“La storia del Festival di Fermo”, un articolo del Maestro Vincenzo Grisostomi Travaglini nella rivista “L’Opera International Magazine” di Luglio-Agosto 2020

«C’era una volta…», eppure questa non è una storia di fantasia, bensì una realtà durata ben cinque anni di grande impegno, lavoro e passione. Si potrebbe, è vero, raccontare questa esperienza come in un libro di favole, dove in ogni episodio compaiano i tanti che ne furono coinvolti e che erano, sono e saranno protagonisti della vita musicale internazionale: il Festival di Fermo, dal 1987 al 1991.

Quella data, il 1987, sembra così lontana eppure è ancora presente nella memoria! Tutto iniziò nella terra natia, in quelle Marche che diedero luce a illustri compositori e dove sono presenti, a tutt’oggi, importanti iniziative culturali.  La città di Fermo nella così detta Marca Sporca, la M.S. ovvero Marca sotto il Ducato longobardo di Spoleto, vanta un illustre passato, ne sono testimonianza monumenti e memorie. Il centro storico è tra i più suggestivi, luogo ideale per ospitare un’iniziativa culturale, quale fu il Festival, che in breve tempo s’impose all’attenzione internazionale, oltre ogni aspettativa. L’idea che la città potesse ospitare una serie di manifestazioni nel corso dell’estate, spaziando nel vasto universo dell’arte musicale, fu di Fabrizio Emiliani, da poco nominato sindaco, che mi chiese un incontro. Accettati la carica di consulente, poi direttore artistico e da subito si mise in moto un ingranaggio di cui a stento riuscivamo a comprendere il funzionamento. I luoghi che avrebbero potuto ospitare i concerti e le rappresentazioni operistiche di certo a Fermo non mancavano, nonostante lo storico teatro fosse chiuso da molto tempo e fu indicata la centrale Piazza del Popolo, l’antica Piazza Grande del libero comune, quale punto di riferimento e luogo simbolo dell’iniziativa. La piazza si presenta come una scenografia, così come fu ridisegnata sotto la signoria di Francesco Sforza, con nello sfondo il Palazzo dei Priori che vanta origine nel XIII secolo, la Biblioteca Civica che trae origine nel tempo dell’imperatore Lotario I e dopo cinquecento anni, nel 1303, restituita a rinnovata centralità dal temibile Bonifacio VIII, la sede dell’Ateneo fermano che fiorì sotto il pontificato di Sisto V; racchiusa nei lati da portici in cotto di rara eleganza, per una lunghezza complessiva di circa 135 metri. L’ambizione andava oltre e si voleva che questa iniziativa si potesse caratterizzare, oltre che con ospiti illustri, con proposte insolite, frutto di collaborazione con ricercatori che potessero aprire quegli scrigni preziosi che sono gli archivi degli storici conservatori italiani, primo tra tutti San Pietro a Majella di Napoli. Sin dal primo anno aderirono al progetto Festival artisti famosi quali i solisti Mstislav Rostropovič, e Salvatore Accardo; Wolfgand Sawallisch, Lorin Maazel a capo di orchestre, per citare le più conosciute l’Orchestre national de France e la Bayerische Staatsoper. Per affondare le radici e far germogliare l’iniziativa occorreva, inoltre, poter contare su un organismo che avesse un ruolo di stabilità e fondamentale fu l’apporto del professor Annio Giostra che per anni si era dedicato alla formazione dell’Orchestra Internazionale d’Italia, scaturita dall’esperienza della Jeunesses Musicales, con direttore Donato Renzetti. Lo storico teatro di Fermo, che porta il nome dell’Aquila federicea, era chiuso per restauri che sembravano non avere mai fine. Era stato chiamato dell’Aquila, perché in origine era situato all’interno del Palazzo dei Priori, accanto alla sala che porta il nome dell’emblema araldico del celebre imperatore Federico II, le cui vicende in Italia s’intrecciarono con quelle della marca fermana. Aquila che fu adottata quale simbolo nell’elegante, incisiva grafica del Festival, grazie al raffinato impegno e all’amicizia dei fratelli Maurizio e Georgia Bettoja. Senza teatro, si dovevano individuare degli spazi oltre che all’aperto, anche al chiuso e ideale fu la disponibilità di poter usufruire delle ampie navate della gotica chiesa di San Francesco, tra i monumenti illustri della regione Marche. L’acustica non era, però, delle migliori e furono commissionate delle ampie vele di tela bianca, che sinuose si stendevano lungo gli oltre 60 metri di lunghezza del tempio. Un’immagine di grande suggestione, oltre che acusticamente efficace.

Gli eventi da ricordare sarebbero molti e l’elenco sin troppo lungo. Era passato meno di un anno dal primo incontro con l’allora sindaco e l’assessore alla cultura Luciano Bonfigli e nel frattempo primo cittadino e Presidente del Festival era stato nominato Francesco De Minicis; il 29 maggio 1987, nel tempio di San Francesco, l’Orchestra Internazionale d’Italia si presentava al pubblico con in programma musiche di Mozart, Prokofiev, Čajkovskij, direttore Daniele Renzetti, solista Diego Dini Ciacci. Lo stesso anno, nel medesimo luogo, la Menhuin School con direttore Peter Norris e I virtuosi di Roma. Il tempio fu concesso per concerti straordinari e negli anni seguenti avvolte negato a causa delle indicazioni restrittive sull’uso dei luoghi sacri per ospitare avvenimenti pubblici. Memorabili resteranno a San Francesco, nelle edizioni successive del Festival, I concerti di musica sacra, con l’orchestra Internazionale d’Italia, la partecipazione de I virtuosi di Bucarest, il Coro di Musica Antica di Padova, l’ArPa Chorus con maestro Emanuela Di Pietro.  Nei programmi, la riscoperta di alcune parti della Messa detta di Milano: il Kirye e il Gloria nella trascrizione di Gabriele Gandini che ne fu anche direttore, mentre il manoscritto del Credo si rivelò non recuperabile.  Sempre Gabriele Gandini a San Francesco per I concerti di musica sacra, con le prime esecuzioni assolute della Messa in mi bemolle di Luigi Cherubini, il Qui Tollis di Gioachino Rossini e la prima esecuzione assoluta italiana e prima in epoca moderna del Requiem in do minore di Franz Joseph Haydn. Nei diversi programmi dei concerti nel tempio di San Francesco, la riproposta di musiche ingiustamente dimenticate di Giuseppe Giordani, detto il Giordanello, con la riscoperta della Sinfonia in Re maggiore dall’opera Atlanta e il mottetto per coro e orchestra: Clamate mortales; in altra occasione, sempre a San Francesco, la prima esecuzione assoluta del Qui sedes dalla Messa in Fa maggiore. Nativo di Napoli, Giuseppe Giordani ottenne riconoscimenti in tutta Europa e nel 1789, dopo il successo raggiunto dal dramma per musica La disfatta di Dario al Teatro alla Scala di Milano, ricevette a Fermo il posto di Direttore della Cappella Musicale Metropolitana e qui vi morì nel gennaio del 1798. Nell’Archivio Storico Arcivescovile della città sono conservate numerose pagine autografe della maturità del compositore e nel corso dei cinque anni del Festival si sono voluti proporre alcuni suoi lavori, grazie all’impegno e la collaborazione dei musicologi Ugo Gironacci e Italo Vescovo ai quali si devono le revisioni critiche delle partiture del Giordaniello e la schedatura del fondo musicale del Duomo di Fermo. Purtroppo non si riuscì ad eseguire alcuna sua opera e soprattutto gli oratori: La morte di Abele (1790) e La distruzione di Gerusalemme (1791), con i quali venne inaugurato il Teatro dell’Aquila. Così come si dovette rinunciare a un’ulteriore prima in epoca moderna di un lavoro del repertorio serio di Gioachino Rossini, ricordo che la notizia mi fu data per telefono dall’allora sindaco mentre ero a Tokyo, titolo che negli anni successivi fu rappresentato nella sede preposta del Festival di Pesaro. Quindi, per Fermo, repertorio del Settecento, Ottocento, ma anche Novecento storico, con concerti dedicati al compositore nativo della non lontana Montegiorgio, Domenico Alaleona (1881-1928), unico musicista aderente al movimento del Futurismo, grazie al materiale autografo messo a disposizione dalla famiglia, con appuntamenti a Fermo e nella cornice dell’incantevole teatro della sua città natale, che dal musicista prende il nome. Il repertorio operistico, sin dal primo anno, non poteva mancare e inizialmente per ospitare la programmazione fu reso disponibile il cortile-giardino del settecentesco Palazzo Caffarini-Sassatelli, all’epoca sede di rappresentanza della Cassa di Risparmio di Fermo, con una serata di gala, per la prima in epoca moderna de La modista raggiratrice ovvero la Scuffiara di Giovanni Paisiello, con revisione critica di Giampiero Tintori direttore del Museo teatrale alla Scala, sul podio una giovane promessa: Carlo Rizzi. Tra gli interpreti, Maria Angeles Peters, Bruno Praticò, Carlo Desideri, Bruno De Simone, l’esecuzione fu registrata e commercializzata. Tanti i titoli rari e prime assolute in epoca moderna, come in quello stesso anno L’italiana in Londra di Domenico Cimarosa e di Mozart la meno rappresentata Finta giardiniera.

La politica del territorio trovò terreno fertile in quello che era il galoppatoio dell’ottocentesca Villa Vitali trasformato in spazio teatrale e ancora, all’interno della Rocca che porta il nome del veneziano Lorenzo Tiepolo, nel 1267 podestà di Fermo e futuro Doge di Venezia, edificata a difesa dell’antico porto, dal 1878 inglobata nel territorio del nascente comune di Porto San Giorgio. Questi, alcuni dei luoghi dove si svolsero gli innumerevoli eventi del Festival nell’arco di cinque anni, ai quali andranno ad aggiungersi la chiesa di Sant’Agostino nel borgo storico di Torre di Palme, dov’è conservato il prezioso polittico de La Vergine in trono con Agostino e santi di Vittore Crivelli e la piazza della contrada di Capodarco, dove si possono trovare le migliori olive fritte all’ascolana della zona. I ricordi s’intrecciano e si confondono nello scorrere di quel tempo; i nutriti programmi nel rapido succedersi, spesso, contrastano con emotività che riaffiorano, non prive di suggestione. In quel 1987 si costituiva quella che sarebbe stata la struttura del Festival e nella tradizione della città non poteva mancare l’opera di Ferragosto, un titolo popolare presentato per l’occasione nello spazio di Villa Vitali; quella prima volta: Rigoletto, nuovamente sul podio Carlo Rizzi. Costumista, Otello Camponeschi che, con il contributo di Fabrizio Onali, ha collaborato frequentamente alle produzioni del Festival. Era solo l’inizio! S’intensificava la collaborazione con studiosi per la ricerca di partiture dimenticate negli scaffali dei molti archivi. Il celebre San Pietro a Majella, dove sono confluiti i manoscritti dei settecenteschi conservatori napoletani. Questo era da noi immaginato come un luogo da leggenda e il custode avrebbe poturo ricordare personaggi delle incisioni dell’inferno dantesco di Gustave Doré. La realtà era ben diversa dalla fantasia, eppure, avervi accesso, era pur sempre un privilegio e musicologi, ricercatori, ebbero un ruolo fondamentale nel riportare alla luce alcune partiture i cui originali languivano tra quegli scaffali; tra i tanti nomi il napoletano Pietro Andrisani e per le trascrizioni e revisioni, l’insostituibile Lorenzo Tozzi, fondatore e direttore artistico del Festival Internazionale di Mezza Estate di Tagliacozzo. Era un periodo in Italia di grande fermento, si ricorda il lavoro di Italo Gomez, recentemente scomparso, direttore artistico del Gran Teatro La Fenice di Venezia e il suo interesse per gli eredi della venerabile Scuola Veneziana, straordinaria la riproposta del Nascimento dell’Aurora di Albinoni al Teatro Olimpico di Vicenza con June Anderson. L’impegno e la competenza di Rodolfo Celletti direttore artistico del Festival della Valle D’Itria a Martina Franca e tra i tanti esempi possibili, l’immedesimazione quasi mediatica con la tradizione del Settecento napoletano di Roberto De Simone, direttore artistico del Teatro di San Carlo, musicologo e compositore partenopeo, un titolo fra tutti Il Flaminio di Giovan Battista Pergolesi, che si voleva esserci giunto incompleto, ma poi la partitura apparve integrale. Altre vivacità e competenze, come in Sicilia per la stagione estiva proposta al Teatro di Verzura sulla via Real Favorita, alle porte di Palermo; le iniziative di Opera Giocosa al Teatro Chiabrera di Savona; il Festival Opera Barga, che nacque con l’obbiettivo di contribuire alla formazione e al lancio di giovani artisti. Un patrimonio inestimabile quello storico-musicale, tra Napoli, Roma, Firenze, Venezia, ma in ogni archivio, in Italia ovunque si voglia cercare, si trova l’inimmaginabile, un tesoro da salvaguardare prima che sia troppo tardi. Torniamo, però, alle Marche e al Festival di Fermo; l’anno successivo nel 1998, il programma raddoppiò, presentato in conferenza stampa a Milano grazie alla cortesia di Anna Crespi degli Amici della Scala, a Roma in diverse sedi; sono organizzate conferenze stampa in Austria, Germania, Svizzera e l’interesse di pubblico e critica non tarda nel rendere la manifestazione un appuntamento imperdibile. Fare l’elenco di tutti i partecipanti e le iniziative di quegli anni sarebbe interminabile, eppure alcuni eventi si evidenziano alla memoria, come non ricordare nel 1988 a Piazza del Popolo la Grande Orchestra della Radiotelevisione Polacca (Katowice) diretta da Kristov Penderesky, l’Orchestra Sinfonica di Berlino con Wolf-Dieter Hauschild, l’Orchestra del Teatro dell’Opera di Madrid con sul podio Rafael Frübek de Burgos, la Wiener Johan Strauss Orchester diretta da Alfred Eschwé e solisti quali il pianista Michele Campanella e la violinista Victoria Mullova; la lista potrebbe essere lunga, per la sinfonica, la cameristica, per l’opera così detta da camera. S’impone citare l’evento in Piazza del Popolo con l’Orchestra Nazionale di Whashington diretta da Mstislav Rostropovich, in programma la Sinfonia n.5 di Šostakóvič e di Čajkovskij l’Ouverture-Fantasia Romeo e Giulietta seguita, a conclusione, dall’Ouverture-Solennelle 1812 con cui Čajkovskij commemora la sventata invasione napoleonica della Russia; il tema del cannone in partitura fu realizzato al sintetizzatore, ma per i rintocchi a festa delle campane in onore della vittoria e liberazione della Russia furono mobilitati i sacrestani delle tante chiese d’intorno, che a Fermo sono numerose e in piena notte  gli incaricati, collegati con woki toki, diedero mano alle corde e le campane risuonarono a festa e ai rintocchi del trionfo si aggiunsero gli spettacolari fuochi d’artificio, di cui nelle Marche sono maestri, che erano stati commissionati silenziosi, d’accompagnamento al possente finale, ma gli artificieri preparano a sorpresa una scarica sontuosa e risonante. Lo spettacolo era ripreso integralmente da Rai2 ed ebbi timore che il maestro Rostropovich si lamentasse per aver sovrastato l’orchestra con tanto fragore, ma al contrario ne fu felice e passò la notte, ospite di una famiglia dell’aristocrazia fermana, chiedendo più volte alle cucine di preparare altra pasta e bevendo vodka.

Dalla sinfonica alle proposte di prime esecuzioni in epoca moderna, quali Il mondo della luna di Niccolò Piccinni nella piazza della contrada di Capodarco e Le astuzie femminili di Domenico Cimarosa nell’Arena di Villa Vitali; alla Rocca Tiepolo di Porto San Giorgio Betly o La capanna svizzera  di Donizetti nella versione in un atto e la prima in epoca moderna in forma scenica de La romanziera e l’Uomo nero, lavoro incompiuto sempre con musica di Donizetti, completato nel testo e in veste di narratore da Michael Aspinall; in questa occasione vorrei nominare il direttore Fabio Maestri a cui si devono tante iniziative nel circuito umbro e il sempre collaborativo regista Italo Nunziata. Citare tutti è impossibile! L’opera di Ferragosto: Il Trovatore a Villa Vitali, direttore Massimo De Bernard. Repertorio operistico anche per l’imponente struttura montata ogni estate in Piazza del Popolo, con Il barbiere di Siviglia di Giovanni Paisiello, che si avvalse della sperimentata regia di Maurizio Scaparro. C’erano tutti, un pubblico eterogeneo e prenotazioni da tutta Italia e dall’estero, una critica competente delle maggiori testate italiane ed estere. Spazio alla prosa, con un lavoro appositamente scritto da Guido Barbieri e Sandro Cappelletto nel cortile di Palazzo Caffarini-Sassatelli La voce perduta ovvero l’incontro tra Mozart e Farinelli, rappresentazione preceduta dal convegno: L’evirato cantore nell’opera e nella cultura italiana. La convegnistica, gli incontri, saranno soggetti sempre partecipi nell’arco delle attività del Festival; con gli stessi Barbieri e Cappelletto: Fra le sciagure, felici, il teatro pubblico oggi, in Italia. Con il coordinamento di Angelo Foletto: Per La realtà del palcoscenico ottocentesco, relatori: Luciano Alberti, Eduardo Rescigno, Mario Morini, Julian Budden, Marcello Conati e altri, tra cui Giorgio Gualerzi, che curerà per due edizioni il convegno: Le Marche, terra per fare musica; un incontro con i responsabili delle diverse manifestazioni regionali, tra cui Francesco Canessa per lo Sferisterio di Macerata e Gianfranco Mariotti per il Rossini Opera Festival. Spazio ai giovani, in collaborazione con l’allora sezione staccata di Fermo del Conservatorio Rossini di Pesaro, oggi Conservatorio Giovan Battista Pergolesi, con Dido and Aeneas di Purcell, tra gli interpreti l’allievo Andrea Concetti, direttore un giovane Alessio Vlad che tornerà a Fermo più volte, con l’Orchestra Internazionale d’Italia con concerti in Piazza del Popolo. L’anno successivo la collaborazione con il Conservatorio proseguirà con Actéon di Marc-Antoine Charpentier. Sempre nel cortile di palazzo Caffarini-Sassatelli un’altra promessa, Daniele Gatti. Lo avevo conosciuto alcuni mesi prima a Osimo al Teatro La Nuova Fenice nella prima rappresentazione di Rararbaro Rabarbaro con musica di Carlo Pedini e Gianni Schicchi di Giacomo Puccini, per la prima volta regista d’opera Pippo Baudo, sul podio un giovane dal Conservatorio Verdi di Milano che da subito dimostrò un eccezionale talento. Lo invitai per il Progetto giovani al Festival di Fermo dove venne in quel 1998 con un gruppo di studenti del Conservatorio milanese che si ritrovava sotto il nome di Orchestra da Camera Stradivari; poco prima del concerto il maestro Gatti si ruppe un braccio e diresse con una mano ingessata; in programma tra l’altro Apollon Musagete di Stravinskij in un’esecuzione indimenticabile. Un palcoscenico prestigioso per la musica da camera, quello del cortile-giardino del palazzo lungo corso Cavour, che in quella stessa edizione ospitò il Gruppo Musica Insieme di Cremona con Pietro Antonini, l’Orchestra da Camera di Salisburgo e un concerto di arie da salotto ottocentesche con il debuttante tenore Luca Canonici. Un altro luogo si aggiunge alla lista, la Sala dei Ritratti a Palazzo dei Priori, dove sino alla metà del Settecento era situata la struttura lignea che fungeva da teatro, detto dell’Aquila, con il Quintetto a Fiati Italiano, pianista Michele Campanella e una maratona dedicata al Pianoforte Russo. Sono i primi due anni e per i successivi si trova spazio solo per dei cenni, ma come non ricordare nell’edizione 1989 in Piazza del Popolo la Grande Orchestra  Sinfonica dell’URSS di Radio Mosca diretta da Vladimir Fedoseev con violino solista Viktor Tret’jakov, la Gustav Mahler Jugendorchester, fondata da Claudio Abbado, con direttore Franz Welser-Möest e solista al pianoforte András Schiff. Nella chiesa di Santa Lucia le Sonate da Chiesa e Sacri Concerti con Marco Rossi all’organo, Dora Bratchkova violino e solista Anna Caterina Antonacci, che aveva esordito con me, che ne ero regista, ne Il barbiere di Siviglia al Teatro Petrarca di Arezzo. Ancora, Anna Caterina Antonacci a Villa Vitali ne I due baroni di Rocca Azzurra di Domenico Cimarosa con il debutto nella regia lirica di Luca Verdone. La prima esecuzione originale in epoca moderna nel cortile di palazzo Caffarini-Sassatelli di Denys le Tyran di André Grétry e la prima assoluta dell’opera commissionata al musicista Paolo Arcà: Il carillon del gesuita, con libretto di Giovanni Carli Ballola. Non fu questa l’unica commissione del Festival, sempre nel cortile del settecentesco palazzo fu la volta del compositore Franco Donatoni con la prima esecuzione assoluta di Soft, per clarinetto basso, nel Concerto del Quintetto a Fiati Italiano con flauto Harry Spaarnay, in programma oltre Donatoni, Mozart, Rossini e Berio. La musica contemporanea fu protagonista anche nella Sala dei Ritratti, con Il motivo degli oggetti di vetro commissionata dal Festival a Salvatore Sciarrino che venne appositamente a Fermo, ma all’ingresso non fu riconosciuto e gli fu fatto pagare il biglietto. Il compositore, divertito, conservò il titolo e lo incorniciò per conservarlo nella sua casa di Città di Castello, non gli era mai successo! La serata era dedicata a musiche per flauto e pianoforte con Roberto Fabbriciani, Gabriele Betti (fauti) e Fausto Bongelli (pianoforte). Ancora, a palazzo Caffarini-Sassatelli un omaggio al baritono Giuseppe Taddei, che si esibì in compagnia del soprano Stefania Bonfadelli e del suo allievo, il tenore Enrico Stinchelli, al pianoforte Marco Boemi. L’opera di Ferragosto La Bohème, ne firmai la regia facendo avanti e indietro con Torre del Lago, tra gli interpreti Carmela Apollonio che era arrivata seconda a-pari-merito con Anna Caterina Antonacci al Concorso Maria Callas svoltosi nel 1988 al Teatro di San Carlo (il primo premio non era stato assegnato), con lei, il tenore Giuseppe Sabbatini, il mezzo-soprano Alessandra Ruffini, i baritoni Roberto Servile (Marcello), Paolo Rumetz (Schaunard) e il basso Aurio Tomicich (Colline); direttore Fabio Maestri.

Non posso dimenticare nell’occasione quella che fu la recensione apparsa su La Repubblica a firma di Dino Villatico, giornalista competente quanto obbiettivo, che mise in luce aspetti dello spettacolo che io stesso, quale direttore artistico del Festival e regista, non avrei potuto descrivere con maggiore sensibilità. Difficile frenare il galoppo del tempo tra tante suggestioni, ma la cronaca impone di proseguire in una sintesi. Il Festival è all’apice e nel 1990 continua la lista di prime esecuzioni in epoca moderna del repertorio operistico della scuola napoletana con Le due contesse di Giovanni Paisiello a Villa Vitali e l’avventura con I vampiri, commedia in musica composta nel 1812 che si credeva perduta, del compositore ischitano Silvestro Palma, con Lucetta Bizzi, Stefania Donzelli, Bruno De Simone, Romano Franceschetto, fedeli interpreti, più volte ospiti del Festival. La sera prevista per il debutto de I vampiri si scatenò l’uragano e per la prima volta nella programmazione del Festival lo spettacolo dovette essere rinviato al giorno successivo. Il clima era lugubre, come se degli esseri demoniaci si fossero realmente palesati, scatenando le furie della natura. Com’è diverso lo sguardo al cielo quando si è responsabili di una manifestazione estiva! Presenti a Fermo critici, realmente di tutte le maggiori testate nazionali; ci consolammo con la cucina dalla signora Duilia alla Casina delle Rose, oggi edificio abbandonato, sito nel punto più alto della città, il Girfalco, all’epoca albergo e ristorante che è stato per tutti noi un punto di sicuro riferimento, per l’eccellenza dell’ospitalità e buona cucina marchigiana. Qui ci ritrovavamo con colleghi, giornalisti e artisti, così come a zonzo con il capo-ufficio stampa del Festival, l’infaticabile Anna Dalponte, nella campagna del fermano alla ricerca di gustose specialità e tra gli amici più affezionati, Sabino Lenoci e l’indimenticato Giorgio Banti. La Casina delle Rose, stesso albergo e ristorante preferito dall’architetto Gae Aulenti che, tramite l’amico Marco Vallora, avevo coinvolto per un contributo progettuale al restauro dello storico Teatro dell’Aquila, di cui nel 1990/91 ricorrevano i 200 anni dall’inaugurazione. Nel tempo a capo dell’amministrazione di Fermo si erano succeduti diversi sindaci e particolare riconoscenza è dovuta a Francesco De Minicis, che credette nel progetto Festival appoggiandone lo sviluppo e senza mai interferire nelle scelte artistiche e dopo i primi anni, pur desiderando abbandonare la politica accettò, dopo quella di sindaco, la carica di assessore alla cultura, pur di continuare a sostenere l’iniziativa. Ancor prima dell’arrivo a Fermo di Gae Aulenti, i restauri del Teatro dell’Aquila erano avanzati, realizzati con cura dall’ingegnere incaricato, ma questi non era un esperto di acustica e alcuni interventi rischiavano di rovinarne la specificità. De Minicis mi ascolto e in accordo con lo stesso ingegnere, furono fatte le giuste modifiche al progetto, rinunciando a nefaste immissioni di cemento che ne avrebbero inibito la risonanza. Quindi, si presentò l’opportunità del celebre architetto, che elaborò un progetto che purtroppo non fu da tutti accettato. Il Teatro non ha mai avuto una facciata, sin dalla fondazione, ma la Aulenti non voleva intervenire sul preesistente, bensì avrebbe preferito imporre il concetto di conservazione di tutti gli interventi che si erano susseguiti nei due secoli di storia, l’ingresso principale, gli spazi d’accoglienza e la sala. Il progetto si sarebbe caratterizzato per una diversa configurazione del retro, che si affaccia sul lato esterno della città eretta sulle pendici del Colle Sàbulo. Da questo lato Gae Aulenti progettò una struttura moderna di acciaio e cristalli, che nel pieno rispetto della configurazione della pendice, al contrario sfigurata negli anni ’60 con costruzioni inadeguate, formasse un diverso ingresso del Teatro con scale e ascensori a vista. Un progetto geniale e all’avanguardia, dove il concetto di modernità si coniugava con quello del rispetto dell’impatto ambientale. Rimasi stupito, anni dopo, accompagnando anonimamente degli amici in visita alla sala del restitutito Teatro dell’Aquila, ascoltando la guida dire che l’edificio era stato ristrutturato su progetto di Gae Aulenti, perché purtroppo non era stato così, anche se l’attuale restauro tenne pur conto delle specificità e stile della costruzione, così come suggerito dal celebre architetto, ma nell’anonimato di un lavoro ben realizzato. Torniamo al programma e sempre nel 1990 è doveroso citare in piazza del Popolo la presenza della Royal Philarmonic Orchestra con direttore e solista Vladimir Ashkenazy, in programma musiche di Brahms, Beethoven, Šostakóvič. Un giornalista locale alla conferenza stampa di presentazione della IV edizione del Festival lanciò la sfida, affermando che avrebbe creduto alla presenza di Ashkenazy solo quando lo avesse visto sul palco di Piazza del Popolo, perché spesso la stampa del luogo sembrava meravigliarsi della puntualità di una programmazione ambiziosa. Il celebre pianista e direttore rimase talmente affascinato dal luogo che dopo il concerto improvvisammo una cena sul lato opposto del palco, nella piazza a ridosso di quella porzione di portico che è denominato di San Rocco, con un tavolato montato su due cavalletti, dove all’animo del grande interprete s’impose, nel rapporto personale, l’umanità dell’artista. Sempre nella Piazza, concerto con l’Orchestra Internazionale d’Italia diretta da Donato Renzetti, solista François-Joël Thiollier, con programma interamente dedicato a musiche di Gershwin. A Villa Vitali in scena La Traviata con Giusy Devinu, alla quale devo particolare riconoscenza e affetto; direttore Eugene Kohn, già collaboratore di Thomas Schippers, accompagnatore al pianoforte di Maria Callas e Renata Tebaldi, assistente di Placido Domingo al Washington National Opera. Avevo firmato solo pochi mesi prima (settembre 1989) un’altra produzione de La Traviata, al Teatro Comunale di Adria con Giusy Devinu e con Roberto Alagna al debutto italiano e dopo pochi mesi, il succesivo aprile 1990, il tenore era alla Scala con Riccardo Muti e Liliana Cavani, nel medesimo ruolo. Il lavoro per una produzione operistica all’aperto è ben più impegnativo e per le prove tecniche e realizzazione delle luci si deve lavorare di notte. Con il disegnatore luci Stefano Pirandello, pronipote del celebre Luigi, avevamo terminato il nostro lavoro, ma nella sequenza di controllo notai che l’alba del finale dell’atto primo era troppo luminosa. Stefano mi riprese, non era un effetto, bensì il sole che sorgeva alle spalle del palcoscenico, sul non lontano mare Adriatico.

Di tradizione a Ferragosto, si scatenavano temporali, che non rinviarono mai le nostre attività, ma la sera della generale di Traviata, il 15 agosto di quel 1990, avendo piovuto abbondantemente nel pomeriggio e rinfrescato l’aria, la protagonista preferì restare nella sua camera d’albergo e fu così che quella sera sperimentai, quale regista, cosa volesse dire affrontare un’intera opera quale Violetta in palcoscenico! Completavano la compagnia nei ruoli principali il tenore José Sempre e il baritono Roberto Servile. Per i concerti di musica da camera a palazzo Caffarini-Sassatelli: il Quartetto d’archi Sliven; Le Quatuor de Contrabbasses “Mobile”; il concerto del flautista Roberto Fabbriciani; il duo Dora Brathkova violino, Claudio Marcotulli chitarra; l’Orchestra da Camera Benedetto Marcello diretta da Dario Lucantoni con un programma da Vivaldi a Barber. Un cenno dovuto alla collaborazione negli anni con l’Accademia Organistica Elpidiense e i concerti ospitati nella Basilica della Misericordia a Sant’Elpidio a Mare, dove sono custoditi il prezioso organo del maestro veneto Pietro Nocchini del 1757 e quello dell’allievo e prosecutore della scuola organaria veneta, Gaetano Callido del 1782. Un’occasione rara per la proposta di programmi ricchi e articolati, grazie all’impegno di Giovanni Martinelli. Il 1991 fu l’ultimo per il Festival, il mio impegno era sin dall’inizio per cinque anni, ma non avevo compreso che la manifestazione non sarebbe andata oltre. Il 1990/91 segnava il bicentenario dell’inaugurazione del Teatro dell’Aquila, ma una sia pur limitata iniziativa all’interno del cantiere con un’operina di fantasia appositamente commissionata (ispirata al mago dei fumetti Mandrake) fu sconsigliata dal responsabile dell’impresa. Avevamo, nel frattempo, promosso delle audizioni per la formazione di un nuovo complesso giovanile, che prese il nome di Orchestra del Festival di Fermo. Nella Sala dei Ritratti a Palazzo dei Priori fu allestito un Pastiche, con il debutto di un giovane mezzo-soprano di nome Sonia Ganassi. Dopo averla sentita casualmente studiare per un’audizione nella così detta Sala50 del Teatro dell’Opera di Roma, la segnalai al regista, il celebre Edmo Fenoglio, che appena ebbe modo di conoscerla la volle interprete nel Pastiche del rondò da La Cenerentola di Rossini, inserendola in uno spettacolo appositamente ideato, articolato nei testi e con musiche di Galuppi, Paisiello, Cimarosa, Mozart e da brani da Le Bourgeois gentilhomme di Molière con le musiche di scena di Jean-Baptiste Lully. A Villa Vitali Il curioso indiscreto con musica di Pasquale Anfossi, dramma giocoso per il quale a Vienna Mozart compose tre arie, ovviamente eseguite al Festival. La parte della protagonista era stata offerta a Natalie Dessay, giovane soprano che da poco si era esibita in concerto al Teatro Valle di Roma; non più disponibile la parte fu assegnata a Jenni Drivala che riscosse un personale successo, con Carmela Apollonio, Maurizio Picconi e Luigi Petroni. L’opera di Ferragosto: Il barbiere di Siviglia di Rossini, con Raquel Pierotti, Roberto Servile, Bruno Praticò, direttore Giuliano Carella. A Piazza del Popolo un appuntamento inatteso, il ritorno di Franco Battiato in Concerto, dopo tanti anni di silenzio. Ancora, l’Orchestra Internazionale d’Italia con direttore Lu-Jia e in altra serata con sul podio Emil Tchakarov. Punta di diamante l’Orchestra del Teatro Kirov di Leningrado, già dell’Opera Imperiale russa, oggi Mariinskij, una delle più antiche istituzioni musicali, con direttore Alexander Vilumanis. L’importanza di quest’ultimo appuntamento fu la difficoltà di far lasciare l’Unione Sovietica al direttore e ai componenti l’orchestra, in quanto vi era stato il fallito tentativo di colpo di stato, con conseguente chiusura delle frontiere. Realizzare il concerto previsto a Fermo, all’interno di una tournée, richiese un vero e proprio intervento diplomatico e rimase incerto sino all’ultimo momento. Sindaco era nuovamente Fabrizio Emiliani, che accolse gli ospiti con tanto di fascia tricolore e fu un trionfo. Le cose in Italia e a Fermo, però, stavano cambiando, la politica culturale era passata in mano ad altri, non favorevoli e anche i tempi degli investimenti sulla cultura da parte di alcune amministrazioni volgeva al tramonto. Avrei tanto voluto che qualcun altro continuasse nel mio impegno. Così non fu! Dopo due anni nel 1993, sempre nella regione d’origine della mia famiglia, le Marche, fui chiamato ad Ascoli Piceno per gestire artisticamente la riapertura dello storico Teatro Ventidio Basso, chiuso da molti anni per importanti restauri. Il progetto era di riconsegnare il Ventidio Basso, in occasione della ripresa delle attività, alla sua funzione di palcoscenico non di provincia, ma in provincia, così come da nostra secolare e inimitabile tradizione. Le Marche sono la regione dove resistono, nonostante l’indifferenza di alcune amministrazioni, molte strutture teatrali al pari o più che in ogni altro luogo d’Italia e d’Europa. Ci riuscimmo nel 1994 ad Ascoli Piceno per due stagioni, iniziando con La Traviata di Giuseppe Verdi, tra i soliti, ancora «…una volta…» insieme con Giusy Devinu, Giuseppe Sabatini, Roberto Servile; primo ballerino Raffaele Paganini, scene di Carlo Centolavigna tra i più fedeli collaboratori di Franco Zeffirelli, direttore Giuliano Carella. Quella sera, all’esecuzione dell’Inno di Mameli, tutto il pubblico scattò in piedi in silenzioso rispetto. Questa, però, è un’altra storia.

Vincenzo Grisostomi Travaglini

“Il vigore, la forza e lo slancio: omaggio a Silvano Carroli, un grande artista scomparso”, un’articolo del Maestro Vincenzo Grisostomi Travaglini nella rivista “L’Opera International Magazine”, Maggio 2020

L’interprete vive la sua realtà nel baleno fuggevole del palcoscenico, eppure di quel ruolo, di quel momento se ne fa carico nella vita, nello scrupolo di uno studio continuo, della ricerca di quel qualcosa che ne rafforzi l’essere artista. Così Silvano Carroli, che nell’arco della carriera ha affrontato le più svariate situazioni, calcato i palcoscenici più famosi del mondo, con direttori, registi e colleghi tra i più celebri, eppure sempre guidato da quell’umanità che tramutava la consistente debolezza dell’essere in potenza espressiva.

Avere l’opportunità di essere vicino a un artista è un privilegio, saperne cogliere e condividerne le incertezze per quel confrontarsi in ogni occasione, cercando quale soddisfazione il consenso del pubblico, ancor prima del proprio. Alzarsi la mattina già nella compenetrazione del personaggio, di uno stile che è il punto di partenza per sviluppare quel ruolo il cui progresso sarà imprevedibile. La ritualità giornaliera, nella concentrazione a tutte quelle pratiche ripetitive che andranno a sommarsi sino a trovare compimento nell’attimo esecutivo. E’ un sacrificio, ma per un vero artista è ragione di vita, ben lo sapeva Silvano Carroli! Come non ricordarlo al termine di ogni recita, che avesse interpretato Mozart, Verdi o Puccini, dopo aver ricevuto il plauso del pubblico, rientrare nel camerino con uno sguardo umile, quasi sperduto nel chiedersi in cosa avesse mancato, come avrebbe potuto rendere più incisiva la sua prestazione, con tutte quelle accortezze che puntualmente si sarebbero riscontrate nella recita o produzione successiva. Dopo ogni rappresentazione si parlava d’altro, in uno dei tanti “mitici” incontri del dopo-teatro, appuntamenti così familiari nel mondo dello spettacolo per discorrere del più o del meno, ma quel dibattere era solo il pretesto per cogliere quell’istante in cui, con discrezione, Silvano avrebbe cercato nello sguardo dell’interlocutore quell’assenso e soprattutto quella critica costruttiva che gli avrebbero permesso di ambire a successivi orizzonti.

Opera_048_APR_MAG_2020_Pagina_038

 

La carriera di un celebre artista è per lo più nota e ripercorrerne le tappe fondamentali è quasi un dovere nel commemorarne la scomparsa; eppure a marcarne l’identità s’impone sopra tutto la sua umanità, il messaggio che attraverso tanto lavoro ci ha lasciato, non solo quale traccia di un percorso professionalmente ineccepibile, ma come riferimento ineludibile di rettitudine e onestà.

 

Nato a Venezia, le prime esperienze nel canto di Silvano Carroli sono nel Coro dei Piccoli Cantori nell’Oratorio della Basilica di San Marco. Fondamentale per segnarne il talento è l’incontro con colei che sarà sua moglie Maria Luisa, che lo accompagnerà senza esitazione spronandolo allo studio e segnando la sua vita artistica e sentimentale. Studia con Marcello Del Monaco e si perfezionerà con Mario Del Monaco e a questa famiglia resterà sempre legato, dedicandosi nella maturità all’insegnamento quale titolare di cattedra presso la scuola della Fondazione voluta dai celebri fratelli. Vince il concorso d’ammissione al corso triennale d’avviamento al Teatro lirico de La Fenice di Venezia, sotto la guida di personalità quali Mario Labroca, Francesco Siciliani e Floris Ammannati. Il debutto è a Venezia nel 1963 con il Marcello de La Bohème di Giacomo Puccini, regia di Franco Zeffirelli, in compagnia di Mirella Freni e Giacomo Aragall. Grandi nomi, così come nella sua lunga carriera lo saranno i suoi colleghi di palcoscenico: Mario Del Monaco, Carlo Bergonzi, Alfredo Kraus, Plácido Domingo, Luciano Pavarotti, José Carreras, Magda Olivero, Ghena Dimitrova, Montserrat Caballé, Raina Kabaivanska, Boris Christoff, Cesare Siepi, Nicolai Ghiaurov, per citarne alcuni; celebri direttori: Carlos Kleiber, Zubin Mehta, Peter Maag, Wolfgang Sawallisch, Franco Capuana, Thomas Schipper, Giuseppe Patanè, Giuseppe Sinopoli, Bruno Bartoletti, Claudio Abbado, James Levine; registi di grande fama e basti riportare i nomi di Margarete Wallmann, Franco Zeffirelli, Luca Ronconi, Piero Faggioni, Gabriele Lavia, solo un “incontro” con Giorgio Strehler per il Macbeth alla Scala perché le recite con Carroli furono annullate a causa di uno sciopero, inoltre Ermanno Olmi e Mario Monicelli che voleva convincere Carroli a dedicarsi al cinema; perché la maturazione di un solista avviene soprattutto attraverso quelle che sono le occasioni di lavoro e d’incontro, nello scambiare esperienze, nell’ascoltare per poi trasmettere.

Opera_048_APR_MAG_2020_Pagina_039

 

Silvano Carroli è stato fortunato, perché appartiene a una generazione d’interpreti di un periodo “d’oro”, non solo nella nostalgia dello spettatore, ma per l’efficacia di produzioni che hanno segnato un punto di svolta nella coscienza stessa del concetto di teatro musicale. Ad esempio, già affermato protagonista, la sua raffinata quanto impetuosa interpretazione di Jago nell’Otello di Verdi così come offerto dalla bacchetta di Karlos Kleiber con la regia di Franco Zeffirelli (1981/1982), per la tournée in Giappone del Teatro alla Scala e nella sala del Piermarini; rimase purtroppo un’intenzione quella del direttore berlinese di una nuova edizione del Der fliegende Holländer di Wagner per cui avrebbe voluto Carroli quale protagonista. Tra i debutti, nel 1983 al Metropolitan nel ruolo di Don Carlo ne La forza del destino, direttore James Levine.

 

Tra i personaggi più amati quello di Jack Rance ne La fanciulla del West di Puccini, affrontato in più occasioni a Berlino, Vienna, Londra, ricordando i direttori Giuseppe Sinopoli (La fanciulla del West nel 1982 alla Deutsche Oper di Berlino con Ghena Dimitrova e Franco Bonisolli) e Giuseppe Patanè (con quest’ultimo come non citare nel 1987 l’Alfio a Monaco di Baviera in Cavalleria Rusticana, con Gwyneth Jones); Carroli interprete d’eccezione nell’allestimento di Fanciulla firmato da Piero Faggioni, ripresentato in diversi teatri e ancora il titolo pucciniano alla Staatsoper di Vienna con la regia di Wolfgang Weber; più recentemente (2008) sempre lo sceriffo al Covent Garden di Londra con la bacchetta di Antonio Pappano. Alla Staatsoper di Vienna l’incontro con Escamillo in Carmen, nella produzione firmata da Franco Zeffirelli. In più occasioni, compagno di palcoscenico è Plácido Domingo, collega e amico che alla notizia della scomparsa lo ha ricordato con emozione: “Silvano (…) grande e orgoglioso Jack Rance sempre interpretato come un rivale leale”… e quale festa quella notte del 1988 dopo la recita alla Staatsoper della Fanciulla ospiti del sindaco di Vienna, con Domingo, Mara Zampieri, Carroli. Ancora Plácido Domingo rammentando il compagno di tante avventure: “ (…) Il vile e convincente Jago che mi portò alla follia, ma che sempre sbottava a ridere appena calava il sipario”. Questi citati sono solo degli esempi del vasto repertorio e dell’intensa carriera di Silvano Carroli e tra i tanti, indicativa fu la riproposta di Jérusalem di Verdi all’Opéra Garnier di Parigi nel 1984, direttore Donato Renzetti, a cui seguirà nel 1987 l’ormai leggendaria produzione scaligera de I Lombardi alla prima crociata con direttore Gianandrea Gavazzeni e regia di Gabrele Lavia. Carroli interpretava Pagano alla Scala e il corrispondente personaggio di Roger nella versione francese de I Lombardi, ovvero Jérusalem; una partitura e una vicenda analoga, eppure così significativamente rielaborata da Verdi per Parigi, che presenta nel ruolo del baritono o più correttamente del basso (il baritono a Garnier era Alain Fondary), impersonato in entrambi le edizioni da Silvano Carroli, notevoli difficoltà stilistiche e d’impostazione. Perché quello stesso ruolo apparentemente similare nelle due stesure è nella realtà così disparato nello stile da mettere a dura prova l’interprete, per la ragione che nell’originale versione italiana risente appieno di tutto il vigore rinascimentale del bussetano, ma nella trascrizione parigina si avvale di esperienze e affinità compositive da quel mondo con cui Verdi ambiva confrontarsi per la prima volta nello stile del Grand-Opéra. Il confronto a pochi anni di distanza permise come non mai di mettere in luce di Carroli la duttilità al piegarsi a espressioni così marcatamente dissimili, con raffinata tecnica ed estensione vocale, mai disgiunti dall’approfondimento interpretativo.

 

A Parigi, un primo dei tanti aneddoti, perché la vita del cantante è fatta anche da episodi, non solo quelli che si ripetono allo sfinimento nel vociare delle emozioni al termine di ogni prova o recita, ma quelli realmente vissuti con ammirazione e con la trepidazione del momento, come quando al “gala” a Garnier si bloccò il siparietto sceso tra il primo e secondo atto che sull’introduzione orchestrale impediva a Roger di mostrarsi al pubblico vestito di “rozzo sajo” rischiando l’interruzione dello spettacolo ed ecco che Carroli, come se tutto fosse stato previsto, alza la tela con un braccio scivolando a rasoterra e puntuale attacca con il recitativo: “Grâce! mon Dieu!” cesellando con profonda emozione e rara introspezione l’aria “O jour fatal! ô crime!”. Perché l’artista coglie ogni situazione, anche apparentemente sfavorevole, per mutarla in un’occasione e opportunità teatrale. Affermava Tito Gobbi, al quale Carroli spesso si riconduceva quale insegnamento, che nel momento in cui al secondo atto si trovava quale Scarpia con Floria Tosca (e per Tosca si riferiva a Maria Callas), ogni spunto era un’occasione -aggiungeva Gobbi- perché noi in quel momento non eravamo solo interpreti, ma vivevamo il personaggio. Così lo Scarpia di Silvano Carroli, nelle molte, infinite produzioni, talmente numerose che sarebbe riduttivo farne un sia pur elenco sommario. Eppure alcune s’impongono alla memoria, quali la riproposta dell’allestimento della prima assoluta del 1900, così sensibilmente restituita negli anni ’60 e riproposta negli anni ’80 e ‘90 dal regista Mario Bolognini, in svariate occasioni con la partecipazione di Carroli senza mai ripetersi e con ogni volta diverse emozioni.

Opera_048_APR_MAG_2020_Pagina_040

 

La produzione di Tosca del Maggio Musicale Fiorentino del 1986 fortemente voluta da Zubin Metha, per la quale alla vigilia si levarono voci di forte dissenso, si parlò di “volgarità assoluta” e di scandalo perché il regista Jonathan Miller aveva scelto di ambientarla nel 1943, durante l’occupazione nazista. La serata alla quale era presente un pubblico quanto mai internazionale fu un trionfo, perché tutto era coerente e lo spirito dell’opera, in quella che all’epoca fu considerata un’ardita trasposizione, perfettamente restituito nella credibilità dei solisti: con Carroli, Eva Marton e Giuseppe Giacomini. Da citare una per tutte in sale meno capenti, ma nell’articolata storia italiana non meno di rilievo, la serata al Teatro del Giglio di Lucca. Silvano sin dal pomeriggio era in camerino, dove curava personalmente il trucco di Scarpia, quasi ossessivamente sino a comprendere che quella meticolosità per l’aspetto era in realtà un processo di simbiosi nel calarsi nel ruolo sino a renderlo esistente.

SC

Ancora Scarpia in Tosca nella tournée del Teatro dell’Opera di Roma a Nagoya nel 1994. Qui il baritono che avrebbe dovuto interpretare il secondo titolo in cartellone, Giorgio Germont ne La Traviata, si ammalò rendendone impossibile l’esibizione per il giorno successivo. Difficile trovare un sostituto in così breve tempo e con un’Europa troppo distante, tenendo conto dello scarto del fuso orario. Fu proposto a Carroli che con generosità accettò di sostenere l’onere del doppio ruolo, una sera Giorgio Germont e la successiva Scarpia. La padronanza di una tecnica impeccabile gli permetteva un tale impegno. Eppure a poche ore dalla recita anch’egli fu aggredito da una febbre insidiosa. Non c’era scelta e si recò egualmente dall’albergo al suo camerino all’Aichi Arts Foundation, ma le forze vennero a mancare. Il direttore Nello Santi iniziò puntualmente il primo atto, dove il personaggio non è presente, ma nell’intervallo la situazione si mostrò critica; Carroli sul divano esanime era vestito e truccato dal personale in trasferta dell’Opera di Roma. Il pubblico giapponese, quanto mai numeroso, reclamava l’inizio del secondo atto e Santi dopo un intervallo interminabile dovette salire sul podio. Difficile non ricordare lo sforzo di sostenere Silvano Carroli appoggiato alla mia spalla guidato in palcoscenico, sino al limite della quinta, affiancati rispettosamente dal direttore artistico dell’Aichi Arts Foundation che mi chiedeva: “lei è sicuro che il signor Carroli potrà sostenere il ruolo?!”; la risposta sincera fu negativa, eppure all’ “è qui un signore” di Annina e “sarà lui che attendo” di Violetta, come per incanto Carroli era in scena, Giorgio Germont “implacabile”, impeccabile e trionfante. Tale è il teatro di cui abbiamo nostalgia!

Opera_048_APR_MAG_2020_Pagina_041

 

Questa breve memoria richiederebbe la descrizione di ben altri episodi, dalle interpretazioni mozartiane (Don Giovanni) e delle meno conosciute, eppure altrettanto valide escursioni in Rossini (Figaro, il Faraone e nello Stabat Mater), ma soprattutto in Verdi, dal giovanile Ezio dell’Attila al già citato maturo Jago di Otello. Ed è proprio il ruolo di Ezio che c’introduce in un ricordo alle vaste platee, quale l’Arena di Verona, dove Carroli è stato presente e indiscusso protagonista in titoli quali: Tosca, Cavalleria rusticana, Pagliacci, La Gioconda, Aida, Nabucco, Rigoletto, Otello, Un ballo in maschera. Quella sera del 1985 l’Attila, con direttore Nello Santi e interpreti oltre a Carroli, Yevgeni Nesterenko, Maria Chiara, Veriano Luchetti, fu un trionfo senza precedenti e fortunatamente n’è testimone una registrazione pubblicata in DVD nel 2005. Le interpretazioni di Silvano Carroli in audio e in video sono molteplici. Idolo delle vaste platee, aveva piena padronanza della tecnica modulando alla perfezione le proprie doti vocali, nell’equilibrio tra una rappresentazione en plein air e la risposta in una sala di un teatro. D’esempio è proprio il ruolo di Ezio, che era stato affrontato in quello stesso anno prima che nella vastità dell’Arena, nell’acustica raccolta del Comunale di Bologna, qui con Ruggero Raimondi, Mara Zampieri e Veriano Luchetti, direttore Carlo Franci. Fu una circostanza indicativa per comprendere il valore dell’interprete e della sua intelligenza esecutiva, di uno stesso personaggio modulato asseconda del diverso contesto, tanto simile quanto differente, pur sempre Ezio nelle diverse sfumature ed espressioni consentiti in una medesima partitura!

 

Torniamo a Verona, perché la celebre Arena resta negli anni un punto di sicuro riferimento nella sua carriera e vi tornerà con regolarità, ancora una volta nel 2007 con Nabucco, questa volta non interpretando il personaggio del titolo, bensì quello del basso Zaccaria, direttore Daniel Oren e l’anno successivo quale Amonasro in Aida. Silvano Carroli è conosciuto quale baritono, ma la sua capacità vocale lo portava ad affrontare con facilità ruoli di basso e sino all’estensione di tenore drammatico. Da Verona all’Egitto; è particolarmente efficace l’esperienza di Aida per la prima volta a Luxor (1987) con i complessi artistici e tecnici dell’Arena di Verona. Carroli fu presente sin dalle prime prove, con Maria Chiara e Fiorenza Cossotto, oltre agli interpreti di alcune delle repliche; Domingo giunse solo per la prova generale, preferendo risparmiarsi anche in quell’occasione. Il progetto era maestoso, portare l’opera di Verdi in quei luoghi dove era stata immaginata nella seconda metà dell’Ottocento dall’archeologo francese Auguste Mariette. Il lavoro di preparazione fu tra i più impegnativi, per gli spazi scenici che si estendevano dall’entrata principale del Tempio dove si erge uno dei due originari obelischi antistanti il portale e sino a tutto il Viale delle Sfingi, per allestire lo spazio che avrebbe ospitato l’orchestra, le gradinate dove avrebbe trovato posto il vasto pubblico e all’interno del Tempio i suggestivi tendoni che fungevano da camerino per gli artisti e da laboratorio per le tante necessità di una produzione temeraria. Silvano Carroli volle vivere ogni momento di questa esperienza, ma in alcuni giorni sfidare l’incombente “Khamsim”, il vento caldo del deserto che solleva nuvole di sabbia, si rivelò micidiale per la gola dei solisti, così come durante le prove d’orchestra la sabbia portata dal vento era d’ostacolo per gli strumenti a fiato e gli ottoni. Gestire la mastodontica organizzazione di un progetto così ambizioso si rivelava un’impresa ardua, ma fortunatamente la minaccia del vento fu scongiurata la sera del “gala”. Non tutto nella preparazione procedeva regolarmente, da giorni i tanti macchinisti e personale dell’Arena lavoravano alacremente affinché la struttura fosse pronta per l’evento, eppure ogni mattina tutto ciò che era stato realizzato il giorno precedente appariva smontato, tutto riposto in ordine, senza che fosse stato sottratto un solo bullone. Il mistero proseguì per alcuni giorni e di notte a tutela delle strutture furono chiamate guardie e infine l’esercito, soldati già coinvolti nel progetto in qualità di figuranti e se ne contarono ben trecento. Poi tutto ebbe fine, senza una spiegazione e il lavoro fu portato a termine. Con il sovrintendente Ernani, febbricitante, il regista Renzo Giacchieri, il direttore Donato Renzetti e tutti i responsabili del progetto si giunse al traguardo. Anche in questa occasione Silvano Carroli si distinse, istintivamente, nel seguire il lavoro di preparazione oltre il suo compito di solista, nel trasmettere fiducia a tutti coloro che parteciparono all’impresa, solisti e coro, consigliando inoltre le giuste medicine per i tanti che non avevano fatto attenzione alle diverse condizioni igieniche del luogo. La sera della “prima”, dopo un tramonto dalle tinte magiche, ci ritrovammo nella sua tenda-camerino, posta all’interno del Tempio e mentre scendevano le tenebre sembrava che le imminenti note verdiane fossero precedute nello spazio misterioso del Grande Cortile da suoni d’altri tempi, una grande suggestione mentre sarti e truccatori si accingevano a completare la vestizione di Amonasro-Carroli con gratitudine, perché sin dal primo momento era stato il punto di riferimento per tutti, di sicurezza e incoraggiamento.

sc 1

 

Negli anni più recenti Silvano Carroli si era consacrato con maggiore passione all’insegnamento, nel trasmettere quel dono che gli aveva riservato tante soddisfazioni e anche qualche invidia, ma questo è il gioco del teatro! Oltre al dedicarsi all’insegnamento quale titolare della cattedra di canto presso la scuola della Fondazione Del Monaco, promuoveva e partecipava a diverse iniziative, concorsi e quale docente a corsi di perfezionamento per giovani cantanti; nel 2018 al Teatro Comunale “Claudio Abbado” di Ferrara era stato docente di “vocalità verdiana”. Non aveva, però, mai abbandonato il canto e con fierezza ci aveva fatto ascoltare due registrazioni, per alcuni versi all’opposto, eppure così naturalmente sgorgate dal suo studio costante e rigoroso: l’intenso monologo del basso Filippo II dal Don Carlo: “ella giammai m’amò!”, dove la solitudine del potere era sentita nell’interpretazione di Carroli da colui che ha vissuto l’euforia della gloria e la riflessione nella caducità della “ribalta”, quella stessa dell’artista e dell’uomo all’apice di una carriera, in un tempo che pur senza incrinature scivola via anno dopo anno. Altra registrazione quella di un finale così assoluto nella produzione di Giuseppe Verdi che è il monologo del tenore Otello: “Niun mi tema” che nella sua interpretazione non aveva il sapore di un lacerato “addio”, ma nella casa di Lucca dove si era ritirato con la moglie Maria Luisa, tra ricordi e progetti, il dolce sapore di un’arte imperitura.

 

Vincenzo Grisostomi Travaglini

Opera_048_APR_MAG_2020_Pagina_001