“Dolce piacere: l’amore in musica”, un articolo di Sisowath Ravivaddhana Monipong nella rivista “L’Opera International Magazine” di Febbraio 2021

Le corti reali, luoghi di potere e di divertimento, costituiscono un terreno di gioco ideale per l’espressione plateale del sentimento amoroso, lecito o no, che nell’arco dei secoli, ovunque sia, svelerà tanti segreti di alcova per il grande piacere del pubblico. L’usanza dell’Amour Courtois (o corte d’amore) risale nella tradizione occidentale allo splendore dei Conti di Tolosa nel paese della Lingua d’Oc e alla sua raffinatezza in termini di poesia e di musica. In particolare, alla metà del XII° secolo, il conte Raimondo V era rinomato per il suo gusto per le arti musicali e la protezione accordata a corte ai trovatori. Tra l’altro, uno dei questi trovatori aveva provocato un scandalo importante all’austera corte di Francia, quando il re Luigi VII era sposato con Constanza d’Arles, nobildonna del meridione che proteggeva Marcabruno, un trovatore che fu cacciato dalla corte dal sovrano, dopo aver composto una romanza un pochino spinta, probabilmente in onore della regina!

In seconde nozze, Luigi VII sposò la famosa Eleonora d’Aquitania, che diventerà poi la moglie del re d’Inghilterra, portando con sé i possedimenti del Sudovest della Francia, che rimarranno inglesi per più di cinque secoli. Oltre ad essere una donna con una grande sensibilità politica, si dice che la regina Eleonora avesse un temperamento focoso che la portò ad avere una relazione intensa con uno dei trovatori protetti a corte, il galante Bernard de Ventadour, le cui opere sono ancora oggi considerate come i modelli perfetti della canzone di corteggiamento del Medioevo.

Come abbiamo notato, in Europa la tradizione dell’amore in musica a corte risale dal Sud verso il Nord e ci sarà un ulteriore esempio di questo fenomeno nel 1600, quando il re di Francia e di Navarra Enrico IV si risposò con Maria de’ Medici, che si rivelò essere una grande ballerina e amante della musica. Questo gusto la regina lo passerà a suo figlio, il futuro re Luigi XIII, che imparò a suonare il liuto all’età di tre anni sulle ginocchia di sua madre. Molto presto, il giovane principe prese interesse per la danza e suo “migliore amico” e consigliere, nonché favorito, il Duca di Luynes, ordinò la composizione di molti ballet alla gloria dell’amato sovrano. Si sussurrava che l’amore del Duca per Sua Maestà non fosse privo di un certo opportunismo, anche se la sua espressione era nota per la tenerezza e gli sguardi languidi dei due protagonisti. Tuttavia, il giovane re rimase famoso per la grazia ed il suo dono per la pavana di corte (un francesismo che significa il sapersi pavoneggiare a corte per farsi ammirare), accanto a tutti i suoi favoriti, seguendo in questo l’esempio di suo padre, Enrico IV che ordinava sempre ai migliori guerrieri della nobiltà di ballare per lui per festeggiare le vittorie militari senza, però, coltivarne l’intimità, come farà suo figlio e successore.

Sempre in Francia, il regno di Luigi XIV vedrà l’ascensione alla celebrità di un maestro di musica e di ballo di origine italiane, Jean-Baptiste de Lully. Amando appassionatamente il suo lavoro e il suo re, Lully non mancherà mai l’occasione di assecondare ogni tipo di richiesta artistica per esaltare la gloria del Re-Sole. Una storia “dolorosa” e divertente è riportata da diversi storici dell’epoca, a proposito di una composizione di Lully che rimarrà molto famosa senza essere attribuita al suo vero autore: nel 1686, Luigi XIV ha 48 anni. La regina Maria Teresa è deceduta da tre anni e il re si è risposato morganaticamente con la sua favorita, la pia e premurosa marchesa de Maintenon. Essendo particolarmente goloso, il sovrano ha una digestione difficile e subisce molti clisteri; purtroppo è venuta a formarsi una fistola anale che lo fa soffrire terribilmente. Di fronte all’incapacità dei medici di corte a sollevare il reale paziente, il suo ministro Louvois suggerì di chiamare il barbiere chirurgo di Sua Maestà, Felix, per procedere alla delicata operazione dell’ablazione della fistola. All’epoca non esisteva nessun tipo di anestesia e l’operazione durerà tre ore e farà soffrire atrocemente il re. Per accompagnare il sovrano nel suo infortunio, la marchesa de Maintenon ordinò a Lully di comporre un inno per implorare il Creatore di salvare il monarca. Fu Madame de Brinon, preside della Maison Royale de Saint Louis che ne scrisse le parole: Grand Dieu sauve le Roi che furono cantate durante l’operazione dalle Demoiselles de Saint-Cyr, giovani fanciulle di famiglie nobili povere, educate nell’istituzione creata appositamente dalla Maintenon. Haendel, di passaggio a Versailles nel 1714, sentirà il pezzo di musica, adatterà le parole in lingua inglese e lo presenterà a re Giorgio, che ne farà l’inno ufficiale della monarchia britannica. Cosi nacque il God save the King, al seguito della compassione devota della sposa del re di Francia!

Facciamo un salto nel tempo e ci ritroviamo nell’‘800 in Baviera. Nel 1846 regnava re Luigi I° della famiglia dei Wittelsbach, che darà alla posterità due altri illustrissimi sovrani, che saranno il re Luigi II e sua cugina, l’imperatrice Elisabetta, più conosciuta come Sissi. Una figura scandalosa, ma irresistibilmente affascinante, sbarcò allora dall’Inghilterra nella persona di Eliza Rosanna Gilbert, oramai famosa come la ballerina Lola Montez. Di origine irlandese, dopo aver trascorso una parte della sua infanzia in India, tornò in Inghilterra dove sposò un certo luogotenente Thomas James. Fece il suo debutto sul palcoscenico londinese come “ballerina spagnola” e diventò presto l’amica di cuore di Franz Liszt, che le darà l’occasione di conoscere il prestigioso cerchio degli amici di George Sand. Poco dopo il suo arrivo a Monaco, re Luigi I° s’innamorò follemente della ballerina e l’anno successivo le darà il titolo di Contessa di Landsfeld, il 25 agosto 1847. La sua influenza sul sovrano fu presa molto male dal popolo bavarese, Luigi I° fu forzato all’abdicazione l’anno seguente e la Montez fuggi negli Stati Uniti. Dopo molte peripezie e scandali diversi, dovuti principalmente alla sua propensione a ballare sul palcoscenico senza nessuna biancheria intima, la Montez andò in Australia nel 1855. Albert Denning compose la Lola Montez Polka dopo che la cortigiana danzante ebbe inseguito con una frusta Henry Seekamp, il caporedattore del Ballarat Times nella città eponima, che aveva scritto una recensione poco gradevole a proposito del suo ballo erotico detto del ragno davanti a 400 minatori, che chiedevano un “bis” e furono insultati violentemente dalla Montez, infuriata dalla loro mancanza di rispetto.

Lontano dalle turpitudini della corte bavarese, alla fine del secolo XIX, nell’esotica Asia del Sudest, una tragica vicenda romantica darà la nascita a un brano di musica classica che unirà per sempre nell’emozione artistica i regni dello Siam, del Laos e della Cambogia. “C’era una volta…”, perché questa storia è una fiaba che non finirà bene, con protagonista un principe reale siamese che rispondeva al dolce nome di Benbadhanabongse. Nato nel 1882, era il 38° figlio di Re Rama V Chulalongkorn e della principessa Morakot, nome che significa smeraldo in lingua siamese. Questo principe sviluppò molto presto un gusto per la musica e il canto. Malgrado questa vocazione artistica, suo padre lo mandò in Inghilterra per studiare le scienze agrarie e tornò in patria nel 1903, qui si occupò della promozione della tessitura della seta. Subito dopo essere tornato in Siam, il principe fu mandato in visita ufficiale nel principato di Chiang Mai, conosciuto per le sue sete chiamate Maatmi, dove regnava ancora una antica dinastia Lao. S’innamorò ardentemente della principessa Chomchuen, figlia preferita dei regnanti del luogo, che rispose favorevolmente al suo amore. Purtroppo i genitori respinsero la domanda del principe. Affranto dal dolore, il principe Benbadhanabongse scrisse la famosa romanza Lao Duang Deun che si potrebbe tradurre in Luna Laotiana del mio cuore, che lui stesso cantava quando sentiva la mancanza del suo amore impossibile. Rama V fece sposare quasi immediatamente suo figlio con una delle cugine, ma il principe mori tre anni dopo, sempre pensando alla donna del suo cuore. All’epoca, i due fratellastri Norodom e Sisowath, futuri re di Cambogia, dopo essere stati cresciuti insieme alla corte di Bangkok di re Rama V, portarono con Loro a palazzo reale di Phnom Penh questo pezzo di musica romantica, dove oggi è ancora eseguito sotto il nome di Reaksmey Duang Chan o Raggi della mia luna adorata.  

Più vicino a noi, alla fine del XX° secolo, c’è solo una figura reale, unica, che riuscì a scatenare un tale fervore popolare tale da ispirare musicisti e cantanti dell’epoca. Quando il principe Carlo d’Inghilterra sposò Lady Diana Spencer, nessuno poteva pensare che questa fragile e bellissima fanciulla di 19 anni avrebbe avuto un destino cosi eccezionale, quanto tragico. Non si era mai vista una principessa tanto amata dalla regina Astrid di Belgio dall’analogo destino, e quando la principessa Diana, stanca della sua disastrosa situazione matrimoniale, usci dalla riserva imposta ai membri della famiglia reale in occasione di una intervista alla televisione britannica, il popolo inglese rimase fedele all’affetto di Lad Di, che aveva osato sfidare la famosa regola del Never explain, never complain (niente spiegazione, niente lagne) dettata dalla grande regina Vittoria. Poi, fu il tempo in cui la principessa si lasciò andare al flusso imprevedibile delle passioni e diverse infatuazioni, portando con sé l’affetto di un popolo intero, che capiva il suo malessere, sino alla tragica scomparsa a Parigi nell’estate 1997. Malgrado il profumo di scandalo, la regina Elisabetta scese di persona ai cancelli di Buckingham Palace a vedere i fiori deposti a migliaia in omaggio alla principessa dei cuori. Durante il funerale, la pop star internazionale Elton John, amico intimo della principessa, fu autorizzato a cantare una delle sue più famose canzoni Candle in the wind che fu trasformato in Goodbye England’s Rose o Addio alla Rosa d’Inghilterra, non potendo ritenere le lacrime.

Dalle corte reali, dove la musica compie il suo ruolo di sostenitrice del potere monarchico, le romanze d’amore hanno trascorso i secoli, passando alla posterità molto spesso senza rivelare la prestigiosa identità degli autori o del reale mecenate che ne aveva ordinato la creazione. Chissà quante arie che cantiamo nel nostro quotidiano sono state composte per ricordare una storia d’amore tra una principessa e un contadino? La bellezza della musica di corte risiede, giustamente, nel fatto che trova quasi sempre il suo eco nella trascrizione popolare, versioni moderne di storie senza tempo che hanno saputo toccare i cuori di tutti.   

Sisowath Ravivaddhana Monipong

“Un ponte magico tra Italia e Cambogia: S.A.R. il Principe Sisowath Ravivaddhana Monipong ci narra la storia degli arti del palcoscenico in Cambogia.” in “L’Opera International Magazine”, Luglio – Agosto 2020

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L’importanza degli arti del palcoscenico nella civiltà cambogiana risale alla notte dei tempi, quando i Khmer espandono il loro impero dalla pianura del delta del Mekong, fino a raggiungere il sud della Cina al nord e i confini del Regno Mon di Dvaravati all’Occidente. La musica accompagnava la vita quotidiana di questi guerrieri temuti in tutta la regione e il passaggio dall’animismo originale al culto di Shiva all’inizio dell’era cristiana, ha dato un impulso ancora più importante alla sacralità della danza, del canto e della musica. Accogliendo le tradizioni dell’India meridionale, i Khmer aggiungono nuovi motivi strumentali e molti elementi coreografici dalla corrente induista. Quando, nell’anno 802, fu incoronato re Jayavarman II, si dice che la musica e la danza abbiano rallentato ritmo e cadenza, secondo l’influenza della cultura della corte giavanese, specialmente per quanto riguardava la musica nei riti sacri e di corte. Le ballerine, che incarnavano le famose Apsara, ninfe delle acque, creature primordiali nella genesi del mondo, erano vergini consacrate e totalmente dedite al servizio dei templi. Loro ballavano a torso nudo, con una gonna leggera e aperta, che facilitava i movimenti ampi e rapidi delle gambe. Dopo il ‘400 e con l’influenza della corte siamese, la coreografia khmer ha subito una serie di cambiamenti. Il canto si è modulato su più note e la musica si è conformata a una forma più dolce, seguendo le melodie dei vicini vincitori, che saranno i Signori della terra cambogiana per quasi quattro secoli. I testi delle narrazioni che accompagnano la danza si sono tramandati per secoli oralmente, così come le melodie orchestrali che seguono il canto, secondo canoni ben precisi che il musicista deve conoscere perché tramandati.  Il movimento della danza segue la musica alla quale si aggiunge la parola, il racconto! E’ la nostra tradizione che potremo confrontare con quella della lirica occidentale, dell’articolato rapporto tra musica, danza e canto, per voce maschile e femminile. E’ un processo antico, la cui struttura si perde nei secoli. Le origini sono diverse e i “fili” hanno origini territoriali. Per “filo” si potrebbe intendere un insieme di melodie che si riportano a precise strutture, raggruppate, per così dire, per “famiglia”. Le principali sono il filo Khmer, quello Thai, Lao e Birmano. Il filo Lao, ad esempio, è melodioso, armonico, fluido; quello Birmano dà più importanza al settore delle percussioni. Il filo Khmer è quello più popolare perché si riallaccia a melodie che risalgono al tempo dell’impero di Angkor, con oltre mille anni di storia e a queste tradizioni si riferiscono le attuali arie, duetti, per usare dei termini occidentali. E’ la musica a caratterizzare la scena con dei canoni immutabili e a quel preciso motivo, sviluppato di volta in volta dai nostri orchestrali, corrisponderà in scena una stessa situazione: di guerra, di conflitto, dolore, gioia oppure amore. Il Rāmāyaṇa, d’origine Indù, è la base per la rappresentazione così detta mascherata. Per il teatro muscale, in generale, i testi possono essere estratti dal Rāmāyaṇa, ma l’uso integrale del poema per un racconto è privilegio del solo Balletto Reale. Vi sono, poi, tante altre storie, tra le più famose quella intitolata Kakei (della regina infedele) scritta da re Norodom in persona. Vi è poi la musica funeraria; quella per invocare gli spiriti o per possedere un essere umano, queste forme sono eredità dell’originario animismo; ancora, quella per invocare i geni della foresta. Proprio in questo periodo una studentessa del professor Giovanni Giuriati, professore ordinario di Etnomusicologia alla Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Roma “La Sapienza”, si trova a Londra per un dottorato di terzo livello su La musica dei geni. Sono melodie molto particolari, se volessimo fare un paragone con la musica occidentale d’inizio Novecento, potremmo per azzardo dire che ci riportano a composizioni di Boulez e Poulenc. A tutt’oggi in Cambogia per l’esame di ammissione all’Accademia delle Belle Arti, ai giovani è richiesto di eseguire un pezzo intitolato Le tartarughe mangiano l’erba acquatica, un‘aria dove ogni strumento in orchestra ha un momento di scrittura solistica.

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Tutto questo si stava per perdere e in più occasioni. Con l’arrivo dei francesi nel Sud-Est Asiatico nella seconda metà dell’800, la Cambogia ritrovò il suo prestigio quale culla della cultura della pianura indocinese. Già prima, con l’accesso al trono della dinastia dei Chakri nel Siam, molte maestre di ballo a corte erano di origine Khmer e questa tradizione di scambio persisterà fino al dopo guerra, malgrado la turpitudine delle relazioni fra i due popoli. Per la musica, specialmente quella di corte, esiste un delizioso quiproquò per il quale gli attuali thailandesi chiamano una parte del loro repertorio musica khmer e in Cambogia, quella detta “di piacere del re”, è definita musica siamese! L’Occidente scoprì la tradizione musicale sacra del Regno Khmer nel 1906, quando re Sisowath di Cambogia portò con sé a Parigi alcuni elementi del Balletto Reale, sapendo perfettamente di attrarre l’attenzione dei francesi con le sue concubine danzanti, riccamente vestite e ornate di gioielli d’oro e pietre preziose. Debussy, Saint-Saëns, Ravel e lo stesso Puccini furono presi dall’incantesimo di questo spettacolo inedito e la Cambogia si troverà a essere per molti anni fonte d’ispirazione di numerosi artisti di fama internazionale, tali Rodin, Cléo de Mérode, il celebrato ballerino Nijinski, in piena moda orientalista. Nel 1931, quando si terrà la grande mostra coloniale nel Bois de Vincennes a Parigi, non solo la grandiosa ricostituzione del tempio di Angkor Wat farà la gioia dei visitatori, ma anche la grazia delle ballerine della troupe del figlio di re Sisowath, il principe Vongkat e la sua onnipotente moglie, Mam Saoy Sangvann, rapiranno il cuore dei parigini, in estasi davanti alle meraviglie di un Oriente cosi diverso, splendida distrazione dopo i tempi crudeli della grande depressione del 1929.

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Sua Altezza Reale la Principessa Norodom Buppha Devi (1943-2018) nella Danza delle Apsara.

Inevitabilmente, la Seconda Guerra Mondiale impedirà i viaggi delle nostre danzatrici sacre in Europa e soprattutto in Cambogia causerà grande tormento il furto di tutti i gioielli del Balletto, sino quasi alla scomparsa dell’arte di corte, la più sacra. Fu la madre del giovane Re Norodom Sihanouk, incoronato nel 1941, l’allora principessa Sisowath Kossamak, che sarà regina dal 1955, che decise di prendere sotto la Sua protezione i sopravvissuti del Balletto Reale. La madre del sovrano, nel parco della sua residenza, fece costruire due corpi di abitazione molto grandi, per ospitare le famiglie delle ballerine, dei musicisti e dei cantanti. La regina Kossamak aveva ordinato a tutte le concubine di suo padre, re Sisowath Monivong, di lasciare il complesso del Palazzo Reale per creare giardini e per edificare nuove costruzioni tra cui una sala appositamente dedicata all’arte della danza e della musica; quindi si dedicò alla rifondazione dell’antica arte, con la collaborazione delle maestre di ballo e dei maestri di musica, riuscendo progressivamente a far tornare il Balletto Reale allo splendore del precedente mezzo-secolo. Questo nuovo Balletto Reale doveva trovare una figura centrale che potesse consolidare sia il potere della monarchia sia il consenso artistico di tutti i sudditi del regno. La Regina con questa prospettiva politica molto sensibile, autorizzò la sua adorata nipote, la principessa Norodom Buppha Devi, figlia primogenita di re Norodom Sihanouk, a divenire la Prima Ballerina di questa nuova formazione. Tutte le antiche coreografie furono adattate al palcoscenico detto “all’italiana” e tutti i ruoli principali furono assegnati alla Principessa, che virtuosamente imparò le raffinatezze del repertorio. Allo stesso tempo, la Regina ordinò di tornare a uno stile puramente khmer e di spogliare musica e canto dall’influenza thailandese. Le maestre di canto insieme ai maestri di musica ri-scrissero tutte le partiture, ritornando alle antiche tradizioni, come ad esempio le mosse maggiormente acrobatiche del Lakhaon Khaol di Wat Svay Andèt o le melodie più ritmicamente marcate della tradizione della grande orchestra Pinpeat, aggiungendo metallofono e flauto, ai gong, xilofoni, oboe, tamburi e viole khmer. La prima volta che fu rappresentata ufficialmente questa rinascita delle arti sacre di Cambogia fu nel marzo 1956, in occasione delle feste per l’incoronazione delle Loro Maestà re Norodom Suramarit e la regina Sisowath Kossamak Nearirath Serey Vatthana. Da quel momento in poi, il Balletto Reale di Cambogia diventerà il secondo simbolo universale della civiltà Khmer, dopo il Tempio di Angkor Wat. All’inizio degli anni sessanta il Balletto Reale vivrà un momento di grande celebrità, grazie al cineasta francese Marcel Camus. Avendo appena vinto la prestigiosa “Palma d’oro” al Festival di Cannes con il suo film Orfeo Negro ambientato in Brasile, Camus voleva girare una pellicola in Cambogia sul tema dell’amore maledetto nel mondo degli arti di palcoscenico. Per avere il permesso di fare partecipare il Balletto Reale, il regista chiese udienza alla Regina Madre, che concedette la partecipazione al film del corpo di ballo e della sua Prima Ballerina, però non autorizzò che la principessa Buppha Devi ne fosse la protagonista. Di più, Camus chiese il favore di creare una tiara e un costume di Apsara, identici a quelli dei basso-rilievi del tempio di Angkor Wat e fu cosi che nacque la famosa Danza delle Apsara, coreografata dalla Regina stessa, appositamente per la nipote prediletta.

BD Neang Neak 1969
Sua Altezza Reale la Principessa Norodom Buppha Devi nel balletto della Regina dei Naga.

Lasciamo la corte reale per andare verso il Sud seguendo il Mekong, lungo il fiume Bassac. Lì si trova la patria di una forma di teatro che si apparenta maggiormente con la lirica occidentale. Gli attori, oltre a recitare e ballare, non accontentandosi di mimare i gesti che danno vita alle parole del coro, partecipano cantantando ed hanno delle bellissime voci. Diretti eredi dell’Opera di Pechino, il Lakhoan Bassac o Teatro Bassac è la versione meridionale del Lakhaon Yiké, di stampo più letterario che musicale e maggiormente legato all’impero di Angkor, con movimenti coreografici più lenti. Da rimarcare che in Cambogia ogni recita, di qualsiasi tipo di spettacolo, è sempre preceduta di una cerimonia votiva per conferire la sacralità allo spazio del palcoscenico, dove il divino si manifesterà agli occhi dei mortali.

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Un altro esempio di questa sacralità del palcoscenico si può notare anche nei combattimenti del Bokator o “pugilato cambogiano”, che, alle origini, si concludeva sempre con la morte di uno o più combattenti, da dove la necessità di consacrare lo spazio per rendere onore agli Dei per il sacrificio dei contendenti. Questa nozione di sacralità dello spazio teatrale si può spiegare con il carattere unico della recita, cioè non si può ripetere due volte la stessa emozione. Non si possono chiamare due volte gli Dei a testimoniare di uno stesso evento. Lo spettacolo sul palcoscenico è per essenza unico e rende grazia agli Dei, quindi non può essere mischiato alla massa umana del pubblico. L’elevazione della scena è dunque non solo una necessità tecnica per facilitare la visione dello spettacolo, ma anche la manifestazione della natura superiore di chi vi si esibisce. Da notare che, al contrario, nell’ambiente del Palazzo Reale, le ballerine non si esibiscono su una scena, ma al centro di uno spazio delimitato da ringhiere in forma di Naga, il mitico serpente, antenato della dinastia reale cambogiana. Il Re assiste allo spettacolo, insieme ai suoi ospiti, da una posizione più alta, privilegio e testimonianza simbolica della sua natura divina. Le ballerine, essendo consacrate al Dio Vishnu, non possono usare le loro corde vocali e quindi esercitano la loro arte, illustrando con grazia e voluttà i canti del coro, all’origine senza cantante solista, perché una voce umana sola non può rendere la potenza di un Dio che s’indirizza agli umani. In questo contesto di sacralità della scena, come spiegare l’arrivo tardivo della lirica italiana nella penisola indocinese? Malgrado alcuni tentativi di professori di musica, soprattutto di origine francese, l’opera è sempre stata rara a Phnom Penh. Nei tempi del protettorato francese (1863-1953), si andava a Saigon o Hanoi ad ascoltare opera o concerti di musica classica all’occidentale. Poi fu il tempo della guerra con gli americani, il tempo terribile del genocidio comunista e dell’invasione vietnamita, sui quali sorvoleremo per non dare il via a polemiche sterili. Aggiungo che nell’oscuro periodo dei Khmer rossi, molte maestre di ballo scrissero i canti della tradizione cambogiana sino a quel momento tramandati oralmente e per non esere scoperte nascosero le carte nell’orlo dei vestiti ed è così che si salvò un antico repertorio. Nel settembre 1993, con il ritorno di re Sihanouk sul trono e ancora di più, nel 2004, con la salita al trono di Sua Maestà il Re Norodom Sihamoni, ballerino classico e coreografo, formatosi nel periodo dell’esilio alla scuola rigorosa del Bolchoi, la lirica all’italiana fu accolta con benevolenza nel Regno delle Apsara e il sostegno reale fu ufficialmente comunicato nel corso dell’udienza ufficiale del 26 maggio 2018 che Sua Maestà il Re Sihamoni ha graziosamente concesso al maestro Vincenzo Grisostomi Travaglini, venuto a presentare il progetto di mettere in scena in Cambogia per la prima volta Cavalleria Rusticana di Pietro Mascagni, in occasione delle celebrazioni dei 65 anni di relazioni diplomatiche tra l’Impero del Sol Levante ed il Regno di Cambogia, iniziativa promossa da Cambodia Opera Project, fondato dal soprano Giapponese Ai Iwasaki. Il successo senza precedenti di questa iniziativa si è ripetuto nel 2019 con Pagliacci di Ruggero Leoncavallo, sempre con il benevolente patrocinio di Sua Maestà il Re. Ci auguriamo che l’accoglienza trionfale di un pubblico giovane permetterà alla lirica italiana di continuare a crescere nel prossimo futuro nel cuore dei Cambogiani, sempre nel rispetto delle differenze culturali, senza mai commettere l’errore, però, di una sperimentazione snaturante e ibrida della mescolanza superficiale di forme d’arte diametralmente opposte, ma nel rispetto dell’universalità della bellezza che lega due tradizioni plurisecolari quali il Balletto Reale di Cambogia e la lirica italiana ed europea.

Sisowath Ravivaddhana Monipong

 

Pagliacci Daravich

 

L'Opera Luglio Agosto 2020

“Rodin et la Danse”, articolo di Sua Altezza il Principe Sisowath Ravivaddhana Monipong in “L’Opera- International Magazine”, Luglio-Agosto 2018

“Rodin et la Danse”, articolo di Sua Altezza il Principe Sisowath Ravivaddhana Monipong in “L’Opera- International Magazine”, Luglio-Agosto 2018 su Auguste Rodin, la sua passione tardiva per la danza e “Neang Vaddhana Devi”, ultima creazione di Sua Altezza Reale la Principessa Norodom Buppha Devi, Direttrice del Balletto Reale di Cambogia.

Da notare, le bellissime foto del fotografo svizzero Helmut Stampfli

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