“Magia e Musica: la porta dei misteri”, un articolo di Sisowath Ravivaddhana Monipong nella rivista “L’Opera International Magazine” di Marzo 2021

Il legame tra magia e musica risale alle origine dell’umanità stessa, quando l’uomo viveva in stretta comunione con la natura e gli elementi. I suoni più naturali, come il canto del vento negli alberi, l’acqua del fiume che scorre verso il mare o il crepitio del fuoco, che prelude alla preghiera, hanno portato l’essere umano a innalzare la testa verso il Cielo ed entrare in comunicazione con il Divino. Dal canto, siamo arrivati all’”in-canto” per poi creare “l’in-cante-simo”, versione terrestre della potenza divina, domesticata per il volere dell’uomo, quindi la quintessenza della magia. Le percussioni sono i primi strumenti di musica a compire il ruolo di mediatore tra la terra e il Cielo. Nelle civiltà antiche del Sudest asiatico, i tamburi preludono sempre all’annuncio di un evento speciale e magico. In Cambogia, Thailandia, Laos e Birmania, l’arrivo della Divinità protettrice del Nuovo Anno è proclamato con i tamburi sacri nei templi buddisti. A Palazzo Reale di Phnom Penh, ancora oggi, l’orchestra detto Pinpeat al momento determinato dagli indovini di Corte suona l’aria Sathuka o Saluto al Divino che comincia sempre con i tamburi sacri, i Skor Thom per i spiriti della musica ed il Sampho per i geni del canto e del ballo, per poi lasciare il posto alle preghiere rituali in sanscrito. Il Sathuka è preceduto del soffio dei Baku (o brahmani di Corte) nelle conchiglie sacre per significare la presenza del Re, personificazione dell’essenza divina sulla terra. Aldilà dell’uso rituale del tamburo, esiste una cerimonia specifica che accade solo in caso di terribile siccità, quando si usa il Tamburo di Bronzo, detto della Fertilità. In quella occasione, il suono potente del tamburo di metallo deve provocare lo scioglimento delle nuvole, per fare cadere la pioggia. Un’altra cerimonia di natura proprio “magica” è l’Inizio dell’anno lunare, il Pean Yeak, durante il quale si cacciano via gli spiriti cattivi dei Yeak o giganti con delle preghiere buddiste, che possono essere paragonate a dei salmi polifonici di due gruppi di quattro bonzi seduti sotto due baldacchini da cerimonia e che cominciano a cantare le loro melopee al tramonto per finire tardi nella notte. A questa cerimonie, oltre ai bonzi e brahmani, sono ammessi solo i principi di sangue e i membri della Casa Reale.

Lasciamo l’Indocina per l’India e qui troviamo l’ottavo Avatar o incarnazione terrestre del dio Vishnu, il seducente e voluttuoso Krishna. Con la sua magnifica pelle blu e il suono incantevole del suo flauto magico, Krishna, che in sanscrito significa “affascinante” e “sublime”, ha la dote di sottomettere al suo potere chiunque sentirà le note del suo strumento divino e non manca di usarlo per sedurre le graziose pastorelle del suo villaggio. Krishna ha anche ispirato nel 1912 il compositore venezuelano Reynaldo Hahn, amico intimo di Marcel Proust, per il balletto Le Dieu Bleu, su libretto di Jean Cocteau. Questa opera, prodotta dai Balletti Russi di Sergej Djagilev, rimarrà famosa soprattutto per la meravigliosa interpretazione di Vaclav Fomič Nižinskij e i ricchi costumi di Léon Bakst. Più recentemente, tamburi e flauti indiani hanno invaso l’Occidente grazie ai seguaci del Signore Krishna, per chiedere aiuto e protezione, una tradizione molto vivace, resa popolare in Occidente dal movimento Hare Krishna negli anni 1970. Più vicino a noi, in Occidente, la tradizione della musica come arte magica risale alle civiltà precristiane, come nella Bretagna dei druidi, la Grecia antica e il canto delle Sirene nell’Odissea o la distruggente melodia del flauto del dio Pan e dei suoi satiri. Quindi, molto logicamente, per raggiungere il Divino si deve usare la musica, che apre la mente ed è fonte d’ispirazione al canto e al ballo: il canto, che dà vita e anima alla musica, è considerato come una meraviglia naturale del corpo umano, cosi compiuta da poter attrarre l’attenzione degli Dei su di noi, umili mortali e il ballo richiama la loro attenzione con il fascino carnale, creato da un mimetismo che progressivamente si trasforma in interpretazioni astratte della supplica dell’umano verso il firmamento. Il Mago, lo stregone di quei tempi, potrebbe oggi comparire nella figura emblematica del direttore d’orchestra che, con la sua gestualità misteriosa riesce a trascendere lo spartito per darne una interpretazione cosi potente e personale da fare vibrare il pubblico in una catalessi collettiva, una spiegazione al piacere intenso che ognuno di noi può sperimentare durante un concerto o una recita operistica.

Guardiamo più da vicino questo processo di catarsi musicale, rispetto alle sue origini. Questo stato secondo che porta ad una comunicazione diretta con la dimensione spirituale, la ritroviamo nei riti sciamanici di tutti i continenti: dall’America, all’Europa, passando per l’Africa e l’Asia, le tecniche sono assolutamente paragonabili. Prima di tutto, c’è la figura del maestro della cerimonia, lo stregone, il prete Vudu o il medium che dà inizio a un canto monocorde, guardando fissamente una ciotola piena d’acqua o chiudendo gli occhi di fronte a l’incandescenza di un fuoco sacro, poi cambia voce ed accoglie l’arrivo dell’entità sopranaturale, che entra in possesso del corpo ospite. A quel momento, gli iniziati si rivelano, formando un cerchio intorno al Maestro e cantano un’ “ode” (ricordiamoci che l’ode, prima di essere una poesia in forma d’elogio in versi e messo in musica, era realmente l’espressione della magia di chi ha composto il canto stesso), per poi ricevere il dono divino, che può prendere la forma di predizioni per il futuro, messaggi dall’aldilà o maledizioni in tutti i generi, pur sempre seguendo una musica codificata. Nella maggioranza dei casi, queste cerimonie erano “curative” perché richiamavano l’attenzione delle forze magiche per la guarigione di un membro della comunità o per la distruzione di un nemico dichiarato. La danza rituale che ne segue non è niente altro che la creazione del movimento necessario alla creazione del suono primordiale; quindi, il mondo procede dal movimento e la conclusione di questa relazione transitiva è che il mondo è musica.

La domanda è: perché la musica avrebbe questo potere di soggiogare attraverso la seduzione? Se ci pensiamo bene, anche un’innocente ninnananna è magica. Il canto dolce della balia porta ineccepibilmente il bambino verso il sonno, anticamera del mondo dei sogni. Il potere della voce in questo caso è totalmente magico. Nei breviari di stregoneria, tutte le formule d’incantesimo sono versificate e rispondono a una ritmica molto regolare, che permette una concentrazione tale da portare il soggetto a lasciarsi andare. Di fronte alla magia, i profani si ritrovano in posizione di neonati e devono imperativamente abbandonarsi alla forza che investe corpo e anima affinché possa operare l’incantesimo messo in musica per l’occasione. In un canto tradizionale, la parte magica è il ritornello che, tra l’altro, può essere totalmente fuori dal contesto dell’argomento della canzone stessa. Per esempio, A la claire fontaine, una canzone d’amore francese molto popolare, prende il pretesto di una fontana chiara, vicino alla quale un fanciullo si lava e poi si sdraia nudo sotto le foglie di una quercia. Il ritornello dice solo “Fa tanto tempo che ti amo, giammai ti dimenticherò”. In questo caso, lo scopo è dichiaratamente ovvio: si tratta di una manipolazione mentale per fare capire alla donna amata che deve cedere alla supplica sensuale e sentimentale. La melodia è semplice, ripetitiva, facile da rammentare … come uno slogan politico ! In effetti, i trucchi della musica magica partecipano anche della vita quotidiana, dei luoghi di potere: dai templi ai palazzi reali e presidenziali, dalle chiese ai comizi politici, ognuno ha il suo ritornello, che cambierà nome secondo il luogo: salmo, ode, incanto, tormentone estivo o motto pubblicitario. Giacomo Puccini fu uno dei grandi compositori che ha saputo incantare il suo pubblico, usando alcune formule usate in magia. La ripetizione di un tema caratteristico per ogni personaggio e l’uso drammatico della musica che richiama il tema ai momenti più tragici, rendono ancora più acuto il parossismo del pathos condiviso con il pubblico. La magia della scrittura musicale comporta in sé il riferimento alla sofferenza della protagonista: Mimi, Tosca o Madama Butterfly, scatenano in tutti noi questa emozione straziante grazie alla preparazione minuziosa e graduale che Puccini ha composto per portarci alla compassione più profonda. Ci sono anche altri compositori che legano direttamente il loro lavoro all’influenza di forze sovrannaturali: Arrigo Boito con il suo Mefistofele, Charles Gounod con Faust. L’esempio più intrigante rimane, però, Giuseppe Tartini con la sua sonata Il trillo del diavolo che, come confessato dal celebre compositore e violinista a Jérôme Lalande, un giovane francese in viaggio per il Grand Tour in Italia nel 1765, aveva sognato il diavolo in persona una notte del 1713: «Una notte sognai che avevo fatto un patto e che il diavolo era al mio servizio. Tutto mi riusciva secondo i miei desideri e le mie volontà erano sempre esaudite dal mio nuovo domestico. Immaginai di dargli il mio violino per vedere se fosse arrivato a suonarmi qualche bella aria, ma quale fu il mio stupore quando ascoltai una sonata così singolare e bella, eseguita con tanta superiorità e intelligenza che non potevo concepire nulla che le stesse al paragone. Provai tanta sorpresa, rapimento e piacere, che mi si mozzò il respiro. Fui svegliato da questa violenta sensazione e presi all’istante il mio violino, nella speranza di ritrovare una parte della musica che avevo appena ascoltato, ma invano. Il brano che composi è, in verità, il migliore che abbia mai scritto, ma è talmente al di sotto di quello che m’aveva così emozionato che avrei spaccato in due il mio violino e abbandonato per sempre la musica se mi fosse stato possibile privarmi delle gioie che mi procurava». Tartini era anche conosciuto per essere il proprietario del primo mitico violino di Antonio Stradivari e la tradizione, ancor oggi, è che soltanto i più virtuosi possano suonare su questi strumenti di gran pregio. Azzardo?

Per concludere questa passeggiata tra magia e musica, ritorniamo in Estremo Oriente, dove l’incantesimo delle note delle composizioni del balletto di corte si mischia nella quotidianità più insolita di uno sport reputato violento e plebeo: il pugilato. Il thailandese Muay Thai o il cambogiano Bokator sono due espressioni leggermente diverse dello stesso sport che si pratica pubblicamente su un “ring”, considerato come un palcoscenico che, secondo la tradizione asiatica, è uno spazio sacro, perché delimitato da un quadrato magico. Per analogia, possiamo anche riferirci, ad esempio, alle regole del Sumo giapponese, dove gli atleti di peso devono spingere l’uno contro l’altro fino a fare uscire il perdente dal cerchio magico. Per il pugilato khmer o siamese, c’è un momento d’intensa concentrazione ritmato con i tamburi sacri e un oboe tradizionale, il sralay, che accompagnano l’aria Salamar, utilizzata in magia e stregoneria. Nei balletti di corte, questo pezzo è interpretato prima di una scena di battaglia per invocare l’aiuto o la clemenza dei Dei. Nel caso del pugilato, è una invocazione diretta alle forze sopranaturali per venire a prendere possesso del corpo del pugile affinché possa vincere per la gloria dei Dei … e della sua squadra. Avvolte, nei tempi antichi, sino alla morte del perdente ! Questi incontri sono molto seguiti in Asia e danno occasione a delle scommesse molto importanti. Il pubblico, nel quale prendono posto moltissime donne, è come preso in una trance collettiva; osservare gli spettatori di un combattimento può essere, qualche volta, molto divertente. Spesso, le coppie d’innamorati vanno a vedere il combattimento come se fossero al cinema o al teatro e là, di nuovo, opera la magia dello spettacolo. L’eccitazione sale fino a creare l’esplosione finale della vittoria e una cosa è sicura: tutta l’adrenalina creata in musica finisce per avere degli effetti molto graditi dall’insieme della platea. Risultato della magia della musica sacra? Intervento del Divino? Manifestazione del Maligno? Chi lo saprà mai dire?

Sisowath Ravivaddhana Monipong

“Un ponte magico tra Italia e Cambogia: S.A.R. il Principe Sisowath Ravivaddhana Monipong ci narra la storia degli arti del palcoscenico in Cambogia.” in “L’Opera International Magazine”, Luglio – Agosto 2020

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L’importanza degli arti del palcoscenico nella civiltà cambogiana risale alla notte dei tempi, quando i Khmer espandono il loro impero dalla pianura del delta del Mekong, fino a raggiungere il sud della Cina al nord e i confini del Regno Mon di Dvaravati all’Occidente. La musica accompagnava la vita quotidiana di questi guerrieri temuti in tutta la regione e il passaggio dall’animismo originale al culto di Shiva all’inizio dell’era cristiana, ha dato un impulso ancora più importante alla sacralità della danza, del canto e della musica. Accogliendo le tradizioni dell’India meridionale, i Khmer aggiungono nuovi motivi strumentali e molti elementi coreografici dalla corrente induista. Quando, nell’anno 802, fu incoronato re Jayavarman II, si dice che la musica e la danza abbiano rallentato ritmo e cadenza, secondo l’influenza della cultura della corte giavanese, specialmente per quanto riguardava la musica nei riti sacri e di corte. Le ballerine, che incarnavano le famose Apsara, ninfe delle acque, creature primordiali nella genesi del mondo, erano vergini consacrate e totalmente dedite al servizio dei templi. Loro ballavano a torso nudo, con una gonna leggera e aperta, che facilitava i movimenti ampi e rapidi delle gambe. Dopo il ‘400 e con l’influenza della corte siamese, la coreografia khmer ha subito una serie di cambiamenti. Il canto si è modulato su più note e la musica si è conformata a una forma più dolce, seguendo le melodie dei vicini vincitori, che saranno i Signori della terra cambogiana per quasi quattro secoli. I testi delle narrazioni che accompagnano la danza si sono tramandati per secoli oralmente, così come le melodie orchestrali che seguono il canto, secondo canoni ben precisi che il musicista deve conoscere perché tramandati.  Il movimento della danza segue la musica alla quale si aggiunge la parola, il racconto! E’ la nostra tradizione che potremo confrontare con quella della lirica occidentale, dell’articolato rapporto tra musica, danza e canto, per voce maschile e femminile. E’ un processo antico, la cui struttura si perde nei secoli. Le origini sono diverse e i “fili” hanno origini territoriali. Per “filo” si potrebbe intendere un insieme di melodie che si riportano a precise strutture, raggruppate, per così dire, per “famiglia”. Le principali sono il filo Khmer, quello Thai, Lao e Birmano. Il filo Lao, ad esempio, è melodioso, armonico, fluido; quello Birmano dà più importanza al settore delle percussioni. Il filo Khmer è quello più popolare perché si riallaccia a melodie che risalgono al tempo dell’impero di Angkor, con oltre mille anni di storia e a queste tradizioni si riferiscono le attuali arie, duetti, per usare dei termini occidentali. E’ la musica a caratterizzare la scena con dei canoni immutabili e a quel preciso motivo, sviluppato di volta in volta dai nostri orchestrali, corrisponderà in scena una stessa situazione: di guerra, di conflitto, dolore, gioia oppure amore. Il Rāmāyaṇa, d’origine Indù, è la base per la rappresentazione così detta mascherata. Per il teatro muscale, in generale, i testi possono essere estratti dal Rāmāyaṇa, ma l’uso integrale del poema per un racconto è privilegio del solo Balletto Reale. Vi sono, poi, tante altre storie, tra le più famose quella intitolata Kakei (della regina infedele) scritta da re Norodom in persona. Vi è poi la musica funeraria; quella per invocare gli spiriti o per possedere un essere umano, queste forme sono eredità dell’originario animismo; ancora, quella per invocare i geni della foresta. Proprio in questo periodo una studentessa del professor Giovanni Giuriati, professore ordinario di Etnomusicologia alla Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Roma “La Sapienza”, si trova a Londra per un dottorato di terzo livello su La musica dei geni. Sono melodie molto particolari, se volessimo fare un paragone con la musica occidentale d’inizio Novecento, potremmo per azzardo dire che ci riportano a composizioni di Boulez e Poulenc. A tutt’oggi in Cambogia per l’esame di ammissione all’Accademia delle Belle Arti, ai giovani è richiesto di eseguire un pezzo intitolato Le tartarughe mangiano l’erba acquatica, un‘aria dove ogni strumento in orchestra ha un momento di scrittura solistica.

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Tutto questo si stava per perdere e in più occasioni. Con l’arrivo dei francesi nel Sud-Est Asiatico nella seconda metà dell’800, la Cambogia ritrovò il suo prestigio quale culla della cultura della pianura indocinese. Già prima, con l’accesso al trono della dinastia dei Chakri nel Siam, molte maestre di ballo a corte erano di origine Khmer e questa tradizione di scambio persisterà fino al dopo guerra, malgrado la turpitudine delle relazioni fra i due popoli. Per la musica, specialmente quella di corte, esiste un delizioso quiproquò per il quale gli attuali thailandesi chiamano una parte del loro repertorio musica khmer e in Cambogia, quella detta “di piacere del re”, è definita musica siamese! L’Occidente scoprì la tradizione musicale sacra del Regno Khmer nel 1906, quando re Sisowath di Cambogia portò con sé a Parigi alcuni elementi del Balletto Reale, sapendo perfettamente di attrarre l’attenzione dei francesi con le sue concubine danzanti, riccamente vestite e ornate di gioielli d’oro e pietre preziose. Debussy, Saint-Saëns, Ravel e lo stesso Puccini furono presi dall’incantesimo di questo spettacolo inedito e la Cambogia si troverà a essere per molti anni fonte d’ispirazione di numerosi artisti di fama internazionale, tali Rodin, Cléo de Mérode, il celebrato ballerino Nijinski, in piena moda orientalista. Nel 1931, quando si terrà la grande mostra coloniale nel Bois de Vincennes a Parigi, non solo la grandiosa ricostituzione del tempio di Angkor Wat farà la gioia dei visitatori, ma anche la grazia delle ballerine della troupe del figlio di re Sisowath, il principe Vongkat e la sua onnipotente moglie, Mam Saoy Sangvann, rapiranno il cuore dei parigini, in estasi davanti alle meraviglie di un Oriente cosi diverso, splendida distrazione dopo i tempi crudeli della grande depressione del 1929.

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Sua Altezza Reale la Principessa Norodom Buppha Devi (1943-2018) nella Danza delle Apsara.

Inevitabilmente, la Seconda Guerra Mondiale impedirà i viaggi delle nostre danzatrici sacre in Europa e soprattutto in Cambogia causerà grande tormento il furto di tutti i gioielli del Balletto, sino quasi alla scomparsa dell’arte di corte, la più sacra. Fu la madre del giovane Re Norodom Sihanouk, incoronato nel 1941, l’allora principessa Sisowath Kossamak, che sarà regina dal 1955, che decise di prendere sotto la Sua protezione i sopravvissuti del Balletto Reale. La madre del sovrano, nel parco della sua residenza, fece costruire due corpi di abitazione molto grandi, per ospitare le famiglie delle ballerine, dei musicisti e dei cantanti. La regina Kossamak aveva ordinato a tutte le concubine di suo padre, re Sisowath Monivong, di lasciare il complesso del Palazzo Reale per creare giardini e per edificare nuove costruzioni tra cui una sala appositamente dedicata all’arte della danza e della musica; quindi si dedicò alla rifondazione dell’antica arte, con la collaborazione delle maestre di ballo e dei maestri di musica, riuscendo progressivamente a far tornare il Balletto Reale allo splendore del precedente mezzo-secolo. Questo nuovo Balletto Reale doveva trovare una figura centrale che potesse consolidare sia il potere della monarchia sia il consenso artistico di tutti i sudditi del regno. La Regina con questa prospettiva politica molto sensibile, autorizzò la sua adorata nipote, la principessa Norodom Buppha Devi, figlia primogenita di re Norodom Sihanouk, a divenire la Prima Ballerina di questa nuova formazione. Tutte le antiche coreografie furono adattate al palcoscenico detto “all’italiana” e tutti i ruoli principali furono assegnati alla Principessa, che virtuosamente imparò le raffinatezze del repertorio. Allo stesso tempo, la Regina ordinò di tornare a uno stile puramente khmer e di spogliare musica e canto dall’influenza thailandese. Le maestre di canto insieme ai maestri di musica ri-scrissero tutte le partiture, ritornando alle antiche tradizioni, come ad esempio le mosse maggiormente acrobatiche del Lakhaon Khaol di Wat Svay Andèt o le melodie più ritmicamente marcate della tradizione della grande orchestra Pinpeat, aggiungendo metallofono e flauto, ai gong, xilofoni, oboe, tamburi e viole khmer. La prima volta che fu rappresentata ufficialmente questa rinascita delle arti sacre di Cambogia fu nel marzo 1956, in occasione delle feste per l’incoronazione delle Loro Maestà re Norodom Suramarit e la regina Sisowath Kossamak Nearirath Serey Vatthana. Da quel momento in poi, il Balletto Reale di Cambogia diventerà il secondo simbolo universale della civiltà Khmer, dopo il Tempio di Angkor Wat. All’inizio degli anni sessanta il Balletto Reale vivrà un momento di grande celebrità, grazie al cineasta francese Marcel Camus. Avendo appena vinto la prestigiosa “Palma d’oro” al Festival di Cannes con il suo film Orfeo Negro ambientato in Brasile, Camus voleva girare una pellicola in Cambogia sul tema dell’amore maledetto nel mondo degli arti di palcoscenico. Per avere il permesso di fare partecipare il Balletto Reale, il regista chiese udienza alla Regina Madre, che concedette la partecipazione al film del corpo di ballo e della sua Prima Ballerina, però non autorizzò che la principessa Buppha Devi ne fosse la protagonista. Di più, Camus chiese il favore di creare una tiara e un costume di Apsara, identici a quelli dei basso-rilievi del tempio di Angkor Wat e fu cosi che nacque la famosa Danza delle Apsara, coreografata dalla Regina stessa, appositamente per la nipote prediletta.

BD Neang Neak 1969
Sua Altezza Reale la Principessa Norodom Buppha Devi nel balletto della Regina dei Naga.

Lasciamo la corte reale per andare verso il Sud seguendo il Mekong, lungo il fiume Bassac. Lì si trova la patria di una forma di teatro che si apparenta maggiormente con la lirica occidentale. Gli attori, oltre a recitare e ballare, non accontentandosi di mimare i gesti che danno vita alle parole del coro, partecipano cantantando ed hanno delle bellissime voci. Diretti eredi dell’Opera di Pechino, il Lakhoan Bassac o Teatro Bassac è la versione meridionale del Lakhaon Yiké, di stampo più letterario che musicale e maggiormente legato all’impero di Angkor, con movimenti coreografici più lenti. Da rimarcare che in Cambogia ogni recita, di qualsiasi tipo di spettacolo, è sempre preceduta di una cerimonia votiva per conferire la sacralità allo spazio del palcoscenico, dove il divino si manifesterà agli occhi dei mortali.

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Un altro esempio di questa sacralità del palcoscenico si può notare anche nei combattimenti del Bokator o “pugilato cambogiano”, che, alle origini, si concludeva sempre con la morte di uno o più combattenti, da dove la necessità di consacrare lo spazio per rendere onore agli Dei per il sacrificio dei contendenti. Questa nozione di sacralità dello spazio teatrale si può spiegare con il carattere unico della recita, cioè non si può ripetere due volte la stessa emozione. Non si possono chiamare due volte gli Dei a testimoniare di uno stesso evento. Lo spettacolo sul palcoscenico è per essenza unico e rende grazia agli Dei, quindi non può essere mischiato alla massa umana del pubblico. L’elevazione della scena è dunque non solo una necessità tecnica per facilitare la visione dello spettacolo, ma anche la manifestazione della natura superiore di chi vi si esibisce. Da notare che, al contrario, nell’ambiente del Palazzo Reale, le ballerine non si esibiscono su una scena, ma al centro di uno spazio delimitato da ringhiere in forma di Naga, il mitico serpente, antenato della dinastia reale cambogiana. Il Re assiste allo spettacolo, insieme ai suoi ospiti, da una posizione più alta, privilegio e testimonianza simbolica della sua natura divina. Le ballerine, essendo consacrate al Dio Vishnu, non possono usare le loro corde vocali e quindi esercitano la loro arte, illustrando con grazia e voluttà i canti del coro, all’origine senza cantante solista, perché una voce umana sola non può rendere la potenza di un Dio che s’indirizza agli umani. In questo contesto di sacralità della scena, come spiegare l’arrivo tardivo della lirica italiana nella penisola indocinese? Malgrado alcuni tentativi di professori di musica, soprattutto di origine francese, l’opera è sempre stata rara a Phnom Penh. Nei tempi del protettorato francese (1863-1953), si andava a Saigon o Hanoi ad ascoltare opera o concerti di musica classica all’occidentale. Poi fu il tempo della guerra con gli americani, il tempo terribile del genocidio comunista e dell’invasione vietnamita, sui quali sorvoleremo per non dare il via a polemiche sterili. Aggiungo che nell’oscuro periodo dei Khmer rossi, molte maestre di ballo scrissero i canti della tradizione cambogiana sino a quel momento tramandati oralmente e per non esere scoperte nascosero le carte nell’orlo dei vestiti ed è così che si salvò un antico repertorio. Nel settembre 1993, con il ritorno di re Sihanouk sul trono e ancora di più, nel 2004, con la salita al trono di Sua Maestà il Re Norodom Sihamoni, ballerino classico e coreografo, formatosi nel periodo dell’esilio alla scuola rigorosa del Bolchoi, la lirica all’italiana fu accolta con benevolenza nel Regno delle Apsara e il sostegno reale fu ufficialmente comunicato nel corso dell’udienza ufficiale del 26 maggio 2018 che Sua Maestà il Re Sihamoni ha graziosamente concesso al maestro Vincenzo Grisostomi Travaglini, venuto a presentare il progetto di mettere in scena in Cambogia per la prima volta Cavalleria Rusticana di Pietro Mascagni, in occasione delle celebrazioni dei 65 anni di relazioni diplomatiche tra l’Impero del Sol Levante ed il Regno di Cambogia, iniziativa promossa da Cambodia Opera Project, fondato dal soprano Giapponese Ai Iwasaki. Il successo senza precedenti di questa iniziativa si è ripetuto nel 2019 con Pagliacci di Ruggero Leoncavallo, sempre con il benevolente patrocinio di Sua Maestà il Re. Ci auguriamo che l’accoglienza trionfale di un pubblico giovane permetterà alla lirica italiana di continuare a crescere nel prossimo futuro nel cuore dei Cambogiani, sempre nel rispetto delle differenze culturali, senza mai commettere l’errore, però, di una sperimentazione snaturante e ibrida della mescolanza superficiale di forme d’arte diametralmente opposte, ma nel rispetto dell’universalità della bellezza che lega due tradizioni plurisecolari quali il Balletto Reale di Cambogia e la lirica italiana ed europea.

Sisowath Ravivaddhana Monipong

 

Pagliacci Daravich

 

L'Opera Luglio Agosto 2020