, intenteranno causa all’amministrazione comunale, senza ottenere risultato. I palchi, avvolte, di stagione in stagione, vengono estratti a sorte, per evitare rivendicazioni delle famiglie più facoltose. Il teatro è definitivamente un bene pubblico.


Il melodramma è il dominatore incontrastato delle scene; dalla seconda metà del Settecento ai primi decenni del Novecento, fino alla prima guerra mondiale, si allestiscono importanti stagioni liriche con la partecipazione di famosi cantanti, a testimoniare la passione di un pubblico attento e partecipe. La crisi degli anni ’80 del XIX secolo influì pesantemente sull’industria dello spettacolo, segnando una battuta d’arresto alla sua evoluzione. Seguirono anni di silenzioso abbandono! Dei 131 teatri censiti nel 1868 nelle Marche, numerosi sono stati tramandati, tenendo conto delle mutazioni evolutive, pressoché intatti, sia pure dopo accurati restauri; altri ricostruiti in seguito ad incendi e bombardamenti delle due guerre, sono stati poi gradualmente scalzati dall’avvento del cinematografo, che stravolge l’uso di alcuni spazi, subendo un’alterazione radicale della sala con la semplice organizzazione in platea e galleria. Altri, saranno trasformati in magazzini, degradati e rimpiazzati per speculazione da edifici commerciali. Sono 73 i teatri storici presenti oggi nella regione, con diverso metodo di calcolo se ne potrebbero annoverare sino a 76, quando nel 1995, al momento dell’avvio dell’attività del nuovo governo regionale, il quadro della conservazione di molti degli edifici storici era di fatto preoccupante, anche se alcuni progetti di restauro erano stati già avviati. Solo una quindicina quelli in attività, i lavori di recupero di altri in molti casi fermi, avvolte nemmeno avviati. Non si può non riconoscere che a metà anni ‘90 con la nomina del professor Gino Troli ad Assessore alla cultura della Regione Marche avvenne una vera e propria svolta che ha condotto alla riapertura, alle porte del nuovo millennio, della quasi totalità dei teatri storici marchigiani, con lo stanziamento di fondi principalmente regionali, comunali e provenienti da sovvenzioni dell’Unione Europea. Nella realizzazione del progetto di recupero di questo patrimonio, fondamentale è stato il coinvolgimento di Eustacchio Montemurro Dirigente del Servizio Beni e Attività culturali e dell’architetto Tiziana Maffei, così come le iniziative congiunte del Fai-Marche e dell’Associazione Marche Segrete, presiedute dalla principessa Giulia Panichi Pignatelli di Castel di Lama, che con determinazione ed impegno ha promosso l’individuazione, recupero e rivalutazione di tanti spazi teatrali e beni storici in abbandono. Un lavoro certosino per un risultato considerevole dove, però, a un ritrovato splendore delle strutture, non sempre ha corrisposto il legittimo ritorno a una rinnovata vita culturale.


I devastanti terremoti del 2016 e 2017 hanno lesionato alcuni di questi edifici, soprattutto il Teatro Filippo Marchetti di Camerino, che è nella lista tra i primi monumenti su cui intervenire; solo piccoli lesioni per il Filippo Marchetti di Camerino e il Feronia di San Severino Marche. Sono tanti i teatri storici presenti nelle grandi e medie città, così come nei piccoli centri delle Marche e tutti meriterebbero di essere menzionati in questo grand-tour regionale, ma ci limiteremo ad alcuni esempi. Non si può che iniziare dalla provincia di Pesaro e Urbino, che vede raggruppati i due maggiori centri del territorio. Il Teatro Raffaello Sanzio di Urbino venne eretto sulla parte superiore della rampa elicoidale, denominata dell’Abbondanza. Sin dal 1829 la comunità gentilizia di Urbino si era espressa a favore della costruzione di un nuovo edificio teatrale «primo ed essenziale ornamento di ogni culta città», che andasse a rimpiazzare il Teatro dell’Accademia dei Nobili Pascolini, la cui collocazione all’interno di Palazzo Ducale ne rendeva limitata la fruizione. Nel 1840 venne indetto un concorso, vinto dall’architetto Vincenzo Ghinelli di Senigallia, che volle inserirlo in un più articolato piano urbanistico, non integralmente realizzato. L’inaugurazione è del 1853. La struttura è stata radicalmente modificata in epoca relativamente recente, tra il 1996 e ‘97, alterandone l’assetto originale. Si volle intitolato all’illustre concittadino Raffaello Sanzio, di cui nell’atrio è conservato il busto incompiuto dello scultore Carlo Finelli. A Pesaro è situato il teatro che porta il nome dell’illustre compositore nativo pesarese, Gioachino Rossini. Per risalire alle origini della costruzione bisogna rievocare il Teatro del Sole, eretto al posto delle vecchie scuderie ducali di Guidubaldo II Della Rovere nel 1637 e nello stesso luogo, nel 1818 praticamente riedificato, quale Teatro Nuovo, inaugurato con La gazza ladra, presente lo stesso autore ventiseienne. Progettato con la forma classica a forma di ferro di cavallo con quattro ordini di palchi più il loggione, il Nuovo nel 1855 verrà intitolato Rossini, ancora vivente il compositore. Dal 1980 è sede principale del prestigioso Rossini Opera Festival, che si avvale anche dell’Auditorium Pedrotti, nato quale sala da concerto nella sede del Liceo Musicale, anch’esso dedicato all’illustre pesarese, dove sono stati ospitati importanti produzioni liriche, tra cui nel 1984 l’indimenticata “prima” de Il viaggio a Reims di Rossini, direttore Claudio Abbado, regia di Luca Ronconi, scene di Gae Aulenti; oggi la sala è temporaneamente chiusa per restauri. La richiesta di una platea più vasta per il Festival ha imposto la scelta di spazi capienti, identificati dal 2006 ne l’Adriatic Arena poi dal 2019 Vitrigo Arena, un funzionale impianto polivalente, spazioso e moderno, quanto poco consono per rappresentazioni liriche. Altro gioiello della provincia di Pesaro-Urbino è il Teatro della Fortuna di Fano, il cui nome risale alla denominazione latina della città: Fanum Fortunae, dal tempio della Fortuna, probabilmente eretto a testimonianza della battaglia del Metauro nell’anno 207 a.C. . All’interno del Palazzo del Podestà di Fano la prima esecuzione teatrale è documentata al Carnevale del 1491 con la Rappresentatio Apollinis et Daphnes conversae in laurum di Giovanni Antonio Torelli, avo dell’illustre scenografo e architetto Giacomo Torelli. A quest’ultimo, di ritorno dalla Francia di Luigi XIV, venne affidata la progettazione del nuovo teatro a pianta di rettangolo absidato con cinque ordini di palchi, così come realizzato nei più importanti teatri dell’epoca. I lavori vennero ultimati nel 1677. La tradizione vuole che l’imperatore Leopoldo I d’Asburgo volle far edificare il teatro di Vienna sul modello ideato dal Torelli per Fano. Nel 1718 fu incaricato del restauro Ferdinando Bibiena, che fece ridipingere l’intero complesso, ampliò la dote scenografica del palcoscenico e fece realizzare un sipario in cui era raffigurata in prospettiva simmetrica, come in uno specchio, la sala del teatro in una contrapposizione di stampo tipicamente barocco tra il contenitore e il suo riflesso. Nel 1842 fu commissionata a Luigi Poletti la progettazione del nuovo teatro sempre all’interno del Palazzo del Podestà, demolendo quello del Torelli. Per la stagione inaugurale del 1863 vennero programmate 23 serate, con in scena Il Trovatore e il Macbeth di Verdi, La Favorita di Donizetti. Gravemente danneggiato nel corso dell’ultima guerra, il Teatro della Fortuna è stato riaperto nel 1998, dopo cinquattaquattro anni di complessi, meticolosi interventi di restauro e ristrutturazione, restituito al suo originario splendore e rinnovato negli impianti e attrezzature tecniche. All’interno si possono ammirare, oltre a una bellissima cavea neoclassica, uno dei più significativi sipari storici opera di Francesco Grandi, che raffigura un immaginario ingresso dell’Imperatore Cesare Ottaviano Augusto nell’antica Colonia Iulia Fanestris.


Dedicato a Mario Tiberini è l’ottocentesco teatro di San Lorenzo in Campo. Inizialmente denominato Teatro Trionfo, è un modello di “teatro di sala” ricavato in quella che probabilmente era la Sala da ballo, all’interno del cinquecentesco Palazzo Della Rovere, dove dalla metà del Settecento vi era un teatrino “alla francese”, montato e smontato secondo esigenza. Della nuova costruzione s’inizio a discutere nel 1813 durante il napoleonico Regno d’Italia, teatro che fu edificato solo dopo la restaurazione pontificia del 1816 su disegno del capomastro Luigi Tiberi; intitolato nel 1880 a Mario Tiberini celebre tenore nativo di San Lorenzo in Campo. Dopo un accurato restauro, il teatro è stato riaperto al pubblico nel 1983, mantenendo, nel suo insieme, l’aspetto originario. Caratteristico è il Teatro della Rocca di Sassocorvaro, posto all’interno della Rocca Ubaldinesca, che si distingue per essere strutturato alla francese, in una composizione del tutto particolare, privo di palchi, dotato di un solo palchettone ligneo fiancheggiato da paraste. Caratterizzato in elegante stile settecentesco nelle decorazioni, pur essendo state realizzate a metà dell’Ottocento. L’edificio diede rifugio a 10.000 opere d’arte italiane durante la seconda guerra mondiale. Il Teatro delle Muse risalente al 1754 è la prima struttura teatrale nel Comune di Cagli, sostituita dall’attuale Comunale inaugurato nel 1878 con la prima assoluta de Il violino del diavolo del compositore Agostino Mercuri nato nella non lontana Sant’Angelo in Vado. La struttura si caratterizza per le eclettiche decorazioni di fine Ottocento, che nel codice decorativo delle sale teatrali segna l’avvenuto trapasso del pluralismo neoclassico. Nel teatro è conservata la dotazione scenotecnica, così come in altre sale nelle Marche, con preziosi fondali d’epoca e gli originali comodini, ovvero un sipario arretrato rispetto al principale, utilizzato per il cambiamento delle scene e dotato di una passaggio centrale o due laterali, per permettere agli artisti di mostrarsi alla ribalta per gli applausi. Dieci fondali e quinte, inoltre, sono conservati nel palcoscenico del Comunale, realizzati da Girolamo Magnani, lo scenografo prediletto da Giuseppe Verdi. Restando in argomento sipari storici e fondali, vanno ricordati alcuni dipinti dalla famiglia degli scenografi Liverani, la cui testimonianza è conservata in alcuni teatri marchigiani, tra cui il Teatro del Trionfo nel piccolo borgo di Cartoceto, costruito fra il 1725 e il 1730 in un’ex deposito di olive, riedificato nel 1801 è dotato di tre ordini di palchi in legno. Nella provincia è annoverato quale terzo per antichità, dopo il Teatro Angel dal Foco di Pergola e l’Apollo di Mondavio. All’interno del Teatro del Trionfo la cui sala, nonostante alcuni lavori di manutenzione è, purtroppo, ancora inagibile, vi è conservato, in condizioni non ottimali, il pregevole sipario storico di Romolo Liverani.


Dalla provincia di Pesaro-Urbino a quella di Ancona, che, secondo una guida redatta dagli uffici della Regione, possiede 15 teatri storici, ma il numero potrebbe salire a 31 se si contano anche altre strutture. Per diritto di precedenza al capoluogo, inizieremo la visita dal Teatro delle Muse di Ancona, che dopo la ricostruzione della sala, ferita durante la Seconda Guerra Mondiale e poi demolita, nella logica di un intervento che fa ancor oggi discutere, avrebbe diritto di essere riconosciuto, dalla riapertura, quale sede di Fondazione lirico-sinfonica. Nell’Italia centrale ben due regioni non vantano il privilegio di una Fondazione lirico-sinfonica, le Marche e l’Umbria. Polemiche a parte, i bombardamenti che colpirono duramente Ancona, in quanto città portuale, danneggiarono la copertura del Delle Muse e l’attività dovette essere sospesa e lo rimarrà per ben 59 anni. Dopo molte controversie, si decise per la demolizione della sala, mentre altre strutture interne e l’apprezzabile facciata in forma neoclassica rimasero intatte. Il progetto definitivo di ricostruzione è degli architetti Danilo Guerri e Paola Salmoni, il cui scopo dichiarato fu quello di stabilire un rapporto armonico tra la riprogettazione in stile moderno della sala e lo spazio urbano circostante; all’impatto visivo, ancora una volta nell’edificazione di una struttura di sala da spettacolo, seguendo il concetto urbinate di Baldassare Castiglione. Viene mantenuta la facciata neoclassica di derivazione palladiana e in parte conservata la scala di ingresso e l’originario atrio. Vengono nuovamente decorate in stile moderno dall’architetto Leonello Cipolloni le sale del Casino Dorico, pur non avendo subito danneggiamenti significativi, destinate a feste e incontri culturali. All’interno dell’edificio è ricavato un ridotto. La nuova struttura è inaugurata nel 2002 con Idomeneo di Mozart, Lucia di Lammermoor di Donizetti, Madama Butterfly di Puccini e la prima di Canto di Pace, su parole di S. Giovanni Paolo II e musica di Marco Tutino. La storia del Massimo anconetano è lunga e complessa, così come per le principali strutture marchigiane. Un primo edificio è documentato sin dal 1665 con il nome di Teatro dell’Arsenale, distrutto nel novembre 1709 da un incendio. Dopo solo due anni venne inaugurato il nuovo Teatro della Fenice, rinascente dalle ceneri del precedente, una caratteristica ricorrente nella storia dei teatri italiani. Curioso sottolineare che alla ricostruzione del Teatro della Fenice contribuirono le donazioni di alcune facoltose famiglie, che in cambio entrarono a far parte della nobiltà anconitana. Nello scorrere del tempo e nel maturare delle nuove esigenze legate agli spazi urbani con la collocazione dell’edificio teatrale quale perno urbano a simbolo della vita culturale, nel 1819, un’apposita commissione determinò la demolizione del medioevale Palazzo del Bargello e al suo posto venne edificato il nuovo edificio che si volle dedicato alle nove Muse, raffigurate nel bassorilievo del timpano della facciata opera dello scultore Giacomo De Maria. Il Teatro delle Muse fu inaugurato nel 1827 presente Girolamo Bonaparte con due opere di Gioachino Rossini Aureliano in Palmira e Ricciardo e Zoraide. Altro ospite d’onore Vittorio Emanuele II per la stagione allestita nel 1861, in occasione dell’annessione di Ancona al Regno d’Italia, con in programma Il trovatore di Verdi. Il Teatro delle Muse, nella sua veste rinnovata, è considerato il più spazioso delle Marche, se si escludono luoghi teatrali impropri, classificato quale tredicesimo per capienza in Italia.
Il concetto del teatro quale elemento civico, modello introdotto dalla nuova concezione urbanistica dell’Ottocento, si realizza appieno nel Teatro Pergolesi di Jesi, già della Concordia. Il Teatro della Concordia venne inaugurato nel Carnevale del 1798 con esecuzione di tre operine: Lo spazzacamino principe e Le confusioni della somiglianza ossia Li due gobbi di Marcos António Portugal e La capricciosa corretta di Vicente Martín y Soler, con protagonista il soprano pesarese Anna Guidarini, madre di Gioachino Rossini. Una serata particolare, a causa delle vittorie napoleonica e del Trattato di Campoformio, con un pubblico di popolani e di giacobini “invasori”. Nel 1883 il Teatro venne intitolato a Giovan Battista Pergolesi nativo di Jesi. Precedentemente a Jesi, tra il 1728 ed il 1731 venne eretto il Teatro del Leone, una delle prime strutture “stabili” delle Marche. Per terminare la visita nella provincia di Ancona è d’obbligo una tappa al Teatro Gentile da Fabriano inaugurato nel 1884 con Aida di Verdi, terza struttura edificata nella città, dopo il Teatro dell’Aurora del 1692 e del Teatro Camurrio del 1852.


La provincia di Macerata è ricca di spazi teatrali e vanta il privilegio di avere una città, San Ginesio, dedicata al santo romano protettore degli attori e dei mimi. All’interno della regione, ci troviamo ora in quella che fu capitale del piccolo, ma importante Stato autonomo di Camerino, Signoria dei Da Varamo. Qui, dal 1728, si ergeva il teatro in legno ancora una volta intitolato al favoloso uccello sacro La Fenice. Il progetto per una nuova struttura in muratura, voluta dal Municipio e dall’aristocrazia, quindi nel sistema “misto”, risale al 1845 ed è di Vincenzo Ghinelli, architetto a cui si devono, tra gli altri, i teatri di Senigallia, Urbino, Cesena e Pesaro. Battezzato La Nuova Fenice, si apre con il Gentile da Varano del compositore Filippo Marchetti. Restaurato nel 1872, nel 1881 viene dedicato a Filippo Marchetti, con la messa in scena del suo dramma lirico più celebre il Ruy Blas, composto nel 1869. Da Camerino a Macerata, dove è operante uno dei teatri più rappresentativi della regione, dedicato nel 1884 al compositore Lauro Rossi. L’incarico di affidare il progetto per il nuovo teatro ad Antonio Galli detto il “Bibbiena” fu assegnato nel 1765 da quarantasei nobili maceratesi, che costituirono per l’impresa un condominio, volendo per la città una nuova struttura pubblica «…nell ’istesso sito ma in forma più amplia» della precedente, ovvero della cinquecentesca Sala de la Comedia. Il Bibbiena invia una pianta che ricalca il suo Teatro Pubblico, poi Comunale, di Bologna. Nella realizzazione viene mantenuta l’anomala tipologia a campana. Il teatro è un mirabile, quanto originale, esempio di prospetto urbano. Macerata è sede di un importante Festival, la cui sede principale per rappresentazioni liriche all’aperto è la suggestiva Arena Sferisterio, originalmente edificata per il gioco del pallone col bracciale. La progettazione dell’arena venne affidata nel 1823 al’architetto Ireneo Aleandri, a cui si deve, tra gli altri, il Teatro Nuovo di Spoleto, di recente dedicato alla memoria di Gian Carlo Menotti.


Proseguendo nel nostro percorso nel maceratese, ci troviamo in pieno classicismo al Teatro Comunale di Matelica, progettato da Giuseppe Piermarini nel 1805. A Giuseppe Lucatelli, pittore e architetto nativo del maceratese, si deve il progetto del Teatro dell’Aquila di Tolentino, successivamente intitolato al compositore concittadino Nicola Vaccaj. Lucatelli, allievo a Roma del pittore e storico dell’arte Anton Raphael Mengs, affascinato dal purismo francese, vi sperimenta con successo le sue doti d’architetto. Ultimati i lavori nel 1795, a causa della campagna d’Italia intrapresa da Napoleone Bonaparte, si dovette attendere per l’inaugurazione sino al 10 settembre 1797, giorno della ricorrenza di San Nicola da Tolentino. Nei primi anni del XVIII, trovandosi San Severino Marche priva di una sala di spettacolo a causa della demolizione del Palazzo Consolare, una delegazione di nobili costituirono un condominio per l’edificazione della nuova struttura in piazza Maggiore, affidandone nel 1740 la progettazione all’architetto fanense Domenico Bianconi, denominato Teatro de’ Condomini. Nel 1823 la struttura in legno risultò insicura per cui la Congregazione teatrale decise per un nuovo edificio in muratura, il Teatro Feronia, affidandone la realizzazione a Ireneo Aleandri, allievo presso l’Accademia di San Luca di Roma del neoclassico Raffaello Stern, giovane architetto locale che quello stesso anno aveva ricevuto l’incarico per l’edificazione dello Sferisterio di Macerata. Aleandri progetta una struttura elegante e slanciata verso l’alto, con pianta a ferro di cavallo, nella quale mostra per la prima volta nel soffitto le così dette unghiature bibianesche, che costituiranno in seguito una cifra distintiva del suo stile architettonico teatrale. Il sipario storico realizzato su bozzetto di Filippo Bigioli, è considerato un importante esempio di arte neoclassica. Terminati i lavori, il teatro venne inaugurato nel 1828 con Mosè in Egitto e Matilde di Shabran di Gioachino Rossini. Su una delle caratteristiche colline marchigiane, a cavallo tra la provincia di Ancona e di Macerata, a metà strada tra la dorsale appenninica e la costa adriatica, spicca lo storico centro di Montefano con il Teatro della Rondinella. La sala all’interno del Palazzo Comunale risale al 1802 e negli anni subì diversi interventi di manutenzione e ristrutturazione, fino a quello più radicale del 1887, su un’idea dell’architetto Luigi Daretti realizzata dall’ingegner Virgilio Tombolini, allora direttore tecnico al Gran Teatro la Fenice di Venezia. Chiuso per restauri, il teatro è stato riaperto nel 2004. A Recanati non potevamo che incontrare la nobile famiglia Leopardi, dove nel 1823 fu l’allora gonfaloniere Monaldo, padre del poeta Giacomo, a proporre l’erezione di un teatro tutto nuovo, in sostituzione del Teatro dei Nobili del 1719. La proposta fu accetta, ma subito iniziarono discussioni sul terreno su dove edificarlo, tanto che la città, per poter vantare il nuovo teatro dedicato al compositore concittadino Giuseppe Persiani, su disegno dell’architetto recanatese Tommaso Brandoni, dovette attendere il 1840. Per l’inaugurazione verrà rappresentata La Beatrice di Tenda di Vincenzo Bellini. Lasceremo il maceratese, solo dopo aver visitato nel comune di Penna San Giovanni, di circa mille abitanti, uno dei più piccoli teatri d’Italia: il Teatro Flora, vero gioiello architettonico edificato intorno al 1780, quasi interamente in legno, su indicazione dall’artista pennese Antonio Liuzzi, che ha conservato l’originaria decorazione barocca del pennese Antonio Liuzzi, con preziose pitture e a trompe l’oeil.


Nella provincia di Fermo e ancor prima nella sua più vasta collettività delle terre e dei castelli sotto la propria giurisdizione, ogni paese vantava la presenza di un teatro a dimostrazione di una consuetudine consolidata, per una popolazione che aveva recepito il melodramma quale parte integrante della propria formazione, sensibile alla cultura e alle novità dell’epoca. Molte delle sale teatrali della rinnovata provincia di Fermo e in particolare gli spazi presenti nei palazzi comunali dei piccoli centri, sono stati nel tempo demoliti. S’inizia dal teatro di Amandola, che percorre sentieri simili a quelli dell’intera regione. Qui il nuovo edificio viene inaugurato nel 1813 con il nome di Teatro dei Sigg. Condomini La Fenice, quindi più semplicemente La Fenice. Danneggiato dal terremoto del 2016/17, è in attesa di essere restituito al suo pubblico. Altro teatro storico nel territorio collinare del fermano è il Vincenzo Pagani di Monterrubbiano, inaugurato nel 1875, nell’area di un palazzo cinquecentesco detto il Palazzaccio della famiglia Pagani a cui appartiene il pittore Vincenzo. I restauri iniziati dal Comune nel 1984 ne hanno permesso la riapertura nel 1999. Il teatro è sede dell’Accademia di canto intitolata al celebre tenore recanatese Beniamino Gigli. Piccola perla del fermano è il Teatro dell’Iride di Petritoli, eretto nella seconda metà dell’Ottocento su progetto dell’ingegner Giuseppe Sabbatini di Montegiorgio, ispirato al Teatro della Fortuna di Fano che rappresentava, nelle Marche, l’esempio più innovativo della corrente purista, particolarmente sensibile al recupero filologico del repertorio classico.


L’inaugurazione è del 20 Maggio 1877. Dalla collina, alla costa adriatica con un altro piccolo, ma particolare teatro, il Comunale di Porto San Giorgio, sulla cui facciata troneggia la scritta del latinista francese Jean de Santeul: CASTIGAT RIDENDO MORES (-la satira- corregge i costumi deridendoli) . Inaugurato nel 1817 su disegno dell’architetto progettista Giuseppe Locatelli di Tolentino, venne intitolato a Vittorio Emanuele II nel 1860, in occasione del passaggio del re lungo la costa adriatica, avvenimento che ispirò lo scenografo Mariano Piervittori di Foligno per la pittura del sipario storico che, purtroppo, venne trafugato negli anni ’60. Dal 1992 il teatro ospita eventi di diverso genere e, con fierezza, esecuzioni del celebrato Corpo Bandistico Sangiorgese.
Brevemente, per il più recente Teatro Comunale di Campofilone, edificato negli anni 1928-1930 con una sottoscrizione pubblica di muratori e i braccianti che offrirono gratuitamente giornate di lavoro, altri sottoscrissero polizze di cento lire. Gravemente danneggiato, trasformato in ritrovo per sfollati, è stato recentemente restituito nella sua forma originaria grazie ad un attento restaurato. Con caratteristiche tutte proprie si presenta il Teatro Alaleona di Montegiorgio. Che Montegiorgio possa vantare un rilevante teatro storico non è frutto del caso, poiché l’inclinazione alla rappresentazione scenica è sempre stata una caratteristica di questa cittadinanza, testimoniata già dai secoli passati. E’ del 1869 l’iniziativa di affidare all’architetto locale Giuseppe Sabbatini di realizzare un progetto per il nuovo edificio, al cui estro si dovrà la particolare distinzione nell’assetto della sala a ferro di cavallo, con tre ordini di palchi ornati da cariatidi poste a rifinire i muri di divisione, con una sala dai rilucenti colori, restituiti dopo i recenti restauri. Il Teatro verrà chiamato inizialmente dell’Aquila ed inaugurato con la Maria di Rohan di Gaetano Donizetti. Ribattezzato nel 1914 Teatro Verdi, verrà dedicato alla memoria di Domenio Alaleona in data 8 settembre 1945 con un concerto di artisti marchigiani tra i più famosi, il tenore recanatese Beniamino Gigli e il basso di Ripatransone Luciano Neroni, direttore d’orchestra il maestro montegiorgese Mario Marcantoni. Montegiorgio manterrà, così, vivo il ricordo di Domenico Alaleona, uno dei suoi cittadini più illustri che fu compositore, scrittore, docente e fondatore della Società Nazionale di Musica Moderna, tra quella nutrita schiera di compositori che cercarono di rinnovare il linguaggio della musica all’inizio del XX secolo. Sebbene non abbia aderito al movimento futurista, tuttavia molti dei suoi atteggiamenti ne sono riconducibili, tanto da essere considerato l’unico rappresentate di questa corrente.


Centro politico e culturale del territorio nel corso dei secoli è Fermo, con il suo Teatro dell’Aquila, autentico vanto della città, tra i più significativi d’Italia per interesse storico e dimensioni. La città vantava un primo teatro “stabile” dal XVI secolo, chiamato Sala delle Commedie, oggi Sala del Mappamondo. Nel 1687 venne deciso di trasferire la sede per lo spettacolo nell’allora Gran Sala del Suffitto, oggi Sala dei Ritratti, denominata dal 1690 Teatro di Fermo oppure Sala del Teatro. Nel 1746, nello stesso luogo, venne realizzata in legno una prima struttura che, dai disegni a schizzo conservati, si presume fosse dotata d una platea di 124 posti e di tre ordini di palchi, di cui il primo diviso in “casini” e gli altri due a loggia, che prese il nome di Nuovo Teatro dell’Aquila, dall’attigua Sala dell’Aquila, quella dell’antico Concilium generale. Il 18 febbraio 1779 Il Consiglio di Cernita, essendo la sala stata danneggiata nel 1774 da un incendio sia pure di piccola entità, decise di non ricostruire il teatro nella medesima sede, bensì di «trasportarlo in sito meno pericoloso». Definitivamente accantonato il progetto Cordella-Fontana di ristrutturazione del primo piano del Palazzo degli Studi per un erigendo teatro, venne approvata l’idea di Augustoni e Paglialunga per una struttura totalmente nuova, così come citato nel verbale del Consiglio «di fianco alla strada gironale, e precisamente il semipiano alla parte di mezzo giorno, passato il Palazzo Apostolico del Governo». Il 21 agosto 1780 il terreno dove edificare il nuovo teatro venne ceduto da Monsignor Andrea dei conti Minucci, Arcivescovo e Principe di Fermo. Ritenuto non adeguato alle aspettative l’ulteriore progetto Augustoni-Paglialunga, venne affidato il nuovo incarico all’architetto Cosimo Morelli, molto presente nello Stato Pontificio a cui si doveva, sia pure di minori dimensioni, un analogo disegno per il Teatro dei Cavalieri Associati di Imola. Il 26 settembre 1790, a circa dieci anni dall’apertura del cantiere e a lavori non ultimati, venne programmata una serata «per eseguire un saggio del nostro Teatro dell’Aquila per ciò che riguarda il meccanismo e la pittura giunta al sospirato compimento e per provare l’illuminazione», con l’esecuzione dell’opera-oratorio La morte di Abele di Giuseppe Giordani detto il Giordaniello. Nell’agosto dell’anno successivo il Teatro dell’Aquila venne ufficialmente inaugurato con il dramma sacro La distruzione di Gerusalemme, sempre del Giordani, maestro di cappella della Cattedrale di Fermo. La vera e propria attività del Teatro dell’Aquila iniziò solo nel 1796 con la stagione di Carnevale, ma già l’anno successivo vennero affidate all’architetto Giuseppe Lucatelli di Magliano le prime modifiche, che riguardarono principalmente il palcoscenico, eliminando la scena a tre bocche, sostituita da un più canonico boccascena unico. Nella notte tra il 23 e 24 gennaio del 1826 un incendio danneggiò l’edificio compromettendone in parte la stabilità. Per riparare i danni tra il 1826 e il 1830 furono effettuati sostanziali lavori di restauro e rinnovamento così che la struttura assunse al suo interno le caratteristiche di stile ottocentesco che ancor oggi possiamo ammirare, con 124 palchi su cinque ordini e loggione, su progetto dall’architetto Pietro Ghinelli. Del 1828 è la realizzazione della pittura a tempera del volto, ad opera di Luigi Cochetti, autore anche del sipario storico raffigurante Armonia che consegna la cetra al genio fermano. In quegli anni fu acquistato a Parigi il lampadario a 56 bracci in ferro dorato e foglie lignee, alimentato originariamente a carburo; venne, inoltre, effettuata la commissione per alcuni fondali al celebre scenografo-pittore Alessandro Sanquirico. I sei scenari originali raffigurano una piazza con palazzo greco-romano, il luogo magnifico, bosco, interno rustico, e due interni. Gli scenari sono tornati alla luce nel corso dei più recenti lavori di restauro del teatro, insieme a 16 scenografie ottocentesche che ne rappresentavano la così detta “dote”, cioè quelle immagini a tema fisso: carcere, sala regia, sala civile, paesaggio di campagna e altre, adattabili a ogni esigenza del libretto. Le cronache del XIX secolo descrivono le stagioni liriche del Teatro dell’Aquila come vero e proprio vanto per la città, con un pubblico particolarmente esigente. In queste si può leggere che nel 1861, durante la Stagione lirica invernale, si manifestò da parte del pubblico un forte disappunto per la scarsa qualità degli artisti del Don Pasquale di Donizetti e Florina di Carlo Pedrotti, tale da far sospendere gli spettacoli e chiudere il teatro. Di tutto rilievo, eccezioni a parte, era la qualità dei cartelloni e spesso vi venivano rappresentate opere a pochi mesi dalla loro esecuzione in capitali quali Parigi, Londra e San Pietroburgo, con i più celebri artisti. Puccini fu presente il 17 agosto 1886 alla rappresentazione della sua giovanile prima opera Le Villi e successivamente nell’agosto 1896 tornò per La Bohème.

Nelle sale d’ingresso del teatro sono incastonati alle pareti diversi medaglioni raffiguranti artisti celebri che calcarono la scena del Teatro dell’Aquila nelle diverse epoche. Esempio mirabile, insieme ad altri teatri delle Marche, dell’importanza della lirica in provincia e non di provincia, come sembra essere equivocato in anni più recenti. Il teatro, sin dalla sua costruzione, manca di una facciata. Il progetto del 1865 su disegno dell’architetto fermano Gian Battista Carducci, non venne mai realizzato. A metà degli anni ’80 del Novecento, i nuovi lavori di manutenzione furono affidati all’ingegnere fermano Giovanni Monelli. Nel corso di questi e a causa di alcuni interventi all’interno con utilizzo improprio di cemento armato, che avrebbero nuociuto all’acustica della sala, i lavori furono momentaneamente sospesi dall’allora sindaco Francesco De Minicis , trovando successivamente la migliore soluzione per rimediare al’inconveniente. Un’occasione perduta, nel corso di questo recente intervento di restauro del Teatro dell’Aquila dal 1984 al 1997, è stata la mancata attuazione delle proposte dell’architetto di fama internazionale Gae Aulenti, che interessatasi alla città di Fermo venne rapita dal fascino del Teatro dell’Aquila, offrendo un progetto di straordinario valore che, se da un lato richiamava al prospetto ottocentesco del Carducci per la facciata principale, proponeva per la sala un intervento che aveva lo scopo di rimettere in valore tutto il percorso storico, stilistico e architettonico del teatro, operazione innovativa nel rispetto di tutti i passati interventi, con la valorizzazione e acquisizione di nuovi spazi. Punto essenziale del progetto era la creazione di una struttura da realizzare in acciaio e cristallo, in tutto e per tutto all’avanguardia, ma allo stesso tempo non invasiva, per la valorizzazione della parte retrostante il teatro, una volta esterna rispetto al centro storico, già deturpata negli anni ‘60 da costruzioni improprie. Qui, erano previsti passaggi tramite scale e ascensori a vista per un nuovo, agevole e mai visto nella sua originalità, accesso al teatro, che avrebbe fornito un moderno motivo d’interesse e di caratterizzazione urbana, della storica città. Un progetto di grande valore, che a causa della poca lungimiranza, divergenze politiche e diffidenza, non venne recepito, se non seguendo alcuni suggerimenti, pur fondamentali, per il risultato finale del restauro. La riapertura del Teatro dell’Aquila avvenne il giorno 8 marzo del 1997.


Restando in tema di grandi strutture siamo nel capoluogo del Piceno, ad Ascoli con il Ventidio Basso, che rappresenta, semmai ce ne fosse bisogno, un ulteriore esempio della ricchezza nelle Marche di teatri storici di valore inestimabile. Questa città è l’unica a possedere ben due edifici per lo spettacolo dal vivo di antico lustro, oltre al Teatro Ventidio Basso, il Teatro dei Filarmonici. Non per nulla il maestro Giancarlo Menotti, prima di eleggere Spoleto per il Festival dei Due Mondi, aveva proposto Ascoli quale sede della manifestazione, ma il proposito non trovò accoglimento adeguato. La storia di un edificio per lo spettacolo in Ascoli, s’identifica con la continuità della tradizione teatrale che caratterizza tutta la regione dal XV secolo ai nostri giorni. La prima struttura della città risalente al 1579 era realizzata interamente in legno e si trovava nel palazzo Anzianale, nel salone anticamente del Consiglio generale; la sua gloriosa attività si concluse nel 1839. Già nel 1827 si era ipotizzata la realizzazione di un nuovo grande edificio comunale da edificarsi sul Trivio, ovvero in prossimità della Chiesa di San Francesco non lontano della rinomata Piazza del Popolo, dove erano vari edifici di epoca rinascimentale, mentre l’Accademia dei Filodrammatici aveva in animo di costruire in autonomia un proprio teatro. Si decise di affidarne la progettazione ad Ireneo Aleandri di Sanseverino Marche, uno dei maggiori architetti del tempo, ma il progetto fu realizzato solo tra il 1840 ed il 1846, perché l’architetto aveva rinunciato per dissapori con la committenza. Gli subentrarono gli ascolani Marco Massimi e Gabriele Gabrielli con l’architetto fermano Giambattista Carducci, i quali apportarono numerose modifiche e innovazioni alle linee originali del disegno di Aleandri. Il teatro si compose con sala ovale e quattro ordini di palchi, suddivisi in 23 palchetti ciascuno ed il loggione a galleria. La facciata neoclassica, in travertino, presenta un colonnato centrale composto da sei colonne ioniche in pietra, aggiunte da Gabriele Gabrielli nel 1851. Inaugurato nel novembre 1846 con Ernani di Giuseppe Verdi e I puritani di Vincenzo Bellini, fu intitolato al generale ascolano Publio Ventidio Basso, vissuto nel I secolo a.C. che riuscì a salire i più alti gradi della gerarchia militare romana. Il teatro venne chiuso nel 1980 a causa dei danni del tempo, lesioni riportate nel terremoto del 1972 e altri deterioramenti, ma da subito ci si accorse che le condizioni della struttura portante, soprattutto il tetto e la sottostante cupola, avrebbero necessitato di ben altro impegno. La situazione sembrò ristagnare sino al 1993, quando l’allora sindaco Nazzareno Cappelli si convinse che per restituire il Massimo ascolano si dovevano accelerare i tempi con un provvedimento straordinario, così che fu fissata la data di ottobre 1994 per la riconsegna del teatro. Nell’agosto 1994, in prossimità della festa di Sant’Emidio, venne in Ascoli da Praga Josef Svoboda, celebre scenografo, innovatore dei mezzi dei mezzi di palcoscenico attraverso l’impiego di esperienze creative, che in un sopralluogo indicò soluzioni sceno-tecniche, fondamentali per la dotazione del teatro. In meno di un anno, accelerati i passaggi amministrativi e con la collaborazione di tutti, il 15 ottobre 1994, preceduto dall’esecuzione dell’Inno di Mameli con il pubblico in piedi ed emozionato, il teatro venne riaperto con una indimenticabile nuova produzione de La traviata di Verdi, con Giusy Devinu, Giuseppe Sabbatini, Roberto Servile, primo ballerino Raffaele Paganini, scene di Carlo Centolavigna collaboratore di Franco Zeffirelli, costumi di Anna Biagiotti confezionati nella Sartoria Tirelli. Il direttore Giuliano Carella ringraziò per essere stato prescelto, perché mai aveva avvertito una così forte condivisione di un’intera cittadinanza, partecipe con emozione a un evento culturale. Il Ventidio ritornò, in quegli anni, per la qualità delle produzioni, ad essere al centro dell’attenzione nazionale ed estera. Il Teatro dei Filarmonici, già dei Filodrammatici, venne costruito tra il 1829 ed il 1831 nelle vicinanze della sede dell’Accademia dei Filodrammatici di Ascoli. A causa dello scioglimento dell’Accademia nel 1860, il teatro fu gestito dall’Amministrazione comunale e nel 1897 acquistato dalla Società Filarmonica Ascolana. Passato di proprietà, la sala fu utilizzata per proiezioni cinematografiche; infine nel 1994 ceduto al Comune che provvide a far eseguire un accurato restauro. Il teatro si presenta in forma di ferro di cavallo, con platea, quattro ordini di palchi e loggione ed è stato riaperto il 20 maggio 2018.
Lungo la consolare Salaria sino a Castel di Lama, dove nell’affascinate Borgo Storico Seghetti Panichi sono in corso importanti lavori di ripristino, che prevedono nel giardino storico il ripristino di un teatro di verzura e iniziative legate alla ripresa della vita culturale e musicale del territorio. Si gira alla rotonda in direzione Offida, dove è ubicato un teatro dal nome affascinante: Teatro Serpente Aureo, dalla tradizione che vuole che in età preromana vi fosse un tempio dedicato al mitico Serpente d’Oro: “Ophite”, raffigurato sul sipario storico del Teatro dipinto da Giovanni Battista Magini. E’ documentato che prima del 1768 esistesse in una sala del Palazzo comunale un palcoscenico a «guisa di teatro», costruito «senza distinzione di ceto». Questo non piacque all’aristocrazia tanto che «per riparare», così è riportato in un verbale datato 8 luglio 1768, fu accolta la proposta per realizzare una struttura di legno con palcoscenico e 29 palchetti in giro di tre ordini. Il lavoro venne completato nel 1771, ma ben presto si rivelò troppo piccolo, poiché molte delle famiglie nobili erano rimaste senza palco. Il 21 ottobre 1801 venne affidato a Paolo Cipolletti l’incarico di rinnovarlo su disegno di Pietro Maggi, architetto ticinese che si stabilì nelle Marche al seguito del padre Carlo, molto attivo nella Bassa Marca, specialista nell’inserire le sue sale per lo spettacolo negli antichi palazzi comunali. Il progetto per Offida consisteva in un nuovo edificio dal costo di 900 scudi, ma nonostante la spesa fosse stata approvata nella seduta consiliare del 15 gennaio 1802, non si trovò alcuna impresa disposta ad eseguire il lavoro per una somma giudicata esigua. Nel frattempo Pietro Maggi era tornato ad Offida e aveva proposto un secondo progetto che prevedeva soluzioni più economiche. Pietro Maggi essendo venuto a mancare nel 1816, non poté assistere alla costruzione del nuovo teatro, la cui realizzazione ebbe inizio solo nel 1820, dopo che i signori del luogo convinsero un intraprendente imprenditore a realizzare il lavoro nei pressi del cortile a “tramontana” del Palazzo comunale. L’attuale Teatro risale al 1862, ampliato e decorato dall’artista offidano Alcide Allevi, ricavato demolendo parte dell’antica Casa comunale, soprannominato “La Bomboniera”. Come molti altri teatri nella Marche e soprattutto nel territorio del Piceno, nel periodo di Carnevale la sala viene utilizzata per i veglionissimi.Ancora l’architetto Pietro Maggi nel 1790, per lo studio di un progetto di teatro da realizzarsi all’interno del trecentesco Palazzo del Podestà di Ripatransone per la cui apertura, sebbene incompleto, si dovrà attendere sino al 1824: il Teatro del Leone. In una seconda fase, venne assegnato l’incarico all’architetto Francesco Bassotti, che ne seguì i lavori di completamento con riapertura nel 1843 con Lucia di Lammermoor di Gaetano Donizetti. Nel 1894 il teatro venne intitolato al poeta risorgimentale, lo “spigolatore” ripano Luigi Mercantini.


Terminato il nostro giro per i teatri storici delle Marche in gran parte restaurati e restituiti alla cittadinanza, si apre ora un’altra fase, tutt’ora parzialmente irrisolta, quella della gestione e della promozione, che fa i conti con i problemi di abbondanza di edifici preposti allo spettacolo dal vivo e quindi di necessaria razionalizzazione dell’offerta. Eppure, mai come in questo lungo periodo di pandemia, si è sentito così indispensabile l’andare a teatro, non solo come esigenza culturale di approfondimento, ma soprattutto come ritrovo di luogo di aggregazione, di scambio intellettuale e distacco mentale dall’impegnativo vivere quotidiano. Questo straordinario unicum dei teatri storici delle Marche nel panorama europeo rappresenta, inoltre, una potenziale offerta turistica, culturalmente senza uguali. Perché oggi, così come al momento della loro costruzione, devono tornare a rispondere a un processo di socializzazione e di rilancio occupazionale della comunità.


Vincenzo Grisostomi Travaglini

Vincenzo Grisostomi Travaglini (Photo: Giovanni Pirandello)

“La storia del Festival di Fermo”, un articolo del Maestro Vincenzo Grisostomi Travaglini nella rivista “L’Opera International Magazine” di Luglio-Agosto 2020

«C’era una volta…», eppure questa non è una storia di fantasia, bensì una realtà durata ben cinque anni di grande impegno, lavoro e passione. Si potrebbe, è vero, raccontare questa esperienza come in un libro di favole, dove in ogni episodio compaiano i tanti che ne furono coinvolti e che erano, sono e saranno protagonisti della vita musicale internazionale: il Festival di Fermo, dal 1987 al 1991.

Quella data, il 1987, sembra così lontana eppure è ancora presente nella memoria! Tutto iniziò nella terra natia, in quelle Marche che diedero luce a illustri compositori e dove sono presenti, a tutt’oggi, importanti iniziative culturali.  La città di Fermo nella così detta Marca Sporca, la M.S. ovvero Marca sotto il Ducato longobardo di Spoleto, vanta un illustre passato, ne sono testimonianza monumenti e memorie. Il centro storico è tra i più suggestivi, luogo ideale per ospitare un’iniziativa culturale, quale fu il Festival, che in breve tempo s’impose all’attenzione internazionale, oltre ogni aspettativa. L’idea che la città potesse ospitare una serie di manifestazioni nel corso dell’estate, spaziando nel vasto universo dell’arte musicale, fu di Fabrizio Emiliani, da poco nominato sindaco, che mi chiese un incontro. Accettati la carica di consulente, poi direttore artistico e da subito si mise in moto un ingranaggio di cui a stento riuscivamo a comprendere il funzionamento. I luoghi che avrebbero potuto ospitare i concerti e le rappresentazioni operistiche di certo a Fermo non mancavano, nonostante lo storico teatro fosse chiuso da molto tempo e fu indicata la centrale Piazza del Popolo, l’antica Piazza Grande del libero comune, quale punto di riferimento e luogo simbolo dell’iniziativa. La piazza si presenta come una scenografia, così come fu ridisegnata sotto la signoria di Francesco Sforza, con nello sfondo il Palazzo dei Priori che vanta origine nel XIII secolo, la Biblioteca Civica che trae origine nel tempo dell’imperatore Lotario I e dopo cinquecento anni, nel 1303, restituita a rinnovata centralità dal temibile Bonifacio VIII, la sede dell’Ateneo fermano che fiorì sotto il pontificato di Sisto V; racchiusa nei lati da portici in cotto di rara eleganza, per una lunghezza complessiva di circa 135 metri. L’ambizione andava oltre e si voleva che questa iniziativa si potesse caratterizzare, oltre che con ospiti illustri, con proposte insolite, frutto di collaborazione con ricercatori che potessero aprire quegli scrigni preziosi che sono gli archivi degli storici conservatori italiani, primo tra tutti San Pietro a Majella di Napoli. Sin dal primo anno aderirono al progetto Festival artisti famosi quali i solisti Mstislav Rostropovič, e Salvatore Accardo; Wolfgand Sawallisch, Lorin Maazel a capo di orchestre, per citare le più conosciute l’Orchestre national de France e la Bayerische Staatsoper. Per affondare le radici e far germogliare l’iniziativa occorreva, inoltre, poter contare su un organismo che avesse un ruolo di stabilità e fondamentale fu l’apporto del professor Annio Giostra che per anni si era dedicato alla formazione dell’Orchestra Internazionale d’Italia, scaturita dall’esperienza della Jeunesses Musicales, con direttore Donato Renzetti. Lo storico teatro di Fermo, che porta il nome dell’Aquila federicea, era chiuso per restauri che sembravano non avere mai fine. Era stato chiamato dell’Aquila, perché in origine era situato all’interno del Palazzo dei Priori, accanto alla sala che porta il nome dell’emblema araldico del celebre imperatore Federico II, le cui vicende in Italia s’intrecciarono con quelle della marca fermana. Aquila che fu adottata quale simbolo nell’elegante, incisiva grafica del Festival, grazie al raffinato impegno e all’amicizia dei fratelli Maurizio e Georgia Bettoja. Senza teatro, si dovevano individuare degli spazi oltre che all’aperto, anche al chiuso e ideale fu la disponibilità di poter usufruire delle ampie navate della gotica chiesa di San Francesco, tra i monumenti illustri della regione Marche. L’acustica non era, però, delle migliori e furono commissionate delle ampie vele di tela bianca, che sinuose si stendevano lungo gli oltre 60 metri di lunghezza del tempio. Un’immagine di grande suggestione, oltre che acusticamente efficace.

Gli eventi da ricordare sarebbero molti e l’elenco sin troppo lungo. Era passato meno di un anno dal primo incontro con l’allora sindaco e l’assessore alla cultura Luciano Bonfigli e nel frattempo primo cittadino e Presidente del Festival era stato nominato Francesco De Minicis; il 29 maggio 1987, nel tempio di San Francesco, l’Orchestra Internazionale d’Italia si presentava al pubblico con in programma musiche di Mozart, Prokofiev, Čajkovskij, direttore Daniele Renzetti, solista Diego Dini Ciacci. Lo stesso anno, nel medesimo luogo, la Menhuin School con direttore Peter Norris e I virtuosi di Roma. Il tempio fu concesso per concerti straordinari e negli anni seguenti avvolte negato a causa delle indicazioni restrittive sull’uso dei luoghi sacri per ospitare avvenimenti pubblici. Memorabili resteranno a San Francesco, nelle edizioni successive del Festival, I concerti di musica sacra, con l’orchestra Internazionale d’Italia, la partecipazione de I virtuosi di Bucarest, il Coro di Musica Antica di Padova, l’ArPa Chorus con maestro Emanuela Di Pietro.  Nei programmi, la riscoperta di alcune parti della Messa detta di Milano: il Kirye e il Gloria nella trascrizione di Gabriele Gandini che ne fu anche direttore, mentre il manoscritto del Credo si rivelò non recuperabile.  Sempre Gabriele Gandini a San Francesco per I concerti di musica sacra, con le prime esecuzioni assolute della Messa in mi bemolle di Luigi Cherubini, il Qui Tollis di Gioachino Rossini e la prima esecuzione assoluta italiana e prima in epoca moderna del Requiem in do minore di Franz Joseph Haydn. Nei diversi programmi dei concerti nel tempio di San Francesco, la riproposta di musiche ingiustamente dimenticate di Giuseppe Giordani, detto il Giordanello, con la riscoperta della Sinfonia in Re maggiore dall’opera Atlanta e il mottetto per coro e orchestra: Clamate mortales; in altra occasione, sempre a San Francesco, la prima esecuzione assoluta del Qui sedes dalla Messa in Fa maggiore. Nativo di Napoli, Giuseppe Giordani ottenne riconoscimenti in tutta Europa e nel 1789, dopo il successo raggiunto dal dramma per musica La disfatta di Dario al Teatro alla Scala di Milano, ricevette a Fermo il posto di Direttore della Cappella Musicale Metropolitana e qui vi morì nel gennaio del 1798. Nell’Archivio Storico Arcivescovile della città sono conservate numerose pagine autografe della maturità del compositore e nel corso dei cinque anni del Festival si sono voluti proporre alcuni suoi lavori, grazie all’impegno e la collaborazione dei musicologi Ugo Gironacci e Italo Vescovo ai quali si devono le revisioni critiche delle partiture del Giordaniello e la schedatura del fondo musicale del Duomo di Fermo. Purtroppo non si riuscì ad eseguire alcuna sua opera e soprattutto gli oratori: La morte di Abele (1790) e La distruzione di Gerusalemme (1791), con i quali venne inaugurato il Teatro dell’Aquila. Così come si dovette rinunciare a un’ulteriore prima in epoca moderna di un lavoro del repertorio serio di Gioachino Rossini, ricordo che la notizia mi fu data per telefono dall’allora sindaco mentre ero a Tokyo, titolo che negli anni successivi fu rappresentato nella sede preposta del Festival di Pesaro. Quindi, per Fermo, repertorio del Settecento, Ottocento, ma anche Novecento storico, con concerti dedicati al compositore nativo della non lontana Montegiorgio, Domenico Alaleona (1881-1928), unico musicista aderente al movimento del Futurismo, grazie al materiale autografo messo a disposizione dalla famiglia, con appuntamenti a Fermo e nella cornice dell’incantevole teatro della sua città natale, che dal musicista prende il nome. Il repertorio operistico, sin dal primo anno, non poteva mancare e inizialmente per ospitare la programmazione fu reso disponibile il cortile-giardino del settecentesco Palazzo Caffarini-Sassatelli, all’epoca sede di rappresentanza della Cassa di Risparmio di Fermo, con una serata di gala, per la prima in epoca moderna de La modista raggiratrice ovvero la Scuffiara di Giovanni Paisiello, con revisione critica di Giampiero Tintori direttore del Museo teatrale alla Scala, sul podio una giovane promessa: Carlo Rizzi. Tra gli interpreti, Maria Angeles Peters, Bruno Praticò, Carlo Desideri, Bruno De Simone, l’esecuzione fu registrata e commercializzata. Tanti i titoli rari e prime assolute in epoca moderna, come in quello stesso anno L’italiana in Londra di Domenico Cimarosa e di Mozart la meno rappresentata Finta giardiniera.

La politica del territorio trovò terreno fertile in quello che era il galoppatoio dell’ottocentesca Villa Vitali trasformato in spazio teatrale e ancora, all’interno della Rocca che porta il nome del veneziano Lorenzo Tiepolo, nel 1267 podestà di Fermo e futuro Doge di Venezia, edificata a difesa dell’antico porto, dal 1878 inglobata nel territorio del nascente comune di Porto San Giorgio. Questi, alcuni dei luoghi dove si svolsero gli innumerevoli eventi del Festival nell’arco di cinque anni, ai quali andranno ad aggiungersi la chiesa di Sant’Agostino nel borgo storico di Torre di Palme, dov’è conservato il prezioso polittico de La Vergine in trono con Agostino e santi di Vittore Crivelli e la piazza della contrada di Capodarco, dove si possono trovare le migliori olive fritte all’ascolana della zona. I ricordi s’intrecciano e si confondono nello scorrere di quel tempo; i nutriti programmi nel rapido succedersi, spesso, contrastano con emotività che riaffiorano, non prive di suggestione. In quel 1987 si costituiva quella che sarebbe stata la struttura del Festival e nella tradizione della città non poteva mancare l’opera di Ferragosto, un titolo popolare presentato per l’occasione nello spazio di Villa Vitali; quella prima volta: Rigoletto, nuovamente sul podio Carlo Rizzi. Costumista, Otello Camponeschi che, con il contributo di Fabrizio Onali, ha collaborato frequentamente alle produzioni del Festival. Era solo l’inizio! S’intensificava la collaborazione con studiosi per la ricerca di partiture dimenticate negli scaffali dei molti archivi. Il celebre San Pietro a Majella, dove sono confluiti i manoscritti dei settecenteschi conservatori napoletani. Questo era da noi immaginato come un luogo da leggenda e il custode avrebbe poturo ricordare personaggi delle incisioni dell’inferno dantesco di Gustave Doré. La realtà era ben diversa dalla fantasia, eppure, avervi accesso, era pur sempre un privilegio e musicologi, ricercatori, ebbero un ruolo fondamentale nel riportare alla luce alcune partiture i cui originali languivano tra quegli scaffali; tra i tanti nomi il napoletano Pietro Andrisani e per le trascrizioni e revisioni, l’insostituibile Lorenzo Tozzi, fondatore e direttore artistico del Festival Internazionale di Mezza Estate di Tagliacozzo. Era un periodo in Italia di grande fermento, si ricorda il lavoro di Italo Gomez, recentemente scomparso, direttore artistico del Gran Teatro La Fenice di Venezia e il suo interesse per gli eredi della venerabile Scuola Veneziana, straordinaria la riproposta del Nascimento dell’Aurora di Albinoni al Teatro Olimpico di Vicenza con June Anderson. L’impegno e la competenza di Rodolfo Celletti direttore artistico del Festival della Valle D’Itria a Martina Franca e tra i tanti esempi possibili, l’immedesimazione quasi mediatica con la tradizione del Settecento napoletano di Roberto De Simone, direttore artistico del Teatro di San Carlo, musicologo e compositore partenopeo, un titolo fra tutti Il Flaminio di Giovan Battista Pergolesi, che si voleva esserci giunto incompleto, ma poi la partitura apparve integrale. Altre vivacità e competenze, come in Sicilia per la stagione estiva proposta al Teatro di Verzura sulla via Real Favorita, alle porte di Palermo; le iniziative di Opera Giocosa al Teatro Chiabrera di Savona; il Festival Opera Barga, che nacque con l’obbiettivo di contribuire alla formazione e al lancio di giovani artisti. Un patrimonio inestimabile quello storico-musicale, tra Napoli, Roma, Firenze, Venezia, ma in ogni archivio, in Italia ovunque si voglia cercare, si trova l’inimmaginabile, un tesoro da salvaguardare prima che sia troppo tardi. Torniamo, però, alle Marche e al Festival di Fermo; l’anno successivo nel 1998, il programma raddoppiò, presentato in conferenza stampa a Milano grazie alla cortesia di Anna Crespi degli Amici della Scala, a Roma in diverse sedi; sono organizzate conferenze stampa in Austria, Germania, Svizzera e l’interesse di pubblico e critica non tarda nel rendere la manifestazione un appuntamento imperdibile. Fare l’elenco di tutti i partecipanti e le iniziative di quegli anni sarebbe interminabile, eppure alcuni eventi si evidenziano alla memoria, come non ricordare nel 1988 a Piazza del Popolo la Grande Orchestra della Radiotelevisione Polacca (Katowice) diretta da Kristov Penderesky, l’Orchestra Sinfonica di Berlino con Wolf-Dieter Hauschild, l’Orchestra del Teatro dell’Opera di Madrid con sul podio Rafael Frübek de Burgos, la Wiener Johan Strauss Orchester diretta da Alfred Eschwé e solisti quali il pianista Michele Campanella e la violinista Victoria Mullova; la lista potrebbe essere lunga, per la sinfonica, la cameristica, per l’opera così detta da camera. S’impone citare l’evento in Piazza del Popolo con l’Orchestra Nazionale di Whashington diretta da Mstislav Rostropovich, in programma la Sinfonia n.5 di Šostakóvič e di Čajkovskij l’Ouverture-Fantasia Romeo e Giulietta seguita, a conclusione, dall’Ouverture-Solennelle 1812 con cui Čajkovskij commemora la sventata invasione napoleonica della Russia; il tema del cannone in partitura fu realizzato al sintetizzatore, ma per i rintocchi a festa delle campane in onore della vittoria e liberazione della Russia furono mobilitati i sacrestani delle tante chiese d’intorno, che a Fermo sono numerose e in piena notte  gli incaricati, collegati con woki toki, diedero mano alle corde e le campane risuonarono a festa e ai rintocchi del trionfo si aggiunsero gli spettacolari fuochi d’artificio, di cui nelle Marche sono maestri, che erano stati commissionati silenziosi, d’accompagnamento al possente finale, ma gli artificieri preparano a sorpresa una scarica sontuosa e risonante. Lo spettacolo era ripreso integralmente da Rai2 ed ebbi timore che il maestro Rostropovich si lamentasse per aver sovrastato l’orchestra con tanto fragore, ma al contrario ne fu felice e passò la notte, ospite di una famiglia dell’aristocrazia fermana, chiedendo più volte alle cucine di preparare altra pasta e bevendo vodka.

Dalla sinfonica alle proposte di prime esecuzioni in epoca moderna, quali Il mondo della luna di Niccolò Piccinni nella piazza della contrada di Capodarco e Le astuzie femminili di Domenico Cimarosa nell’Arena di Villa Vitali; alla Rocca Tiepolo di Porto San Giorgio Betly o La capanna svizzera  di Donizetti nella versione in un atto e la prima in epoca moderna in forma scenica de La romanziera e l’Uomo nero, lavoro incompiuto sempre con musica di Donizetti, completato nel testo e in veste di narratore da Michael Aspinall; in questa occasione vorrei nominare il direttore Fabio Maestri a cui si devono tante iniziative nel circuito umbro e il sempre collaborativo regista Italo Nunziata. Citare tutti è impossibile! L’opera di Ferragosto: Il Trovatore a Villa Vitali, direttore Massimo De Bernard. Repertorio operistico anche per l’imponente struttura montata ogni estate in Piazza del Popolo, con Il barbiere di Siviglia di Giovanni Paisiello, che si avvalse della sperimentata regia di Maurizio Scaparro. C’erano tutti, un pubblico eterogeneo e prenotazioni da tutta Italia e dall’estero, una critica competente delle maggiori testate italiane ed estere. Spazio alla prosa, con un lavoro appositamente scritto da Guido Barbieri e Sandro Cappelletto nel cortile di Palazzo Caffarini-Sassatelli La voce perduta ovvero l’incontro tra Mozart e Farinelli, rappresentazione preceduta dal convegno: L’evirato cantore nell’opera e nella cultura italiana. La convegnistica, gli incontri, saranno soggetti sempre partecipi nell’arco delle attività del Festival; con gli stessi Barbieri e Cappelletto: Fra le sciagure, felici, il teatro pubblico oggi, in Italia. Con il coordinamento di Angelo Foletto: Per La realtà del palcoscenico ottocentesco, relatori: Luciano Alberti, Eduardo Rescigno, Mario Morini, Julian Budden, Marcello Conati e altri, tra cui Giorgio Gualerzi, che curerà per due edizioni il convegno: Le Marche, terra per fare musica; un incontro con i responsabili delle diverse manifestazioni regionali, tra cui Francesco Canessa per lo Sferisterio di Macerata e Gianfranco Mariotti per il Rossini Opera Festival. Spazio ai giovani, in collaborazione con l’allora sezione staccata di Fermo del Conservatorio Rossini di Pesaro, oggi Conservatorio Giovan Battista Pergolesi, con Dido and Aeneas di Purcell, tra gli interpreti l’allievo Andrea Concetti, direttore un giovane Alessio Vlad che tornerà a Fermo più volte, con l’Orchestra Internazionale d’Italia con concerti in Piazza del Popolo. L’anno successivo la collaborazione con il Conservatorio proseguirà con Actéon di Marc-Antoine Charpentier. Sempre nel cortile di palazzo Caffarini-Sassatelli un’altra promessa, Daniele Gatti. Lo avevo conosciuto alcuni mesi prima a Osimo al Teatro La Nuova Fenice nella prima rappresentazione di Rararbaro Rabarbaro con musica di Carlo Pedini e Gianni Schicchi di Giacomo Puccini, per la prima volta regista d’opera Pippo Baudo, sul podio un giovane dal Conservatorio Verdi di Milano che da subito dimostrò un eccezionale talento. Lo invitai per il Progetto giovani al Festival di Fermo dove venne in quel 1998 con un gruppo di studenti del Conservatorio milanese che si ritrovava sotto il nome di Orchestra da Camera Stradivari; poco prima del concerto il maestro Gatti si ruppe un braccio e diresse con una mano ingessata; in programma tra l’altro Apollon Musagete di Stravinskij in un’esecuzione indimenticabile. Un palcoscenico prestigioso per la musica da camera, quello del cortile-giardino del palazzo lungo corso Cavour, che in quella stessa edizione ospitò il Gruppo Musica Insieme di Cremona con Pietro Antonini, l’Orchestra da Camera di Salisburgo e un concerto di arie da salotto ottocentesche con il debuttante tenore Luca Canonici. Un altro luogo si aggiunge alla lista, la Sala dei Ritratti a Palazzo dei Priori, dove sino alla metà del Settecento era situata la struttura lignea che fungeva da teatro, detto dell’Aquila, con il Quintetto a Fiati Italiano, pianista Michele Campanella e una maratona dedicata al Pianoforte Russo. Sono i primi due anni e per i successivi si trova spazio solo per dei cenni, ma come non ricordare nell’edizione 1989 in Piazza del Popolo la Grande Orchestra  Sinfonica dell’URSS di Radio Mosca diretta da Vladimir Fedoseev con violino solista Viktor Tret’jakov, la Gustav Mahler Jugendorchester, fondata da Claudio Abbado, con direttore Franz Welser-Möest e solista al pianoforte András Schiff. Nella chiesa di Santa Lucia le Sonate da Chiesa e Sacri Concerti con Marco Rossi all’organo, Dora Bratchkova violino e solista Anna Caterina Antonacci, che aveva esordito con me, che ne ero regista, ne Il barbiere di Siviglia al Teatro Petrarca di Arezzo. Ancora, Anna Caterina Antonacci a Villa Vitali ne I due baroni di Rocca Azzurra di Domenico Cimarosa con il debutto nella regia lirica di Luca Verdone. La prima esecuzione originale in epoca moderna nel cortile di palazzo Caffarini-Sassatelli di Denys le Tyran di André Grétry e la prima assoluta dell’opera commissionata al musicista Paolo Arcà: Il carillon del gesuita, con libretto di Giovanni Carli Ballola. Non fu questa l’unica commissione del Festival, sempre nel cortile del settecentesco palazzo fu la volta del compositore Franco Donatoni con la prima esecuzione assoluta di Soft, per clarinetto basso, nel Concerto del Quintetto a Fiati Italiano con flauto Harry Spaarnay, in programma oltre Donatoni, Mozart, Rossini e Berio. La musica contemporanea fu protagonista anche nella Sala dei Ritratti, con Il motivo degli oggetti di vetro commissionata dal Festival a Salvatore Sciarrino che venne appositamente a Fermo, ma all’ingresso non fu riconosciuto e gli fu fatto pagare il biglietto. Il compositore, divertito, conservò il titolo e lo incorniciò per conservarlo nella sua casa di Città di Castello, non gli era mai successo! La serata era dedicata a musiche per flauto e pianoforte con Roberto Fabbriciani, Gabriele Betti (fauti) e Fausto Bongelli (pianoforte). Ancora, a palazzo Caffarini-Sassatelli un omaggio al baritono Giuseppe Taddei, che si esibì in compagnia del soprano Stefania Bonfadelli e del suo allievo, il tenore Enrico Stinchelli, al pianoforte Marco Boemi. L’opera di Ferragosto La Bohème, ne firmai la regia facendo avanti e indietro con Torre del Lago, tra gli interpreti Carmela Apollonio che era arrivata seconda a-pari-merito con Anna Caterina Antonacci al Concorso Maria Callas svoltosi nel 1988 al Teatro di San Carlo (il primo premio non era stato assegnato), con lei, il tenore Giuseppe Sabbatini, il mezzo-soprano Alessandra Ruffini, i baritoni Roberto Servile (Marcello), Paolo Rumetz (Schaunard) e il basso Aurio Tomicich (Colline); direttore Fabio Maestri.

Non posso dimenticare nell’occasione quella che fu la recensione apparsa su La Repubblica a firma di Dino Villatico, giornalista competente quanto obbiettivo, che mise in luce aspetti dello spettacolo che io stesso, quale direttore artistico del Festival e regista, non avrei potuto descrivere con maggiore sensibilità. Difficile frenare il galoppo del tempo tra tante suggestioni, ma la cronaca impone di proseguire in una sintesi. Il Festival è all’apice e nel 1990 continua la lista di prime esecuzioni in epoca moderna del repertorio operistico della scuola napoletana con Le due contesse di Giovanni Paisiello a Villa Vitali e l’avventura con I vampiri, commedia in musica composta nel 1812 che si credeva perduta, del compositore ischitano Silvestro Palma, con Lucetta Bizzi, Stefania Donzelli, Bruno De Simone, Romano Franceschetto, fedeli interpreti, più volte ospiti del Festival. La sera prevista per il debutto de I vampiri si scatenò l’uragano e per la prima volta nella programmazione del Festival lo spettacolo dovette essere rinviato al giorno successivo. Il clima era lugubre, come se degli esseri demoniaci si fossero realmente palesati, scatenando le furie della natura. Com’è diverso lo sguardo al cielo quando si è responsabili di una manifestazione estiva! Presenti a Fermo critici, realmente di tutte le maggiori testate nazionali; ci consolammo con la cucina dalla signora Duilia alla Casina delle Rose, oggi edificio abbandonato, sito nel punto più alto della città, il Girfalco, all’epoca albergo e ristorante che è stato per tutti noi un punto di sicuro riferimento, per l’eccellenza dell’ospitalità e buona cucina marchigiana. Qui ci ritrovavamo con colleghi, giornalisti e artisti, così come a zonzo con il capo-ufficio stampa del Festival, l’infaticabile Anna Dalponte, nella campagna del fermano alla ricerca di gustose specialità e tra gli amici più affezionati, Sabino Lenoci e l’indimenticato Giorgio Banti. La Casina delle Rose, stesso albergo e ristorante preferito dall’architetto Gae Aulenti che, tramite l’amico Marco Vallora, avevo coinvolto per un contributo progettuale al restauro dello storico Teatro dell’Aquila, di cui nel 1990/91 ricorrevano i 200 anni dall’inaugurazione. Nel tempo a capo dell’amministrazione di Fermo si erano succeduti diversi sindaci e particolare riconoscenza è dovuta a Francesco De Minicis, che credette nel progetto Festival appoggiandone lo sviluppo e senza mai interferire nelle scelte artistiche e dopo i primi anni, pur desiderando abbandonare la politica accettò, dopo quella di sindaco, la carica di assessore alla cultura, pur di continuare a sostenere l’iniziativa. Ancor prima dell’arrivo a Fermo di Gae Aulenti, i restauri del Teatro dell’Aquila erano avanzati, realizzati con cura dall’ingegnere incaricato, ma questi non era un esperto di acustica e alcuni interventi rischiavano di rovinarne la specificità. De Minicis mi ascolto e in accordo con lo stesso ingegnere, furono fatte le giuste modifiche al progetto, rinunciando a nefaste immissioni di cemento che ne avrebbero inibito la risonanza. Quindi, si presentò l’opportunità del celebre architetto, che elaborò un progetto che purtroppo non fu da tutti accettato. Il Teatro non ha mai avuto una facciata, sin dalla fondazione, ma la Aulenti non voleva intervenire sul preesistente, bensì avrebbe preferito imporre il concetto di conservazione di tutti gli interventi che si erano susseguiti nei due secoli di storia, l’ingresso principale, gli spazi d’accoglienza e la sala. Il progetto si sarebbe caratterizzato per una diversa configurazione del retro, che si affaccia sul lato esterno della città eretta sulle pendici del Colle Sàbulo. Da questo lato Gae Aulenti progettò una struttura moderna di acciaio e cristalli, che nel pieno rispetto della configurazione della pendice, al contrario sfigurata negli anni ’60 con costruzioni inadeguate, formasse un diverso ingresso del Teatro con scale e ascensori a vista. Un progetto geniale e all’avanguardia, dove il concetto di modernità si coniugava con quello del rispetto dell’impatto ambientale. Rimasi stupito, anni dopo, accompagnando anonimamente degli amici in visita alla sala del restitutito Teatro dell’Aquila, ascoltando la guida dire che l’edificio era stato ristrutturato su progetto di Gae Aulenti, perché purtroppo non era stato così, anche se l’attuale restauro tenne pur conto delle specificità e stile della costruzione, così come suggerito dal celebre architetto, ma nell’anonimato di un lavoro ben realizzato. Torniamo al programma e sempre nel 1990 è doveroso citare in piazza del Popolo la presenza della Royal Philarmonic Orchestra con direttore e solista Vladimir Ashkenazy, in programma musiche di Brahms, Beethoven, Šostakóvič. Un giornalista locale alla conferenza stampa di presentazione della IV edizione del Festival lanciò la sfida, affermando che avrebbe creduto alla presenza di Ashkenazy solo quando lo avesse visto sul palco di Piazza del Popolo, perché spesso la stampa del luogo sembrava meravigliarsi della puntualità di una programmazione ambiziosa. Il celebre pianista e direttore rimase talmente affascinato dal luogo che dopo il concerto improvvisammo una cena sul lato opposto del palco, nella piazza a ridosso di quella porzione di portico che è denominato di San Rocco, con un tavolato montato su due cavalletti, dove all’animo del grande interprete s’impose, nel rapporto personale, l’umanità dell’artista. Sempre nella Piazza, concerto con l’Orchestra Internazionale d’Italia diretta da Donato Renzetti, solista François-Joël Thiollier, con programma interamente dedicato a musiche di Gershwin. A Villa Vitali in scena La Traviata con Giusy Devinu, alla quale devo particolare riconoscenza e affetto; direttore Eugene Kohn, già collaboratore di Thomas Schippers, accompagnatore al pianoforte di Maria Callas e Renata Tebaldi, assistente di Placido Domingo al Washington National Opera. Avevo firmato solo pochi mesi prima (settembre 1989) un’altra produzione de La Traviata, al Teatro Comunale di Adria con Giusy Devinu e con Roberto Alagna al debutto italiano e dopo pochi mesi, il succesivo aprile 1990, il tenore era alla Scala con Riccardo Muti e Liliana Cavani, nel medesimo ruolo. Il lavoro per una produzione operistica all’aperto è ben più impegnativo e per le prove tecniche e realizzazione delle luci si deve lavorare di notte. Con il disegnatore luci Stefano Pirandello, pronipote del celebre Luigi, avevamo terminato il nostro lavoro, ma nella sequenza di controllo notai che l’alba del finale dell’atto primo era troppo luminosa. Stefano mi riprese, non era un effetto, bensì il sole che sorgeva alle spalle del palcoscenico, sul non lontano mare Adriatico.

Di tradizione a Ferragosto, si scatenavano temporali, che non rinviarono mai le nostre attività, ma la sera della generale di Traviata, il 15 agosto di quel 1990, avendo piovuto abbondantemente nel pomeriggio e rinfrescato l’aria, la protagonista preferì restare nella sua camera d’albergo e fu così che quella sera sperimentai, quale regista, cosa volesse dire affrontare un’intera opera quale Violetta in palcoscenico! Completavano la compagnia nei ruoli principali il tenore José Sempre e il baritono Roberto Servile. Per i concerti di musica da camera a palazzo Caffarini-Sassatelli: il Quartetto d’archi Sliven; Le Quatuor de Contrabbasses “Mobile”; il concerto del flautista Roberto Fabbriciani; il duo Dora Brathkova violino, Claudio Marcotulli chitarra; l’Orchestra da Camera Benedetto Marcello diretta da Dario Lucantoni con un programma da Vivaldi a Barber. Un cenno dovuto alla collaborazione negli anni con l’Accademia Organistica Elpidiense e i concerti ospitati nella Basilica della Misericordia a Sant’Elpidio a Mare, dove sono custoditi il prezioso organo del maestro veneto Pietro Nocchini del 1757 e quello dell’allievo e prosecutore della scuola organaria veneta, Gaetano Callido del 1782. Un’occasione rara per la proposta di programmi ricchi e articolati, grazie all’impegno di Giovanni Martinelli. Il 1991 fu l’ultimo per il Festival, il mio impegno era sin dall’inizio per cinque anni, ma non avevo compreso che la manifestazione non sarebbe andata oltre. Il 1990/91 segnava il bicentenario dell’inaugurazione del Teatro dell’Aquila, ma una sia pur limitata iniziativa all’interno del cantiere con un’operina di fantasia appositamente commissionata (ispirata al mago dei fumetti Mandrake) fu sconsigliata dal responsabile dell’impresa. Avevamo, nel frattempo, promosso delle audizioni per la formazione di un nuovo complesso giovanile, che prese il nome di Orchestra del Festival di Fermo. Nella Sala dei Ritratti a Palazzo dei Priori fu allestito un Pastiche, con il debutto di un giovane mezzo-soprano di nome Sonia Ganassi. Dopo averla sentita casualmente studiare per un’audizione nella così detta Sala50 del Teatro dell’Opera di Roma, la segnalai al regista, il celebre Edmo Fenoglio, che appena ebbe modo di conoscerla la volle interprete nel Pastiche del rondò da La Cenerentola di Rossini, inserendola in uno spettacolo appositamente ideato, articolato nei testi e con musiche di Galuppi, Paisiello, Cimarosa, Mozart e da brani da Le Bourgeois gentilhomme di Molière con le musiche di scena di Jean-Baptiste Lully. A Villa Vitali Il curioso indiscreto con musica di Pasquale Anfossi, dramma giocoso per il quale a Vienna Mozart compose tre arie, ovviamente eseguite al Festival. La parte della protagonista era stata offerta a Natalie Dessay, giovane soprano che da poco si era esibita in concerto al Teatro Valle di Roma; non più disponibile la parte fu assegnata a Jenni Drivala che riscosse un personale successo, con Carmela Apollonio, Maurizio Picconi e Luigi Petroni. L’opera di Ferragosto: Il barbiere di Siviglia di Rossini, con Raquel Pierotti, Roberto Servile, Bruno Praticò, direttore Giuliano Carella. A Piazza del Popolo un appuntamento inatteso, il ritorno di Franco Battiato in Concerto, dopo tanti anni di silenzio. Ancora, l’Orchestra Internazionale d’Italia con direttore Lu-Jia e in altra serata con sul podio Emil Tchakarov. Punta di diamante l’Orchestra del Teatro Kirov di Leningrado, già dell’Opera Imperiale russa, oggi Mariinskij, una delle più antiche istituzioni musicali, con direttore Alexander Vilumanis. L’importanza di quest’ultimo appuntamento fu la difficoltà di far lasciare l’Unione Sovietica al direttore e ai componenti l’orchestra, in quanto vi era stato il fallito tentativo di colpo di stato, con conseguente chiusura delle frontiere. Realizzare il concerto previsto a Fermo, all’interno di una tournée, richiese un vero e proprio intervento diplomatico e rimase incerto sino all’ultimo momento. Sindaco era nuovamente Fabrizio Emiliani, che accolse gli ospiti con tanto di fascia tricolore e fu un trionfo. Le cose in Italia e a Fermo, però, stavano cambiando, la politica culturale era passata in mano ad altri, non favorevoli e anche i tempi degli investimenti sulla cultura da parte di alcune amministrazioni volgeva al tramonto. Avrei tanto voluto che qualcun altro continuasse nel mio impegno. Così non fu! Dopo due anni nel 1993, sempre nella regione d’origine della mia famiglia, le Marche, fui chiamato ad Ascoli Piceno per gestire artisticamente la riapertura dello storico Teatro Ventidio Basso, chiuso da molti anni per importanti restauri. Il progetto era di riconsegnare il Ventidio Basso, in occasione della ripresa delle attività, alla sua funzione di palcoscenico non di provincia, ma in provincia, così come da nostra secolare e inimitabile tradizione. Le Marche sono la regione dove resistono, nonostante l’indifferenza di alcune amministrazioni, molte strutture teatrali al pari o più che in ogni altro luogo d’Italia e d’Europa. Ci riuscimmo nel 1994 ad Ascoli Piceno per due stagioni, iniziando con La Traviata di Giuseppe Verdi, tra i soliti, ancora «…una volta…» insieme con Giusy Devinu, Giuseppe Sabatini, Roberto Servile; primo ballerino Raffaele Paganini, scene di Carlo Centolavigna tra i più fedeli collaboratori di Franco Zeffirelli, direttore Giuliano Carella. Quella sera, all’esecuzione dell’Inno di Mameli, tutto il pubblico scattò in piedi in silenzioso rispetto. Questa, però, è un’altra storia.

Vincenzo Grisostomi Travaglini