“I Teatri di Roma”, un articolo del Maestro Vincenzo Grisostomi Travaglini in “L’Opera International Magazine”, Gennaio 2021

Gli antichi teatri italiani, così ricchi di storia, sono oramai popolati da illustri fantasmi. Veri e propri castelli della musica, in essi è il segno tangibile di una tradizione che resta sempre viva e presente. Ancor più nell’oggi, a simbolo di una volontà di resistere e oltre la speranza, di tornare a fare parte dinamica della società. I mezzi di comunicazione ben suppliscono a questa mancanza, il rapporto è tenuto vivo da una vivacità di dirette o differite che si sarebbero ritenute impossibili e che oggi raggiungono lo spettatore in ogni luogo ma, non deve accadere, come afferma con preoccupazione Riccardo Muti: «(…) che il pubblico possa essersi abituato a fare a meno dei teatri, dei concerti dal vivo» e aggiungerà il maestro in occasione del Concerto di Capodanno 2021 a Vienna da lui diretto: «(…) la musica è una missione verso la società, il suo futuro e la sua salute». Perché, se dopo la pandemia Covid, nulla sarà più come prima ed è insito nello stesso concetto di evoluzione l’esigenza di cambiamento, ancor più evidente nella transizione di momenti particolarmente difficili, i valori fondamentali della nostra cultura e la loro storia devono rappresentare la radice del nuovo sviluppo.

Segno di vitalità, il deflagrare delle tante iniziative, oltre alla preziosa riproposta di registrazioni d’archivio, spettacoli lirici con artisti in presenza, concerti delle più rinomate orchestre o semplici gruppi musicali, nel ritrovarsi e lanciare, assordante, questo grido di conservazione tramite televisione (ma l’impegno potrebbe essere ancora più significativo) e soprattutto avvalendosi dello streaming, un termine riservato agli appassionati del web e oggi così familiare. La reazione è stata significativa e tra grandi eventi ed iniziative più contenute, l’apertura della stagione 2020/21, pur senza pubblico in sala, è stata mantenuta, in attesa e nella speranza di potersi ritrovare, anche se la data sembra sempre più allontanarsi. «Ci sentiamo puniti (…)», afferma il maestro Antonio Pappano e ancora Gianluca Floris presidente di Assolirica dichiara: «(…) abbiamo distrutto l’opera lirica italiana».  E’ nostro dovere, infatti, non dimenticare che la cultura musicale è un vero e proprio patrimonio artistico e architettonico; le sale teatrali in Italia, gli auditori e qualsiasi altro luogo adibito allo spettacolo sono la viva sede di una cultura musicale profondamente sentita nel nostro Paese, sognata da tutto il mondo. La Lirica che, a differenza di qualsiasi altra disciplina, ha bisogno di un rapporto tutto proprio con il pubblico, quello della mediazione dell’artista che su di un palcoscenico, attraverso la propria sensibilità, restituisce ed interpreta l’opera del compositore. E’ proprio questo salto verso i grandi ricordi della storia musicale della Capitale che mi ha catturato, riportandomi indietro nel tempo, anche sfogliando gli appunti di un libro che scrissi negli anni ’90, cogliendo l’occasione di ripercorrere la storia dei teatri a Roma. Un viaggio, il nostro, nell’intrattenimento teatrale al tempo dei Papi, un percorso che nell’ambiente romano riflette la seduzione e le contraddizioni di una corte dalla quale lo spettacolo è sempre stato amato e allo stesso tempo ripudiato.

Le porte dell’Opera sono oggi chiuse, non ci sono produzioni da commentare ed è l’occasione da non perdere per ripercorrere un cammino di secoli, tra il serio e il faceto, perché se le luci alla ribalta sono spente, l’intera città di Roma è da sempre palcoscenico. Nella Città dei Papi la storia del teatro sembra voler vivere una propria realtà composta di “passioni”, onori e povertà e la passione per lo spettacolo a Roma vanta antiche radici, sin nella città imperiale, dove numerosi si ergevano teatri per la commedia e dove la tragedia vantava ascendenti d’origine greca, ma anche anfiteatri, circhi e ogni luogo che si prestasse a tramutarsi spontaneamente in palcoscenico. Qui il gusto per l’esibirsi non subisce interruzioni e anche i pontefici nei secoli della nuova era dovettero lasciare  libertà al popolo che non aveva nessuna intenzione di sacrificare il proprio carattere godereccio, al punto che anche le processioni potevano divenire pretesto per sagre popolari.

 A Roma il teatro fiorì in tutte le sue forme; gli edifici che dal ‘600 in poi furono destinati all’intrattenimento venivano visti sia come luogo di cultura che come sede di “perversione” e per questo spesso perseguitati dall’autorità papale. Non per nulla, molti dei fabbricati della Città dei Papi, dopo il proliferare delle sale barocche in palazzi principeschi, non comparivano all’esterno con sontuose facciate, come ad esempio a Napoli o a Milano. Al contrario, si nascondevano ipocritamente tra case e casupole. Anche i principali luoghi teatrali della città settecentesca, quali il Tordinona (poi Apollo), l’Alibert, il Valle e ultimo l’Argentina, dovettero attendere perché si progettasse e realizzasse per loro una degna, sia pur sempre contenuta, facciata. I teatri brulicavano di vita dove aristocrazia e popolino spesso si trovavano ad applaudire lo stesso interprete, lo stesso spettacolo, in un mescolare da sempre tipico della romanità, dove il principe gioca a carte con il portiere avanti a un bicchiere di vino dei Castelli, altrove impensabile.

Per la costruzione del primo teatro dell’età moderna, bisogna attendere il 1513 e Papa Leone X, dell’illuminata famiglia Medici, che ne ordinerà la costruzione sul colle del Campidoglio a opera di Pietro Rosselli e Baldassarre Peruzzi. Proprio dall’erezione di questo edificio in legno si vuole indicare per l’attività teatrale la data d’inizio della Seconda Roma, ancora una volta a dimostrare, come intuito dagli antichi greci, che il teatro è il cuore e l’immagine di una città e si muove pari passo con la sua evoluzione sociale e quindi civile. Nella Roma rinascimentale anche Raffaello progetta due teatri, a Villa Madama e negli appartamenti papali di Castel Sant’Angelo. Nella città impazza il Carnevale, la cui follia vuole essere un contraltare all’umanità ideale rappresentata  dall’universale del trono di Pietro, un violento contrasto tra sacro e profano, anche questo unico nella sua natura. Roma si arricchisce, sotto la spinta di un nuovo incremento edilizio, di luoghi per lo spettacolo e nel 1606 se ne possono contare ben 52 tra quelli ospitati in palazzi aristocratici e sale pubbliche, anche improvvisate. L’attività dei teatri nella Città del Papi prende nuovi sviluppi, ma è limitata nelle intenzioni e agli umori dei pontefici. Sin dal 1558 Paolo IV Carafa avrebbe bandito le donne dai palcoscenici, che vi potranno tornare, salvo una breve parentesi sotto il pontificato di di Clemente X Altieri, solo con la Repubblica Romana del 1798 e poi con l’annessione all’impero napoleonico. Giulio Rospigliosi, futuro Clemente IX, scrive il libretto del Sant’Alessio,musicato da Stefano Landi. Papa Barberini (Urbano VIII) darà anch’egli pieno impulso al teatro e sotto il suo pontificato Bernini si troverà ad allestire spettacoli in Vaticano e a dar lustro alla sala del palazzo della famiglia del Pontefice, esibendosi quale attore, oltre che celebrato scenografo e regista. Tra i pontefici ostili a qualsiasi forma di spettacolo è Innocenzo XII Pignatelli, che dopo aver tassato i proventi dei luoghi pubblici ordina la chiusura di ogni sala. I nuovi teatri vengono ricavati avvolte disordinatamente da sale e cortili e poco si curano di essere identificati all’esterno da una facciata. Superficialità che caratterizzò sino a parte dell’800 l’edilizia teatrale a Roma, quando architetti quali il Valadier e il Carnevali si dovranno affannare per dare una dignità alle principali strutture operanti.

Così il critico Milizia in un sin troppo severo scritto dell’epoca: «Roma ha una dozzina di Teatri. Saranno tutti eccellentemente modellati sopra i suoi tanti monumenti  dell’aureo secolo di Augusto, e specialmente sul Teatro di Marcello? Così dovrebbe essere, ma è tutto il contrario. I peggiori Teatri d’Italia sono quelli di Roma, tutti irregolari e sconci nelle forme (…) e frattanto essa si crede d’avere i più bei Teatri del mondo (…)».

Nella seconda metà del ‘600 nasce a Roma la prima concreta struttura pubblica e nello stesso periodo la città si arricchisce culturalmente con la presenza di Cristina regina di Svezia, stabilitasi a Roma dopo la propria conversione e abdicazione al trono, che con la sua influenza ed apertura darà un contributo essenziale all’evoluzione culturale della città. Primo tra gli edifici teatrali pubblici di questo periodo è il Tordinona, una malfamata locanda trasformata mirabilmente in teatro dall’architetto e scultore Carlo Fontana, voluto nel 1670 dal conte Giacomo (Jacques) d’Alibert, segretario d’ambasciata della regina Cristina, sovrana che volle per sé la proprietà di cinque palchi ed il privilegio di un ingresso privato. Il Tordinona alternava periodi di splendore  ad altri di decadenza e spesso, a causa delle piene del Tevere, vi si accedeva da scomode tavole di legno, per non affondare i piedi nel fango. Ma tutto questo non impedì che fosse considerato tra i più importanti edifici della città del Sei-Settecento.

Scrive Goethe nel 1788: «Il grande teatro di Tordinona, già distrutto da un incendio è, appena ricostruito, crollato improvvisamente, e purtroppo ora non sollazza più il popolino con le sue rappresentazioni di gala e le altre meraviglie e –conclude Goethe dopo aver descritto altri luoghi di spettacolo della città- (…) La passione dei romani per il teatro è grande».

Nel 1795 il Tordinona mutò il nome in Apollo e nell’Ottocento visse stagioni di particolare fervore con “prime” a Roma di Rossini, Bellini, Donizetti e in “prima assoluta” la Matilde di Shabran di Gioachino Rossini, Il Trovatore e Un ballo in Maschera di Giuseppe Verdi, oltre al debutto italiano de La forza del destino in una forma censurata dal titolo Don Alvaro e nel Carnevale del 1854 Violetta, vero e proprio travisamento de La Traviata, che suscitò l’indignazione del compositore, il quale scrisse a Vincenzo Luccardi: «Tante grazie! Così ha guastato tutte le posizioni, tutti i caratteri. Una puttana deve sempre essere una puttana. Se nella notte splendesse il sole, non vi sarebbe più la notte. Insomma, non capiscono nulla».

Nel 1871 Roma diviene capitale del Regno d’Italia e l’Apollo corredato, così come lo sarà l’Argentina, del palco reale. Nel 1875 Giuseppe Garibaldi è a Roma per sollecitare in Parlamento la soluzione del “problema” Tevere, le cui continue alluvioni costituivano una piaga secolare per la città. Viene deciso di costruire dei muraglioni che delimitassero il corso del fiume che ne avrebbero, però, snaturato l’aspetto, obbligando alla demolizione di molti edifici costruiti lungo i suoi argini. Fra questi l’Apollo, che spegnerà definitivamente la ribalta la sera del 31 gennaio 1888 con Hamlet di Thomas.

Altro edificio teatrale di storica importanza a Roma era il Teatro d’Alibert, chiamato delle Dame, dall’uso di dedicare le opere alle dame o ai cavalieri. Voluto dal conte Antonio d’Alibert nel 1718, compiendo un progetto del padre Giacomo, fu edificato sul fabbricato di sua proprietà sito non lontano da piazza di Spagna, adibito per il gioco della pallacorda. Felicissimi i cartelloni di quegli anni e numerosi i titoli in “prima assoluta”. Su quel palcoscenico, considerato alla moda e di successo, ben presto trionfarono i castrati, tra cui il celebre Caffariello. Subito il pungente commento nella poesia popolare romana:

«Sarà dunque permesso alli villani

nello Stato Papale, impunemente

di castrare i lor figli empiamente

acciò strillin cantando in modo strano?» (di anonimo).

C’informa il compositore Ambroise Thomas, ospite alla Villa Medici di Roma e futuro Prix de Rome nel 1832: « (…) L’interno del teatro è tutto illuminato a candele, messe in lampadari o in candelabri di legno dorato posti a ciascun lato dei palchetti».  Scrive Antonio Nibby nel 1838, sempre riferendosi all’Alibert: «E’ il più vasto di tutti quelli della nostra città (…) sei ordini di comodi palchi si trovano (…) ma all’esterno non solo ha prospetto di sorta, ma più che di Teatro ha faccia da fienile (…)». Dopo vari interventi, il Teatro d’Alibert viene riedificato nel 1859 in solida muratura, ma nel 1863 un incendio lo distrugge definitivamente.

Le stagioni in tutti i teatri si aprivano in Carnevale, che prendeva l’avvio il 26 dicembre, per chiudersi rigorosamente all’inizio della Quaresima, quando nei luoghi di culto i sacerdoti indossavano i paramenti viola, a segno del periodo di lutto della Chiesa. Il colore viola è rimasto quale simbolo di negatività per l’artista che si trovava costretto a interrompere , sino alla nuova stagione, il proprio lavoro.

Nel’700 i teatri erano sempre affollatissimi e tutta Roma vi passava le sere e sino alla mezzanotte ad assistere a spettacoli in prosa, musica e danza. Di notte, nei palchi, al lume delle tante candele, si giocava a scacchi, a tombola, si organizzavano intrattenimenti e nelle sale più povere si mangiava e si beveva. I teatri ospitavano i grandi balli di Carnevale che tanto impressionarono illustri letterati e pittori del Sette-Ottocento che amavano dimorare nella città. I palchi erano dotati di una tenda che, al bisogno, poteva isolare l’interno da occhi indiscreti!..

«E’ incredibile quanto i romani tengano a recarsi agli spettacoli – appunta il Volkman nel suo saggio sull’Italia del 1777- se anche dovessero prendere in prestito il denaro e impegnare la loro roba, il marito deve condurre la moglie alcune volte all’opera durante il carnevale».

Per l’assegnazione dei palchi spesso scoppiavano delle proprie e vere risse, nonché incidenti tra i vari ambasciatori che obbligarono persino alla chiusura dei teatri. Punto d’onore del romano era comunque riuscire ad entrare gratuitamente.

Così scrive Giuseppe Gioachino Belli ne Li teatri de Roma:

«Otto Teatri fanno in sta stagione

De carnovale si me s’aricorda:

Fiani, Ornano, er Naufraggio, Pallaccorda,

Pace, Valle, Argentina e Tordinone.

Crepanica nun fa, manco er Pavone,

Ma c’è invece er casotto: e ssi ss’accorda

Quello de le quilibbre e ball’in corda,Caccia puro Libberti er bullettone (…)».

Due i teatri edificati dalla nobile famiglia Capranica: il primo nel 1679 a Santa Maria in Aquino, ricavato all’interno di un’ala nel palazzo del Cardinale  Domenico Capranica, inizialmente a uso privato e a fine Seicento aperto al pubblico. Un secondo, il Valle, costruito alle spalle del palazzo di famiglia “a la Valle”, vicino a Sant’Andrea, che prese il nome dal luogo ove il teatro venne edificato, dove nell’antichità era lo stagno di Agrippa. Il Valle venne costruito su progetto dell’architetto Tommaso Morelli e inaugurato nel 1727. Molte in quegli anni le “prime assolute” di opere in musica che resteranno nella storia della composizione. Non sempre gli spettacoli dovevano esservi allestiti, però, con ricchezza di mezzi, se si arrivò nel 1802 a multare l’impresario De Santis di 1.000 scudi per aver proposto al pubblico una compagnia scadente.

«Li Teatri de Roma sò ariuperti,

Ciovè la Valle e ‘r teatrino Fiani.

In quanto a Cassandrino li Romani

Dicheno a chi ce va: “Lei se diverti”.

Ma ppe la Valle state puro certi

Che manco se farebbe a li villani.

Madonna, che cantà! Cristo che cani!

Peggio assai de li gatti de Libberti!» (Giuseppe Gioachino Belli da Li teatri de primavera).

Dopo il rifacimento del 1791, Gioachino Rossini scrisse appositamente per il Valle Demetrio e Polibio, Torvaldo e Dorliska e nel 1817 qui la “prima assoluta” de La Cenerentola.

Una curiosità, l’ingresso al palco centrale del Valle, di proprietà della famiglia Capranica, era situato nel cortile del palazzo e venne fatto murare da un amministratore dei marchesi dopo la proclamazione delle Repubblica, in occasione di un’annunciata visita del Presidente Enrico De Nicola, che non poté usufruirne.

Il Valle dopo alterne vicende, tra cui l’occupazione nel 2011 da un gruppo di lavoratori dello spettacolo, passa di proprietà dallo Stato al Comune di Roma che ne cura un minuzioso restauro, ma a tutt’oggi le luci della ribalta restano scandalosamente spente.

L’Argentina, voluto dal duca Giuseppe Sforza Cesarini, è l’ultimo dei principali teatri romani prima del Costanzi, edificato dopo più di un secolo e mezzo nel 1880. L’inaugurazione dell’Argentina è del 13 gennaio 1732 con Berenice, musica di Domenico Sarro. Nei primi anni si privilegiano nei programmi drammi in prosa con Intermezzi musicali, che dal 1739 cedono il passo alla lirica. Nel suo repertorio figura l’opera seria, considerata un genere più aristocratico rispetto alla più popolare opera buffa, ma vi primeggiano anche spettacoli di ballo con l’illustre famiglia dei Viganò. Più di 150 “prime assolute” costituiscono la ricca dote del nuovo, prestigioso palcoscenico romano. Protagonisti di quegli anni Alessandro Scarlatti, Gluck, Paisiello, Cimarosa e sovrano incontrastato dell’opera seria è il librettista Metastasio. Dopo aver vissuto intensamente gli anni napoleonici con il primo esperimento della Repubblica Romana, il ritorno al potere temporale e l’arresto da parte delle truppe francesi di Pio VII Chiaramonti, il Nobil Teatro di Torre Argentina torna  alla musica con il fiasco solenne, nel 1816, della “prima assoluta”  de Il barbiere di Siviglia (Almaviva o sia l’inutile precauzione) di Gioachino Rossini. Nel 1837 va in scena Lucia di Lammermoor di Donizetti con protagonista il soprano Giuseppina Strepponi, futura moglie di Giuseppe Verdi (la “prima” romana è dell’anno precedente al Valle). Del maestro di Busseto nel 1844 viene eseguita in “prima assoluta” l’opera I due Foscari. Acceso da risorgimentale fervore sull’esperienza mazziniana della Seconda Repubblica Romana, il palcoscenico dell’Argentina accoglie un’altra prima assoluta verdiana La battaglia di Legnano (1849). In quella storica serata erano presenti in sala Garibaldi e Mameli ed i palchi erano tutti addobbati con stoffe tricolori, così come nastri bianchi rossi e verdi primeggiavano nelle acconciature delle signore. L’Argentina segue da protagonista i grandi mutamenti politici di quegli anni ed il Teatro, usato anche quale spazio per riunioni, spesso viene chiuso per paura di disordini. La vita dell’Argentina è destinata, però, a mutare radicalmente nel 1869, proclamata l’Unità d’Italia, con la vendita del Teatro al Comune. E’ la vigilia dell’annessione di Roma all’Italia (1870) e l’anno successivo viene decretata la sua elezione a capitale. Anche per l’Argentina è tempo di edificare il palco reale. Indispensabile per Roma è ora di poter contare su di un grande teatro di rappresentanza ed il Comune, nell’impossibilità di garantire un finanziamento adeguato per la costruzione di un nuovo edificio, decide la ristrutturazione dell’Argentina. Nel febbraio 1888, alla sua riapertura, la Regina Margherita commenta soddisfatta: «di una baracca avete fatto un Teatro».

Iniziano le prime polemiche sull’opportunità di concedere sovvenzionamenti pubblici a sostegno del “Comunale”, mentre si vengono pian piano a creare presupposti, assai sdrucciolevoli, di un sistema teatrale pubblico. Discussioni anche discordi che porteranno tra innumerevoli difficoltà, dopo oltre mezzo secolo, al superamento della formula dell’impresariato e alla nascita dell’Ente Lirico.

Particolarità del tutto romana era stata, infatti, l’impossibilità, dalla seconda metà del Settecento in poi, di edificare un grande teatro alla stregua con l’evolversi dei tempi. Ci aveva provato, come detto, il Valadier e con lui tanti altri celebri architetti e sino all’Unità d’Italia, quando con il riconoscimento di Roma a capitale si era sentita ancora più evidente la necessità di poter contare su di un teatro di rappresentanza. La città, intesa come nucleo sociale, andava disgregandosi e né l’Amministrazione comunale, né il Governo riuscivano a varare importanti progetti, come al contrario avveniva a Vienna e Parigi. L’esigenza di un edificio per spettacoli che avesse funzioni di rappresentanza, nuovo per la città, venne raccolto da un privato, Domenico Costanzi, un uomo che doveva la sua ricchezza a fortunati investimenti nell’edilizia, che tra innumerevoli difficoltà riuscirà con le sue forze a edificare un grande e sfarzoso teatro cittadino. Lo volle costruire nel quartiere alto al Viminale, là dove aveva concentrato i suoi investimenti, lontano, quindi, dai quartieri storci della città. Il progetto risultò subito inviso alla popolazione della Roma ex-papalina e la sua collocazione scomoda e inopportuna. Il Comune, sotto la pressione delle forze più tradizionaliste, aveva ignorato Domenico Costanzi, approvando la funzione pubblica di Massimo teatro lirico romano unicamente per l’Argentina e l’Apollo, non riconoscendo le potenzialità della nuova elegante sala destinata alle rappresentazioni operistiche. L’Apollo era, però, uscito di scena per l’ “infame” decreto di demolizione e l’Argentina restava solo contro il Costanzi. La situazione dell’Argentina divenne sempre più critica e la sua tradizione lirica era destinata a interrompersi, nella continuità, dalla stagione 1898/99, a causa di una serie di incidenti artistici e difficoltà finanziarie. Non avendo il Comune ritenuto di accordare altri contributi l’impresa falliva: «Mentre era in tutti penetrata la convinzione che le sorti del Teatro comunale, fin qui così depresse, si sarebbero in questo scorcio di stagione risollevate (…) si annunciata improvvisamente che tutto è finito (…)» (da La Tribuna).

Il Teatro Argentina, dopo vari restauri, infelice quello “iconoclasta” del 1967, è tornato nel 1993 all’antico splendore grazie all’intervento dell’architetto Paolo Portoghesi ed è oggi sede dello Stabile: Teatro di Roma.

Con il passare degli anni, tra fine Ottocento e inizio Novecento, la realtà del Costanzi era andata sempre più affermandosi, mancando a Roma un teatro di più vaste dimensioni, aperto nel cartellone a una visione più ampia del panorama musicale europeo. Questa realtà s’impose di diritto, ma troppo tardi per Domenico Costanzi, che per compiere l’ambizioso progetto, deluso lungo il percorso dai negati appoggi pubblici e privati, vi aveva investito la propria fortuna, sino a trovarsi in rovina, solo e abbandonato da tutti. Il Costanzi divenne il Massimo della capitale, ristrutturato da Marcello Piacentini, a cui era stato negato il progetto per l’edificazione di un nuovo teatro, fu nuovamente inaugurato nel 1928 quale Teatro Reale dell’Opera con il Nerone di Boito; dall’avvento della Repubblica nel 1946 rinominato: Teatro dell’Opera. Nella sala voluta e finanziata dall’imprenditore Domenico Costanzi, all’indomani dell’elezione di Roma a capitale, di quell’edificio che oggi porta il nome di Teatro dell’Opera, sono passate intere generazioni di artisti e di dirigenti così che l‘edificio ha vissuto, pur sempre nella prospettiva di sequenze infinite anch’esse pullulanti di leggende e di fantasmi, in una sua propria e caratterizzante vicenda nel realizzarsi di fatti, soprattutto concreti, che si sono susseguiti vertiginosamente, evolvendosi nel tempo e sino al presente, all’incerta stagione 2020/21 … L’Opera riaprirà al suo pubblico, superata l’emergenza sanitaria, in attesa del sorgere di un nuovo giorno, rinnovando il suo rapporto, tutto proprio, con il pubblico, quello della mediazione dell’artista che su di un palcoscenico, attraverso la propria sensibilità, che restituisce ed interpreta l’opera del compositore. Ogni rappresentazione, ogni esecuzione, infatti, è unica ed irrepetibile e la storia delle nostre sale è scandita da tutte le serate nelle quali il sipario si alza e la ribalta s’illumina. Il Teatro non è quindi un museo, bensì un luogo dove si ripete un dramma, una commedia in musica, il dipanarsi di una sinfonia, il rituale di un concerto che, per essere eseguiti, hanno bisogno di una cura tutta speciale. Questa particolarità è anche il suo fascino. Frequentare un palcoscenico è un momento magico, come, nella fiaba di Alice nel paese delle meraviglie, quando la fanciulla attraverso lo specchio, al di là del mondo, dove tutto diviene possibile, così in un teatro, perché qui il tempo e lo spazio vi assumono, magicamente, nuovi ritmi e infiniti orizzonti.

Vincenzo Grisostomi Travaglini