“Il vigore, la forza e lo slancio: omaggio a Silvano Carroli, un grande artista scomparso”, un’articolo del Maestro Vincenzo Grisostomi Travaglini nella rivista “L’Opera International Magazine”, Maggio 2020

L’interprete vive la sua realtà nel baleno fuggevole del palcoscenico, eppure di quel ruolo, di quel momento se ne fa carico nella vita, nello scrupolo di uno studio continuo, della ricerca di quel qualcosa che ne rafforzi l’essere artista. Così Silvano Carroli, che nell’arco della carriera ha affrontato le più svariate situazioni, calcato i palcoscenici più famosi del mondo, con direttori, registi e colleghi tra i più celebri, eppure sempre guidato da quell’umanità che tramutava la consistente debolezza dell’essere in potenza espressiva.

Avere l’opportunità di essere vicino a un artista è un privilegio, saperne cogliere e condividerne le incertezze per quel confrontarsi in ogni occasione, cercando quale soddisfazione il consenso del pubblico, ancor prima del proprio. Alzarsi la mattina già nella compenetrazione del personaggio, di uno stile che è il punto di partenza per sviluppare quel ruolo il cui progresso sarà imprevedibile. La ritualità giornaliera, nella concentrazione a tutte quelle pratiche ripetitive che andranno a sommarsi sino a trovare compimento nell’attimo esecutivo. E’ un sacrificio, ma per un vero artista è ragione di vita, ben lo sapeva Silvano Carroli! Come non ricordarlo al termine di ogni recita, che avesse interpretato Mozart, Verdi o Puccini, dopo aver ricevuto il plauso del pubblico, rientrare nel camerino con uno sguardo umile, quasi sperduto nel chiedersi in cosa avesse mancato, come avrebbe potuto rendere più incisiva la sua prestazione, con tutte quelle accortezze che puntualmente si sarebbero riscontrate nella recita o produzione successiva. Dopo ogni rappresentazione si parlava d’altro, in uno dei tanti “mitici” incontri del dopo-teatro, appuntamenti così familiari nel mondo dello spettacolo per discorrere del più o del meno, ma quel dibattere era solo il pretesto per cogliere quell’istante in cui, con discrezione, Silvano avrebbe cercato nello sguardo dell’interlocutore quell’assenso e soprattutto quella critica costruttiva che gli avrebbero permesso di ambire a successivi orizzonti.

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La carriera di un celebre artista è per lo più nota e ripercorrerne le tappe fondamentali è quasi un dovere nel commemorarne la scomparsa; eppure a marcarne l’identità s’impone sopra tutto la sua umanità, il messaggio che attraverso tanto lavoro ci ha lasciato, non solo quale traccia di un percorso professionalmente ineccepibile, ma come riferimento ineludibile di rettitudine e onestà.

 

Nato a Venezia, le prime esperienze nel canto di Silvano Carroli sono nel Coro dei Piccoli Cantori nell’Oratorio della Basilica di San Marco. Fondamentale per segnarne il talento è l’incontro con colei che sarà sua moglie Maria Luisa, che lo accompagnerà senza esitazione spronandolo allo studio e segnando la sua vita artistica e sentimentale. Studia con Marcello Del Monaco e si perfezionerà con Mario Del Monaco e a questa famiglia resterà sempre legato, dedicandosi nella maturità all’insegnamento quale titolare di cattedra presso la scuola della Fondazione voluta dai celebri fratelli. Vince il concorso d’ammissione al corso triennale d’avviamento al Teatro lirico de La Fenice di Venezia, sotto la guida di personalità quali Mario Labroca, Francesco Siciliani e Floris Ammannati. Il debutto è a Venezia nel 1963 con il Marcello de La Bohème di Giacomo Puccini, regia di Franco Zeffirelli, in compagnia di Mirella Freni e Giacomo Aragall. Grandi nomi, così come nella sua lunga carriera lo saranno i suoi colleghi di palcoscenico: Mario Del Monaco, Carlo Bergonzi, Alfredo Kraus, Plácido Domingo, Luciano Pavarotti, José Carreras, Magda Olivero, Ghena Dimitrova, Montserrat Caballé, Raina Kabaivanska, Boris Christoff, Cesare Siepi, Nicolai Ghiaurov, per citarne alcuni; celebri direttori: Carlos Kleiber, Zubin Mehta, Peter Maag, Wolfgang Sawallisch, Franco Capuana, Thomas Schipper, Giuseppe Patanè, Giuseppe Sinopoli, Bruno Bartoletti, Claudio Abbado, James Levine; registi di grande fama e basti riportare i nomi di Margarete Wallmann, Franco Zeffirelli, Luca Ronconi, Piero Faggioni, Gabriele Lavia, solo un “incontro” con Giorgio Strehler per il Macbeth alla Scala perché le recite con Carroli furono annullate a causa di uno sciopero, inoltre Ermanno Olmi e Mario Monicelli che voleva convincere Carroli a dedicarsi al cinema; perché la maturazione di un solista avviene soprattutto attraverso quelle che sono le occasioni di lavoro e d’incontro, nello scambiare esperienze, nell’ascoltare per poi trasmettere.

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Silvano Carroli è stato fortunato, perché appartiene a una generazione d’interpreti di un periodo “d’oro”, non solo nella nostalgia dello spettatore, ma per l’efficacia di produzioni che hanno segnato un punto di svolta nella coscienza stessa del concetto di teatro musicale. Ad esempio, già affermato protagonista, la sua raffinata quanto impetuosa interpretazione di Jago nell’Otello di Verdi così come offerto dalla bacchetta di Karlos Kleiber con la regia di Franco Zeffirelli (1981/1982), per la tournée in Giappone del Teatro alla Scala e nella sala del Piermarini; rimase purtroppo un’intenzione quella del direttore berlinese di una nuova edizione del Der fliegende Holländer di Wagner per cui avrebbe voluto Carroli quale protagonista. Tra i debutti, nel 1983 al Metropolitan nel ruolo di Don Carlo ne La forza del destino, direttore James Levine.

 

Tra i personaggi più amati quello di Jack Rance ne La fanciulla del West di Puccini, affrontato in più occasioni a Berlino, Vienna, Londra, ricordando i direttori Giuseppe Sinopoli (La fanciulla del West nel 1982 alla Deutsche Oper di Berlino con Ghena Dimitrova e Franco Bonisolli) e Giuseppe Patanè (con quest’ultimo come non citare nel 1987 l’Alfio a Monaco di Baviera in Cavalleria Rusticana, con Gwyneth Jones); Carroli interprete d’eccezione nell’allestimento di Fanciulla firmato da Piero Faggioni, ripresentato in diversi teatri e ancora il titolo pucciniano alla Staatsoper di Vienna con la regia di Wolfgang Weber; più recentemente (2008) sempre lo sceriffo al Covent Garden di Londra con la bacchetta di Antonio Pappano. Alla Staatsoper di Vienna l’incontro con Escamillo in Carmen, nella produzione firmata da Franco Zeffirelli. In più occasioni, compagno di palcoscenico è Plácido Domingo, collega e amico che alla notizia della scomparsa lo ha ricordato con emozione: “Silvano (…) grande e orgoglioso Jack Rance sempre interpretato come un rivale leale”… e quale festa quella notte del 1988 dopo la recita alla Staatsoper della Fanciulla ospiti del sindaco di Vienna, con Domingo, Mara Zampieri, Carroli. Ancora Plácido Domingo rammentando il compagno di tante avventure: “ (…) Il vile e convincente Jago che mi portò alla follia, ma che sempre sbottava a ridere appena calava il sipario”. Questi citati sono solo degli esempi del vasto repertorio e dell’intensa carriera di Silvano Carroli e tra i tanti, indicativa fu la riproposta di Jérusalem di Verdi all’Opéra Garnier di Parigi nel 1984, direttore Donato Renzetti, a cui seguirà nel 1987 l’ormai leggendaria produzione scaligera de I Lombardi alla prima crociata con direttore Gianandrea Gavazzeni e regia di Gabrele Lavia. Carroli interpretava Pagano alla Scala e il corrispondente personaggio di Roger nella versione francese de I Lombardi, ovvero Jérusalem; una partitura e una vicenda analoga, eppure così significativamente rielaborata da Verdi per Parigi, che presenta nel ruolo del baritono o più correttamente del basso (il baritono a Garnier era Alain Fondary), impersonato in entrambi le edizioni da Silvano Carroli, notevoli difficoltà stilistiche e d’impostazione. Perché quello stesso ruolo apparentemente similare nelle due stesure è nella realtà così disparato nello stile da mettere a dura prova l’interprete, per la ragione che nell’originale versione italiana risente appieno di tutto il vigore rinascimentale del bussetano, ma nella trascrizione parigina si avvale di esperienze e affinità compositive da quel mondo con cui Verdi ambiva confrontarsi per la prima volta nello stile del Grand-Opéra. Il confronto a pochi anni di distanza permise come non mai di mettere in luce di Carroli la duttilità al piegarsi a espressioni così marcatamente dissimili, con raffinata tecnica ed estensione vocale, mai disgiunti dall’approfondimento interpretativo.

 

A Parigi, un primo dei tanti aneddoti, perché la vita del cantante è fatta anche da episodi, non solo quelli che si ripetono allo sfinimento nel vociare delle emozioni al termine di ogni prova o recita, ma quelli realmente vissuti con ammirazione e con la trepidazione del momento, come quando al “gala” a Garnier si bloccò il siparietto sceso tra il primo e secondo atto che sull’introduzione orchestrale impediva a Roger di mostrarsi al pubblico vestito di “rozzo sajo” rischiando l’interruzione dello spettacolo ed ecco che Carroli, come se tutto fosse stato previsto, alza la tela con un braccio scivolando a rasoterra e puntuale attacca con il recitativo: “Grâce! mon Dieu!” cesellando con profonda emozione e rara introspezione l’aria “O jour fatal! ô crime!”. Perché l’artista coglie ogni situazione, anche apparentemente sfavorevole, per mutarla in un’occasione e opportunità teatrale. Affermava Tito Gobbi, al quale Carroli spesso si riconduceva quale insegnamento, che nel momento in cui al secondo atto si trovava quale Scarpia con Floria Tosca (e per Tosca si riferiva a Maria Callas), ogni spunto era un’occasione -aggiungeva Gobbi- perché noi in quel momento non eravamo solo interpreti, ma vivevamo il personaggio. Così lo Scarpia di Silvano Carroli, nelle molte, infinite produzioni, talmente numerose che sarebbe riduttivo farne un sia pur elenco sommario. Eppure alcune s’impongono alla memoria, quali la riproposta dell’allestimento della prima assoluta del 1900, così sensibilmente restituita negli anni ’60 e riproposta negli anni ’80 e ‘90 dal regista Mario Bolognini, in svariate occasioni con la partecipazione di Carroli senza mai ripetersi e con ogni volta diverse emozioni.

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La produzione di Tosca del Maggio Musicale Fiorentino del 1986 fortemente voluta da Zubin Metha, per la quale alla vigilia si levarono voci di forte dissenso, si parlò di “volgarità assoluta” e di scandalo perché il regista Jonathan Miller aveva scelto di ambientarla nel 1943, durante l’occupazione nazista. La serata alla quale era presente un pubblico quanto mai internazionale fu un trionfo, perché tutto era coerente e lo spirito dell’opera, in quella che all’epoca fu considerata un’ardita trasposizione, perfettamente restituito nella credibilità dei solisti: con Carroli, Eva Marton e Giuseppe Giacomini. Da citare una per tutte in sale meno capenti, ma nell’articolata storia italiana non meno di rilievo, la serata al Teatro del Giglio di Lucca. Silvano sin dal pomeriggio era in camerino, dove curava personalmente il trucco di Scarpia, quasi ossessivamente sino a comprendere che quella meticolosità per l’aspetto era in realtà un processo di simbiosi nel calarsi nel ruolo sino a renderlo esistente.

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Ancora Scarpia in Tosca nella tournée del Teatro dell’Opera di Roma a Nagoya nel 1994. Qui il baritono che avrebbe dovuto interpretare il secondo titolo in cartellone, Giorgio Germont ne La Traviata, si ammalò rendendone impossibile l’esibizione per il giorno successivo. Difficile trovare un sostituto in così breve tempo e con un’Europa troppo distante, tenendo conto dello scarto del fuso orario. Fu proposto a Carroli che con generosità accettò di sostenere l’onere del doppio ruolo, una sera Giorgio Germont e la successiva Scarpia. La padronanza di una tecnica impeccabile gli permetteva un tale impegno. Eppure a poche ore dalla recita anch’egli fu aggredito da una febbre insidiosa. Non c’era scelta e si recò egualmente dall’albergo al suo camerino all’Aichi Arts Foundation, ma le forze vennero a mancare. Il direttore Nello Santi iniziò puntualmente il primo atto, dove il personaggio non è presente, ma nell’intervallo la situazione si mostrò critica; Carroli sul divano esanime era vestito e truccato dal personale in trasferta dell’Opera di Roma. Il pubblico giapponese, quanto mai numeroso, reclamava l’inizio del secondo atto e Santi dopo un intervallo interminabile dovette salire sul podio. Difficile non ricordare lo sforzo di sostenere Silvano Carroli appoggiato alla mia spalla guidato in palcoscenico, sino al limite della quinta, affiancati rispettosamente dal direttore artistico dell’Aichi Arts Foundation che mi chiedeva: “lei è sicuro che il signor Carroli potrà sostenere il ruolo?!”; la risposta sincera fu negativa, eppure all’ “è qui un signore” di Annina e “sarà lui che attendo” di Violetta, come per incanto Carroli era in scena, Giorgio Germont “implacabile”, impeccabile e trionfante. Tale è il teatro di cui abbiamo nostalgia!

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Questa breve memoria richiederebbe la descrizione di ben altri episodi, dalle interpretazioni mozartiane (Don Giovanni) e delle meno conosciute, eppure altrettanto valide escursioni in Rossini (Figaro, il Faraone e nello Stabat Mater), ma soprattutto in Verdi, dal giovanile Ezio dell’Attila al già citato maturo Jago di Otello. Ed è proprio il ruolo di Ezio che c’introduce in un ricordo alle vaste platee, quale l’Arena di Verona, dove Carroli è stato presente e indiscusso protagonista in titoli quali: Tosca, Cavalleria rusticana, Pagliacci, La Gioconda, Aida, Nabucco, Rigoletto, Otello, Un ballo in maschera. Quella sera del 1985 l’Attila, con direttore Nello Santi e interpreti oltre a Carroli, Yevgeni Nesterenko, Maria Chiara, Veriano Luchetti, fu un trionfo senza precedenti e fortunatamente n’è testimone una registrazione pubblicata in DVD nel 2005. Le interpretazioni di Silvano Carroli in audio e in video sono molteplici. Idolo delle vaste platee, aveva piena padronanza della tecnica modulando alla perfezione le proprie doti vocali, nell’equilibrio tra una rappresentazione en plein air e la risposta in una sala di un teatro. D’esempio è proprio il ruolo di Ezio, che era stato affrontato in quello stesso anno prima che nella vastità dell’Arena, nell’acustica raccolta del Comunale di Bologna, qui con Ruggero Raimondi, Mara Zampieri e Veriano Luchetti, direttore Carlo Franci. Fu una circostanza indicativa per comprendere il valore dell’interprete e della sua intelligenza esecutiva, di uno stesso personaggio modulato asseconda del diverso contesto, tanto simile quanto differente, pur sempre Ezio nelle diverse sfumature ed espressioni consentiti in una medesima partitura!

 

Torniamo a Verona, perché la celebre Arena resta negli anni un punto di sicuro riferimento nella sua carriera e vi tornerà con regolarità, ancora una volta nel 2007 con Nabucco, questa volta non interpretando il personaggio del titolo, bensì quello del basso Zaccaria, direttore Daniel Oren e l’anno successivo quale Amonasro in Aida. Silvano Carroli è conosciuto quale baritono, ma la sua capacità vocale lo portava ad affrontare con facilità ruoli di basso e sino all’estensione di tenore drammatico. Da Verona all’Egitto; è particolarmente efficace l’esperienza di Aida per la prima volta a Luxor (1987) con i complessi artistici e tecnici dell’Arena di Verona. Carroli fu presente sin dalle prime prove, con Maria Chiara e Fiorenza Cossotto, oltre agli interpreti di alcune delle repliche; Domingo giunse solo per la prova generale, preferendo risparmiarsi anche in quell’occasione. Il progetto era maestoso, portare l’opera di Verdi in quei luoghi dove era stata immaginata nella seconda metà dell’Ottocento dall’archeologo francese Auguste Mariette. Il lavoro di preparazione fu tra i più impegnativi, per gli spazi scenici che si estendevano dall’entrata principale del Tempio dove si erge uno dei due originari obelischi antistanti il portale e sino a tutto il Viale delle Sfingi, per allestire lo spazio che avrebbe ospitato l’orchestra, le gradinate dove avrebbe trovato posto il vasto pubblico e all’interno del Tempio i suggestivi tendoni che fungevano da camerino per gli artisti e da laboratorio per le tante necessità di una produzione temeraria. Silvano Carroli volle vivere ogni momento di questa esperienza, ma in alcuni giorni sfidare l’incombente “Khamsim”, il vento caldo del deserto che solleva nuvole di sabbia, si rivelò micidiale per la gola dei solisti, così come durante le prove d’orchestra la sabbia portata dal vento era d’ostacolo per gli strumenti a fiato e gli ottoni. Gestire la mastodontica organizzazione di un progetto così ambizioso si rivelava un’impresa ardua, ma fortunatamente la minaccia del vento fu scongiurata la sera del “gala”. Non tutto nella preparazione procedeva regolarmente, da giorni i tanti macchinisti e personale dell’Arena lavoravano alacremente affinché la struttura fosse pronta per l’evento, eppure ogni mattina tutto ciò che era stato realizzato il giorno precedente appariva smontato, tutto riposto in ordine, senza che fosse stato sottratto un solo bullone. Il mistero proseguì per alcuni giorni e di notte a tutela delle strutture furono chiamate guardie e infine l’esercito, soldati già coinvolti nel progetto in qualità di figuranti e se ne contarono ben trecento. Poi tutto ebbe fine, senza una spiegazione e il lavoro fu portato a termine. Con il sovrintendente Ernani, febbricitante, il regista Renzo Giacchieri, il direttore Donato Renzetti e tutti i responsabili del progetto si giunse al traguardo. Anche in questa occasione Silvano Carroli si distinse, istintivamente, nel seguire il lavoro di preparazione oltre il suo compito di solista, nel trasmettere fiducia a tutti coloro che parteciparono all’impresa, solisti e coro, consigliando inoltre le giuste medicine per i tanti che non avevano fatto attenzione alle diverse condizioni igieniche del luogo. La sera della “prima”, dopo un tramonto dalle tinte magiche, ci ritrovammo nella sua tenda-camerino, posta all’interno del Tempio e mentre scendevano le tenebre sembrava che le imminenti note verdiane fossero precedute nello spazio misterioso del Grande Cortile da suoni d’altri tempi, una grande suggestione mentre sarti e truccatori si accingevano a completare la vestizione di Amonasro-Carroli con gratitudine, perché sin dal primo momento era stato il punto di riferimento per tutti, di sicurezza e incoraggiamento.

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Negli anni più recenti Silvano Carroli si era consacrato con maggiore passione all’insegnamento, nel trasmettere quel dono che gli aveva riservato tante soddisfazioni e anche qualche invidia, ma questo è il gioco del teatro! Oltre al dedicarsi all’insegnamento quale titolare della cattedra di canto presso la scuola della Fondazione Del Monaco, promuoveva e partecipava a diverse iniziative, concorsi e quale docente a corsi di perfezionamento per giovani cantanti; nel 2018 al Teatro Comunale “Claudio Abbado” di Ferrara era stato docente di “vocalità verdiana”. Non aveva, però, mai abbandonato il canto e con fierezza ci aveva fatto ascoltare due registrazioni, per alcuni versi all’opposto, eppure così naturalmente sgorgate dal suo studio costante e rigoroso: l’intenso monologo del basso Filippo II dal Don Carlo: “ella giammai m’amò!”, dove la solitudine del potere era sentita nell’interpretazione di Carroli da colui che ha vissuto l’euforia della gloria e la riflessione nella caducità della “ribalta”, quella stessa dell’artista e dell’uomo all’apice di una carriera, in un tempo che pur senza incrinature scivola via anno dopo anno. Altra registrazione quella di un finale così assoluto nella produzione di Giuseppe Verdi che è il monologo del tenore Otello: “Niun mi tema” che nella sua interpretazione non aveva il sapore di un lacerato “addio”, ma nella casa di Lucca dove si era ritirato con la moglie Maria Luisa, tra ricordi e progetti, il dolce sapore di un’arte imperitura.

 

Vincenzo Grisostomi Travaglini

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“Le notti romane dell’opera”, un’articolo del Maestro Vincenzo Grisostomi Travaglini, pubblicato in “L’Opera International Magazine”, Settembre 2019

 

La partitura di una capolavoro quale Aida di Giuseppe Verdi appartiene al presente: sempre attuale per la sua capacità di rivivere ad ogni rappresentazione. Testo di sorprendente vitalità la cui valutazione non potrà mai essere critallizzata in un giudizio definitivo. Eppure, alcuni travisamenti teatrali ne hanno nel tempo alterato la sostanza, non meno di visioni superficiali che ne vorrebbero sminuirne il fondamento.

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L’Aida di Verdi con protagonisti cammelli, dromedari ed elefanti è un’analogia ormai scontata e l’argomento banalmente enunciato. Nei decenni si sono avvicendate sui palcoscenici di tutto il mondo produzioni le più svariate che nulla hanno a che fare con fenomeni da baraccone, anzi che ne esaltano i valori compositivi, nell’ambientazione del libretto che è, questo sì, sinonimo di antico Egitto, di ambizioni contrapposte e conflitto interiore. L’un aspetto non in conflitto con l’altro, ma conseguente in un progetto quanto mai strutturato che nasce in un momento storico e da circostanze ben definite. Il quesito, semmai, nell’avvicendarsi di progettualità e invenzione, è sul come restituire questa monumentale partitura in musica e teatralità, pur senza termine nel segno della libera espressione e ancor più nei vasti spazi all’aperto. Il compito è affidato all’inventiva dell’esecutore, alla sua capacità di restituire un lavoro di un Giuseppe Verdi che stanco e deluso si era ritirato dall’arte del comporre nell’ “eremo” di Sant’Agata, pressato dalle ambizioni del Khedivè d’Egitto, dall’abile persuasione dell’archeologo di origine francese Auguste Mariette che fu il fondatore del Museo de Il Cairo, dal poeta e scrittore Antonio Gislanzoni e non in ultimo, convinto da un ricco compenso.

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Se Aida si è imposta nel tempo quale titolo d’eccellenza per gli spazi “en plein air”, è per le possibilità spettacolari che il soggetto offre al palcoscenico, una peculiarità che non nega, anzi esalta, il contrasto delle tematiche che il compositore volle coniugare nel suo lavoro. Guardando all’antico Egitto Verdi propone tematiche a lui sensibili, quanto universali: l’oppressione del potere e la solitudine dell’uomo. Affrontare Aida è un onere, tanta era l’attesa della riproposta del titolo per la stagione estiva dell’Opera di Roma alle Terme di Caracalla, ma l’aspettativa in palcoscenico non è stata pienamente appagata, perché pur nel rispetto del talento individuale, si sarebbe voluto esigere di coniugare inventiva a coerenza. Negare la stessa essenza dello spettacolo operistico (sia la proposta scontata o spettacolare, innovativa, riformista oppure semplificata) quasi si voglia respingere il valore stesso del lavoro che s’intende produrre, riducendolo a una paccottiglia mal assemblata, questa non è una scelta, bensì presunzione. Denis Krief, artista poliedrico nato in Tunisia e affermatosi in Francia, firma alle Terme la nuova produzione di Aida: regista, scenografo, costumista e disegnatore luce; il risultato è uno spettacolo confuso da superflui simbolismi e ingorgo espressivo, proposta fortunatamente sostenuta musicalmente dal direttore Jordi Bernàcer e da validi interpreti. I solisti tutti, però, sembrano avere difficoltà nel ritrovarsi nel “gioco” comune, intrecciato nello svolgersi della vicenda. L’incontro tra Radamès e Amneris è composto registicamente da semplici scambi di posizione, così come il dubbio che s’insinua con l’ingresso di Aida non è avvertito. In scena schematicamente sono una piramide centrale affiancata da due parallelepidi trapezoidali, estenuamente riposizionati da una squadra nutrita di macchinisti freneticamente coinvolti, che spostano, girano, dispongono senza particolare suggestione gli elementi scenici. I tronchi di piramide ruotano su se stessi mostrando la struttura interna; nel centro si colloca una ridotta costruzione lignea a forma di cubo, dove si alternano siparietti in stile Paris-Garnier, il caratteristico sipario dell’Opéra e altre allusioni, nel terzo atto un canneto per ricordarci che siamo in riva al Nilo da dove Amonastro appare del tipo “sorpresa” da teatrino di burattini. Al termine de “Su! del Nilo” viene sventolata una bandiera italiana con stemma sabaudo, un’allusione forse alle colonie?! Il coro si trasporta da una parte collocato su poltroncine rosse, all’altra del palcoscenico, senza apparente ragione e tanto meno motivazione, così che il complesso corale dell’Opera appare casualmente coinvolto e non al meglio della concentrazione. Il Faraone e Amneris sono in abito egizio …sugli umili costumi ben poco da dire… a un lato siedono all’interno di un palco tardo Secondo Impero per assistere al “trionfo”, sistematicamente al buio (probabilmente un riflettore mal puntato, ma egualmente rimarcabile), in una visione molto personalizzata del concetto di disegno luce. Forse della stessa epoca della loggia le sei trombe egizie, professori d’orchestra abbigliati in frak e tuba, musicalmente non esattamente “allineati”. Sempre, forse, dietro il sipario il fondalino che sale e scende all’interno della struttura lignea s’ispira a uno dei bozzetti che Mariette curò per la “prima” di Aida, oppure qualsiasi altra cosa voglia significare, come il parallelepipedo girato, con posta una scala di prigione dove si svolge immobile l’intera scena del “giudizio” e così via. Ben realizzate le coreografie di Giorgio Mancini, ma confuse in un disordine apparente. Alfred Kim affronta di “forza” l’impervia “Celeste Aida”, con voce stentorea, non sempre omogenea e alla ricerca più dell’effetto, puntualemente ottenuto, che di una linea di canto accurata. Anche per il mezzo soprano Judit Kutasi l’inizio è incerto, ma trova sin dal duetto con Aida del secondo atto (l’opera a Caracalla è presentata in due parti) l’adeguata espressione al ruolo, sino all’avvolgente: “Già i sacerdoti adunansi” con un ritrovato Alfred Kim/Radamès, per piglio e vocalità. Da subito si distingue la personalità di Vittoria Yeo, una sensibile Aida, toccante nell’appassionato “Numi pietà”, con accennata stanchezza dal terzo atto, dal quale l’impostazione appare meno sicura. Un Amonasro  garbato quello di Marco Caria, scevro da barbarismi che scostano il personaggio dall’accurata scrittura baritonale verdiana. Di buon livello la compagnia: dal Re di Gabriele Sagona, al Ramfis Adrian Sâmpetrean, Domingo Pellicola (Un messaggero), Rafaela Albuquerque (La Gran Sacerdotessa). Il direttore d’orchestra Jordi Bernàcer superate le prime difficoltà dovute a un’amplificazione particolarmente problematica, incluso un incidente tecnico con rombo fastidioso, tiene l’orchestra con sicurezza, ponendo l’accento su ogni sfumatura, senza cedere a gloriosi fragori e sempre sottolineando le preziosità di una partitura che appartiene alla piena maturità verdiana, con drammaticità, ricercatezza del colore, equilibrio e una lucidità di prospettive del tutto originali. I veri elementi innovativi di Aida vanno ricercati nella maggiore precisione con la quale Verdi organizza l’orchestra, con Jordi Bernàcer l’intero incalzare di situazioni individuali e colletive è governato da una ferrea coerenza teatrale e costituisce quella sicurezza ideale tra tutti i parametri che compongono questa partitura dove in ogni atto, in ogni momento la luce e l’ombra svolgono una funzionale struttura espressiva

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Altra situazione per la ripresa de La Traviata, qui l’emozionalità del regista Lorenzo Mariani rende più che credibile l’ambientazione agli anni ’60 del Novecento. Una messa in scena vivace, curata in ogni particolare. Tutto procede con attenzione, la recitazione si fonde al canto, il solista è interprete ed è personaggio. Molte delle pagine di Traviata appartengono sempre più al quotidiano, riproposte in concerto o accennate in forme svariate, ma grazie all’attenzione del direttore d’orchestra Manlio Benzi e del regista in questa edizione ogni pagina è conseguente e va a formare il corpo dell’opera in una drammaturgia ritrovata che affronta senza esitazioni stratagemmi di sicuro impatto visivo e di autentico spettacolo. In scena inizialmente un grande schermo: è un cinema all’aperto e dal Preludio dell’atto primo tutto si risolve in bianco e nero come in una pellicola d’epoca. C’è Fellini e La dolce vita, ma anche Vacanze romane con nostalgiche lambrette e la spensieretezza del ricordo, di rosso solo Violetta e Flora, che si distinguono prendendo colore come in un film di François Ozon, solo per fare uno dei tanti esempi possibili. Una vera e propria esplosione di dissolutezza nella galleria in casa di Flora dove lo spettacolo di spogliarelliste e motociclisti in giacca di pelle con scritto “bull” (“mattadori”) nulla tolgono, anzi accrescono la drammaticità del finale. Scene di Alessandro Camera, costumi di Silvia Aymonino. D’effetto e ben realizzati i movimenti coreografici di Luciano Cannito. Le luci di Roberto Venturi sono di grande suggestione, ben integrate con le proiezioni di Fabio Iaquone e Luca Attilii che includono i maestosi ruderi delle Terme, calibrate e mai invasive. Violetta è il soprano Francesca Dotto che se trova qualche difficoltà ne “Ah, fors’e’ lui” e in particolare nell’impervia tessitura di “Sempre libera…”, s’immerge nel romanzo e musica dal “Non sapete quale affetto” e magistralmente sino all’emozione dell’ “Addio del passato”. Punto debole della compagnia il tenore Alessandro Scotto di Luzio (Alfredo) che superato lo scoglio dell’inizio del secondo atto, come rassicurato, trova maggiore concentrazione e pertinenza vocale dal “Mi chiamaste? Che bramate?” con un’appassionata Violetta e si riscatta appieno nel “Parigi, o cara”. Quasi timido, egualmente efficace, il Giorgio Germont di Marcello Rosiello; bravi, anzi eccellenti tutti gli altri dalla scatenata Flora di Irida Dragoti, il Gastone Murat Can Güvem, Annina Rafaela Albuquerque tutti e tre dal Progetto Fabbrica, giovani artisti, del Teatro dell’Opera. A completare la compagnia Roberto Accurso (Barone Douphol), Domenico Colaianni (Marchese d’Obigny) e Graziano Dallavalle (Dottor Grenvil), Daniele Massimi, Francesco Luccioni, Micael Alfonsi. Certamente, tutto sotto l’attenta guida del direttore d’orchestra Manlio Benzi che affronta la difficile acustica del teatro all’aperto delle Terme di Caracalla dosando i suoni, perché un “piano” amplificato non può risultare veramente tale e un “forte” rischia di sovrabbondare all’udito dello spettatore; il risultato è quello di una lettura ben strutturata, equilibrata e risonante in un tutt’uno con i solisti che trovano nel direttore un preciso, puntuale punto di riferimento e sostegno drammaturgico, così come in Verdi deve essere. Eccellente la prova dell’orchestra e del coro del Teatro dell’Opera di Roma, maestro del coro Roberto Gabbiani. Numeroso pubblico e tanti applausi, sia per Aida che per Traviata.

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Serata d’eccezione quella del 7 agosto con l’evento Noche española con Placido Domingo che torna a cantare alle Terme di Caracalla dopo 29 anni, da quando nel 1990 era stato protagonista con José Carreras e Luciano Pavarotti del concerto dei Tre Tenori, in occasione del Campionato mondiale di calcio.

L’idea di questa serata di gala dedicata a melodie iberiche era nata a Verona nel 2017, impostata quale concerto più che di spettacolo vero e proprio, per poi essere valorizzato sino a realizzarsi in una struttura di seducente impatto musicale e visivo, già acclamato nella sua forma compiuta lo scorso luglio in Francia a Le Chorégies d’Orange per il centocinquantesimo del festival, il più antico d’arte lirica.

L’attesa a Caracalla era tutta per Placido Domingo e dell’omaggio dell’artista alla sua terra natale, la Spagna con suggestioni e tradizioni di brani celebri e meno conosciuti di autori prevalentemente di Zarzuela, quali l’introduttivo “Quiero desterrar” (La del soto del parral) di Sautullo y Vert cesellato dal celebre tenore, qui nel registro baritonale, accolto da una vera e propria ovazione del pubblico e sino al bis conclusivo, un toccante adios, velato da una tristezza dal sapore squisitamente ispanico. La serata è stata aperta dall’impeccabile compagnia di Antonio Gades, uno dei più celebri danzatori che ha elevato il Flamenco alla classicità. Per il ballo e per il canto compositori squisitamente iberici, per citarne alcuni: Sorozàbal, Giménez, Granados, Manuel de Falla, Moreno-Torroba. Con Domingo due giovani e già affermati solisti: il soprano portoricano di origine cubana Ana Maria Martinez e il tenore messicano Arturo Chacón Cruz, vincitori rispettivamente nel 1995 e nel 2005 del The World Opera Competition- Operalia, una competizione canora fondata nel 1993 da Placido Domingo. Felice la combinazione di canzoni, intrecci amorosi a due voci e scalpitanti interventi di danza. Niente di banale o di folklorico nell’attenta direzione di Arturo Chacón Cruz che con l’orchestra del Teatro dell’Opera ha colto ogni sfumatora di una forma d’arte che ha trovato in questa interpretazione la sua forma ideale. D’impatto visivo e precisamente realizzati i movimenti scenici e il gioco di luci e proiezioni in tutt’uno tra un palcoscenico essenziale e i maestosi ruderi delle Terme, per le firme di Stefano Trespidi, Ezio Antonelli, Roberto Santoro e Federica Caraboni. Pubblico in piedi sino all’emozione per la conclusione di questa estate dell’Opera di Roma alle Terme di Caracalla, cartellone che ha realizzato il migliore risultato d’incassi e di presenza di pubblico.

 

Placido Domingo a Roma, 5th August 2019

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«Come passa il tempo…» afferma Placido Domingo il giorno successivo l’evento all’Arena del cinquantenario dal suo debutto a Verona e alla viglia della Noche española alle Terme di Caracalla per la stagione estiva del Teatro dell’Opera di Roma. Domingo torna alle Terme di Caracalla dopo 29 anni dal memorabile concerto dei Tre Tenori.

«A Roma le mie presenze non state numerose – prosegue l’artista – ma quella sera del 7 luglio del 1990 rimarrà per sempre un ricordo indelebile. Sono passati quasi trent’anni anni e molti di più da quando ho iniziato a cantare. Anche questo mio ritorno a Caracalla segna un anniversario, eppure il mio desiderio di condividere con il pubblico la passione per la musica resta sempre lo stesso».

«In quel 1990 ci trovammo insieme, con José Carreras che era tornato a cantare dopo la malattia e con Luciano Pavarotti. Passamo insieme un tempo magnifico, mai uno screzio tra di noi. Quando si dovette scegliere il programma spesso ci trovammo a voler cantare lo stesso brano e allora tiravamo a sorte. Nel tempo libero José e Luciano giocavano a poker, ma io non sono bravo al gioco e mi sedevo accanto a loro; potevo vedere le carte di entrambi e stavo attento a non parlare, immobile. Poi con Luciano si andava a mangiare e con lui la tavola era sempre molto generosa».

Maestro, un accenno al concerto Noche española: «E’ un evento che è maturato nel tempo, dalla mia passione per la Zarzuela, un genere molto apprezzato in Spagna. Io sono figlio d’arte e i miei genitori erano cantanti di Zarzuela, mia madre era in palcoscenico sino a pochi giorni dalla mia nascita. Sicuramente io la sentivo cantare ancor prima di venire al mondo. Si potrebbe definire la Zarzuela una sorella o meglio una cugina dell’opera, può avvicinarsi come genere all’operetta, ma ci sono tante differenze. Nella Zarzuela ci sono scene fortemente drammatiche, ma poi dal dialogo si passa alla musica e tutto si risolve in un lieto fine; non sempre ma nella maggioranza dei casi. In Spagna in ogni regione c’è una diversa tradizione musicale per questo particolare genere, così in  Aragona, in Andalusia, in Castiglia e in Catalugna. Insieme a me nello spettacolo ho voluto partecipassero due giovani vincitori della competizione Operalia: il soprano d’origine cubana Ana María Martínez e il tenore messicano Arturo Chacón-Cruz; un’iniziativa questo concorso a favore di giovani cantanti lirici che ho voluto fortemente sin da 1993 e che si svolge ogni anno in una diversa città, quest’anno per la cinquantaseisima edizione a Praga. Con noi la compagnia di ballo di Madrid che porta il nome di Antonio Gades, questo gruppo è una parte essenziale del nostro programma. Quando abbamo realizzato lo spettacolo la prima volta è  stata con noi una giornata felice».

La memoria di Placido Domingo lo riporta alla sua Madrid e alle prime esperienze artistiche vissute grazie ai suoi genitori: «Io mi ritengo un privilegiato a essere un figlio d’arte e penso che con la musica si superi ogni frontiera, perché se le lingue sono diverse il messaggio è universale».  Prosegue Domingo: «Mi chiedono spesso se io prediliga cantare da tenore o da baritono, oppure dirigere l’orchestra, ebbene la mia risposta è che io mi esprimo con tutto me stesso nel lavoro al quale mi sto dedicando in quel momento.  Ancora mi domandano quale sia il titolo che prediligo ed è difficile rispondere, perché ho amato tutte le opere che mi sono trovato a interpretare. Se proprio dovessi citarne due, queste sarebbero Otello e Tosca, perché sono i titoli che ho interpretato più frequentemente, per l’esattezza 225 recite ciascuna, sono lavori straordinari. Quello di Otello è un ruolo importantissimo nella carriera e nell’affrontarlo devi esprime tutto te stesso quale interprete: cantante e attore. A Tosca sono particolarmente affezionato perché è stata l’opera con cui ho iniziato e il ruolo di Cavaradossi mi ha portato per la prima volta sui palcoscenici dei grandi teatri; ebbi l’occasione di dirigere Tosca nel 2000 all’Opera di Roma, dove fu rappresentata per la prima volta, in occasione del centenario con Luciano Pavarotti quale Cavaradossi e Franco Zeffirelli regista, una grande emozione. E’ difficile, però, esprimere una preferenza; pensiamo a titoli dello spessore di Manon LescautWalkiriaParsifalLohengrin. Ancora tutte le opere pucciniane e verdiane, abbiamo nel mondo dell’opera un repertorio straordinario. Io ho interpretato 151 diversi personaggi ed è sempre viva in me la curiosità di trovare nuove parti da poter affrontare».

Placido Domingo, cantante e direttore d’orchestra guarda al futuro, senza malinconie per il passato: «Non sono d’accordo con quelli che dicono che “ai nostri tempi” tutto era migliore, anche perché i “miei tempi” proseguono e guardo all’oggi. Nel mondo vi sono molti più spazi teatrali e infine occasioni per assitere a un concerto o a una rappresentazione lirica, in Europa come negli Stati Uniti, in America Latina».

«Io penso che ci siano sempre stati dei grandi interpreti, grandi maestri e grandi registi e la vita dell’opera continua… felicemente, perché oggi nei teatri si sta formando un nuovo pubblico, si realizzano più spettacoli. Ho avuto occasione di tornare in delle sale teatrali dove in gioventù ero stato pioniere della lirica, così come con tanti altri colleghi con i quali nel corso degli anni ci siamo trovati a essere stati precursori e proprio in quei luoghi dove avevamo iniziato quali giovani di una qualche compagnia, ho potuto rendermi conto di quante voci straordinarie ci siano oggi nel mondo. Questo è bellissimo!»

«L’altro giorno ero nella mia città, a Madrid, seduto in un palco e durante l’intervallo guardavo il pubblico, in ogni fila c’erano molti spettatori sotto i 40 anni e anche molti di circa venti anni, logicamente insieme a tutti gli altri. Io sono convinto che si stia vivendo nell’arte musicale un momento molto positivo. Una raccomandazione: direi che è arrivato il momento, un pochino, di controllare il punto sulla regia e sulla messa in scena, perché alle volte ci sono delle scenografie dove si possono realizzare indifferentemente 10 o più titoli, senza fare differenza. C’è in scena, ad esempio, una cassa nera e non sappiamo ..!» «Certamente potrebbe essere una soluzione economica ma … – aggiunge Domingo con un pizzico di ironia e conclude – io credo che in ogni caso per la messa in scena si debba raccontare la storia. In certi titoli si può cambiare epoca, ma io penso che al pubblico, soprattutto per chi si avvicina per la prima volra all’opera, si debba offrire un pizzico di tradizione».

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“Il culto della bellezza, fra opera, teatro e cinema”, un articolo del Maestro Vincenzo Grisostomi Travaglini, pubblicato in “L’Opera International Magazine”, Luglio-Agosto 2019, su Franco Zeffirelli, scomparso il 15 giugno 2019.

Vincenzo Grisostomi Travaglini, che conobbe e lavorò con Franco Zefirelli, stende un ritratto e un personale ricordo del grande regista scomparso.

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Quando si spegne una stella il suo bagliore si spande nell’infinito.
Così quanto muore un Artista la suo opera resta imperitura. Regista
d’opera e di prosa, autore di cinema, scenografo e costumista, Franco
Zeffirelli “nasce” alla prestigiosa scuola di Luchino Visconti e del
suo Maestro trasmise l’elegante consapevolezza di un rinnovato
approccio all’opera d’arte, di meticolosa aderenza al contenuto
originale, di una cultuta dove l’estetismo si tramuta in sostanza, pur
sempre nella liberà espressiva dell’autore. Un incontro casuale il mio
con Franco Zeffirelli, nel 1965 passeggiando avanti Palazzo Reale a
Torino un signore con autorità faceva smontare i giganteschi
striscioni che annunciavano nel teatro all’aperto montato nei giardini
il Giulietta e Romeo di Skahespeare. La tragedia si chiama Romeo e
Giulietta affermava e gli operai ubbidirono. Un primo gesto di quel
rigore non solo apparente, un segno d’autore che rifletteva il cattere
dell’artista che imponeva una convalidata cultura, trasmettendo al
pubblico con il suo lavoro e le sue convinzioni un differente
approccio ai classici, di quei valori che oggi diamo per acquisiti.
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Splendido lo spettacolo shakespeariano con i giovanissimi Giancarlo
Giannini, Annamaria Guarnieri e una straordinaria Lina Volonghi,
distante da una recitazione di maniera e da protagonismi in un lavoro
d’insieme che solo il regista può realizzare. Con freschezza e rigore,
così come la pellicola del “Romeo e Giulietta” che segui solo alcuni
anni più tardi, nel 1968, con interpreti che sono personaggi e i
personaggi funzionali all’accadimento. Questi gli anni dei primi
successi cinematografici di Zeffirelli, nel 1967 sempre Skahespeare
con La bisbetica domata, con due celebrità  quali Elizabeth Taylor e
Richard Burton, ma qui il divismo non è mai fine a se stesso, bensì
efficiente all’intrigante dipanarsi della commedia. Il suo debutto nel
cinema risaliva al 1957 con Camping un’inaspettata commediola
all’italiana; nel 1964 firma il film per la televisione Maria Callas
al Covent Garden, una primadonna a cui restò sempre legato
dedicandogli nel 2002 il film Callas Forever. Fu Zeffirelli nel 1964 a
convincere una Maria Callas oramai sul viale del tramonto a
partecipare a una nuova produzione di Tosca a Londra da lui diretta ed
il secondo atto è l’unica registrazione video in un’opera della
Callas, con lei Tito Gobbi. “La Callas è insuperabile”, affermò il
regista e fu un trionfo, , a cui segui quello di Parigi e al
Metropolitan, ma solo l’anno dopo nella ripresa al Royal Opera Hause
Covent Garden la divina Maria apparì solo nella serata di gala il 5
luglio 1965 alla presenza della regina Elisabetta II e quello fu
l’addio alle scene del celebre soprano.
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Innumerevoli i titoli cinematografici diretti da Franco Zefirelli, senza mai dimenticare
l’amore per il palcoscenico lirico, con inserimenti di produzioni come
per Aida ne Il giovane Toscanini, direttore d’orchestra che Zeffirelli
aveva conosciuto personalemnete, tra hli interpreti ancora una volta
con Elisabeth Taylor che per il Maestro nativo di Firenze accetto di
tornare a recitare dopo dieci anni di assenza dal set e che studiare
con Zeffirelli non sopportando il chiuso di una stanza si fece portare
una roulotte attrezzata di ogni comodità parcheggiata nel giardino del
Maestro a Roma, a Villa Grande. La pellicola fu in parte girata nel
teatro Petruzzelli prima del disastroso incendio, trasportato nella
finzione cinematografica nel lontano Brasile e quelle immagini furono
il punto di riferimento per la ricostruzione della sala; ancora Carmen
nel già citato Callas Forever e la lista delle produzioni
cinematografiche del Maestro comprende più di 20 titoli, quale regista
e talvolta anche sceneggiatore, sino all’ultima opera cinematografica
del Maestro: Omaggio a Roma del 2009 un “promo” sulle bellezze della
città eterna commissionatogli dal Campidoglio, dove non poteva mancare
una citazione all’ambientazione tutta romana di Tosca.
Plausi e critiche per i film-opera: nel 1982 Cavalleria Rusticana e Pagliacci
con direttore Georges Prêtre; nel 1983 una Traviata che non riscosse
unanimi consensi per alcune libertà che il regista impose sulla
partitura verdiana, con Teresa Stratas e Placido Domingo, da citare
anche il coreografo Vladimir Vassiliev la cui collaborazione con
Zeffirelli è frequente. Nel 1986 Otello con Placido Domingo e Katia
Ricciarelli, direttore Lorin Maazel.
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Franco Zeffirelli l’artista di teatro, celebrato regista
d’indimenticabili successi cinematografici, ma anche l’uomo la cui
umanità, per alcuni schivo all’apparenza, era al contrario
carratterizzante di un’apertura verso nuove esperienze, di supporto di
giovani talenti. Il mio incontro su di un palcoscenico, ero studente
liceale, fu al Teatro dell’Opera di Roma per una ripresa di Falstaff,
nell’aprile del 1974. Ero assistente volontario, ovvero avevo ottenuto
un permesso speciale per assistere alle prove, mi era permesso
osservare, ma non potevo intervenire, eppure Zeffirelli oltre le
convenzioni come solo i grandi sanno essere, desiderò coinvolgermi.
Trovarsi in quel mondo oltre la ribalta fa sognare oltre ogni
desiderio; smarriti o deteriorati i variopinti costumi del quarto atto
dei folletti, tutti ci trovammo in sartoria per tagliare brandelli di
stoffa e ricucire il perduto, Tutti insieme, Franco Zeffirelli e il
giovane aiuto regista, quel Pippo Pisciotta che fu per lui compagno di
vita, l’assistente volontario ovvero io e tanti altri; tra gli allievi
della Scuola di danza del Teatro dell’Opera che interpretavano i
folletti dell’atto quarto un già protagonista Raffaele Paganini. I
successi di Franco Zeffirelli nella lirica sono innumerevoli e le sue
produzioni ancora attuali e di diritto nella storia del melodramma.
Solo alla Scala si contano più di 20 titoli, dai primi anni del
dopoguerra e per l’intero arco della sua vita. Zeffirelli non ha mai
dimenticato i suoi primi passi, quale assistente o titolare, come ad
esempio per una “Carmen” al Carlo Felice di Genova bombardato con la
sala protetta da materiale impermiabile perché il soffitto aveva
ceduto, prima della discussa demolizione della struttura interna.
Elencare tutte le produzioni in campo operistico, di prosa e
cinematografico di Franco Zeffirelli sarebbe un esercizio che da solo
ne restituirebbe il rilievo in campo internazionale. Basterà, però,
citare dei momenti particolarmente significativi di cui posso dare
personale testimonianza, quali il trionfo scaligero il 7 dicembre 1976
per Otello diretto da Carlos kleiber, la prima opera trasmessa in
diretta televisiva con neo-eletto presidente della RAI quel Paolo
Grassi che alla Scala era stato il sovrintendente degli anni felici.
Sempre alla Scala: Un ballo in maschera con direttore Claudio Abbado,
le lacrime di Shirley Verrett contestata nelle vesti di Amelia e il
trionfo di Pavarotti-Riccardo e Piero Cappuccili-Renato, la cui
spettacolarità imponeva nei cambi a vista un’irrefrenabile applauso.
Un salto temporale e tanti altri successi in Italia e all’estero, a
Milano con Turandot direttore Lorin Maazel, siamo nel 1983
allestimento riproposto  successivamente con modifiche al
Metropolitan. Negli Stati Uniti Zeffirelli è particolarmente amato e
la sua collaborazione con il Metropolitan è stata di tale portata
dall’aver invogliato a frequentare il teatro da un nuovo e folto
pubblico. Di Zefirelli bastava pronunciare il nome e i fondi elargiti
dai mecenati del Met erano assicurati. Critica e pubblico non furono
sempre concordi in una schermaglia di pareri contrari che perseguitò
l’artista negli Stati Uniti, così come negli altri paesi. Esempio ne
fu la nuova produzione di Tosca con debuttante al Metropolitan
Giuseppe Sinopoli, protagonisti Hildegard Behrens e Placido Domingo.
Con lo spettacolare terzo atto il regista e scenografo Zeffirelli
utilizzando ancora una volta, come per il quarto atto di “Aida” nella
produzione della Scala del 1964, il così detto ascensore o ponti
mobili del palcoscenico, potè giocare su due ambienti sovrapposti,
metenendo inizialmente in risalto la prigione dove è rinchiuso
Cavaradossi, che scomparendo inghiottita dalle viscere del
palcoscenico, con un coup de thèâtre di grande effetto faceva scendere
a livello la sovrastante terrazza di Castel Sant’Angelo dove
Cavaradossi canta “E lucevan le stelle” prima di essere fucilato.
Si scrisse che era stato “il trionfo registico del secolo”, “il
massimo della raffinatezza operistica”. Per altri una regìa “priva di
immaginazione”, Zeffirelli venne tacciato di tradizionalismo:
“insopportabile monumentalismo e realismo quasi fotografico”. Una
discrasia ancor oggi pungente tra un giornalismo alla ricerca della
notizia e un pubblico desideroso di produzioni realizzate con reale
professionismo. L’allestimento sarà presente al Metropolitan nel corso
di svariare stagioni e successivamente segnò il trionfo di Luciano
Pavarotti-Cavaradossi. Le recite di spettacoli con la regia di
Zeffirelli in scena al Metropolitan sono oltre 800.
Qualche curiosità, Franco Zeffirelli in gioventù ha recitato nella
Compagnia dell’Orsa Minore e quale attore cinematografico ne
L’onorevole Angelina con regia di Luigi Zampa nel 1947 e più
recentemente nel 2014 ne Il mistero di Dante con la regia di Louis
Nero dove interpreta se stesso, a fianco del premio Oscar F.Murray
Abraham. Franco Zeffirelli è stato regista e librettista di Antony and
Cleopatra con musica di Samuel Barber, in prima assoluta al
Metropolitan nel 1966.
Non ha mai abbandonato la regia del teatro di prosa e tra i tanti
titoli è doveroso citare negli anni Sessanta Amleto con Giorgio
Albertazzi, portato anche a Londra in occasione delle celebrazioni nel
quattrocentesimo dalla nascita di William Shakespeare; nel 1983 al
Teatro della Persola di Firenze Maria Stuarda di Schiller, una lezione
di teatro con Rossella Falk e Valentina Cortese.
Senatore dal 1994 per una legislatura, tornò pienamente ad occuparsi
di spettacolo. Nel novembre del 2004 fu nominato dalla Regina
Elisabetta II: “Cavaliere Commendatore dell’Ordine dell’Impero
Britannico”.
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Un rammarico, la mancata Turandot nella Città Proibita di Pechino.
Andammo insieme con Dante Mariti della Melos Art in visita ufficiale
in Cina. Tutto sembra andare per il meglio, ma dopo il soprallluogo
all’immensa struttura, Zeffirelli notò che lo spazio dove si sarebbe
dovuto rappresentare l’opera di Puccini non prorpiamente all’interno
della vera e propria Città Proibita, bensì compreso tra la prima e la
seconda cerchia di mura. Il Maestro fu irremuovibile, ma il permesso
per uno spettacolo all’interno delle mura interne era impossibile,
perché quando Bertolucci vi girò il film L’ultimo imperatore per
illuminare gli interni, essendo vietato portare i riflettori
all’interno le sale, li fece fissare su delle colonne di ebano
smaltato provocando dei gravi danni. Da qui il divieto irrevocabile.
Ci consolammo con una ricca cena in Ambasciata e il giorno seguente
spese “pazze”, perché al Maestro piaceva portare dei regali e
conservare il ricordo. Non ci facemmo mancare una visita alla Grande
Muraglia, ma Zeffirelli credeva nel progetto e rimase deluso. Qualche
tempo più tardi il Maggio Musicale Fiorentino con direttore Zubin
Metha fu meno esigente e in quello stesso spiazzo l’evento risultò
essere stato presentato come: “La Turandot nella Città Proibita”.
I rapporti di Zeffirelli con i teatri non furono costanti, con qualche
polemica e grandi rientri. Così come per la Scala e ultima in ordine
di tempo con il sovraintendente Pereira e poi l’assidua collaborazione
con l’Arena di Verona. Tra tutte la Carmen in una serata carica di
aspettatite. Uno spettacolo sontuoso, direttore Daniel Oren. L’Arena
era esaurita, lo stesso Oren sembrò sentire il peso di tanta
responsabilità e preferì rallentare alcuni tempi per tenere meglio
sotto controllo i solisti. Zeffirelli era arrabbiato. “proprio questa
sera Daniel ha deciso di scambiare l’opera per una sinfonia!“, ma
tutto andò per il meglio e nel dopo-teatro di festeggiò “alla grande”.
Seguiranno una nuova produzione di Aida (e ancora Aida per un secondo
allestimento alla Scala, meno fortunato del primo) e ancora a Verona
Il trovatore con la riproposta dei ballabili scritti da Verdi per
Parigi,  Turandot, Don Giovanni, Madama Butterfly e dove quest’anno La
Traviata il 21 giugno è andata in scena postuma, preceduta da una
cerimonia per ricordare il regista e scenografo. Cecilia Gasdia
attuale sovrintendente e direttore artistico dell’Arena ricorda che
l’idea di questa Traviata era nata nel 2008 come desiderio personale
del Maestro . Zeffirelli era particolarmente affezionato a questo
titolo verdiano affrontato per la prima volta a Dallas nel 1958 con
protagonista Maria Callas: «Traviata, una donna senza tempo. È stata
il fantasma e l’amore della mia vita» aveva dichiarato. La stessa
Gasdia era stata interprete di Violetta in Traviata al Comunale
Firenze nel 1984, in un nuovo allestimento firmato Zeffirelli in
coproduzione con il Maggio Musicale, il  Metropolitan di New York e l’
Opèra di Parigi, direttore Carlos Kleiber. L’occasione di questa
Traviata fiorentina con regia di Franco Zeffirelli è l’occasione per
restare nel capoluogo toscano, perché di recente nella sua città
natale il Maestro ha visto realizzato il sogno di una vita: il “Centro
Internazionale per le Arti dello Spettacolo Franco Zeffirelli”: una
Fondazione, dichiarata per Statuto “di particolare interesse storico”.
Inaugurato nel 2017 il Centro è ospitato nel Complesso di San Firenze
e vi sono conservati tutti i documenti legati alla sua attività
artistica, dai bozzetti, agli studi per gli allestimenti teatrali e
cinematografici, dalle note di regia alle sceneggiature, dalle foto di
scena alle rassegne stampa, un vero e proprio patrimonio artistico e
culturale da tramandare ai posteri.
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Franco Zeffirelli in passato e di recente, non ha mai mancato
occasione per esprimere le proprie opinioni, avvolte pungenti, ma
sempre pertinenti. D’altronde il suo sangue fiorentino non smentiva la
sua innata loquacità. Amava la sua città e nel 1966 diresse il
film-documentario prodotto dalla RAI Per Firenze dove è documentata la
devastazione della città nell’alluvione del 4 novembre 1966. Sono
molti gli eventi a cui il Maestro ha partecipato e tra questi la regia
in mondovisione nel dicembre 1974 della cerimonia d’apertura dell’Anno
Santo, regnante Paolo VI. Sempre per la sua città nel 1989  è dedicato
l’episodio su Firenze per il film-documentario 12 grandi registi
italiani presentano 12 grandi città italiane in occasione della 14a
Coppa del Mondo di calcio. “Galeotta” è sempre Firenze e in questo
caso l’amicizia con il concittadino Giampaolo Cresci nominato
sovrintendente dell’Opera di Roma. Per il rilancio del Massimo
capitolino Franco Zeffirelli s’impegna con una nuova produzione di
Pagliacci. Nel 1992 nessun teatro sembra ricordare l’anniversario del
centeneraio del lavoro di Ruggero Leoncavallo. Un’occasione da non
perdere e in poche settimane all’Opera di Roma se ne programma una
nuova edizione. Mancano pochi giorni all’evento non previsto in
cartellone e si lavora giorno e notte, i laboratori e sartoria non
risparmiano straordinari, in palcoscenico si costruisce e si dipinge
negli orari di chiusura sotto lo sguardo vigile dei vigili del fuoco a
cui è demandato il servizio di sicurezza. Si cena tutti insieme nel
non lontano ristorante cinese e per noi tutti resterà un ricordo
indelebile. In poche settimane l’opera è in scena e la serata:
memorabile. Ambientato in una periferia degradata il nuovo
allestimento è popolato da saltimbanchi, puttane e la tragedia tra
finzione e realtà si svolge implacabilmente sotto i piloni di
un’autostrada: un trionfo e Zeffirelli non mancò di osservare che era
ben capace di uscire da un’ambientazione tradizionale e di presentare
un allestimento ambientato ai nostri giorni, importante è «saperlo
fare». E’ lo stesso allestimento che nel marzo del 2018 sarà
presentato in tournée con l’Opera di Roma alla Royal Opera House di
Muscat nell’Oman.  «Ho una lunga storia con l’Opera – ricorda sempre
Zeffirelli -. Vi approdai nel 1963 con un Falstaff diretto da Giulini
e solo negli ultimi anni vi ho fatto 5 titoli tra cui la Tosca del
centenario, Don Giovanni e naturalmente questi Pagliacci. Sono malato
di Puccini, ma anche i Pagliacci li ho sempre amati. A Roma fui
costretto a montarli in 20 giorni con uno sforzo incredibile».  La
collaborazione con il Teatro dell’Opera nel sodalizio
Zeffirelli-Cresci prosegue e l’obbiettivo è di portare a Roma da
Milano due capisaldi del lavoro di Zeffirelli, La Bohème e Aida dal
Teatro alla Scala, allestimenti in parte dipinti e realizzati con
materiale deteriorabile. La Bohème era andata in scena alla Scala
circa 410 volte; per Aida all’epoca ci si era avvalsi della
collaborazione dello scenografo-pittore e costumista, forse uno dei
più dotati di tutto il Novecento: Lilla De Nobili. L’accordo è fatto e
i favolosi laboratori di via dei Cerchi compiono il miracolo, si
convince Lilla De Nobili a lasciare per alcune settimane il suo
appartamento popolato da amati felini, ma l’artista dai fluenti
capelli incolti non vuole apparire e lavora di notte, entrando quasi
di nascosto negli ampi laboratori romani senza alcun supporto e aiuto,
ridipingendo e restaurando con le sue mani, i suoi pennelli, parte dei
magnifici fondali. Per La Bohème a Roma Zeffirelli volle effettuare le
modifiche soprattutto per il secondo atto. Direttore Daniel Oren,
interprete quale Rodolfo un giovane Roberto Alagna, da poco debuttante
in Italia.
Dal successo di Aida all’Opera di Roma un’oportunità che ha il segno
della storia, la proposta per l’inaugurazione del New National Theatre
di Tokyo, il primo teatro di stato voluto in Giappone, con una nuova
produzione di Aida, una celebrazione solenne per l’apertura della
nuova struttura con l’opera di Verdi, a cui si sarebbero affiancate
una nuova produzione wagneriana per il repertorio tedesco e una
composizione realizzata appositamente per l’occasione da un musicista
giapponese. Al New National Theatre era stato nominato dagli apparati
statali un Direttore artistico, a me l’incarico di Responsabile
artistico per questo particolare evento.
Inizia un lavoro che durerà oltre tre anni, vicino all’abitazione del
maestro Zeffirelli in zona Appia Pignatelli a Roma (Gallia Placidia)
viene allestito un apposito laboratorio diretto dalla costumista Anna
Anni, con la collaborazione di Anna Biagiotti, nel giardino della
villa adiacente di proprietà di Gina Lollobrigida s’insediano i
calderoni per tingere i tessuti. Si acquistano stoffe nel bazar
d’Istanbul, in Egitto, calzature nelle Marche. S’impegnano nel Lazio
due laboratori di scenografia, Zeffirelli firma anche la scene, uno
specialista per la realizzazione delle strutture “costruite” e l’altro
per i fondali dipinti. Vengono impegnati i rinomati artigiani di
Cinecittà e anche i raffinati fornitori del Massimo di Palermo che
s’impegnano a realizzare accessori preziosi. Un’impresa, si può ben
dire: “faraonica”. Il risultato è straordinario. Un vero e proprio
esercito di figuranti viene impegnato a Tokyo e preparato dagli
infaticabili assistenti Marco Gandini e Jun Aguni. Per il ballo viene
fatto ritornare a Tokyo da una tournèe in provincia un ballerino che
avevo visto in una delle danze in Schiaccianoci e che ero sicuro fosse
il giusto protagonista per il “Ballabile” del secondo atto. Le prove
sono avanzate e tutto è approntato seguendo le precise, puntigliose,
attente direttive del Maestro e poi … Zeffirelli arriva a Tokyo. Il
prezzo del biglietto aereo non è niente a confronto dell’extra
bagaglio per bauli contenenti documentazione varia, libri e ancora
libri. Il Maestro viaggiava sempre portando con sé più materiale
illustrativo possibile. All’arrivo una delegazione del Metropolitan lo
raggiunge per una ennessima, nuova produzione de La Traviata e come
per incanto dalla matita di Zeffirelli prendono forma scene e costumi
con una festa in casa di Flora dal sapore spiccatamente andaluso. Poi
le prove in palcoscenico di Aida. Una scena alla volta, senza limiti
di tempo per la prova di regia (incredibile concessione per il
Giappone) e tutto ciò che appariva compiuto si trasformava in un’altra
cosa: solisti, coro, figuranti, tutti come in una metamorfosi si
tramutavano in antichi egizi nell’incanto della musica di Giuseppe
Verdi, sotto l’attenta guida di Zeffirelli, come incantati. Un altro
ricordo che mi è d’obligo citare: durante una prova di Aida si scatenò
a Tokyo un’eccezionale bufera di neve. Tokyo è una delle città più
organizzate del mondo, ma non è preparata all’imprevisto.
Spaventatissimi dalla direzione ci dissero di lasciare l’edificio del
New National Theatre per tornare subito in albergo, ma Zeffirelli non
volle lasciare il lavoro. Al termine le strade erano ricoperte di
neve, non c’erano più taxi, le macchine private bloccate nei garage,
la celebrata linea di trasporti JR interrotta. Solo un’ultima corsa di
metroplitana per la stazione di Shinjuku. Ci trovammo soli e non
sapevamo come raggiungere l’hotel distante qualche centinaio di metri.
La bufera di neve c’impediva di avanzare e vedemmo ad un angolo di
strada un vecchio ombrello che sembrava abbandonato. Lo presi e come
una molla insieme all’ombrello scatto un barbone che aveva trovato
riparo in un angolino protetto, in quel pur sontuoso quartiere.
Tenemmo per noi, egoisticamente, l’ombrello, avvinghiati l’uno a
l’altro sino a raggiungere l’hotel dove tutti ci aspettavano con
ansia, ma nessuno era venuto a soccorrerci. Zeffirelli mi disse
solamente: “lo so che mi vuoi bene”. Per più giorni volle ripassare
per quella strada per trovare e ricompesare quel barbone che
involontariamente avevamo dannegiato privandolo dal riparo di un
vecchio ombrello nero. Non lo trovammo e il Maestro ne fu amareggiato.
Questo era l’uomo Franco Zeffirelli!.
Z0

“L’elisir d’amore” di Gaetano Donizetti per la prima volta a Manila: Ricordi vivaci di una produzione eccezionale, condivisi dal Maestro Vincenzo Grisostomi Travaglini

Il progetto per una nuova produzione di un’opera nelle Filippine è già di per se stesso un’avventura. Uno squarcio verso l’ignoto in una terra che è lontana non solo geograficamente, ma anche nell’identità. Tra i concetti che si apprendono nei molti viaggi vi è quello di non dare ai concetti acquisiti nella propria formazione un significato
universale, bensì avere la consapevolezza che determinate emozioni devono essere tradotte se non nella parola, soprattutto nel pensiero. Così la vicenda ha inizio, con un viaggio di sopralluogo nella popolosa capitale delle Filippine, a Manila.
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Ravi (che ci ospita nel suo blog) ed io ci trovammo così coinvolti in un lungo viaggio, ma non inusuale nella ricerca di nuove, costruttive esperienze. Ravi nasce nel Sud-Est Asiatico, in Cambogia e nonostante le sue convinzioni di stampo razionalistico-francese possiede tutta l’enigmaticità dell’Oriente. E’ stato lui, membro della Famiglia Reale Khmer, a spingermi nell’entusiasmo di questa impresa, per un maggiore coinvolgimento nel Sud-Est Asiatico e memore dell’impegno di suo nonno, il Principe Norodom Monissara,  nell’aprire la prima rappresentanza diplomatica cambogiana a Manila.
Con fierezza abbiamo indossato il prezioso Barong offerto dalla signora Tantoco, che è l’abito di rappresentanza tipico di quella tradizione.
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Dalla mia parte per poter operare dovevo inizialmente riuscire a convincermi una volta di più della vastità di un continente e che le Filippine sono ben distanti da un operoso Giappone dove ho avuto tante soddisfazioni professionali, da una sconfinata Cina di Pechino o di Shanghai o ancora dalla creatività cambogiana. Una realtà a parte, come l’identità di ogni territorio.
extra 03 L'elisir d'amore Manila, Rachelle Gerodias-Park, Elena Monti, Coro
Punto di riferimento a Manila il CCP, Cultural Center of Philippine, edificato negli anni Sessanta sotto la presidenza di Ferdinand Marcos, sostenuto per la cultura dalla consorte Imelda Marcos. Sono stato sempre affascinato del coinvolgimento dell’Oriente nella cultura musicale, in particolare italiana. Un motivo in più per riflettere sull’internazionalità di questo messaggio che viene recepito con sensibilità nell’ambito di tradizioni tanto lontane. A Manila, nei decenni scorsi, si sono esibiti solisti famosi, da
Luciano Pavarotti a Montserrat Caballé e il tenore Placido Domingo che è stato interprete di una memorabile “Turandot” con Eva Marton, per la regia di Giampaolo Lomi, regista principalmente nel campo cinematografico, che nel suo legame con le Filippine è stato il
promotore del nostro coinvolgimento nell’attuale iniziativa. A raccogliere la proposta la signora Zenaida Tantoco, presidente dell’Associazione Filippine – Italia, nella ricorrenza dei 70 anni delle relazioni bilaterali tra i due Paesi.
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Questa l’ufficialità a cui seguono le molte emozioni: l’arrivo dopo un lungo viaggio, lo snodarsi di strade in un calore tropicale appena mitigato da una brezza che si fingeva refrigerante; soprattutto la curiosità dell’immenso edificio del CCP, sede di una vivace attività, con spazi teatrali inaspettati. Un palcoscenico efficiente e una collaborazione assoluta. La sera, in occasione di un concerto, il primo impatto con la Philippine Philharmonic Orchestra, ben sapendo del lavoro di formazione che a metà degli anni Settanta compì il maestro Franco Ferrara, dopo il suo viaggio in Giappone. Una realtà affascinante si apriva ai nostri occhi per un progetto che si voleva di stampo italiano. L’idea era quella di coinvolgere amici, stimati professionisti quali Maurizio Varamo del Teatro dell’Opera di Roma per le scene e Otello Camponeschi per i costumi; sempre disponibili si sono messi al lavoro per bozzetti e figurini. La scelta dell’opera era stata risolta dalla signora Tantoco che aveva prediletto “L’elisir d’amore” di Gaetano Donizetti, melodramma giocoso mai eseguito nelle Filippine. L’azione è genericamente collocata da Eugène Scribe nelle Asturie, ma è ben noto che il librettista Felice Romani e soprattutto il
compositore bergamasco la pensarono nelle terre lombarde. La proposta ci portava sulle rive del Pacifico e per dare una più decisa connotazione si è pensato al fascino di una Roma agli albori dell’Ottocento, tratta dagli espressivi disegni di Bartolomeo Pinelli.
Questa l’ambientazione!
L'elisir_d_amore_Manila 08 Francesco Vultaggio
Il costruttore per le scene è  Mio infante; di passaggio a Firenze, era sceso a Roma per un incontro con la Città Eterna e i sui tesori, nell’occasione di una visita ai Laboratori di via dei Cerchi, condotta dalla maestria di Maurizio Varamo che è partecipe dei segreti della
grande scuola di scenografia.
L'elisir_d_amore_Manila 27 Elena Monti, Francesco Vultaggio
Per i costumi, la realizzazione viene affidata a Bonsai Cielo e con lei si sviluppa un particolare rapporto creativo che vede i disegni originali integrati da una solare tradizione di tessuti e di colori del folklore filippino.
L'elisir_d_amore_Manila 30, Il coro
Una nuovo allestimento richiede uno sforzo notevole e fondamentale è stato l’incontro con il Produttore Esecutivo: Nestor O. Jardin, ricco di esperienza, ha raccolto con acume e professionalità le molte, avvolte straripanti richieste, comprendendone le finalità e la giusta causa. Con lui, il maestro Raul Sunico, musicista e didatta di grande
prestigio.
L’occasione da non perdere era di presentare nella capitale un titolo operistico che, nella tradizione, si proponesse a tutti quegli stimoli che la società odierna richiede, nel saper parlare a un nuovo pubblico per lo più distante da una realtà di palcoscenico quale l’operistica.
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Mancava un tassello, la magia della luce; l’offerta è stata raccolta da Giovanni Pirandello, pronipote del drammaturgo premio Nobel per la letteratura. Un concentrato di professionalità di cui andare fieri.
Gruppo
Quindi, una compagnia di canto che avesse una precisa connotazione. Dalle Filippine era richiesta una marcata presenza italiana, ma per una più significativa collaborazione era necessaria una rappresentanza più vasta. A Manila, con il direttore d’orchestra designato, il bergamasco Ruggero Barbieri di già consolidata esperienza nel Paese, si sono ascoltati giovani cantanti, per lo più allievi del soprano Rachelle Gerodias-Park. L’idea e la proposta: avere quale partecipazione straordinaria nel ruolo di Giannetta la maestra di tante promesse, la stessa Rachelle Gerodias-Park che ben conosce il “cantare all’italiana”, grazie agli insegnamenti di Mirella Freni. Con lei per Belcore il baritono coreano Byeong In Park, che è marito dell’interprete di Giannetta, dal solido canto e presenza scenica.
L'elisir_d_amore_Manila 07 Elena Monti, Byeong In Park , David Astorga
Protagonista quale Adina, era stata indicata Elena Monti che l’anno precedente a Manila aveva acquisito notorietà con un applaudito concerto. Mancavano tenore e buffo. Quale occasione migliore per aprire a giovani promesse della lirica e ideale punto di riferimento è stata Giovanna Lomazzi, vice-presidente dell’As.Li.Co, da sempre impegnata nella promozione di talenti. Di ritorno da Sant Cruz de Tenerife, aveva ascoltato il tenore del Costa Rica, David Astorga, che subito dopo vincerà in Italia il primo premio al concorso Salice d’Oro: Nemorino.
L'elisir_d_amore_Manila 09 Francesco Vultaggio, David Astorga
Da Trapani il baritono, nell’occasione in un ruolo da “buffo”, l’istrione ciarlatano Dulcamara è Francesco Vultaggio, allievo di Simone Alaimo.
Dulcamara specifico
La compagnia era pronta. Ecco che l’alchimia inizia a prendere forma, il palcoscenico ad
animarsi e il progetto a realizzarsi! Non c’è esperienza che lasci indifferenti al nascere di una produzione; uno spettacolo sempre diverso, che nel suo dipanarsi non assomiglia a null’altro che sia stato vissuto in precedenza e le cui emozioni resteranno uniche,
perché irripetibili.
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Le prove sono sinonimo di qualità e ogni produzione è per tutti, direttore d’orchestra e regista compresi, occasione per una diversa conoscenza. Questa disponibilità è una condizione fondamentale per garantire la qualità di una rappresentazione. Si deve essere disposti a ogni condizione si venga a proporre in quel momento specifico e cambiare l’idea, quel progetto a cui ci si è così a lungo preparati, nell’attimo di un baleno. E’ da questa disponibilità sgorgano le sorprese, le più gradite come, inaspettata, la presenza del coro Tomasino formato da giovani per lo più studenti del Conservatorio. Il primo incontro è all’insegna della cautela; cosa potranno offrire in un lavoro dove la presenza del coro è richiesta nell’arco dell’intero svolgimento della vicenda, con un gusto
drammaturgico “alla francese”, ma dove la commedia partenopea è pur sempre protagonista. I ragazzi sono attenti, seguono le mie parole nella traduzione ed essenzialmente nell’interpretazione di Ravi che ha il dono di porgere i concetti restituendoli con rinnovata efficacia. Saper parlare a un coro che è pubblico e che ha sete di apprendere è più che un mestiere, è l’arte del comunicare; l’esperienza si
arricchisce d’inaspettati valori.
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Giorno dopo giorno i partecipanti tutti si trasformano in interpeti, seguono una motivazione e la trasformano in azione attraverso l’espressione del canto e la partecipazione. Non è necessario chiedere un prolungamento delle
prove, da noi in Europa impensabile, perché loro stessi, il loro maestro Ronan Ferrer, sono sempre disponibili e grati per quello che potranno imparare. Sarà emozionante, al termine delle recite, l’espressione della riconoscenza di tutti, indistintamente, soprattutto rivolta al Principe Ravi, come in ogni occasione con rispetto si rivolgevano al loro interlocutore, da asiatici ad asiatico, ma in un abbraccio universale.
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La sala prove, un “ridotto” all’interno dello stesso CCP si anima giorno dopo giorno nella metamorfosi che segue ogni realizzazione operistica, in un palcoscenico che d’incanto prende forme sino ad allora solo immaginate, dove la musica da testo scritto si sprigiona
nell’incanto di una melodia. Le sorprese si susseguono con i figuranti, giovani studenti dell’UST Conservatory, virgulti di attori pronti a immergersi in qualsiasi situazione, seguendo parola per parola, mutandosi in professionisti, sempre sorridenti. Infine,
l’apporto del ballo, elementi del Philippine Ballet Theatre per cui erano previsti due brevi interventi, all’inizio del primo e secondo atto. Ebbene, anche i danzatori si sono immersi in questo tripudio di suoni, colori e di momento in momento, riportato a una personale sensibilità, i ballerini danno vita a scene e controscene di una Roma del Pinelli di chitarroni e tamburelli, con vivacità ed eleganza, nella poesia di una realizzazione del tutto originale. La riconoscenza al coreografo Anatoly Panasyukov, che nasce alla prestigiosa scuola del Bolshoi di Mosca. Lasciarci è stato commuovente!
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La macchina teatrale era lanciata e non vi era chi non ne fosse travolto, dal direttore di scena Ed Murillo accuratamente scelto e a ragione il migliore delle Filippine. In tutto questo spettacolo nello spettacolo, a noi, a Ravi e a me, anche qualche “piccolo” privilegio come l’eccezione di poter bere un caffè in palcoscenico, altrimenti vietato. Eppure … il cuore batte sempre forte la sera del “gala”, il 7 ottobre 2017. Ci si può preparare quanto si vuole, ma il momento dell’apertura del sipario rimane un’emozione indescrivibile. Ancor più, dopo il saluto del Presidente del CCP Arseno J. Lizeso, del nostro ambasciatore Giorgio Guglielmino recentemente insediatosi a Manila a cui la volontà di rendere più incisiva la collaborazione e nel caso, musicale-culturale, tra i due Paesi. Del Presidente dell’Associazione Filippine – Italia: Zenaida Tantoco.
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L’esecuzione degli inni, Filippino e Italiano con le rispettive bandiere al lato del palcoscenico, una rappresentanza diplomatica di grande prestigio tra cui Sua Eccellenza Signora Panha Tuot, ambasciatore del Regno di Cambogia a cui la riconoscenza di aver sempre creduto in questa iniziativa. In sintesi, una serata d’onore la cui responsabilità gravava come un macigno. La soddisfazione finale: impagabile!
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Le emozioni si susseguono, il giorno dopo è previsto un “mattine”. I prezzi del “gala” sono alti perché i profitti sono destinati in beneficenza per la costruzione di una nuova Chiesa nella parrocchia apostolica di Tondo, quartier di Manila; per la domenica l’accesso è facilitato e con sorpresa gli otre 1.800 posti sono esauriti. Un pubblico eterogeneo e la nuova generazione di Filippini s’impone con energia vivificante: negli applausi calorosi, mai inopportuni; segno di una reale partecipazione, così come per la richiesta, esaudita, del “bis” de “Una furtiva lagrima”. Ero in cabina regia al momento
dell’invocazione del “bis” e durante l’interminabile applauso il responsabile del reparto aveva lanciato l’effetto luce successivo, previsto per l’ingresso del soprano, come da partitura. Il generoso David Astorga fa cenno al direttore di voler esaudire la richiesta di
ripetere la romanza e io, nel mio inglese approssimativo e in totale ignoranza del tagalog, faccio cenno al responsabile di tornare all’effetto precedente. Nello stupore del tecnico per un’azione che non potevo altrimenti spiegare, tornare a un effetto luce precedente per una ripetizione di un brano che è sinonimo di successo, mi sono
reso conto di quanto tutti questi nostri rituali fossero inconsueti e di quanto per tutti loro che ci avevano seguito nell’intenso periodo, questo lavoro che ho definito un’ “avventura” si fosse tramutato in esperienza professionale e umana; un sentimento reciproco!
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Ancor più alla fine della recita, quando tutta la compagnia è stata invitata nell’atrio per la fotografia sullo “scalone”, come dei divi degli anni ’30. Un bagliore continuo di flash, di macchine fotografiche e telefonini. Un non volersi dire “addio” che poteva essere tradotto in una linguaggio senza confini in un: “ancora una volta” e “arrivederci”!
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