“La storia del Festival di Fermo”, un articolo del Maestro Vincenzo Grisostomi Travaglini nella rivista “L’Opera International Magazine” di Luglio-Agosto 2020

«C’era una volta…», eppure questa non è una storia di fantasia, bensì una realtà durata ben cinque anni di grande impegno, lavoro e passione. Si potrebbe, è vero, raccontare questa esperienza come in un libro di favole, dove in ogni episodio compaiano i tanti che ne furono coinvolti e che erano, sono e saranno protagonisti della vita musicale internazionale: il Festival di Fermo, dal 1987 al 1991.

Quella data, il 1987, sembra così lontana eppure è ancora presente nella memoria! Tutto iniziò nella terra natia, in quelle Marche che diedero luce a illustri compositori e dove sono presenti, a tutt’oggi, importanti iniziative culturali.  La città di Fermo nella così detta Marca Sporca, la M.S. ovvero Marca sotto il Ducato longobardo di Spoleto, vanta un illustre passato, ne sono testimonianza monumenti e memorie. Il centro storico è tra i più suggestivi, luogo ideale per ospitare un’iniziativa culturale, quale fu il Festival, che in breve tempo s’impose all’attenzione internazionale, oltre ogni aspettativa. L’idea che la città potesse ospitare una serie di manifestazioni nel corso dell’estate, spaziando nel vasto universo dell’arte musicale, fu di Fabrizio Emiliani, da poco nominato sindaco, che mi chiese un incontro. Accettati la carica di consulente, poi direttore artistico e da subito si mise in moto un ingranaggio di cui a stento riuscivamo a comprendere il funzionamento. I luoghi che avrebbero potuto ospitare i concerti e le rappresentazioni operistiche di certo a Fermo non mancavano, nonostante lo storico teatro fosse chiuso da molto tempo e fu indicata la centrale Piazza del Popolo, l’antica Piazza Grande del libero comune, quale punto di riferimento e luogo simbolo dell’iniziativa. La piazza si presenta come una scenografia, così come fu ridisegnata sotto la signoria di Francesco Sforza, con nello sfondo il Palazzo dei Priori che vanta origine nel XIII secolo, la Biblioteca Civica che trae origine nel tempo dell’imperatore Lotario I e dopo cinquecento anni, nel 1303, restituita a rinnovata centralità dal temibile Bonifacio VIII, la sede dell’Ateneo fermano che fiorì sotto il pontificato di Sisto V; racchiusa nei lati da portici in cotto di rara eleganza, per una lunghezza complessiva di circa 135 metri. L’ambizione andava oltre e si voleva che questa iniziativa si potesse caratterizzare, oltre che con ospiti illustri, con proposte insolite, frutto di collaborazione con ricercatori che potessero aprire quegli scrigni preziosi che sono gli archivi degli storici conservatori italiani, primo tra tutti San Pietro a Majella di Napoli. Sin dal primo anno aderirono al progetto Festival artisti famosi quali i solisti Mstislav Rostropovič, e Salvatore Accardo; Wolfgand Sawallisch, Lorin Maazel a capo di orchestre, per citare le più conosciute l’Orchestre national de France e la Bayerische Staatsoper. Per affondare le radici e far germogliare l’iniziativa occorreva, inoltre, poter contare su un organismo che avesse un ruolo di stabilità e fondamentale fu l’apporto del professor Annio Giostra che per anni si era dedicato alla formazione dell’Orchestra Internazionale d’Italia, scaturita dall’esperienza della Jeunesses Musicales, con direttore Donato Renzetti. Lo storico teatro di Fermo, che porta il nome dell’Aquila federicea, era chiuso per restauri che sembravano non avere mai fine. Era stato chiamato dell’Aquila, perché in origine era situato all’interno del Palazzo dei Priori, accanto alla sala che porta il nome dell’emblema araldico del celebre imperatore Federico II, le cui vicende in Italia s’intrecciarono con quelle della marca fermana. Aquila che fu adottata quale simbolo nell’elegante, incisiva grafica del Festival, grazie al raffinato impegno e all’amicizia dei fratelli Maurizio e Georgia Bettoja. Senza teatro, si dovevano individuare degli spazi oltre che all’aperto, anche al chiuso e ideale fu la disponibilità di poter usufruire delle ampie navate della gotica chiesa di San Francesco, tra i monumenti illustri della regione Marche. L’acustica non era, però, delle migliori e furono commissionate delle ampie vele di tela bianca, che sinuose si stendevano lungo gli oltre 60 metri di lunghezza del tempio. Un’immagine di grande suggestione, oltre che acusticamente efficace.

Gli eventi da ricordare sarebbero molti e l’elenco sin troppo lungo. Era passato meno di un anno dal primo incontro con l’allora sindaco e l’assessore alla cultura Luciano Bonfigli e nel frattempo primo cittadino e Presidente del Festival era stato nominato Francesco De Minicis; il 29 maggio 1987, nel tempio di San Francesco, l’Orchestra Internazionale d’Italia si presentava al pubblico con in programma musiche di Mozart, Prokofiev, Čajkovskij, direttore Daniele Renzetti, solista Diego Dini Ciacci. Lo stesso anno, nel medesimo luogo, la Menhuin School con direttore Peter Norris e I virtuosi di Roma. Il tempio fu concesso per concerti straordinari e negli anni seguenti avvolte negato a causa delle indicazioni restrittive sull’uso dei luoghi sacri per ospitare avvenimenti pubblici. Memorabili resteranno a San Francesco, nelle edizioni successive del Festival, I concerti di musica sacra, con l’orchestra Internazionale d’Italia, la partecipazione de I virtuosi di Bucarest, il Coro di Musica Antica di Padova, l’ArPa Chorus con maestro Emanuela Di Pietro.  Nei programmi, la riscoperta di alcune parti della Messa detta di Milano: il Kirye e il Gloria nella trascrizione di Gabriele Gandini che ne fu anche direttore, mentre il manoscritto del Credo si rivelò non recuperabile.  Sempre Gabriele Gandini a San Francesco per I concerti di musica sacra, con le prime esecuzioni assolute della Messa in mi bemolle di Luigi Cherubini, il Qui Tollis di Gioachino Rossini e la prima esecuzione assoluta italiana e prima in epoca moderna del Requiem in do minore di Franz Joseph Haydn. Nei diversi programmi dei concerti nel tempio di San Francesco, la riproposta di musiche ingiustamente dimenticate di Giuseppe Giordani, detto il Giordanello, con la riscoperta della Sinfonia in Re maggiore dall’opera Atlanta e il mottetto per coro e orchestra: Clamate mortales; in altra occasione, sempre a San Francesco, la prima esecuzione assoluta del Qui sedes dalla Messa in Fa maggiore. Nativo di Napoli, Giuseppe Giordani ottenne riconoscimenti in tutta Europa e nel 1789, dopo il successo raggiunto dal dramma per musica La disfatta di Dario al Teatro alla Scala di Milano, ricevette a Fermo il posto di Direttore della Cappella Musicale Metropolitana e qui vi morì nel gennaio del 1798. Nell’Archivio Storico Arcivescovile della città sono conservate numerose pagine autografe della maturità del compositore e nel corso dei cinque anni del Festival si sono voluti proporre alcuni suoi lavori, grazie all’impegno e la collaborazione dei musicologi Ugo Gironacci e Italo Vescovo ai quali si devono le revisioni critiche delle partiture del Giordaniello e la schedatura del fondo musicale del Duomo di Fermo. Purtroppo non si riuscì ad eseguire alcuna sua opera e soprattutto gli oratori: La morte di Abele (1790) e La distruzione di Gerusalemme (1791), con i quali venne inaugurato il Teatro dell’Aquila. Così come si dovette rinunciare a un’ulteriore prima in epoca moderna di un lavoro del repertorio serio di Gioachino Rossini, ricordo che la notizia mi fu data per telefono dall’allora sindaco mentre ero a Tokyo, titolo che negli anni successivi fu rappresentato nella sede preposta del Festival di Pesaro. Quindi, per Fermo, repertorio del Settecento, Ottocento, ma anche Novecento storico, con concerti dedicati al compositore nativo della non lontana Montegiorgio, Domenico Alaleona (1881-1928), unico musicista aderente al movimento del Futurismo, grazie al materiale autografo messo a disposizione dalla famiglia, con appuntamenti a Fermo e nella cornice dell’incantevole teatro della sua città natale, che dal musicista prende il nome. Il repertorio operistico, sin dal primo anno, non poteva mancare e inizialmente per ospitare la programmazione fu reso disponibile il cortile-giardino del settecentesco Palazzo Caffarini-Sassatelli, all’epoca sede di rappresentanza della Cassa di Risparmio di Fermo, con una serata di gala, per la prima in epoca moderna de La modista raggiratrice ovvero la Scuffiara di Giovanni Paisiello, con revisione critica di Giampiero Tintori direttore del Museo teatrale alla Scala, sul podio una giovane promessa: Carlo Rizzi. Tra gli interpreti, Maria Angeles Peters, Bruno Praticò, Carlo Desideri, Bruno De Simone, l’esecuzione fu registrata e commercializzata. Tanti i titoli rari e prime assolute in epoca moderna, come in quello stesso anno L’italiana in Londra di Domenico Cimarosa e di Mozart la meno rappresentata Finta giardiniera.

La politica del territorio trovò terreno fertile in quello che era il galoppatoio dell’ottocentesca Villa Vitali trasformato in spazio teatrale e ancora, all’interno della Rocca che porta il nome del veneziano Lorenzo Tiepolo, nel 1267 podestà di Fermo e futuro Doge di Venezia, edificata a difesa dell’antico porto, dal 1878 inglobata nel territorio del nascente comune di Porto San Giorgio. Questi, alcuni dei luoghi dove si svolsero gli innumerevoli eventi del Festival nell’arco di cinque anni, ai quali andranno ad aggiungersi la chiesa di Sant’Agostino nel borgo storico di Torre di Palme, dov’è conservato il prezioso polittico de La Vergine in trono con Agostino e santi di Vittore Crivelli e la piazza della contrada di Capodarco, dove si possono trovare le migliori olive fritte all’ascolana della zona. I ricordi s’intrecciano e si confondono nello scorrere di quel tempo; i nutriti programmi nel rapido succedersi, spesso, contrastano con emotività che riaffiorano, non prive di suggestione. In quel 1987 si costituiva quella che sarebbe stata la struttura del Festival e nella tradizione della città non poteva mancare l’opera di Ferragosto, un titolo popolare presentato per l’occasione nello spazio di Villa Vitali; quella prima volta: Rigoletto, nuovamente sul podio Carlo Rizzi. Costumista, Otello Camponeschi che, con il contributo di Fabrizio Onali, ha collaborato frequentamente alle produzioni del Festival. Era solo l’inizio! S’intensificava la collaborazione con studiosi per la ricerca di partiture dimenticate negli scaffali dei molti archivi. Il celebre San Pietro a Majella, dove sono confluiti i manoscritti dei settecenteschi conservatori napoletani. Questo era da noi immaginato come un luogo da leggenda e il custode avrebbe poturo ricordare personaggi delle incisioni dell’inferno dantesco di Gustave Doré. La realtà era ben diversa dalla fantasia, eppure, avervi accesso, era pur sempre un privilegio e musicologi, ricercatori, ebbero un ruolo fondamentale nel riportare alla luce alcune partiture i cui originali languivano tra quegli scaffali; tra i tanti nomi il napoletano Pietro Andrisani e per le trascrizioni e revisioni, l’insostituibile Lorenzo Tozzi, fondatore e direttore artistico del Festival Internazionale di Mezza Estate di Tagliacozzo. Era un periodo in Italia di grande fermento, si ricorda il lavoro di Italo Gomez, recentemente scomparso, direttore artistico del Gran Teatro La Fenice di Venezia e il suo interesse per gli eredi della venerabile Scuola Veneziana, straordinaria la riproposta del Nascimento dell’Aurora di Albinoni al Teatro Olimpico di Vicenza con June Anderson. L’impegno e la competenza di Rodolfo Celletti direttore artistico del Festival della Valle D’Itria a Martina Franca e tra i tanti esempi possibili, l’immedesimazione quasi mediatica con la tradizione del Settecento napoletano di Roberto De Simone, direttore artistico del Teatro di San Carlo, musicologo e compositore partenopeo, un titolo fra tutti Il Flaminio di Giovan Battista Pergolesi, che si voleva esserci giunto incompleto, ma poi la partitura apparve integrale. Altre vivacità e competenze, come in Sicilia per la stagione estiva proposta al Teatro di Verzura sulla via Real Favorita, alle porte di Palermo; le iniziative di Opera Giocosa al Teatro Chiabrera di Savona; il Festival Opera Barga, che nacque con l’obbiettivo di contribuire alla formazione e al lancio di giovani artisti. Un patrimonio inestimabile quello storico-musicale, tra Napoli, Roma, Firenze, Venezia, ma in ogni archivio, in Italia ovunque si voglia cercare, si trova l’inimmaginabile, un tesoro da salvaguardare prima che sia troppo tardi. Torniamo, però, alle Marche e al Festival di Fermo; l’anno successivo nel 1998, il programma raddoppiò, presentato in conferenza stampa a Milano grazie alla cortesia di Anna Crespi degli Amici della Scala, a Roma in diverse sedi; sono organizzate conferenze stampa in Austria, Germania, Svizzera e l’interesse di pubblico e critica non tarda nel rendere la manifestazione un appuntamento imperdibile. Fare l’elenco di tutti i partecipanti e le iniziative di quegli anni sarebbe interminabile, eppure alcuni eventi si evidenziano alla memoria, come non ricordare nel 1988 a Piazza del Popolo la Grande Orchestra della Radiotelevisione Polacca (Katowice) diretta da Kristov Penderesky, l’Orchestra Sinfonica di Berlino con Wolf-Dieter Hauschild, l’Orchestra del Teatro dell’Opera di Madrid con sul podio Rafael Frübek de Burgos, la Wiener Johan Strauss Orchester diretta da Alfred Eschwé e solisti quali il pianista Michele Campanella e la violinista Victoria Mullova; la lista potrebbe essere lunga, per la sinfonica, la cameristica, per l’opera così detta da camera. S’impone citare l’evento in Piazza del Popolo con l’Orchestra Nazionale di Whashington diretta da Mstislav Rostropovich, in programma la Sinfonia n.5 di Šostakóvič e di Čajkovskij l’Ouverture-Fantasia Romeo e Giulietta seguita, a conclusione, dall’Ouverture-Solennelle 1812 con cui Čajkovskij commemora la sventata invasione napoleonica della Russia; il tema del cannone in partitura fu realizzato al sintetizzatore, ma per i rintocchi a festa delle campane in onore della vittoria e liberazione della Russia furono mobilitati i sacrestani delle tante chiese d’intorno, che a Fermo sono numerose e in piena notte  gli incaricati, collegati con woki toki, diedero mano alle corde e le campane risuonarono a festa e ai rintocchi del trionfo si aggiunsero gli spettacolari fuochi d’artificio, di cui nelle Marche sono maestri, che erano stati commissionati silenziosi, d’accompagnamento al possente finale, ma gli artificieri preparano a sorpresa una scarica sontuosa e risonante. Lo spettacolo era ripreso integralmente da Rai2 ed ebbi timore che il maestro Rostropovich si lamentasse per aver sovrastato l’orchestra con tanto fragore, ma al contrario ne fu felice e passò la notte, ospite di una famiglia dell’aristocrazia fermana, chiedendo più volte alle cucine di preparare altra pasta e bevendo vodka.

Dalla sinfonica alle proposte di prime esecuzioni in epoca moderna, quali Il mondo della luna di Niccolò Piccinni nella piazza della contrada di Capodarco e Le astuzie femminili di Domenico Cimarosa nell’Arena di Villa Vitali; alla Rocca Tiepolo di Porto San Giorgio Betly o La capanna svizzera  di Donizetti nella versione in un atto e la prima in epoca moderna in forma scenica de La romanziera e l’Uomo nero, lavoro incompiuto sempre con musica di Donizetti, completato nel testo e in veste di narratore da Michael Aspinall; in questa occasione vorrei nominare il direttore Fabio Maestri a cui si devono tante iniziative nel circuito umbro e il sempre collaborativo regista Italo Nunziata. Citare tutti è impossibile! L’opera di Ferragosto: Il Trovatore a Villa Vitali, direttore Massimo De Bernard. Repertorio operistico anche per l’imponente struttura montata ogni estate in Piazza del Popolo, con Il barbiere di Siviglia di Giovanni Paisiello, che si avvalse della sperimentata regia di Maurizio Scaparro. C’erano tutti, un pubblico eterogeneo e prenotazioni da tutta Italia e dall’estero, una critica competente delle maggiori testate italiane ed estere. Spazio alla prosa, con un lavoro appositamente scritto da Guido Barbieri e Sandro Cappelletto nel cortile di Palazzo Caffarini-Sassatelli La voce perduta ovvero l’incontro tra Mozart e Farinelli, rappresentazione preceduta dal convegno: L’evirato cantore nell’opera e nella cultura italiana. La convegnistica, gli incontri, saranno soggetti sempre partecipi nell’arco delle attività del Festival; con gli stessi Barbieri e Cappelletto: Fra le sciagure, felici, il teatro pubblico oggi, in Italia. Con il coordinamento di Angelo Foletto: Per La realtà del palcoscenico ottocentesco, relatori: Luciano Alberti, Eduardo Rescigno, Mario Morini, Julian Budden, Marcello Conati e altri, tra cui Giorgio Gualerzi, che curerà per due edizioni il convegno: Le Marche, terra per fare musica; un incontro con i responsabili delle diverse manifestazioni regionali, tra cui Francesco Canessa per lo Sferisterio di Macerata e Gianfranco Mariotti per il Rossini Opera Festival. Spazio ai giovani, in collaborazione con l’allora sezione staccata di Fermo del Conservatorio Rossini di Pesaro, oggi Conservatorio Giovan Battista Pergolesi, con Dido and Aeneas di Purcell, tra gli interpreti l’allievo Andrea Concetti, direttore un giovane Alessio Vlad che tornerà a Fermo più volte, con l’Orchestra Internazionale d’Italia con concerti in Piazza del Popolo. L’anno successivo la collaborazione con il Conservatorio proseguirà con Actéon di Marc-Antoine Charpentier. Sempre nel cortile di palazzo Caffarini-Sassatelli un’altra promessa, Daniele Gatti. Lo avevo conosciuto alcuni mesi prima a Osimo al Teatro La Nuova Fenice nella prima rappresentazione di Rararbaro Rabarbaro con musica di Carlo Pedini e Gianni Schicchi di Giacomo Puccini, per la prima volta regista d’opera Pippo Baudo, sul podio un giovane dal Conservatorio Verdi di Milano che da subito dimostrò un eccezionale talento. Lo invitai per il Progetto giovani al Festival di Fermo dove venne in quel 1998 con un gruppo di studenti del Conservatorio milanese che si ritrovava sotto il nome di Orchestra da Camera Stradivari; poco prima del concerto il maestro Gatti si ruppe un braccio e diresse con una mano ingessata; in programma tra l’altro Apollon Musagete di Stravinskij in un’esecuzione indimenticabile. Un palcoscenico prestigioso per la musica da camera, quello del cortile-giardino del palazzo lungo corso Cavour, che in quella stessa edizione ospitò il Gruppo Musica Insieme di Cremona con Pietro Antonini, l’Orchestra da Camera di Salisburgo e un concerto di arie da salotto ottocentesche con il debuttante tenore Luca Canonici. Un altro luogo si aggiunge alla lista, la Sala dei Ritratti a Palazzo dei Priori, dove sino alla metà del Settecento era situata la struttura lignea che fungeva da teatro, detto dell’Aquila, con il Quintetto a Fiati Italiano, pianista Michele Campanella e una maratona dedicata al Pianoforte Russo. Sono i primi due anni e per i successivi si trova spazio solo per dei cenni, ma come non ricordare nell’edizione 1989 in Piazza del Popolo la Grande Orchestra  Sinfonica dell’URSS di Radio Mosca diretta da Vladimir Fedoseev con violino solista Viktor Tret’jakov, la Gustav Mahler Jugendorchester, fondata da Claudio Abbado, con direttore Franz Welser-Möest e solista al pianoforte András Schiff. Nella chiesa di Santa Lucia le Sonate da Chiesa e Sacri Concerti con Marco Rossi all’organo, Dora Bratchkova violino e solista Anna Caterina Antonacci, che aveva esordito con me, che ne ero regista, ne Il barbiere di Siviglia al Teatro Petrarca di Arezzo. Ancora, Anna Caterina Antonacci a Villa Vitali ne I due baroni di Rocca Azzurra di Domenico Cimarosa con il debutto nella regia lirica di Luca Verdone. La prima esecuzione originale in epoca moderna nel cortile di palazzo Caffarini-Sassatelli di Denys le Tyran di André Grétry e la prima assoluta dell’opera commissionata al musicista Paolo Arcà: Il carillon del gesuita, con libretto di Giovanni Carli Ballola. Non fu questa l’unica commissione del Festival, sempre nel cortile del settecentesco palazzo fu la volta del compositore Franco Donatoni con la prima esecuzione assoluta di Soft, per clarinetto basso, nel Concerto del Quintetto a Fiati Italiano con flauto Harry Spaarnay, in programma oltre Donatoni, Mozart, Rossini e Berio. La musica contemporanea fu protagonista anche nella Sala dei Ritratti, con Il motivo degli oggetti di vetro commissionata dal Festival a Salvatore Sciarrino che venne appositamente a Fermo, ma all’ingresso non fu riconosciuto e gli fu fatto pagare il biglietto. Il compositore, divertito, conservò il titolo e lo incorniciò per conservarlo nella sua casa di Città di Castello, non gli era mai successo! La serata era dedicata a musiche per flauto e pianoforte con Roberto Fabbriciani, Gabriele Betti (fauti) e Fausto Bongelli (pianoforte). Ancora, a palazzo Caffarini-Sassatelli un omaggio al baritono Giuseppe Taddei, che si esibì in compagnia del soprano Stefania Bonfadelli e del suo allievo, il tenore Enrico Stinchelli, al pianoforte Marco Boemi. L’opera di Ferragosto La Bohème, ne firmai la regia facendo avanti e indietro con Torre del Lago, tra gli interpreti Carmela Apollonio che era arrivata seconda a-pari-merito con Anna Caterina Antonacci al Concorso Maria Callas svoltosi nel 1988 al Teatro di San Carlo (il primo premio non era stato assegnato), con lei, il tenore Giuseppe Sabbatini, il mezzo-soprano Alessandra Ruffini, i baritoni Roberto Servile (Marcello), Paolo Rumetz (Schaunard) e il basso Aurio Tomicich (Colline); direttore Fabio Maestri.

Non posso dimenticare nell’occasione quella che fu la recensione apparsa su La Repubblica a firma di Dino Villatico, giornalista competente quanto obbiettivo, che mise in luce aspetti dello spettacolo che io stesso, quale direttore artistico del Festival e regista, non avrei potuto descrivere con maggiore sensibilità. Difficile frenare il galoppo del tempo tra tante suggestioni, ma la cronaca impone di proseguire in una sintesi. Il Festival è all’apice e nel 1990 continua la lista di prime esecuzioni in epoca moderna del repertorio operistico della scuola napoletana con Le due contesse di Giovanni Paisiello a Villa Vitali e l’avventura con I vampiri, commedia in musica composta nel 1812 che si credeva perduta, del compositore ischitano Silvestro Palma, con Lucetta Bizzi, Stefania Donzelli, Bruno De Simone, Romano Franceschetto, fedeli interpreti, più volte ospiti del Festival. La sera prevista per il debutto de I vampiri si scatenò l’uragano e per la prima volta nella programmazione del Festival lo spettacolo dovette essere rinviato al giorno successivo. Il clima era lugubre, come se degli esseri demoniaci si fossero realmente palesati, scatenando le furie della natura. Com’è diverso lo sguardo al cielo quando si è responsabili di una manifestazione estiva! Presenti a Fermo critici, realmente di tutte le maggiori testate nazionali; ci consolammo con la cucina dalla signora Duilia alla Casina delle Rose, oggi edificio abbandonato, sito nel punto più alto della città, il Girfalco, all’epoca albergo e ristorante che è stato per tutti noi un punto di sicuro riferimento, per l’eccellenza dell’ospitalità e buona cucina marchigiana. Qui ci ritrovavamo con colleghi, giornalisti e artisti, così come a zonzo con il capo-ufficio stampa del Festival, l’infaticabile Anna Dalponte, nella campagna del fermano alla ricerca di gustose specialità e tra gli amici più affezionati, Sabino Lenoci e l’indimenticato Giorgio Banti. La Casina delle Rose, stesso albergo e ristorante preferito dall’architetto Gae Aulenti che, tramite l’amico Marco Vallora, avevo coinvolto per un contributo progettuale al restauro dello storico Teatro dell’Aquila, di cui nel 1990/91 ricorrevano i 200 anni dall’inaugurazione. Nel tempo a capo dell’amministrazione di Fermo si erano succeduti diversi sindaci e particolare riconoscenza è dovuta a Francesco De Minicis, che credette nel progetto Festival appoggiandone lo sviluppo e senza mai interferire nelle scelte artistiche e dopo i primi anni, pur desiderando abbandonare la politica accettò, dopo quella di sindaco, la carica di assessore alla cultura, pur di continuare a sostenere l’iniziativa. Ancor prima dell’arrivo a Fermo di Gae Aulenti, i restauri del Teatro dell’Aquila erano avanzati, realizzati con cura dall’ingegnere incaricato, ma questi non era un esperto di acustica e alcuni interventi rischiavano di rovinarne la specificità. De Minicis mi ascolto e in accordo con lo stesso ingegnere, furono fatte le giuste modifiche al progetto, rinunciando a nefaste immissioni di cemento che ne avrebbero inibito la risonanza. Quindi, si presentò l’opportunità del celebre architetto, che elaborò un progetto che purtroppo non fu da tutti accettato. Il Teatro non ha mai avuto una facciata, sin dalla fondazione, ma la Aulenti non voleva intervenire sul preesistente, bensì avrebbe preferito imporre il concetto di conservazione di tutti gli interventi che si erano susseguiti nei due secoli di storia, l’ingresso principale, gli spazi d’accoglienza e la sala. Il progetto si sarebbe caratterizzato per una diversa configurazione del retro, che si affaccia sul lato esterno della città eretta sulle pendici del Colle Sàbulo. Da questo lato Gae Aulenti progettò una struttura moderna di acciaio e cristalli, che nel pieno rispetto della configurazione della pendice, al contrario sfigurata negli anni ’60 con costruzioni inadeguate, formasse un diverso ingresso del Teatro con scale e ascensori a vista. Un progetto geniale e all’avanguardia, dove il concetto di modernità si coniugava con quello del rispetto dell’impatto ambientale. Rimasi stupito, anni dopo, accompagnando anonimamente degli amici in visita alla sala del restitutito Teatro dell’Aquila, ascoltando la guida dire che l’edificio era stato ristrutturato su progetto di Gae Aulenti, perché purtroppo non era stato così, anche se l’attuale restauro tenne pur conto delle specificità e stile della costruzione, così come suggerito dal celebre architetto, ma nell’anonimato di un lavoro ben realizzato. Torniamo al programma e sempre nel 1990 è doveroso citare in piazza del Popolo la presenza della Royal Philarmonic Orchestra con direttore e solista Vladimir Ashkenazy, in programma musiche di Brahms, Beethoven, Šostakóvič. Un giornalista locale alla conferenza stampa di presentazione della IV edizione del Festival lanciò la sfida, affermando che avrebbe creduto alla presenza di Ashkenazy solo quando lo avesse visto sul palco di Piazza del Popolo, perché spesso la stampa del luogo sembrava meravigliarsi della puntualità di una programmazione ambiziosa. Il celebre pianista e direttore rimase talmente affascinato dal luogo che dopo il concerto improvvisammo una cena sul lato opposto del palco, nella piazza a ridosso di quella porzione di portico che è denominato di San Rocco, con un tavolato montato su due cavalletti, dove all’animo del grande interprete s’impose, nel rapporto personale, l’umanità dell’artista. Sempre nella Piazza, concerto con l’Orchestra Internazionale d’Italia diretta da Donato Renzetti, solista François-Joël Thiollier, con programma interamente dedicato a musiche di Gershwin. A Villa Vitali in scena La Traviata con Giusy Devinu, alla quale devo particolare riconoscenza e affetto; direttore Eugene Kohn, già collaboratore di Thomas Schippers, accompagnatore al pianoforte di Maria Callas e Renata Tebaldi, assistente di Placido Domingo al Washington National Opera. Avevo firmato solo pochi mesi prima (settembre 1989) un’altra produzione de La Traviata, al Teatro Comunale di Adria con Giusy Devinu e con Roberto Alagna al debutto italiano e dopo pochi mesi, il succesivo aprile 1990, il tenore era alla Scala con Riccardo Muti e Liliana Cavani, nel medesimo ruolo. Il lavoro per una produzione operistica all’aperto è ben più impegnativo e per le prove tecniche e realizzazione delle luci si deve lavorare di notte. Con il disegnatore luci Stefano Pirandello, pronipote del celebre Luigi, avevamo terminato il nostro lavoro, ma nella sequenza di controllo notai che l’alba del finale dell’atto primo era troppo luminosa. Stefano mi riprese, non era un effetto, bensì il sole che sorgeva alle spalle del palcoscenico, sul non lontano mare Adriatico.

Di tradizione a Ferragosto, si scatenavano temporali, che non rinviarono mai le nostre attività, ma la sera della generale di Traviata, il 15 agosto di quel 1990, avendo piovuto abbondantemente nel pomeriggio e rinfrescato l’aria, la protagonista preferì restare nella sua camera d’albergo e fu così che quella sera sperimentai, quale regista, cosa volesse dire affrontare un’intera opera quale Violetta in palcoscenico! Completavano la compagnia nei ruoli principali il tenore José Sempre e il baritono Roberto Servile. Per i concerti di musica da camera a palazzo Caffarini-Sassatelli: il Quartetto d’archi Sliven; Le Quatuor de Contrabbasses “Mobile”; il concerto del flautista Roberto Fabbriciani; il duo Dora Brathkova violino, Claudio Marcotulli chitarra; l’Orchestra da Camera Benedetto Marcello diretta da Dario Lucantoni con un programma da Vivaldi a Barber. Un cenno dovuto alla collaborazione negli anni con l’Accademia Organistica Elpidiense e i concerti ospitati nella Basilica della Misericordia a Sant’Elpidio a Mare, dove sono custoditi il prezioso organo del maestro veneto Pietro Nocchini del 1757 e quello dell’allievo e prosecutore della scuola organaria veneta, Gaetano Callido del 1782. Un’occasione rara per la proposta di programmi ricchi e articolati, grazie all’impegno di Giovanni Martinelli. Il 1991 fu l’ultimo per il Festival, il mio impegno era sin dall’inizio per cinque anni, ma non avevo compreso che la manifestazione non sarebbe andata oltre. Il 1990/91 segnava il bicentenario dell’inaugurazione del Teatro dell’Aquila, ma una sia pur limitata iniziativa all’interno del cantiere con un’operina di fantasia appositamente commissionata (ispirata al mago dei fumetti Mandrake) fu sconsigliata dal responsabile dell’impresa. Avevamo, nel frattempo, promosso delle audizioni per la formazione di un nuovo complesso giovanile, che prese il nome di Orchestra del Festival di Fermo. Nella Sala dei Ritratti a Palazzo dei Priori fu allestito un Pastiche, con il debutto di un giovane mezzo-soprano di nome Sonia Ganassi. Dopo averla sentita casualmente studiare per un’audizione nella così detta Sala50 del Teatro dell’Opera di Roma, la segnalai al regista, il celebre Edmo Fenoglio, che appena ebbe modo di conoscerla la volle interprete nel Pastiche del rondò da La Cenerentola di Rossini, inserendola in uno spettacolo appositamente ideato, articolato nei testi e con musiche di Galuppi, Paisiello, Cimarosa, Mozart e da brani da Le Bourgeois gentilhomme di Molière con le musiche di scena di Jean-Baptiste Lully. A Villa Vitali Il curioso indiscreto con musica di Pasquale Anfossi, dramma giocoso per il quale a Vienna Mozart compose tre arie, ovviamente eseguite al Festival. La parte della protagonista era stata offerta a Natalie Dessay, giovane soprano che da poco si era esibita in concerto al Teatro Valle di Roma; non più disponibile la parte fu assegnata a Jenni Drivala che riscosse un personale successo, con Carmela Apollonio, Maurizio Picconi e Luigi Petroni. L’opera di Ferragosto: Il barbiere di Siviglia di Rossini, con Raquel Pierotti, Roberto Servile, Bruno Praticò, direttore Giuliano Carella. A Piazza del Popolo un appuntamento inatteso, il ritorno di Franco Battiato in Concerto, dopo tanti anni di silenzio. Ancora, l’Orchestra Internazionale d’Italia con direttore Lu-Jia e in altra serata con sul podio Emil Tchakarov. Punta di diamante l’Orchestra del Teatro Kirov di Leningrado, già dell’Opera Imperiale russa, oggi Mariinskij, una delle più antiche istituzioni musicali, con direttore Alexander Vilumanis. L’importanza di quest’ultimo appuntamento fu la difficoltà di far lasciare l’Unione Sovietica al direttore e ai componenti l’orchestra, in quanto vi era stato il fallito tentativo di colpo di stato, con conseguente chiusura delle frontiere. Realizzare il concerto previsto a Fermo, all’interno di una tournée, richiese un vero e proprio intervento diplomatico e rimase incerto sino all’ultimo momento. Sindaco era nuovamente Fabrizio Emiliani, che accolse gli ospiti con tanto di fascia tricolore e fu un trionfo. Le cose in Italia e a Fermo, però, stavano cambiando, la politica culturale era passata in mano ad altri, non favorevoli e anche i tempi degli investimenti sulla cultura da parte di alcune amministrazioni volgeva al tramonto. Avrei tanto voluto che qualcun altro continuasse nel mio impegno. Così non fu! Dopo due anni nel 1993, sempre nella regione d’origine della mia famiglia, le Marche, fui chiamato ad Ascoli Piceno per gestire artisticamente la riapertura dello storico Teatro Ventidio Basso, chiuso da molti anni per importanti restauri. Il progetto era di riconsegnare il Ventidio Basso, in occasione della ripresa delle attività, alla sua funzione di palcoscenico non di provincia, ma in provincia, così come da nostra secolare e inimitabile tradizione. Le Marche sono la regione dove resistono, nonostante l’indifferenza di alcune amministrazioni, molte strutture teatrali al pari o più che in ogni altro luogo d’Italia e d’Europa. Ci riuscimmo nel 1994 ad Ascoli Piceno per due stagioni, iniziando con La Traviata di Giuseppe Verdi, tra i soliti, ancora «…una volta…» insieme con Giusy Devinu, Giuseppe Sabatini, Roberto Servile; primo ballerino Raffaele Paganini, scene di Carlo Centolavigna tra i più fedeli collaboratori di Franco Zeffirelli, direttore Giuliano Carella. Quella sera, all’esecuzione dell’Inno di Mameli, tutto il pubblico scattò in piedi in silenzioso rispetto. Questa, però, è un’altra storia.

Vincenzo Grisostomi Travaglini

“Il culto della bellezza, fra opera, teatro e cinema”, un articolo del Maestro Vincenzo Grisostomi Travaglini, pubblicato in “L’Opera International Magazine”, Luglio-Agosto 2019, su Franco Zeffirelli, scomparso il 15 giugno 2019.

Vincenzo Grisostomi Travaglini, che conobbe e lavorò con Franco Zefirelli, stende un ritratto e un personale ricordo del grande regista scomparso.

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Quando si spegne una stella il suo bagliore si spande nell’infinito.
Così quanto muore un Artista la suo opera resta imperitura. Regista
d’opera e di prosa, autore di cinema, scenografo e costumista, Franco
Zeffirelli “nasce” alla prestigiosa scuola di Luchino Visconti e del
suo Maestro trasmise l’elegante consapevolezza di un rinnovato
approccio all’opera d’arte, di meticolosa aderenza al contenuto
originale, di una cultuta dove l’estetismo si tramuta in sostanza, pur
sempre nella liberà espressiva dell’autore. Un incontro casuale il mio
con Franco Zeffirelli, nel 1965 passeggiando avanti Palazzo Reale a
Torino un signore con autorità faceva smontare i giganteschi
striscioni che annunciavano nel teatro all’aperto montato nei giardini
il Giulietta e Romeo di Skahespeare. La tragedia si chiama Romeo e
Giulietta affermava e gli operai ubbidirono. Un primo gesto di quel
rigore non solo apparente, un segno d’autore che rifletteva il cattere
dell’artista che imponeva una convalidata cultura, trasmettendo al
pubblico con il suo lavoro e le sue convinzioni un differente
approccio ai classici, di quei valori che oggi diamo per acquisiti.
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Splendido lo spettacolo shakespeariano con i giovanissimi Giancarlo
Giannini, Annamaria Guarnieri e una straordinaria Lina Volonghi,
distante da una recitazione di maniera e da protagonismi in un lavoro
d’insieme che solo il regista può realizzare. Con freschezza e rigore,
così come la pellicola del “Romeo e Giulietta” che segui solo alcuni
anni più tardi, nel 1968, con interpreti che sono personaggi e i
personaggi funzionali all’accadimento. Questi gli anni dei primi
successi cinematografici di Zeffirelli, nel 1967 sempre Skahespeare
con La bisbetica domata, con due celebrità  quali Elizabeth Taylor e
Richard Burton, ma qui il divismo non è mai fine a se stesso, bensì
efficiente all’intrigante dipanarsi della commedia. Il suo debutto nel
cinema risaliva al 1957 con Camping un’inaspettata commediola
all’italiana; nel 1964 firma il film per la televisione Maria Callas
al Covent Garden, una primadonna a cui restò sempre legato
dedicandogli nel 2002 il film Callas Forever. Fu Zeffirelli nel 1964 a
convincere una Maria Callas oramai sul viale del tramonto a
partecipare a una nuova produzione di Tosca a Londra da lui diretta ed
il secondo atto è l’unica registrazione video in un’opera della
Callas, con lei Tito Gobbi. “La Callas è insuperabile”, affermò il
regista e fu un trionfo, , a cui segui quello di Parigi e al
Metropolitan, ma solo l’anno dopo nella ripresa al Royal Opera Hause
Covent Garden la divina Maria apparì solo nella serata di gala il 5
luglio 1965 alla presenza della regina Elisabetta II e quello fu
l’addio alle scene del celebre soprano.
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Innumerevoli i titoli cinematografici diretti da Franco Zefirelli, senza mai dimenticare
l’amore per il palcoscenico lirico, con inserimenti di produzioni come
per Aida ne Il giovane Toscanini, direttore d’orchestra che Zeffirelli
aveva conosciuto personalemnete, tra hli interpreti ancora una volta
con Elisabeth Taylor che per il Maestro nativo di Firenze accetto di
tornare a recitare dopo dieci anni di assenza dal set e che studiare
con Zeffirelli non sopportando il chiuso di una stanza si fece portare
una roulotte attrezzata di ogni comodità parcheggiata nel giardino del
Maestro a Roma, a Villa Grande. La pellicola fu in parte girata nel
teatro Petruzzelli prima del disastroso incendio, trasportato nella
finzione cinematografica nel lontano Brasile e quelle immagini furono
il punto di riferimento per la ricostruzione della sala; ancora Carmen
nel già citato Callas Forever e la lista delle produzioni
cinematografiche del Maestro comprende più di 20 titoli, quale regista
e talvolta anche sceneggiatore, sino all’ultima opera cinematografica
del Maestro: Omaggio a Roma del 2009 un “promo” sulle bellezze della
città eterna commissionatogli dal Campidoglio, dove non poteva mancare
una citazione all’ambientazione tutta romana di Tosca.
Plausi e critiche per i film-opera: nel 1982 Cavalleria Rusticana e Pagliacci
con direttore Georges Prêtre; nel 1983 una Traviata che non riscosse
unanimi consensi per alcune libertà che il regista impose sulla
partitura verdiana, con Teresa Stratas e Placido Domingo, da citare
anche il coreografo Vladimir Vassiliev la cui collaborazione con
Zeffirelli è frequente. Nel 1986 Otello con Placido Domingo e Katia
Ricciarelli, direttore Lorin Maazel.
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Franco Zeffirelli l’artista di teatro, celebrato regista
d’indimenticabili successi cinematografici, ma anche l’uomo la cui
umanità, per alcuni schivo all’apparenza, era al contrario
carratterizzante di un’apertura verso nuove esperienze, di supporto di
giovani talenti. Il mio incontro su di un palcoscenico, ero studente
liceale, fu al Teatro dell’Opera di Roma per una ripresa di Falstaff,
nell’aprile del 1974. Ero assistente volontario, ovvero avevo ottenuto
un permesso speciale per assistere alle prove, mi era permesso
osservare, ma non potevo intervenire, eppure Zeffirelli oltre le
convenzioni come solo i grandi sanno essere, desiderò coinvolgermi.
Trovarsi in quel mondo oltre la ribalta fa sognare oltre ogni
desiderio; smarriti o deteriorati i variopinti costumi del quarto atto
dei folletti, tutti ci trovammo in sartoria per tagliare brandelli di
stoffa e ricucire il perduto, Tutti insieme, Franco Zeffirelli e il
giovane aiuto regista, quel Pippo Pisciotta che fu per lui compagno di
vita, l’assistente volontario ovvero io e tanti altri; tra gli allievi
della Scuola di danza del Teatro dell’Opera che interpretavano i
folletti dell’atto quarto un già protagonista Raffaele Paganini. I
successi di Franco Zeffirelli nella lirica sono innumerevoli e le sue
produzioni ancora attuali e di diritto nella storia del melodramma.
Solo alla Scala si contano più di 20 titoli, dai primi anni del
dopoguerra e per l’intero arco della sua vita. Zeffirelli non ha mai
dimenticato i suoi primi passi, quale assistente o titolare, come ad
esempio per una “Carmen” al Carlo Felice di Genova bombardato con la
sala protetta da materiale impermiabile perché il soffitto aveva
ceduto, prima della discussa demolizione della struttura interna.
Elencare tutte le produzioni in campo operistico, di prosa e
cinematografico di Franco Zeffirelli sarebbe un esercizio che da solo
ne restituirebbe il rilievo in campo internazionale. Basterà, però,
citare dei momenti particolarmente significativi di cui posso dare
personale testimonianza, quali il trionfo scaligero il 7 dicembre 1976
per Otello diretto da Carlos kleiber, la prima opera trasmessa in
diretta televisiva con neo-eletto presidente della RAI quel Paolo
Grassi che alla Scala era stato il sovrintendente degli anni felici.
Sempre alla Scala: Un ballo in maschera con direttore Claudio Abbado,
le lacrime di Shirley Verrett contestata nelle vesti di Amelia e il
trionfo di Pavarotti-Riccardo e Piero Cappuccili-Renato, la cui
spettacolarità imponeva nei cambi a vista un’irrefrenabile applauso.
Un salto temporale e tanti altri successi in Italia e all’estero, a
Milano con Turandot direttore Lorin Maazel, siamo nel 1983
allestimento riproposto  successivamente con modifiche al
Metropolitan. Negli Stati Uniti Zeffirelli è particolarmente amato e
la sua collaborazione con il Metropolitan è stata di tale portata
dall’aver invogliato a frequentare il teatro da un nuovo e folto
pubblico. Di Zefirelli bastava pronunciare il nome e i fondi elargiti
dai mecenati del Met erano assicurati. Critica e pubblico non furono
sempre concordi in una schermaglia di pareri contrari che perseguitò
l’artista negli Stati Uniti, così come negli altri paesi. Esempio ne
fu la nuova produzione di Tosca con debuttante al Metropolitan
Giuseppe Sinopoli, protagonisti Hildegard Behrens e Placido Domingo.
Con lo spettacolare terzo atto il regista e scenografo Zeffirelli
utilizzando ancora una volta, come per il quarto atto di “Aida” nella
produzione della Scala del 1964, il così detto ascensore o ponti
mobili del palcoscenico, potè giocare su due ambienti sovrapposti,
metenendo inizialmente in risalto la prigione dove è rinchiuso
Cavaradossi, che scomparendo inghiottita dalle viscere del
palcoscenico, con un coup de thèâtre di grande effetto faceva scendere
a livello la sovrastante terrazza di Castel Sant’Angelo dove
Cavaradossi canta “E lucevan le stelle” prima di essere fucilato.
Si scrisse che era stato “il trionfo registico del secolo”, “il
massimo della raffinatezza operistica”. Per altri una regìa “priva di
immaginazione”, Zeffirelli venne tacciato di tradizionalismo:
“insopportabile monumentalismo e realismo quasi fotografico”. Una
discrasia ancor oggi pungente tra un giornalismo alla ricerca della
notizia e un pubblico desideroso di produzioni realizzate con reale
professionismo. L’allestimento sarà presente al Metropolitan nel corso
di svariare stagioni e successivamente segnò il trionfo di Luciano
Pavarotti-Cavaradossi. Le recite di spettacoli con la regia di
Zeffirelli in scena al Metropolitan sono oltre 800.
Qualche curiosità, Franco Zeffirelli in gioventù ha recitato nella
Compagnia dell’Orsa Minore e quale attore cinematografico ne
L’onorevole Angelina con regia di Luigi Zampa nel 1947 e più
recentemente nel 2014 ne Il mistero di Dante con la regia di Louis
Nero dove interpreta se stesso, a fianco del premio Oscar F.Murray
Abraham. Franco Zeffirelli è stato regista e librettista di Antony and
Cleopatra con musica di Samuel Barber, in prima assoluta al
Metropolitan nel 1966.
Non ha mai abbandonato la regia del teatro di prosa e tra i tanti
titoli è doveroso citare negli anni Sessanta Amleto con Giorgio
Albertazzi, portato anche a Londra in occasione delle celebrazioni nel
quattrocentesimo dalla nascita di William Shakespeare; nel 1983 al
Teatro della Persola di Firenze Maria Stuarda di Schiller, una lezione
di teatro con Rossella Falk e Valentina Cortese.
Senatore dal 1994 per una legislatura, tornò pienamente ad occuparsi
di spettacolo. Nel novembre del 2004 fu nominato dalla Regina
Elisabetta II: “Cavaliere Commendatore dell’Ordine dell’Impero
Britannico”.
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Un rammarico, la mancata Turandot nella Città Proibita di Pechino.
Andammo insieme con Dante Mariti della Melos Art in visita ufficiale
in Cina. Tutto sembra andare per il meglio, ma dopo il soprallluogo
all’immensa struttura, Zeffirelli notò che lo spazio dove si sarebbe
dovuto rappresentare l’opera di Puccini non prorpiamente all’interno
della vera e propria Città Proibita, bensì compreso tra la prima e la
seconda cerchia di mura. Il Maestro fu irremuovibile, ma il permesso
per uno spettacolo all’interno delle mura interne era impossibile,
perché quando Bertolucci vi girò il film L’ultimo imperatore per
illuminare gli interni, essendo vietato portare i riflettori
all’interno le sale, li fece fissare su delle colonne di ebano
smaltato provocando dei gravi danni. Da qui il divieto irrevocabile.
Ci consolammo con una ricca cena in Ambasciata e il giorno seguente
spese “pazze”, perché al Maestro piaceva portare dei regali e
conservare il ricordo. Non ci facemmo mancare una visita alla Grande
Muraglia, ma Zeffirelli credeva nel progetto e rimase deluso. Qualche
tempo più tardi il Maggio Musicale Fiorentino con direttore Zubin
Metha fu meno esigente e in quello stesso spiazzo l’evento risultò
essere stato presentato come: “La Turandot nella Città Proibita”.
I rapporti di Zeffirelli con i teatri non furono costanti, con qualche
polemica e grandi rientri. Così come per la Scala e ultima in ordine
di tempo con il sovraintendente Pereira e poi l’assidua collaborazione
con l’Arena di Verona. Tra tutte la Carmen in una serata carica di
aspettatite. Uno spettacolo sontuoso, direttore Daniel Oren. L’Arena
era esaurita, lo stesso Oren sembrò sentire il peso di tanta
responsabilità e preferì rallentare alcuni tempi per tenere meglio
sotto controllo i solisti. Zeffirelli era arrabbiato. “proprio questa
sera Daniel ha deciso di scambiare l’opera per una sinfonia!“, ma
tutto andò per il meglio e nel dopo-teatro di festeggiò “alla grande”.
Seguiranno una nuova produzione di Aida (e ancora Aida per un secondo
allestimento alla Scala, meno fortunato del primo) e ancora a Verona
Il trovatore con la riproposta dei ballabili scritti da Verdi per
Parigi,  Turandot, Don Giovanni, Madama Butterfly e dove quest’anno La
Traviata il 21 giugno è andata in scena postuma, preceduta da una
cerimonia per ricordare il regista e scenografo. Cecilia Gasdia
attuale sovrintendente e direttore artistico dell’Arena ricorda che
l’idea di questa Traviata era nata nel 2008 come desiderio personale
del Maestro . Zeffirelli era particolarmente affezionato a questo
titolo verdiano affrontato per la prima volta a Dallas nel 1958 con
protagonista Maria Callas: «Traviata, una donna senza tempo. È stata
il fantasma e l’amore della mia vita» aveva dichiarato. La stessa
Gasdia era stata interprete di Violetta in Traviata al Comunale
Firenze nel 1984, in un nuovo allestimento firmato Zeffirelli in
coproduzione con il Maggio Musicale, il  Metropolitan di New York e l’
Opèra di Parigi, direttore Carlos Kleiber. L’occasione di questa
Traviata fiorentina con regia di Franco Zeffirelli è l’occasione per
restare nel capoluogo toscano, perché di recente nella sua città
natale il Maestro ha visto realizzato il sogno di una vita: il “Centro
Internazionale per le Arti dello Spettacolo Franco Zeffirelli”: una
Fondazione, dichiarata per Statuto “di particolare interesse storico”.
Inaugurato nel 2017 il Centro è ospitato nel Complesso di San Firenze
e vi sono conservati tutti i documenti legati alla sua attività
artistica, dai bozzetti, agli studi per gli allestimenti teatrali e
cinematografici, dalle note di regia alle sceneggiature, dalle foto di
scena alle rassegne stampa, un vero e proprio patrimonio artistico e
culturale da tramandare ai posteri.
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Franco Zeffirelli in passato e di recente, non ha mai mancato
occasione per esprimere le proprie opinioni, avvolte pungenti, ma
sempre pertinenti. D’altronde il suo sangue fiorentino non smentiva la
sua innata loquacità. Amava la sua città e nel 1966 diresse il
film-documentario prodotto dalla RAI Per Firenze dove è documentata la
devastazione della città nell’alluvione del 4 novembre 1966. Sono
molti gli eventi a cui il Maestro ha partecipato e tra questi la regia
in mondovisione nel dicembre 1974 della cerimonia d’apertura dell’Anno
Santo, regnante Paolo VI. Sempre per la sua città nel 1989  è dedicato
l’episodio su Firenze per il film-documentario 12 grandi registi
italiani presentano 12 grandi città italiane in occasione della 14a
Coppa del Mondo di calcio. “Galeotta” è sempre Firenze e in questo
caso l’amicizia con il concittadino Giampaolo Cresci nominato
sovrintendente dell’Opera di Roma. Per il rilancio del Massimo
capitolino Franco Zeffirelli s’impegna con una nuova produzione di
Pagliacci. Nel 1992 nessun teatro sembra ricordare l’anniversario del
centeneraio del lavoro di Ruggero Leoncavallo. Un’occasione da non
perdere e in poche settimane all’Opera di Roma se ne programma una
nuova edizione. Mancano pochi giorni all’evento non previsto in
cartellone e si lavora giorno e notte, i laboratori e sartoria non
risparmiano straordinari, in palcoscenico si costruisce e si dipinge
negli orari di chiusura sotto lo sguardo vigile dei vigili del fuoco a
cui è demandato il servizio di sicurezza. Si cena tutti insieme nel
non lontano ristorante cinese e per noi tutti resterà un ricordo
indelebile. In poche settimane l’opera è in scena e la serata:
memorabile. Ambientato in una periferia degradata il nuovo
allestimento è popolato da saltimbanchi, puttane e la tragedia tra
finzione e realtà si svolge implacabilmente sotto i piloni di
un’autostrada: un trionfo e Zeffirelli non mancò di osservare che era
ben capace di uscire da un’ambientazione tradizionale e di presentare
un allestimento ambientato ai nostri giorni, importante è «saperlo
fare». E’ lo stesso allestimento che nel marzo del 2018 sarà
presentato in tournée con l’Opera di Roma alla Royal Opera House di
Muscat nell’Oman.  «Ho una lunga storia con l’Opera – ricorda sempre
Zeffirelli -. Vi approdai nel 1963 con un Falstaff diretto da Giulini
e solo negli ultimi anni vi ho fatto 5 titoli tra cui la Tosca del
centenario, Don Giovanni e naturalmente questi Pagliacci. Sono malato
di Puccini, ma anche i Pagliacci li ho sempre amati. A Roma fui
costretto a montarli in 20 giorni con uno sforzo incredibile».  La
collaborazione con il Teatro dell’Opera nel sodalizio
Zeffirelli-Cresci prosegue e l’obbiettivo è di portare a Roma da
Milano due capisaldi del lavoro di Zeffirelli, La Bohème e Aida dal
Teatro alla Scala, allestimenti in parte dipinti e realizzati con
materiale deteriorabile. La Bohème era andata in scena alla Scala
circa 410 volte; per Aida all’epoca ci si era avvalsi della
collaborazione dello scenografo-pittore e costumista, forse uno dei
più dotati di tutto il Novecento: Lilla De Nobili. L’accordo è fatto e
i favolosi laboratori di via dei Cerchi compiono il miracolo, si
convince Lilla De Nobili a lasciare per alcune settimane il suo
appartamento popolato da amati felini, ma l’artista dai fluenti
capelli incolti non vuole apparire e lavora di notte, entrando quasi
di nascosto negli ampi laboratori romani senza alcun supporto e aiuto,
ridipingendo e restaurando con le sue mani, i suoi pennelli, parte dei
magnifici fondali. Per La Bohème a Roma Zeffirelli volle effettuare le
modifiche soprattutto per il secondo atto. Direttore Daniel Oren,
interprete quale Rodolfo un giovane Roberto Alagna, da poco debuttante
in Italia.
Dal successo di Aida all’Opera di Roma un’oportunità che ha il segno
della storia, la proposta per l’inaugurazione del New National Theatre
di Tokyo, il primo teatro di stato voluto in Giappone, con una nuova
produzione di Aida, una celebrazione solenne per l’apertura della
nuova struttura con l’opera di Verdi, a cui si sarebbero affiancate
una nuova produzione wagneriana per il repertorio tedesco e una
composizione realizzata appositamente per l’occasione da un musicista
giapponese. Al New National Theatre era stato nominato dagli apparati
statali un Direttore artistico, a me l’incarico di Responsabile
artistico per questo particolare evento.
Inizia un lavoro che durerà oltre tre anni, vicino all’abitazione del
maestro Zeffirelli in zona Appia Pignatelli a Roma (Gallia Placidia)
viene allestito un apposito laboratorio diretto dalla costumista Anna
Anni, con la collaborazione di Anna Biagiotti, nel giardino della
villa adiacente di proprietà di Gina Lollobrigida s’insediano i
calderoni per tingere i tessuti. Si acquistano stoffe nel bazar
d’Istanbul, in Egitto, calzature nelle Marche. S’impegnano nel Lazio
due laboratori di scenografia, Zeffirelli firma anche la scene, uno
specialista per la realizzazione delle strutture “costruite” e l’altro
per i fondali dipinti. Vengono impegnati i rinomati artigiani di
Cinecittà e anche i raffinati fornitori del Massimo di Palermo che
s’impegnano a realizzare accessori preziosi. Un’impresa, si può ben
dire: “faraonica”. Il risultato è straordinario. Un vero e proprio
esercito di figuranti viene impegnato a Tokyo e preparato dagli
infaticabili assistenti Marco Gandini e Jun Aguni. Per il ballo viene
fatto ritornare a Tokyo da una tournèe in provincia un ballerino che
avevo visto in una delle danze in Schiaccianoci e che ero sicuro fosse
il giusto protagonista per il “Ballabile” del secondo atto. Le prove
sono avanzate e tutto è approntato seguendo le precise, puntigliose,
attente direttive del Maestro e poi … Zeffirelli arriva a Tokyo. Il
prezzo del biglietto aereo non è niente a confronto dell’extra
bagaglio per bauli contenenti documentazione varia, libri e ancora
libri. Il Maestro viaggiava sempre portando con sé più materiale
illustrativo possibile. All’arrivo una delegazione del Metropolitan lo
raggiunge per una ennessima, nuova produzione de La Traviata e come
per incanto dalla matita di Zeffirelli prendono forma scene e costumi
con una festa in casa di Flora dal sapore spiccatamente andaluso. Poi
le prove in palcoscenico di Aida. Una scena alla volta, senza limiti
di tempo per la prova di regia (incredibile concessione per il
Giappone) e tutto ciò che appariva compiuto si trasformava in un’altra
cosa: solisti, coro, figuranti, tutti come in una metamorfosi si
tramutavano in antichi egizi nell’incanto della musica di Giuseppe
Verdi, sotto l’attenta guida di Zeffirelli, come incantati. Un altro
ricordo che mi è d’obligo citare: durante una prova di Aida si scatenò
a Tokyo un’eccezionale bufera di neve. Tokyo è una delle città più
organizzate del mondo, ma non è preparata all’imprevisto.
Spaventatissimi dalla direzione ci dissero di lasciare l’edificio del
New National Theatre per tornare subito in albergo, ma Zeffirelli non
volle lasciare il lavoro. Al termine le strade erano ricoperte di
neve, non c’erano più taxi, le macchine private bloccate nei garage,
la celebrata linea di trasporti JR interrotta. Solo un’ultima corsa di
metroplitana per la stazione di Shinjuku. Ci trovammo soli e non
sapevamo come raggiungere l’hotel distante qualche centinaio di metri.
La bufera di neve c’impediva di avanzare e vedemmo ad un angolo di
strada un vecchio ombrello che sembrava abbandonato. Lo presi e come
una molla insieme all’ombrello scatto un barbone che aveva trovato
riparo in un angolino protetto, in quel pur sontuoso quartiere.
Tenemmo per noi, egoisticamente, l’ombrello, avvinghiati l’uno a
l’altro sino a raggiungere l’hotel dove tutti ci aspettavano con
ansia, ma nessuno era venuto a soccorrerci. Zeffirelli mi disse
solamente: “lo so che mi vuoi bene”. Per più giorni volle ripassare
per quella strada per trovare e ricompesare quel barbone che
involontariamente avevamo dannegiato privandolo dal riparo di un
vecchio ombrello nero. Non lo trovammo e il Maestro ne fu amareggiato.
Questo era l’uomo Franco Zeffirelli!.
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