“Lo splendore di una grande partitura”, un’articolo del Maestro Vincenzo Grisostomi Travaglini, pubblicato in “L’Opera International Magazine”, Gennaio 2020

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C’era molta attesa per l’apertura della stagione del Teatro dell’Opera di Roma 2019/20, con Daniele Gatti per la quarta volta sul podio, ma al debutto nello spettacolo inaugurale quale Direttore musicale. E la sorpresa c’è stata, non tanto nell’indubbio talento del maestro, quanto per la sua capacità di coinvolgere tutte le forze produttive della Fondazione romana e prime fra queste una ritrovata Orchestra, come non la sentivamo da anni e un possente Coro. La scelta del titolo è temeraria: Les vêpres siciliennes, un lavoro complesso, di una maturità artistica di Giuseppe Verdi che per la prima volta si affaccia alla ribalta parigina del grand-opéra. Per Eugène Scribe, autore del libretto con Charles Duveyrier e per Giuseppe Verdi stesso, l’evento rivoluzione era da riproporsi nell’amplificazione propria dell’opera, immettendo nel teatro musicale romantico e in particolare nel grand-opéra  il grandioso e il terribile, appartenenti al tempo vissuto ed è proprio l’irruzione della storia che nel melodramma caratterizza gli sviluppi del teatro musicale, da Spontini a Meyerbeer. Scribe lavora in questa direzione imponendo all’avvenimento storico, anche se non concepito nella realtà dei fatti, la dimensione epica della spettacolarità. Nella stesura del libretto Verdi, eppure, non accetterà un concetto dell’opera così come voluto da Scribe. Il compositore leggerà e si documenterà sulla storia del Vespro: Verdi, sembrerà chiedersi se esistano soluzioni diverse per raggiungere quell’ideale di pur irrinunciabile “libertà”, ma non troverà in questo suo lavoro una risposta, come dimostra il finale stretto nei tempi, che conclude una partitura tra le più articolate.
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Daniele Gatti sin dal Largo introduttivo dell’Ouverture richiama l’attenzione per una comunicazione attenta tra orchestra e pubblico, all’apparenza eccessivamente misurata, per poi deflagrare dall’Allegro agitato in un turbinio d’emozioni melodiche di un linguaggio tutto musicale, di esposizione e di richiami che quell’orchestra che Verdi aveva scoperto a Parigi offriva, con nuove possibilità di dialogo. La direzione di Gatti è determinata, scevrà da facili effetti e immersa in quella pulsante espressività, ora intesa a riverberante l’umana passione, il dolore e la voluttà, nella tensione della rivelazione musicale. Così lucidamente “spietata” nel contrapporre alla melodia quelle sezioni dei gravi che insinuano alla rivolta, al mantenere viva in orchestra quanto in palcoscenico quella tensione ininterrotta che sfocierà in tragedia. Nell’insieme anche la proposta del Divertissement nell’originale terzo atto (qui seconda parte), così come da tradizione del grand-opéra (circa mezz’ora di musica), acquista un senso di compiutezza, purtroppo non esaurientemente recepita nel suo valore di grande spettacolo dal versante registico-coreografico.
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Tutto questo è compiuto dal direttore Daniele Gatti con l’Orchestra dell’Opera, nei possenti cori e dagli ottimi solisti (con parziale eccezione del soprano), con emozionante coinvolgimento e coerenza, senza alcun cedimento. Ad apertura di sipario il Coro dell’Opera con organico pieno con l’iniziale: Beau pays de France! raggiunge la sala come in un abbraccio di struggente poetica e di forza passionale, per poi confermarsi quale protagonsita con espressività nei tanti interventi di diverso carattere imposti da una partitura di così ampio respiro; maestro del coro Roberto Gabbiani. Tra gli interpreti svetta la professionalità di Roberto Frontali, tormentato Montfort in cui si evidenzia uno dei temi mai sopiti in Verdi, del rapporto di un non realizzato sentimento paterno, qui reso più complesso dai conflitti di una vicenda dai caratteri molteplici che nella scrittura richiedono al baritono verdiamo l’eperienza di un’intero percorso artistico, perché alla laboriosità della trama, dal tiranno crudele, agli affetti irealizzabili, si deve rispondere con altrettante sfumature e sovrapposizioni timbriche, modulate da Frontali in perfetto equilibrio. Altro ruolo principale è quello di Procida, qui affidato alle sottigliezze di Michele Pertusi, che a stento raffrena un istinto aggressivo in: Et toi, Palerme, poi rivelandosi appieno nell’intero arco dell’opera, nella sua determinazione di patriottismo estremo e perfida manipolazione, in un crescendo di esemplare autorità vocale. Degni di nota il Quatuor: Adieu, mon pays e gli “incisi” dell’Ensemble del finale quarto: O surprise! ô mystère! ; di una tale violenza e penetrazione quale ritroveremo solo negli accenti del Don Carlos,così come nel Trio: Sort fatal e Scène: Ah! venez compatir à ma douleur mortelle!. Perché ne Les vêpres siciliennes non tutto è come appare e il bene, come in Procida, può essere manipolato quale strumento contrario. Vittime di cotanti carnefici, di un padre estraneo e di un patriottismo fatale, è il personaggio di Henri che si abbandona a emissioni di stampo belcantistico che allo stesso tempo richiedono forte tempra vocale, qui tratteggiato alla perfezione da John Osborn. Tra tante personalità artistiche, la meno esperta Roberta Mantegna che in di Hélène stenta a trovare un proprio equilibrio in un ruolo che non può essere risolto solamente con indubbia qualità di emissione, da: Au sein des mers alla celebre Sicilienne: Merci, jeunes amie, è in difficoltà nel definire il confine tra agilità espressiva e più intensa drammaticità. La compagnia nel suo insieme è senza ombre, con Saverio Fiore (Thibault), Francesco Pittari (Daniéli), Daniele Centra (Mainfroid), Alessio Verna (Robert), Dario Russo (Le sire de Béthune) e infine per Le comte de Vaudemont Andrii Ganchuk del Progetto Fabbrica. La scenografia di Richard Peduzzi è suggestiva, presenta elementi dinamici per una Sicilia simbolicamente scultorea e pittorica, che riporta nei tratti essenziali a De Chirico e nelle suggestioni culturali a Guttuso, con cura particolare dei volumi e delle forme che ripropongono nell’essenzialità geometrica, ora di una cattedrale o di una chiesetta dal campanile ruinato dal tempo o dalla violenza di una terra vulcanica, di case e casupole; nel poderoso Ensemble: O fête brillante! caratterizzando la scena con seducenti teli variopinti. Costumi impersonali, di militari e popolo all’incirca degli anni quaranta del ‘900, di Luis F. Carvalho. Luci dalle alterne soluzioni, ora astratte con tinte surreali, altrimenti indeterminate e sempre d’effetto, realizzate da Peter van Praet.

Purtroppo tutto questo imponente lavoro non è appieno condiviso dalle scelte registiche di Valentina Carrasco, nativa di Buenos Aires. L’azione è attualizzata, forse alla Spagna franchista o pensata all’Argentina dei generali, accentrando l’interesse sulla violenza del regime nei confronti della donna. Il tema è pertinente, perché il protagonista Henri e figlio nato dallo stupro subito da una donna siciliana, violentata dal crudele governatore in Sicilia Guy de Montfort. Una situazione che permette a Verdi con la guida di Scribe di riproporre in musica la dualità tra conflitto interiore e afflizione del singolo e politica oppressiva. L’argomento della violenza sulle donne è, purtroppo, quanto mai attuale e sensibile, ma ripresentarlo ossessivamente in scena, ignorando il più ampio respiro drammaturgico e innovazione artistica della composizione, appare per lo meno riduttivo, ancor più perché il lavoro su solisti e coro appare ben poco efficace. Poco convincente, inoltre, la mano della regista che s’impone quale coreografa con Massimiliano Volpini per l’ampio Divertissement intitolato Les Saisons. Non ci si aspettava di certo di veder danzare ninfe e fauni come riportato nel libretto, eppure il tema ripresentato di donne prese con la violenza, martoriate, nel rito dell’acqua purificatrice, nel dolore della gravidanza da cui nasceranno i futuri patrioti e liberatori dall’oppressione(almeno questa è una possibile lettura), suscita perplessità perché nella realizzazione s’impone quale negazione del concetto stesso di spettacolo. Ballabili pur realizzati con indiscusso talento dal Corpo di ballo e i giovani della Scuola di danza del Teatro dell’Opera. Si registra al termine qualche dissenso, eco di una più marcata disapprovazione la sera della “prima”. Segue l’intervento corale conclusivo del terzo atto, il quarto e quinto atto in un’edizione musicalmente ineccepibile e una conclusione che nella determinazione esecutiva trova quella ragione che drammaturgicamente sembra altrimenti sfuggire. La rivolta incombe ne Les vêpres siciliennes senza scatenarsi e solo nella conclusione emerge crudele e sinistra: il rintocco della campana, il segnale e la morte attende gli amanti Hélène e Henri, il tiranno e padre Guy de Montfort … e dopo il breve, ma incisivo coro: Oui, vengeance! vengeance! scende il sipario. Verdi non compone, infatti, musica per il finale così come proposto da Scribe e che dopo il rintocco della campana, il segnale per l’insurrezione, si raccoglieva nell’avvertimento sinistro e implacato: Frappez-les tous! Que vous importe? / Français ou bien Siciliens, / Frappez toujours! Dieu choisira les siens! ; un cieco scatenamento di odio represso senza finalità per il futuro; liberatorio, ma sterile sul piano storico, in quanto soltanto negatore.

 

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“Verdi nell’inferno di Salò”, articolo del Maestro Vincenzo Grisostomi Travaglini in “L’Opera International Magazine”, Gennaio 2019 su “Rigoletto” al Teatro dell’ Opera di Roma, recite del 6 e 9 Dicembre 2018

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“Una nuova produzione di Rigoletto musicalmente rigorosa quanto elegante, quella proposta da Daniele Gatti per l’apertura della stagione 2018/19 dell’Opera di Roma, maestro nell’occasione nominato direttore musicale del Massimo Capitolino con un incarico per tre anni, sino al 2021. La notizia è stata particolarmente apprezzata all’interno del Teatro e dal pubblico che ha accolto il maestro all’inizio e fine delle rappresentazioni con calorosi applausi.

La linea stilistica impressa da Gatti per questa sua lettura della partitura di Giuseppe Verdi è da subito lampante: elusi i legami più propriamente collegati alla radice letteraria/romantica i personaggi, nessuno escluso, sono delineati nella loro implacabile realtà teatrale e musicale, nell’indifferenza della corte e nella solitudine di un protagonista, interiorizzato nello scorrere dell’impietosa esistenza.

Inflessibile l’aderenza di Gatti all’edizione critica della Chicago University Press che gigliottina senza pietà ogni esuberanza vocale in una bonaccia espressiva di una revisione quanto mai irrinunciabile per riportare la scrittura verdiana a una più valida realtà compositiva e scevra da vizi e travisamenti accumulati in anni di mistificazione interpretativa, ma che ci pone il quesito se questa debba essere considerata quale punto di arrivo o di rinnovata partenza per una lettura consapevole, senza perdere una sia pur stilisticamente controllata vitalità di palcoscenico.

Apprezzata l’apertura di tagli che meglio stabiliscono la forma di tessitura belcantistica che in Verdi è al contrario segno di sostegno evolutivo verso una più marcata drammaticità che consegue alla scelta della radice letteraria universalmente inesorabile de Le Roi s’amuse di Victor Hugo.

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Ammalatosi alla terza recita Gatti è stato sostituito sul podio da Stefano Ranzani, in prova all’Opera per una ripresa di Tosca da dirigere il giorno seguente ed è stato particolarmente significativo l’imporsi di due personalità per un’analoga lettura, per comprendere come la specificità di ognuno marcasse così a fondo non solo il risultato in orchestra, compatta e lussureggiante con Gatti, coinvolgente e dinamica con Ranzani, entrambe letture più che efficaci, ma che questa impronta da un’unica orchestrazione curata dal titolare, potesse anche modificare con le esclusive dinamiche le finalità espressive degli interpreti e se si vuole lo stesso rapporto tra di essi.

Perfettamente nel ruolo, con un dosaggio espressivo curato in ogni frase e situazione con vocalità misurata, quanto intensa il Rigoletto di Roberto Frontali, un’immedesimazione che è anche un messaggio stilistico di equilibrio per un ruolo protagonistico che è di svolta per la definizione stessa di baritono. Lisette Oropesa è una Gilda dal carattere già maturo, musicalmente determinata se non per un penalizzante vibratino. Ismael Jordi è un Duca dalla vocalità fragile, più ardente libertino che simbolo dell’oppressione del potere. Una compagnia nel complesso di qualità e ben curata in ogni singola espressione, nella quale si sono distinti la provocante Maddalena di Alisa Kolosova e il severo Sparafucile di Riccardo Zanellato; meno autorevole Carlo Cigni quale Conte di Monterone. Completano: Irida Dragotti (Giovanna) e una sensuale, ironica Nicole Brandolino (Contessa di Ceprano); ancora: Alessio Verna (Marullo), Saverio Fiore (Borsa), Daniele Massimi (Conte di Ceprano), Leo Paul Chiarot e Michela Nardella rispettivamente Usciere e Paggio.

Appropriato, efficace il coro maschile dell’Opera di Roma, si potrebbe azzardare nella consapevolezza dell’intervento di ogni partecipante, voce e commento spietato degli eventi. Maestro del coro Roberto Gabbiani.

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La vicenda è ricondotta da Daniele Abbado alla Repubblica di Salò quale segno di fragilità politico-sociale di un periodo angoscioso della storia italiana che negli obiettivi del regista ben si addice al carattere drammatico di una storia di abiezione, dichiarazioni che non trovano un convincente riscontro se non nelle camicie nere e nelle scene costruite a multipiano che ricordano il gioco del “meccano” ovvero di costruzione infantile, con il sovrapporsi di stanzucce, scale e balconi, per un risultato altrimenti convenzionale. Scene e luci, quest’ultime efficaci di Gianni Carluccio, costumi di Francesca Livia Sartori ed Elisabetta Antico, movimenti coreografici di Simona Bucci.

E’ una scelta artistica reinterpretare i caratteri simbolici di un testo che dà il segno alla stessa genesi compositiva, quali a esempio la difformità fisica della gobba che è segno di un destino avverso, la staticità del palcoscenico nello scatenarsi degli elementi di una natura maligna che è partecipe al destino degli uomini e ancora l’umiliazione del corpo agonizzante di Gilda steso sulla nuda terra e non adagiata su un divanetto, in piedi verso l’ultimo respiro che più si addice al: “ …In me rinasce… m’agita / Insolito vigore! (…) ”, ma è la morte di Violetta e non di Gilda, con altri significati. Tutta la forza costitutiva di questo Rigoletto è fortemente evidenziata in orchestra e una mancata aderenza del palco, sia pure in scelte creative individuali, determina un vuoto esplicativo che come in questo caso ne indebolisce nel dialogo di teatro in musica, il coinvolgimento.

Vincenzo Grisostomi Travaglini

Recite del 6 e del 9 dicembre 2018

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