27 Novembre 2022: “Dialogues des Carmélites” di Francis Poulenc apre la stagione al Teatro dell’Opera di Roma. Recensione di Vincenzo Grisostomi Travaglini.

Dialogues des Carmelites_Anna Caterina Antonacci (Madame de Croissy), Corinne Winters (Blanche) photo credits: Fabrizio Sansoni-Opera di Roma

Data simbolo è il 27 novembre, giorno dell’inaugurazione nel 1880  dell’allora Teatro Costanzi, oggi Opera, con Semiramide di Rossini, giorno prescelto dal nuovo corso della Fondazione Lirica romana quale appuntamento identificativo. Per il titolo d’apertura della stagione 2022/23, da subito, si distingue la nuova produzione de Dialogues des Carmélitesdiretta da Michele Mariotti e regia di Emma Dante, problematico quanto acclamato capolavoro di metà Novecento. Si proseguirà il 27 novembre del 2023 con Mefistofele di Arrigo Boito e nelle stagioni successive e sempre il fatidico “27” Simon Boccanegra di Giuseppe Verdi e nel 2025 Lohengrin, debutto wagneriano sia per il maestro Mariotti che per il regista Damiano Michieletto. Una prospettiva lungimirante del Massimo Capitolino, nel proposito d’imporsi con rinnovata impronta nel panorama lirico internazionale, segnatamente alla recente nomina a sovrintendente di Francesco Giambrone e all’esordio quale Direttore musicale di Michele Mariotti. Nei Dialogues des Carmélites il Maestro si afferma dal podio sostenendo con risoluzione la multiforme partitura di Francis Poulenc, consapevolmente specifico riguardo a una scrittura che si pone in bilico tra un percorso negato dall’aggressività impositiva avanguardista, in contrapposizione allo spiccato tormento creativo del musicista in dicotomia compositiva per una personalità singolare, dalle espresse convinzioni legate alla propria posizione, personale e artistica, non sempre in linea con le convenzioni.

Dialogues des Carmelites_Corinne Winters (Blanche) photo credits: Fabrizio Sansoni-Opera di Roma

Nella concertazione, Mariotti non avvalora alcuna prassi di riferimento, alieno da convenzioni esecutive, per lo più pregevoli quanto a tendenza retorica, procedendo conseguentemente per la propria strada, edotto dei tanti riferimenti e appoggi compositivi, ma senza pregiudiziali, proiettandosi nella lettura affermativa con ricerca d’espressione nell’incalzare di quel ritmo verbale che ne caratterizza lo svolgimento. Un’esecuzione ascrivibile a un austero affresco narrativo e dove richiesto, con accompagnamento “leggero” alla Schumann, nell’evidenza della parola, con segnatura di motivi simbolici e allusivi che niente hanno a che vedere con conformismi d’etichetta. Designazione, sia essa marcata quale anti-romantica o avversa all’impressionismo musicale, ma Debussy, che tanto aveva segnato la formazione di Poulenc, ne è per ammissione uno dei maggiori ispiratori, se si vuole assimilato quale precorritore esistenzialista, con particolarità nella funzione degli interludi e/o preludi, di peculiare rilievo tra il primo e secondo quadro dell’atto terzo. Ancora, a relazioni neo-classicistiche alle quali Mariotti concede pertinenza, ma che risolve con l’affermazione dell’originalità di scrittura che vi si distingue rivelatrice, nella dialogante musicalità e spessore della simbologia del suono riferito al singolo strumento o sezione di un ampio organico. Pur sempre, nel rifiuto di un’analisi semplicistica del modello artistico di riferimento estetico alla Erik Satie (ma anche Stravinskij), principale stimolo del poliedrico Gruppo dei Sei, infuso all’affermazione della scuola francese, cui Francis Poulenc aderisce con convinzione e nella scia drammaturgica di Jean Cocteau. Poeta e saggista, quest’ultimo, con il quale il compositore collaborò per il suo terzo e ultimo lavoro di palcoscenico: La voix Humaine. La vicenda de Dialogues des Carmélites si dipana in tre atti e dodici quadri, con culmine nel martirio delle sedici suore del convento delle Carmelitane Scalze che, in pieno Regime del Terrore nel 1794, s’immoleranno pur di non rinnegare la propria fede, epilogo segnato dalla problematica di relatività per la sfuggente vita terrena e di marcata, rinvenuta religiosità, concetti di testimoniata umanità che contraddistinguono la definizione di Poulenc nella ricerca d’irrealizzabile idealità. Caratteristiche dell’andamento angoscioso particolarmente marcato dalla direzione di Mariotti, evidenziate in pagine quali la straziante agonia dell’anziana priora Madame de Croissy, nella recita nell’atto secondo del Sancta Maria dell’intera comunità in sgorgante sospensione con il seguente Interludio, eseguiti in rivelante cognizione all’intensa produzione sacra di Poulenc e del linguaggio tonale che, attraverso la forma, si erige a emozione. Imperativo il conclusivo Salve Regina, intonato dalle Martiri di Compiègneal patibolo, con agghiacciante sonorità da Requiem, nello scandire al sibilo della lama della ghigliottina che ne spegne con il canto, una ad una, l’esistenza terrena, pagina di così drammatica aggressività, quanto pervasa da lucente spiritualità. All’Opera, conclusione simbiotica tra direzione e regia, enfatizzata nella ferruginosa amplificazione del tagliente sfregamento di lastre di metallo con lama d’acciaio e l’abbattersi di un velo bianco a cancellare delle martiri la visività, annullandole nella propria cornice esteriore, incombente Soeur Blanche crocifissa, ultima voce dell’Antifona.

Dialogues des Carmelites_Ewa Vesin (Madame Lidoine) photo credits: Fabrizio Sansoni-Opera di Roma

Michele Mariotti nel suo percorso direttoriale ha da sempre privilegiato la collaborazione con fautori di un palcoscenico attualizzato, nel proponimento di rendere evidente il legame di problematiche che trovino al presente un filo indissolubile perché continuativo e nei Dialogues sono individuabili specificate inquietudini che trovano nel nostro tempo piena intestazione. L’opera, che da Roma mancava dal 1991, si riferisce a un fatto storico e venne commissionata da Guido Valcarenghi, direttore della casa editrice Ricordi, sollecitato dal successo teatrale del testo di Georges Bernanos, dialoghi originalmente commissionati per una sceneggiatura destinata a un film, realizzato solo nel 1959/60 con protagonista Jeanne Moreau. Vicenda imperniata sulla novella Die Letzte am Schafott (L’ultima al patibolo) della scrittrice Gertrud von Le Fort del 1931; dialoghi, essendo mancato nel 1948 Bernanos, elaborati in libretto d’opera dallo stesso Poulenc, che ne era venuto a conoscenza per la prima volta proprio a Roma, leggendone con crescente implicazione il testo, seduto in un bar di piazza Navona. La prima assoluta in lingua italiana è datata 25 gennaio 1957 al Teatro alla Scala e quella parigina, nell’originale francese, sei mesi dopo all’Opéra. Nell’attuale proposta, in coproduzione con il Gran Teatro la Fenice, Emma Dante, nella sua indiscutibile padronanza di palcoscenico, antepone un percorso attinente a tematiche d’effetto, percorrendo a ritroso lo svolgersi della vicenda. La regista vi privilegia una ricerca tutta al femminile oltre e anche precedente alla trattazione del dramma, così come prevalentemente muliebre si pone l’unica opera seria di Poulenc, ricercando di ogni protagonista quel percorso psicologico e morale, tanto quanto di marcata fisicità, che le porterà alla scelta o costrizione conventuale. Sino all’epilogo, nello stravolgimento epocale della Rivoluzione francese, con determinazione al sacrificio. Riferendosi a dipinti d’epoca, di ogni religiosa è riportato il ritratto in abiti nobiliari da Jacques-Louis David, Ingres, François Gérard e contemporanei, ricreando una varietà di visioni esaltanti; la loro realtà a cornice del segreto nell’indefettibile vocazione.

Dialogues des Carmelites_Krystian Adam (L’aumonier du Carmel) photo credits Fabrizio Sansoni-Opera di Roma

A nudo, in resistenza concettuale a quell’essenzialità di costrizione monastica, infine enfatizzandone l’apoteosi di martirio universale distanziandosi, però, dalla spiritualità fondante la drammaturgia di Bernanos/Poulenc. Argomento prioritario, per la regia, è la violenza contro le donne, figure che svaniscono nel vuoto dietro una candida tela allo scandire della lama! Insomma, tanti altri cammini di una realtà contorta e lacerante, ma con Emma Dante è pur sempre teatro segnato da un’attualità che impone forza nella denuncia della condizione femminile. Come spesso negli allestimenti della celebre regista i movimenti mimici/coreografici sono insistenti sino all’esaurimento, a cura di Sandro Campagna. L’apparato scenico di Carmine Maringola rimanda a simbolismi di luogo e d’argomento, reclamante sovrabbondanti crocifissi, all’apologia del Cristo-donna. Con il fondamentale apporto delle luci di Cristian Zucaro, l’allestimento rende fluidità all’affastellamento attuativo imprimendovi significati o sottintesi, distinguendosi per la nitidezze di forme lineari nell’inquadrature di cornici dai molti utilizzi, eloquenti dell’ossessività narrativa, con colori riferenti lo stato emozionale dei personaggi. Raffigurazioni senza limite temporale, grate conventuali come sbarre di prigione. Piena sintonia nei costumi di Vanessa Sannino, sfarzosi abiti, tuniche e armature di combattenti alla “Giovanna d’Arco” con simil-aureole santificanti (le Carmelitane del convento di Compiègne furono beatificate da Pio X) e riferimenti molteplici, funzionali a un discorso parallelo, perché ai realizzatori non importa della semiotica cristiana, bensì personali convincimenti. Poco, nulla, aggiungono appesantimenti funebri, quali i cinquecento teschi (tipo Catacomba a Palermo o Cripta a Roma dei Cappuccini), che, piuttosto che terrificanti, appaiono farseschi. Le chincaglierie non mancano, con le pietre d’iniziazione a schiacciare sadicamente i piedi delle novizie, la loro notturna fuga liberatoria, felici pedalando biciclette gialle. Uno spettacolo avvincente, malgrado l’indifferenza a quel messaggio distinto di riflessione sul dramma della solitudine.

Dialogues des Carmelites_Krystian Adam (L’aumonier du Carmel) photo credits Fabrizio Sansoni-Opera di Roma

Nell’eclettica scrittura dell’opera non ci sono vere e proprie distinzioni nel protagonismo di ruolo, nel senso che ognuno è funzionale nella specifica comprensività delle caratteristiche metodizzanti della lingua francese, seguendo il naturale slancio ritmico delle parole con passione e coinvolgimento, pressoché un omaggio tardivo al linguaggio del grand-opéra. Da questo assunto le connesse distinzioni, come per Blanche de la Force impersonata da Corinne Winters che si colloca sempre più nel panorama internazionale per l’abnegazione a lavori richiedenti specifica e lancinante sonorità, quali a Roma Kát’a Kabanova, con ribadito successo alla recente edizione del Festival di Salisburgo, ma anche al Circo Massimo in Madama Butterfly. Il soprano statunitense, nel solco di Denise Duval alla quale Poulenc proporzionò la personalità di Blanche, si esprime con decisione, marcando le incertezze e fragilità del personaggio, nella gestione di Emma Dante intensificandone la forza interiore; con sostenuto lessico melodioso, abbandonandosi con corporea assimilazione, stilisticamente appropriata per dinamiche e malleabilità di lancinante intendimento. Di rilevante sottolineatura la determinazione con la quale annuncia al padre Marquis de la Force, l’autorevole baritono Jean-François Lapointe, l’intenzione di farsi suora: Mon père, il n’est pas d’incident si négligeable / où ne s’inscrit la volonté de Dieu e su tutt’altra intensità, ma se si vuole con consequenziale introversione alla natura dei personaggi, l’incontro in convento tra Blanche e suo fratello Chevalier de la Force, pregevolmente impersonato dal tenore Bogdan Volkov dagli accenti masnettiani, che con sottigliezza, quasi un inganno fanciullesco da confessionale, propone sottintesi stilistici di un duetto d’amore con straziante addio. Distinta percezione per Anna Caterina Antonacci, qui nella relativa vocalità invalsa all’uso comune, che nella soggettività da soprano tendente a suoni dal sapore remoto si contrae oltre il mezzosoprano espressivo aderendo all’anziana e malata Priora del Carmelo Madame Croissy: Relevez-vous, ma fille, obbligandosi nell’affermare l’interiore drammaticità del personaggio sino all’intensità vocale di contralto: Oh! oh! Dieu nous délaisse! Dieu nous renonce! Teatralmente l’artista si pone quale immagine simbolo della sofferenza, definita nello sventramento del suo essere corpo, in abito bianco, con avvolgimento e trazione degli arti in rosso sangue di parvenza iconica, tuttavia con forzatura nella regia da Skydancer. Anna Caterina Antonacci, già implicante artefice d’emozioni quale Voix nell’atto unico La voix Humaine di Poulenc al Teatro Comunale di Bologna, sempre con direttore Michele Mariotti e regista Emma Dante. Il soprano lirico spinto Ewa Vesin interpreta Madame Lidoine, nell’equilibrio delle sonorità, segnatamente soave quale succedente priora, toccante nell’accorato sostegno alle consorelle dopo la prima notte di carcere. Nella rappresentazione dell’innocenza giovanile di suor Costanze de Saint-Denis, nella tessitura da soprano leggero, ben s’identifica Emöke Baráth, per la scrittura di Poulenc esempio di definizione caratteriale nell’utilizzo di specifica tipologia vocale. Successivo modello d’evidenza timbrica caratterizzante è per Mère Marie de l’Incarnation, antinomia ben stabilita dal discordante brunito del mezzosoprano Ekaterina Gubanova. Negli ulteriori ruoli, funzionali nella numerosa compagnia tutta adeguatamente commisurata a un fondamentale equilibrio: Krystian Adam (L’Aumônier du Carmel), Alessio Verna (Le Geôlier et deuxième Commissaire), William Morgan (premier Commissaire) e Roberto Accurso (Officier). Significativo l’apporto dei giovani dal progetto Fabbrica Young Artist Program del Teatro dell’Opera: Irene Savignano (Mère Jeanne de l’Enfant-Jésus), Sara Rocchi (Soeur Mathilde) e Andrii Ganchuk (Thierry e Javelinot). Il Coro del Teatro dell’Opera di Roma specificatamente nella sezione femminile e limitatamente in quella maschile, pur nell’impegno contenuto è plasmato con meticolosità dal maestro Ciro Visco, al suo primo incarico stabile nella Fondazione.

Vincenzo Grisostomi Travaglini

27 novembre 2022

Photo credits: Fabrizio Sansoni – Opera di Roma

“Pontevedro Bank”, un’articolo del Maestro Vincenzo Grisostomi Travaglini, pubblicato in “L’Opera International Magazine”, Marzo 2019, su “Die lustige Witwe” di Franz Lehar all’Opera di Roma, 16 Aprile 2019.

L'Opera Maggio 2019

“Proposta al Gran Teatro La Fenice di Venezia per il Carnevale del 2018 la “nuova” produzione de La vedova allegra approda all’Opera di Roma in Settimana Santa 2019, confermando l’autorevole firma del regista Damiano Michieletto, più che dei librettisti Victor Léon e Leo Stein, pur sempre su musiche di Franz-Ferenc Léhar, con “variazioni”. Il manifesto è in italiano: “La vedova allegra”; in palcoscenico come voluto dal regista, però, si parla nell’originale tedesco Die lustige Witwe, con marcata dizione germanica e senza inflessioni viennesi da “Finis Austriae”. «Qualcosa che non mi piaceva in questa operetta – dichiara Michieletto – era l’ambiente dell’ambasciata» e di conseguenza il regista si è messo al lavoro per personalizzare l’azione, che cambia di luoghi e di tempo; non più i locali dell’ambasciata dell’immaginario piccolo stato del Pontevedro, non più chez Maxim’s, bensì l’interno di una piccola banca in fallimento negli anni Cinquanta, la Pontevedro Bank. Il barone Mirko Zetanon, non più ambasciatore e probabilmente neanche barone, ne è il direttore in affanno nel dover rimpinguarne il fallimentare capitale. Hanna Glawary, vedova o non vedova, è una possibile correntista dal cospicuo patrimonio e il conte Danilo Danilowitsch ne è un impiegato con funzione di “esca” per la potenziale cliente. Tutto qua! Il resto è contorno ed è spettacolo, condotto con mano ferma e sicura professionalità dall’ormai celebre, creativo regista. L’asse di questo lavoro austro-danubiano dal passo di valzer e ancora galop, marcia, mazurka, polka, polacca … e pur sempre di velata profetica malinconia, s’inclina alla potenza del denaro, che nelle intenzioni e nella realizzazione scenica è il vero protagonista di questa rivisitazione. D’altronde questo lavoro d’inizio Novecento è classificato quale operetta, dove si canta, si balla, ci si diverte. Il termine operetta (meglio Tanzoperette) è una semplificazione di genere facilmente equivocabile, sempre azzardata quando si parli dell’arte dei suoni.

Vedova allegra 1

L’alternanza di numeri cantati e recitati, sul modello dell’Opéra-comique francese e del Singspiel di area austro-tedesca, scorre fluida e nuncurante; Michieletto taglia molti dei dialoghi, alcuni passaggi risultano meno esplicativi; il secondo atto si svolge in una balera con balli, danze al sapore di un gaudioso dopoguerra al tempo di rock, perché no… con accenni a Ginger Rogers e Fred Astaire o più semplicemente in uno stabilimento della “riviera” dove si districano amori e tradimenti al suono di un’orchestrina con trascrizioni per pianoforte, mandolino e fisarmonica da Lehár, che Michieletto ha stanate in Australia. Qui Hanna canta a un microfono in stile EIAR il Lied di Vilja, la canzone della fanciulla dei boschi e tutti si infiammano con movimenti coreografati da Chiara Vecchi e luci dalle tinte ora soavi e altrimenti aggressive di Alessandro Carletti. Il terzo atto (tutt’uno con il secondo) è ambientato con scene di Paolo Fantin e costumi di Carla Teti nell’ufficio impegatizio di Danilo, rinvigorito in un’estasi dall’ebrezza di visioni parigine, quali un gruppo di Grisette dalle vocine rotte e squisitamente gioiose capeggiate da Valencienne: Lolo, Dodo, Jou-Jou, Frou-Frou, Clo-Clo, Margot guidate; non basta dal fondo appare un gruppo di travestiti da cabaret e dietro ancora una folla sperduta e immaginaria. E’ un attimo e tutto sparisce per il lieto fine. E’ spettacolo ed il colpo d’occhio efficace.
Nella prima parte vi è un grande orologio, ma il tempo è fermo, mentre nella conclusiva terza parte le lancette sono in movimento, un effetto voluto?! Nella gioiosa conclusione appare un oggetto in forma di maialino. provabilmente allegorico del salvadanaio rimpinguato dei conti correnti della Pontevedro Bank e perché non aggiungere simboli, chi più ne ha più ne metta, per il capodanno cinese per cui nel 2019 siamo nell’anno del “maiale”. Tutti sono felici e l’istituto di credito è salvo, non solo per cinico calcolo, ma con l’immancabile tocco di irrinunciabile magia che scaturisce da un’altra immagine, ovvero quella di Njegus che da impiegato di cancelleria dell’armata pontevedrina si trasforma in Cupido o qualcosa di simile, o si potrebbe simpaticamente denominarlo una corpulenta fatina Trilli, svolazzante nell’arco dell’intera rappresentazione portante un ventaglio con scritto “ti amo” da cui cosparge gente e luoghi di polvere dorata; ventaglio che in Victor Léon e Leo Stein è simbolo nel gioco degli equivoci dell’inafferrabile moralità, dell’onestà di Valencienne donna e moglie e dell’intera vicenda.

Vedova allegra 2
La distribuzione ha in parte ricalcato quella de La Fenice. Nell’insieme nessuna indulgenza al protagonismo e l’omogeneità della compagnia di canto è stato uno dei tratti caratteristici di questa produzione, con una gradita anomalia nella coppia Valencienne-Camille de Rossillon, astratti dal gioco vorticoso degli interessi bancari, microfoni di scena e simulazioni, abbandonati al canto con quella freschezza d’intenzioni che ne caratterizza l’espressività: il soprano Adriana Ferfecka e il tenore Peter Sonn. Nei ruoli protagonisti la già apprezzata a Venezia Hanna Glawari di Nadja Mchantaf, elegante nel canto e scenicamente disinvolta; dalla celebre Canzone e si è levato uno strano, fastidioso fruscio, forse l’effetto di un vecchio disco 78 giri, oppure un malededucato spettatore che ha scartato un’intera confezione di caramelle?! Avvolte sopra le righe e non particolarmente convincente il Danilo di Christoph Pohl. Indistintamente partecipi, dal dialogo fluido, il barone Mirko Zeta Franz Hawlata qui intraprendente direttore di banca, Raoul de Saint-Brioche impersonato da Marcello Nardis, il visconte de Cascada ovvero Simon Schnorr, per citare i personaggi come da libretto. Un Cupido nella rivisitazione, ovvero il Njegus, è interpretato con convinzione dall’attore Karl-Heinz Macek, anche se gran parte dei suoi interventi originali sono omessi. Del Progetto Fabbrica, giovani artisti del Teatro dell’Opera di Roma: Timofei Baranov (Bogdanowitsch) Rafaela Albuquerque (Sylviane). Irida Dragoti (Olga), Andrii Ganchuk (Pritschitsch), Sara Rocchi (Praskowia) e per concludere Roberto Maietta (Kromow).
Il coro dell’Opera ha eseguito con diligenza, maestro del coro Roberto Gabbiani.
Non particolarmente brillante l’orchestra diretta da Constantin Trinks che indulge in correttezza metrica più che in convinta stimolazione di dinamiche complesse, solo apparentemente di facile esecuzione e ancor più in un’operazione che, al contrario, avrebbe richiesto un diverso stimolo e coinvolgimento.
Elusi i difetti nell’illusione del palcoscenico si concluda con l’ammonimento dello scrittore e drammaturgo austriaco Robert Musil: «Dalle più violente esagerazioni, se lasciate a se stesse, nasce col tempo una nuova mediocrità».
Vincenzo Grisostomi Travaglini”

Teatro dell’Opera di Roma
Martedì 16 aprile 2019

La Vedova Allegra 160419